Evoluzione

Enciclopedia del Novecento (1977)

Evoluzione

Giuseppe Montalenti
Luigi L. Cavalli-Sforza

di Giuseppe Montalenti, Luigi L. Cavalli-Sforza

EVOLUZIONE

L'evoluzionismo nella cultura del XX secolo di Giuseppe Montalenti

sommario: 1. Introduzione. 2. Incertezze sui meccanismi dell'evoluzione. 3. Le teorie evoluzionistiche antidarwiniane: a) il neolamarckismo; b) il mutazionismo; c) le teorie preformistiche. 4. Le posizioni antievoluzionistiche. 5. Il darwinismo e le scienze sociali. 6. La sintesi moderna. □ Bibliografia.

1. Introduzione

La pubblicazione dell'opera di Ch. Darwin, On the origin of species by means of natural seleetion (London 1859), rappresenta l'inizio di una rivoluzione del pensiero moderno paragonabile per profondità e importanza alla rivoluzione copernico-galileiana. Non soltanto perché fondando su solide basi il concetto di evoluzione biologica (che era stato più o meno chiaramente espresso da molti precursori, di cui il più importante è J.-B. de Lamarck) il Darwin proietta in una dimensione temporale, cioè storica, tutti i fenomeni biologici, compresa la comparsa e l'evoluzione dell'uomo; ma anche e soprattutto perché, con l'introduzione del concetto e la dimostrazione dell'opera della selezione naturale, fornisce lo strumento per una interpretazione scientifica dei processi biologici, e per la risoluzione dell'antico problema del finalismo che è loro inerente.

Non fa quindi meraviglia che la nuova teoria abbia de- stato, fin dalla sua prima comparsa, un enorme interesse, suscitando viva commozione in una larga cerchia di pubblico. Commozione fatta di entusiastici consensi da parte di coloro che trovavano in essa la possibilità di una interpretazione razionale, in una visione unitaria, dei molti fatti che le scienze biologiche erano venute discoprendo, descrivendo, classificando, e che, in mancanza di una visione teorica esplicativa generale, rimanevano sterili acervi d'erudizione, cui non si sapeva dare altro valore se non quello della testimonianza di un disegno mirabile predisposto da una volontà trascendente, e perciò non analizzabile in termini scientifici; commozione dovuta invece al disagio e al dissenso di coloro che vedevano in questa dottrina una grave minaccia contro la concezione tradizionale del mondo, della sua origine divina, contro i fondamenti della struttura sociale dell'uomo moderno, del suo sistema morale, contro la rassicurante certezza di un pensiero e di una volontà assoluti esistenti al di fuori di noi.

Durante i decenni successivi alla comparsa dell'Origine delle specie e fino agli inizi del sec. XX si susseguirono le controversie, che spesso assunsero la veste di accese polemiche, non di rado esorbitanti dallo stretto ambito scientifico. Furono eseguiti alcuni esperimenti, come quelli di A. Weismann, intesi a saggiare la validità della teoria lamarckiana dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, o quelli di F. Galton (iniezione di sangue fra due razze diverse di conigli); ma praticamente non si giunse, alla fine del sec. XIX, a porre il problema evoluzionistico su un solido terreno sperimentale.

2. Incertezze sui meccanismi dell'evoluzione

Da un lato i dati della paleontologia, dell'anatomia e dell'embriologia comparate, della biogeografia, e di altre discipline biologiche dimostravano con sempre maggiore e incontrovertibile evidenza il panorama dell'evoluzione come processo storico svoltosi nel corso dei millenni sul nostro pianeta, talché risultò impossibile, irragionevole, voler negare il fatto dell'evoluzione, come avevano tentato di fare alcuni dei primi contraddittori di Darwin. Dall'altro però tutti i tentativi per riconoscerne e dimostrarne in modo soddisfacente il meccanismo erano falliti. Ancora nel 1931 M. Caullery nel frontespizio del suo libro Le problème de l'évolution poneva il motto: ‟Le fait de l'évolution s'impose; seul son mécanisme demeure incertain".

A causa di queste incertezze e del movimento filosofico antimeccanicistico e antipositivistico, che si sviluppò alla fine del secolo scorso e al principio del presente, si fece strada un'ondata di scetticismo nei riguardi della dottrina evoluzionistica: parecchi biologi si espressero in termini piuttosto dubbiosi sul valore della teoria e delle ‛prove' su cui essa si fonda. Le quali non potevano essere che prove indiziali, mancando la sola dimostrazione inconfutabile, cioè la testimonianza di un uomo che avesse potuto seguire e registrare tutti gli stadi della storia evolutiva, dalla prima comparsa degli esseri viventi sulla Terra, fino ad oggi. Ancora nel 1929 un biologo francese buon conoscitore dell'anatomia comparata, L. Vialleton, poteva scrivere un libro dal titolo: L'origine des êtres vivants: l'illusion transformiste. Altri biologi, naturalmente, tenevano posizioni opposte, ed erano molti e validi; citiamo fra tutti Th. H. Morgan, il fondatore della teoria cromosomica dell'eredità, che nel 1915-1916 tenne una serie di conferenze sul tema: A critique of the theory of evolution, che furono poi pubblicate con il titolo: Evolution and genetics (v. Morgan, 1925). Ma si deve convenire che le possibilità di spiegare il meccanismo dell'evoluzione in termini suscettibili di dimostrazione scientifica erano ancora scarse.

La reazione contro il materialismo e il positivismo, le correnti che portarono al risorgere delle concezioni filosofiche idealistiche e spiritualistiche si appropriarono dei dubbi, delle incertezze, delle critiche, li tramutarono in certezza, e ne fecero armi contro i sistemi che volevano combattere. A ciò si aggiunsero i sempre vivi sentimentalismi antievoluzionistici originati da una viscerale repugnanza per la genealogia animalesca dell'uomo e la preferenza per una sua derivazione da esseri spiritualmente superiori.

E così si diffuse l'opinione che l'evoluzione fosse una brillante teoria biologica, che non aveva trovato dimostrazione sicura, che aveva fatto il suo tempo, e non era più considerata valida nemmeno dai naturalisti.

Un altro atteggiamento di vari biologi fu di contrapporre alla selezione naturale diverse interpretazioni di altro tipo. La selezione naturale fu infatti criticata da diversi punti di vista. Tale ipotesi risultava molto ostica ad alcuni, perché troppo crudamente meccanicistica: essa veniva presentata come un mero giuoco del caso, e questo non sembrava sufficiente a dar ragione dell'armonica complessità degli esseri viventi e delle loro funzioni.

Altri opponevano il fatto che la selezione, in quanto sceglie caratteri favorevoli in un dato ambiente ed elimina quelli sfavorevoli, può agire soltanto su caratteri che abbiano già un significato funzionale ben deciso, e non può avere alcuna efficacia su strutture appena abbozzate e non ancora funzionali. Se la selezione favorisce un essere alato rispetto a uno attero, essa deve trovarsi di fronte a un individuo provvisto di ali funzionanti e non di moncherini che non servono per volare. Una semplice lamella che non fosse dotata della muscolatura e della innervazione necessaria a consentirle di battere l'aria ritmicamente non rappresenterebbe alcun vantaggio per l'individuo che ne è provvisto, e non potrebbe quindi dare presa alla selezione ed essere per questa via ulteriormente sviluppata e perfezionata. Una risposta a questa critica si trova in V. B. Wigglesworth (v., 1973).

La selezione, o cernita naturale, avrebbe quindi una funzione piuttosto negativa, di eliminazione, anziché creativa, o promotrice di nuove strutture e di ulteriore complessità. Inoltre, argomentavano alcuni, la selezione non può produrre il mirabile, finissimo adattamento degli organismi all'ambiente in cui vivono, in base al quale il Lamarck aveva costruito il primo coerente sistema evoluzionistico, fondato sull'ipotesi dell'azione dei fattori esterni sugli organismi in quanto determinanti variazioni ereditarie congruenti con le necessità imposte dall'ambiente.

3. Le teorie evoluzionistiche antidarwiniane

Sorsero così ed ebbero un certo seguito, alla fine del sec. XIX e agli inizi del XX, altre teorie sulle cause che determinano l'evoluzione, in opposizione a quella darwiniana, la quale, con il nome di neodarwinismo era stata riproposta e sostenuta da A. Weismann e da vari altri biologi. Esse possono classificarsi in tre gruppi: teorie neolamarckiane, mutazionismo, teorie preformistiche.

a) Il neolamarckismo

Lo zoologo tedesco E. Haeckel trasse dall'oblio in cui erano cadute le opere di Lamarck (peraltro note al Darwin, che le cita) e ne ripropose il tema principale: l'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Questa teoria, con il nome di neolamarckismo, ebbe molto seguito, non soltanto in Francia, patria del Lamarck, ma in molti altri paesi. Nel ripresentarla per lo più non si tenne conto del fatto che il Lamarck aveva anche postulato, oltre alla capacità dell'ambiente di determinare la comparsa di caratteri ereditari, anche una tendenza interna degli organismi al perfezionamento. Questo principio ricollega il lamarckismo originale alle teorie preformistiche di cui si farà parola fra poco.

Il principio lamarckiano della ereditarietà dei caratteri acquisiti ha sempre trovato molto consenso non soltanto da parte degli allevatori di animali e dei coltivatori di piante, ma nel pubblico in generale e anche fra i biologi. Anche il Darwin, nelle edizioni dell'Origine successive alla prima, nel tentativo di riconoscere le cause che producono la variabilità ereditaria, diede un certo peso all'azione dell'ambiente, sempre però con il presupposto che i caratteri così originati cadessero poi sotto il vaglio della selezione.

Per dirimere la questione della possibilità che l'ambiente determini la comparsa di caratteri ereditari, tramite il ben noto principio lamarckiano dell'uso o non uso di un organo (talvolta espresso in forma paradossale: ‟la funzione crea l'organo"), era necessario sperimentare. Ma è difficile istituire esperimenti probativi, sia perché è impresa assai ardua dimostrare una proposizione negativa e darle valore generale, sia perché in genere si ignora se gli animali e le piante su cui si sperimenta contengano già nel proprio patrimonio genetico caratteri che potrebbero erroneamente attribuirsi all'azione dell'ambiente. Per fare un esempio, se da una cagna cui sia stata mozzata la coda nasce un cucciolo privo di coda, non è dato sapere se esso sarebbe nato egualmente ecaudato dalla stessa madre, se questa non avesse subito l'amputazione. Si sa oggi infatti che il carattere ‛assenza di coda' esiste in molti Mammiferi come gene recessivo, che si manifesta quando con la fecondazione si realizzi la condizione omozigote, e ciò indipendentemente da qualsiasi azione di fattori ambientali sul corpo materno.

Esperimenti per dimostrare l'attendibilità o la fallacia dell'ipotesi lamarckiana furono fatti come si è detto da A. Weismann (v., 1892) il quale amputò la coda ai topolini per parecchie generazioni successive e osservò che mai si verificava nella discendenza alcuna riduzione o scomparsa della coda. L'esperimento cruciale e chiarificatore fu eseguito da W. Johannsen (v., 1903) su ‛linee pure' di fagioli, cioè su ceppi d'individui discendenti tutti da un unico progenitore per successiye autofecondazioni. Nelle linee pure la variabilità genetica è praticamente eliminata; su questo materiale il Johannsen poté quindi dimostrare con certezza che le variazioni prodotte dall'ambiente non sono ereditarie. Questi esperimenti e molti altri fatti successivamente su diversi organismi hanno dato risultati concordi, che dimostrano la fallacia della teoria che variazioni prodotte da fattori ambientali sul ‛soma', cioè nel corpo degli organismi, si ripercuotano nel ‛germe', cioè nelle cellule destinate a dare origine alla discendenza. Le variazioni somatiche originate in questo modo, chiamate ‛modificazioni' o ‛somazioni', non sono trasmissibili per via ereditaria, si spengono con la morte del soma.

Nonostante le dimostrazioni della fallacia del principio lamarckiano, questo fu ancora ammesso da alcuni studiosi di biologia pura e applicata, in base a considerazioni teoriche sostenute da esperimenti male impostati e male eseguiti. Ciò prova che questa interpretazione è fortemente radicata nella mente umana, in quanto costituisce una spiegazione molto semplice dei fenomeni di adattamento all'ambiente, nonché dell'evoluzione.

Tant'è vero che ipotesi lamarckiste sono risorte a varie riprese nel sec. XX, e probabilmente si presenteranno ancora alla ribalta in qualche occasione futura. Fra i casi più clamorosi e drammatici sono quelli che si centrano sui nomi di P. Kammerer e T. D. Lysenko.

Il biologo viennese P. Kammerer, negli anni 1906-1910, eseguì alcuni esperimenti sulle salamandre e soprattutto sul rospo Alytes obstetricans. Egli allevò questo animale (che, diversamente dai rospi comuni e da altre specie affini, si accoppia sul terreno anziché nell'acqua) in ambiente acquatico per alcune generazioni. Affermò di avere osservato nei discendenti la comparsa delle callosità digitali che si formano nel maschio delle specie a riproduzione acquatica, e non, normalmente, nel rospo ostetrico. Esse sarebbero dunque state acquisite per influenza dell'ambiente acquatico, in cui sono necessarie per trattenere la femmina nell'amplesso, che dura per tutto il periodo di emissione delle uova.

Le dimostrazioni del Kammerer furono accolte con molto scetticismo da parecchi genetisti, in particolare da W. Bateson di Londra. Dopo la guerra mondiale il Kammerer (che dichiarò di avere perduto, durante il periodo bellico, tutti i suoi animali di allevamento e quasi tutti i suoi preparati) tenne alcune conferenze in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America, in cui espose i propri risultati, e ottenne un certo successo di stampa e di pubblico. Ma i biologi, per lo più, erano scettici, e taluno cominciò a insinuare il sospetto che i risultati fossero stati falsificati. Nacque una polemica che si trascinò per alcuni anni sui periodici scientifici (in specie ‟Nature" di Londra, negli anni 1919-1926) finché il 7 agosto 1926 l'erpetologo americano G. K. Noble pubblicò una nota su ‟Nature" in cui dichiarò di avere potuto esaminare a Vienna, consenziente il Kammerer, il solo preparato che gli era rimasto e di avere constatato che era contraffatto: non vi erano callosità, e la colorazione nera che le simulava era dovuta a iniezione di inchiostro di china. Poche settimane dopo (23 settembre) P. Kammerer si suicidò lasciando una lettera al suo amico e protettore, il prof. H. Przibram di Vienna, in cui riconosceva che qualcuno doveva avere manipolato quell'esemplare, ma non indicava alcuna persona sospetta (H. Przibram, in ‟Nature", 16 ottobre 1926; tutta la vicenda e la biografia del Kammerer è stata ricostruita da A. Koestler, 1971; v. anche Aronson, 1975).

Anche più clamoroso è l'episodio che si impernia sulla figura dell'agronomo sovietico T. D. Lysenko, il quale, sostenuto dall'autorità politica, impose nell'Unione Sovietica una teoria lamarckiana, con la conseguenza di fare destituire, esiliare, imprigionare un certo numero di genetisti che si rifiutarono di accettarla. Di questi il più importante fu N. I. Vavilov, scienziato di grande valore nato nel 1871, che aveva acquisito una reputazione internazionale, e a cui Lenin aveva affidato il compito di adeguare lo sviluppo della genetica in Russia alle esigenze dell'agricoltura sovietica. Vavilov fu arrestato nel 1940 e deportato in Siberia, dove morì nel 1943.

Lysenko, associatosi con un teorico del materialismo dialettico, I. I. Prezent, si riallacciò alle teorie che un agronomo russo I. V. Mičurin (1855-1935) aveva formulato per spiegare, su base lamarckiana e contestando la validità delle leggi di Mendel, i risultati da lui ottenuti nella coltivazione di alcune piante. Lysenko rimise in onore il ‛miciurinismo' e attaccò violentemente il mendelismo e la genetica classica, tacciandola di scienza idealistica, borghese, al servizio del capitalismo.

È inutile tracciare qui i lineamenti della teoria miciurinista o lysenkoista, dato che gli esperimenti relativi non furono mai confermati, e i risultati pratici che Lysenko prometteva nel campo della produzione agricola non si realizzarono. Basti dire che la base delle argomentazioni assai confuse di Lysenko e Prezent è nell'imperativo del marxismo di modificare la natura a vantaggio dell'umanità, e nel presupposto, chiaramente erroneo, che la natura, cioè la costituzione genetica degli organismi, si possa modificare direttamente mediante variazioni dell'ambiente esterno.

L'ascesa di Lysenko al potere, che cominciò intorno al 1930, ebbe come conseguenza, come si è detto, la destituzione dai loro posti di tutti i genetisti ‛classici', e il bando completo al mendelismo e alla genetica nelle scuole e nei laboratori. Lysenko raggiunse il culmine della potenza allorché in occasione della conferenza dell'Accademia Lenin delle Scienze Agrarie, da lui organizzata a Mosca dal 31 luglio al 7 agosto 1948, poté dichiarare che il Comitato Centrale del Partito (cioè Stalin) aveva esaminato la sua relazione su La situazione nelle scienze biologiche e l'aveva approvata. Da allora il lamarckismo di Lysenko divenne la dottrina ufficiale della biologia sovietica: le poche coraggiose voci discordanti furono messe a tacere con la violenza. L'egemonia di Lysenko durò oltre la morte di Stalin (1953) e si protrasse durante il regime di Chruščëv che lo protesse, fino al 1964. Dopo la destituzione di Chruščëv decadde anche il potere di Lysenko, la cui azione per migliorare la produzione agricola si era rivelata inefficiente. D'allora in poi è stato ripristinato nelle scuole sovietiche l'insegnamento delle leggi di Mendel e della genetica (per la storia di Lysenko, v. Medvedev, 1969).

b) Il mutazionismo

Con questo nome fu indicata una teoria elaborata dal botanico olandese H. De Vries in base alle sue osservazioni su di una popolazione di una pianta, Oenothera lamarckiana, la quale diede origine, in breve volger d'anni, a un certo numero di forme con caratteri molto differenti da quelli della forma tipica.

Queste variazioni di notevole entità (per es. nanismo, gigantismo, forma delle foglie ecc.) erano trasmesse ai discendenti, così che si originavano altrettante linee che presentavano il nuovo carattere. Il De Vries diede il nome di ‛mutazioni' a queste variazioni genetiche che insorgono spontaneamente, con frequenza molto bassa, e suppose che esse potessero costituire la base dell'evoluzione, in quanto su di esse opera la selezione darwiniana. Poiché le mutazioni determinano variazioni cospicue dei caratteri dell'organismo, al concetto di evoluzione graduale, trasgressiva, De Vries sostituì quello di cambiamenti saltuari, e quindi di evoluzione a salti.

Anche l'obiezione che la cernita naturale può operare soltanto su caratteri già ben differenziati è superata da questa teoria, appunto perché le mutazioni determinano variazioni cospicue anziché di lieve entità. Per un certo tempo il mutazionismo si contrappose al darwinismo, che postulava invece una evoluzione graduale, basata su di una variabilità continua. Ma lo sviluppo delle conoscenze nel campo dell'ereditarietà, che diede origine alla nuova scienza genetica (v. genetica) a partire dal 1900 (data della riscoperta delle leggi di Mendel), dimostrò che il fenomeno della mutazione è realmente esistente in tutti gli organismi, ma non è necessariamente collegato a un effetto particolarmente intenso sul fenotipo. Molte mutazioni producono effetti di piccole entità e rientrano perciò nel novero delle variazioni trasgressive, anziché di quelle saltuarie. Quindi il mutazionismo, come teoria dell'evoluzione a salti bruschi, non ha avuto gran seguito, e si è fuso con il neodarwinismo. Infatti le mutazioni sono la sorgente prima della variabilità, su cui opera la selezione, come è dichiarato nell'articolo successivo (v. evoluzione: La moderna teoria dell'evoluzione).

c) Le teorie preformistiche.

Già il Lamarck, come abbiamo detto, aveva ammesso che negli organismi vi sia una ‛tendenza interna' al perfezionamento, cioè all'evoluzione. Dopo la comparsa della teoria darwiniana e soprattutto della sua espressione più intransigente contro l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, cioè il neodarwinismo di A. Weismann, molti autori fecero ricorso a cause interne, o trascendenti, che orientano e dirigono il corso evolutivo. La motivazione, sia esplicita o implicita di tale atteggiamento è di duplice natura: da un lato le difficoltà inerenti alla interpretazione di tutto il meccanismo evolutivo in base alla selezione che agisce su variazioni casuali, dall'altro la repugnanza ad una interpretazione meccanicistica, e il desiderio di ritrovare nel mondo organico un disegno prestabilito da una mente superiore.

Le teorie che si possono raggruppare nella categoria preformistica sono molte e hanno avuto diverse denominazioni: alcune sono monofiletiche, cioè ammettono che tutti gli organismi abbiano avuto origine da un'unica forma originaria, altre adottano il polifiletismo, cioè ritengono che vi siano state numerose forme iniziali. Alcuni autori bandiscono totalmente l'intervento della selezione naturale, di cui negano l'efficacia; altri le riconoscono una certa funzione, per lo più esclusivamente eliminatoria.

In ordine di tempo la prima teoria di evoluzione per cause interne è quella del botanico svizzero C. von Nägeli (1865-1884), che indicò col nome di ‛idioplasma' la sostanza che reca l'informazione ereditaria. L'evoluzione, come nel lamarckismo originario, sarebbe dovuta al fatto che gli organismi obbediscono ad una ‛legge di progresso' insita nell'idioplasma. L'azione delle cause esterne è più limitata che non nella teoria di Lamarck, ma è tuttavia presente.

La scoperta di alcune serie filetiche in cui si ravvisa una evoluzione secondo una determinata direzione, cioè una ‛ortogenesi' (per es. la riduzione delle dita negli Equidi, lo sviluppo progressivo delle corna nei Cervidi, l'aumento di statura che si ritrova in molte serie evolutive di Mammiferi, ecc.), fornì argomenti a sostegno di teorie predeterministiche, come quella detta appunto della ortogenesi, di W. Haacke (1892), mentre Th. Eimer (1888-1897) spiegava il fenomeno in senso lamarckiano, con il persistere delle condizioni esterne favorevoli a quello sviluppo.

Una delle più complete teorie preformistiche è la ‛ologenesi' formulata da D. Rosa nel 1909 e ulteriormente sviluppata nel 1918.

Le proposizioni fondamentali dell'ologenesi sono testualmente le seguenti: ‟1) l'evoluzione dello idioplasma specifico, la quale si manifesta nell'evoluzione filogenetica degli organismi, ha, come fenomeno vitale, fattori interni ed esterni, ma non è determinata dal variare di questi ultimi, per cui essa procede anche se essi rimangono immutati; 2) anche la direzione in cui si produce questa evoluzione è indipendente dalla varietà dei fattori esterni di essa; 3) malgrado ciò, l'evoluzione filogenetica non è rettilinea, ma è (dicotomicamente) ramificata per divisioni differenziali che avvengono nell'idioplasma specifico per effetto della costituzione da esso successivamente raggiunta nel corso della sua evoluzione. A queste tre proposizioni se ne aggiunge una quarta, accessoria: in tutte le dicotomie (biforcazioni) l'una delle linee filetiche che si producono ha rispetto all'altra il carattere di linea precoce e l'altra quello di linea tardiva. Anche per l'ologenesi la lenta evoluzione delle specie e delle stirpi si compie dunque con la stessa necessità meccanica con la quale si compie lo sviluppo individuale. Ma essa non ammette nemmeno che diverse condizioni di vita possano variare la direzione in cui l'evoluzione filogenetica si produce. Questa diversità di condizioni produrrebbe solo variazioni che, anche se ereditarie, starebbero nei limiti della specie e non interesserebbero la costituzione dell'idioplasma specifico. Naturalmente le condizioni esterne determinerebbero pur sempre quali linee di evoluzione si debbono troncare perché inadatte" (v. Rosa, 1932, p. 666).

Il Rosa non afferma, anzi esclude che questa predeterminazione dell'evoluzione sia voluta da una mente superiore: ammette soltanto un totale preformismo evolutivo, senza neanche tentare una spiegazione.

La stessa critica si può rivolgere alla ‛nomogenesi' di L. S. Berg (v., 1926), cioè all'evoluzione regolata da leggi interne, alla ‛aristogenesi' di H. F. Osborn, che ammette l'esistenza nel ‛geneplasma' di un processo creativo continuo, graduale, definito nella direzione del futuro adattamento.

Alcune dottrine, invece, ammettono esplicitamente l'intervento direttivo di una mente superiore nel predisporre il disegno dell'evoluzione, sia in modo totalmente predeterminato, sia lasciando qualche grado di libertà a fenomeni contingenti e quindi all'azione della selezione. Tale il ‛telefinalismo' di P. Lecomte de Noüy (1948), che afferma che Dio ha guidato l'evoluzione biologica, avendo per fine la creazione dell'uomo.

Analoghe concezioni sono adottate da alcuni autori di ispirazione cattolica, come P. Teilhard de Chardin (v., 1955), V. Marcozzi (v., 1972), P. Leonardi (v., 1950), A. Vandel (v., 1968) e vari altri. A questa visuale si ricollegano anche il Vialleton già citato, che distingue fra ‛evoluzione': il fatto che accetta, almeno in parte, e ‛trasformismo': l'interpretazione selezionistica, che rifiuta.

Numerosi sono gli autori che, non volendo accettare l'interpretazione meccanicistica del neodarwinismo, hanno esposto altre teorie più o meno esplicitamente collegate al vitalismo, o ad un panpsichismo o panteismo più o meno dichiarati. Ricordiamo, fra gli altri, H. Bergson (v., 1907), con l'élan vital; C. L. Morgan (v., 1923), con la emergent evolution; L. V. Bertalanffy (v., 1952); G. Blandino (v., 1960).

Tutte le teorie preformistiche sono criticabili da un punto di vista scientifico, in quanto non offrono una spiegazione del fenomeno in termini causali: danno per assunto i fatti che si dovrebbero spiegare, rinunciando quindi a cercarne una interpretazione razionale: esse non possono essere dimostrate, né contraddette in base a dati di osservazione o di esperimento. Inoltre, come ha fatto osservare A. Giardina, anche le teorie che come l'ologenesi del Rosa dichiarano di non ammettere l'azione di cause estranee, in realtà ‟postulando nei primi germi vitali un meccanismo così determinato da contenere in sé tutta la evoluzione biologica, vengono ipso facto a postulare un'attività estranea da cui essa dipende [...]. E può apparire allora ben strano destino questo di un'evoluzione per ‛cause interne' costretta a risalire, per dar conto di sé, ad una causa assolutamente estranea al proprio processo" (v. Giardina, 1923, pp. 59-60).

4. Le posizioni antievoluzionistiche

La dottrina dell'evoluzione, fin dalla sua prima comparsa con l'opera di Lamarck (v., 1809) e dalla sua affermazione come dottrina biologica fondamentale con l'opera di Darwin (1859), trovò, accanto a sostenitori entusiasti, accaniti oppositori. Di fronte agli argomenti tratti da vari rami delle scienze biologiche, in particolare dalla paleontologia e dall'anatomia ed embriologia comparate, diveniva sempre più difficile la negazione totale del fatto, cioè del fenomeno storico della evoluzione degli organismi. Perciò, come è esposto nel capitolo precedente, si fecero numerosi tentativi per combattere l'interpretazione meccanicistica sostenuta dal darwinismo, e soprattutto per tenere distinto il problema dell'origine dell'uomo, a cui varie confessioni religiose attribuiscono un'anima immortale. Le teorie preformistiche a cui abbiamo accennato rappresentano altrettanti modi di aggirare gli ostacoli e di ripresentare un creazionismo evolutivo, anziché fissista come quello linneano.

La Chiesa cattolica ha sempre tenuto un atteggiamento piuttosto negativo nei riguardi dell'evoluzionismo, senza giungere tuttavia ad una condanna esplicita della dottrina (v. Ewing, 1960). Soltanto nel 1950 la Chiesa ha preso una posizione ufficiale con l'enciclica Humani generis di Pio XII, del 12 agosto 1950. Essa così si esprime in proposito: ‟Il Magistero della Chiesa non proibisce che, in conformità dell'attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussione, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell'‛evoluzionismo', in quanto cioè essa fa ricerche sull'origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio). Però questo deve essere fatto in tal modo che le ragioni delle due opinioni, cioè quella favorevole e quella contraria all'evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutte siano pronte a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la S. Scrittura e di difendere i dogmi della fede. Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse dimostrata già con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi, e ciò come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande cautela e moderazione. Il poligenismo è inaccettabile in entrambi gli aspetti sotto i quali si presenta per l'impossibilità di accordarlo con le fonti della Rivelazione".

Anche varie altre confessioni cristiane hanno mantenuto posizioni piuttosto guardinghe, senza tuttavia prendere nette posizioni in forma ufficiale.

Le correnti filosofiche idealistiche, che alla fine del secolo scorso e nei primi decenni del presente si contrapposero vivacemente al materialismo e al positivismo ottocenteschi, furono anche ostili all'evoluzione, soprattutto in quanto si riferisce all'origine dell'uomo. B. Croce (v., 1939) afferma che ‟l'immagine di fantastiche origini animalesche e meccaniche della umanità [...] non solo non vivifica l'intelletto, ma mortifica l'animo" e dà ‟un senso di sconforto e di depressione e quasi di vergogna a ritrovarci noi discendenti da quegli antenati e sostanzialmente a loro simili, nonostante le illusioni e le ipocrisie della civiltà, brutali come loro". Simili considerazioni contribuirono a creare quell'aura di scetticismo intorno al concetto di evoluzione, cui si è prima accennato.

Ma oltre queste prese di posizione ideologiche, ebbero luogo, nel sec. XX, specialmente negli Stati Uniti d'America, alcuni movimenti che ebbero come conseguenza l'emanazione di leggi antievoluzionistiche. Una battaglia famosa fu il processo di Dayton nel Tennessee. Nel 1925 un professore di scuole secondarie, J. Th. Scopes, fu processato perché aveva insegnato alle scolaresche la dottrina dell'evoluzione. Il processo fu celebrato nel luglio del 1925 e sollevò grande scalpore e richiamò gran concorso di pubblico. L'accusa fu sostenuta dall'avvocato W. J. Bryan, membro della Chiesa presbiteriana, e la difesa fu assunta dall'avvocato Cl. Darrow. Il tribunale riconobbe Scopes colpevole e gli inflisse una penale di 100 dollari (v. Thompkins, 1965). Il caso fu poi archiviato, in sede di appello; ma la legge antievoluzionista, vigente nel Tennessee, in base alla quale era stata mossa l'accusa, rimase indiscussa. Anzi, dopo il processo Scopes in alcuni altri Stati dell'Unione si cercò di far passare leggi che proibivano l'insegnamento dell'evoluzionismo nelle scuole. Ciò riuscì nello Stato di Mississippi e nell'Arkansas. Sorse allora un movimento inteso a fare abrogare tali leggi per motivo di incostituzionalità. La legge del Tennessee fu abrogata nel 1967, quella dell'Arkansas nel 1968 (v. Sprague de Camp, 1969).

Tuttavia la corrente antievoluzionistica non si diede per vinta, e quella che è stata chiamata la ‛guerra delle scimmie' (the monkey war) non si chiuse con questi episodi. La setta dei fundamentalists si oppose ancora una volta all'insegnamento dell'evoluzione nelle scuole affermando che, poiché la teoria contrasta con l'insegnamento biblico, alla cui lettera i fondamentalisti sono fedeli, non si può ammettere che i giovani siano indotti da ciò che apprendono a scuola a respingere i principî religiosi che vengono loro insegnati a casa. L'offensiva ha avuto un esito parzialmente positivo: il 13 novembre 1969, il Board of Education della California votò all'unanimità una disposizione per cui si potrà insegnare nelle scuole la teoria dell'evoluzione, soltanto mettendola a confronto con la teoria della creazione esposta nel primo libro della Bibbia, Genesi, con la teoria di Aristotele della generazione spontanea, e altre.

5. Il darwinismo e le scienze sociali

La dottrina dell'evoluzione, e in particolare l'interpretazione data dal neodarwinismo alle cause di questo processo, ha un profondo significato, che va al di là dei soli fenomeni biologici e investe problemi filosofici, religiosi e sociali. Essa offre una visione completamente diversa, nuova e contrastante rispetto alla concezione creazionistica e fissista di tutta la natura e del mondo, ivi compresa la società umana. La polemica pro e contro il darwinismo è quindi divampata e si è estesa anche in campi piuttosto lontani dalla biologia.

Appena uscito il libro di Darwin, i materialisti accolsero entusiasticamente la teoria che, secondo loro, conduceva all'ateismo, benché Darwin non si fosse mai espresso positivamente su questo punto anzi, nell'ultimo paragrafo della Origine delle specie, avesse accennato direttamente all'opera del Creatore. Più tardi si dichiarò agnostico (Autobiografia, tr. it., 1962, p. 76) adottando il termine coniato dal suo amico Th. Huxley. I socialisti ritennero di potere trovare nella teoria darwiniana una spiegazione scientifica di molti eventi della storia e dello sviluppo della società umana. K. Marx, che nel 1880 viveva a Londra, scrisse a Darwin mandandogli le bozze del secondo volume del Capitale e gli chiese se poteva dedicarglielo. Darwin rispose negativamente adducendo l'età avanzata e la fatica che provava nel leggere le bozze dei lavori, che gli avrebbero impedito di approfondire la lettura del libro di Marx: probabilmente egli era anche preoccupato dalla risonanza che tale dedica poteva avere nell'ambiente dei credenti, fra i quali era sua moglie.

Ma l'idea che il darwinismo e in particolare la selezione naturale, intesa alquanto grossolanamente secondo le formule ‟lotta per l'esistenza" e ‟sopravvivenza del più adatto", potesse essere applicata alla società umana, non fu dimessa, anzi fu sviluppata e diede origine ad alcuni movimenti di pensiero, in parte l'uno all'altro collegati. Quello che è scientificamente il più importante è lo sviluppo della cosiddetta antropologia culturale (cultural anthropology), o etnografia, su basi evoluzionistiche: ebbe grande risonanza soprattutto negli Stati Uniti d'America, ma ebbe numerosi rappresentanti anche altrove (in Italia, P. Mantegazza, O. Sergi, C. Lombroso e altri). Diede luogo ad aspre polemiche, soprattutto perché per certi suoi indirizzi conduceva al razzismo, che fu violentemente contrastato dall'antropologo tedesco-americano F. Boas (v. antropologia).

Anche la corrente filosofica del pragmatismo, sviluppatosi soprattutto in America con Ch. S. Peirce, W. James, J. Dewey, trae le sue origini da una elaborazione dei postulati dell'evoluzionismo.

Ma la più diretta ed esplicita filiazione della teoria di Darwin in quanto applicata ai problemi sociali fu il cosiddetto ‛darwinismo sociale'. Già H. Spencer, che aveva partecipato allo sviluppo del pensiero di Darwin anticipandone anche alcune affermazioni (sua è l'espressione: ‟sopravvivenza del più adatto", che Darwin accettò), aveva impostato una sociologia su basi evoluzionistiche.

Uno dei teorici fu W. O. Sumner il quale, sulla base del principio della selezione naturale, argomentò una giustificazione del capitalismo, che può riassumersi nella seguente affermazione di J. D. Rockefeller sr.: ‟lo sviluppo di una grande azienda è semplicemente la sopravvivenza del più adatto [...]. Non è altro che l'effetto di una legge di natura, di una legge di Dio" (v. Hofstadter, 1955).

Il darwinismo sociale pertanto considera le classi sociali come il risultato di una legge di natura. Quindi considera il classismo, il capitalismo come eventi naturali, inevitabili e pertanto pienamente giustificati: posizione totalmente opposta a quella assunta dai marxisti, che pure cercarono nel darwinismo la giustificazione scientifica della propria teoria.

Dal classismo al razzismo il passo è breve: il razzismo, che come fenomeno sociale è nato assai prima del darwinismo, e ha radici nella remota antichità, ha però cercato nella teoria darwiniana una sua giustificazione scientifica. Alcuni teorici del razzismo hanno creduto di trovare nella biologia, e in particolare nella biologia evoluzionistica, le prove della superiorità di una data razza. Donde la legittimazione scientifica del concetto di una razza che sia per natura destinata a dominare le altre, le quali devono essere assoggettate al suo servizio. Così il darwinismo, o meglio una malaugurata deformazione del darwinismo, venne collegato alle teorie di A. de Gobineau e di altri, che hanno poi portato fino alle tragiche conseguenze del razzismo moderno (v. razza; v. razzismo).

Darwin e Huxley e i più illuminati biologi e sociologi non cedettero a questa corrente: per lo più si chiusero nella torre della pura interpretazione scientifica, evitando di sconfinare in altri campi. Alcuni però ebbero il coraggio di denunciare gli errori a cui andavano incontro queste applicazioni affrettate e scientificamente non valide di una dottrina biologica. Fra questi vale la pena di ricordare l'economista A. Loria il quale scrisse un articolo per una raccolta di contributi di vari autori edita da Enrico Morselli con il titolo Carlo Darwin e il darwinismo nelle scienze biologiche e sociali (1892). Loria dissente da Morselli e dagli altri scrittori del libro citato, perché non ritiene in tutto applicabile la dottrina dell'evoluzione alla scienza economica. Afferma infatti: ‟sovente ci incontriamo nell'asserto che la teoria darwiniana è giustificatrice delle diseguaglianze sociali, imperrocché la natura, dicono, è aristocratica ed impone all'economia tutta del cosmo la disparità di condizioni come legge di progresso e di vita. Io respingo con tutte le mie forze questa applicazione irrazionale del metodo di analogia, la quale adduce ad illazioni rivoltanti ed assurde". E più oltre: ‟coloro che elevano la lotta per l'esistenza a legge dell'evoluzione sociale non hanno avvertito che la lotta umana per l'esistenza presenta i caratteri profondamente contradditori a quelli che la battaglia degli esseri" (ibid., pp. 173 e 176).

Coloro che, troppo semplicemente e rozzamente, estendevano i principî operanti del darwinismo sic et simpliciter alla società umana, dimenticavano due fatti molto importanti: primo, che l'umanità, ad un certo momento molto precoce della sua esistenza, ha acquisito un altro modo di trasmissione dei caratteri e delle conoscenze diverso dall'eredità biologica, cioè la trasmissione delle esperienze acquisite dall'individuo, che ha consentito un altro tipo di evoluzione, l'evoluzione culturale; secondo, che l'uomo ha stabilito altri valori che non quelli vigenti nel mondo vegetale e animale: i valori morali e spirituali. Si è creata quindi, nella società umana, ed è venuta evolvendosi con una rapidità sconosciuta nel corso dell'evoluzione biologica, una serie di strutture etico-sociali, che impongono diversi metodi di indagine, e non consentono la mera trasposizione all'uomo di criteri e principî che sono validi nel mondo delle piante e degli animali.

Queste considerazioni sono oggi condivise dalla maggior parte dei biologi e dei sociologi, insieme con l'altra, relativa alla ‛eguaglianza' di tutti gli individui umani, che deve essere concepita non come una ‛identità' biologica, la quale non esiste se non in pochi casi eccezionali, bensì come una eguaglianza in senso morale e sociale, che tenga conto della diversità di tutti gli individui, in modo da offrire a ciascuno eguali possibilità di vita e di sviluppo delle proprie attitudini nel quadro delle convivenze sociali (v. Dobzhansky, 1962).

6. La sintesi moderna

L'indagine delle cause dell'evoluzione in base alle conoscenze della struttura della base fisica dell'eredità e della variazione data dal 1908, cioè otto anni dopo la riscoperta delle leggi di Mendel (1900) la quale segna la nascita della genetica. In quell'anno due studiosi indipendentemente, G. H. Hardy, matematico di Oxford, e W. Weinberg, ginecologo tedesco, si posero il quesito del comportamento di una coppia di alleli mendeliani nelle successive generazioni, in una popolazione, e lo risolsero in termini matematici, con una formula molto semplice. Era il presupposto necessario per lo sviluppo della genetica di popolazioni e per la interpretazione in termini genetici dei meccanismi di evoluzione. Era il principio necessario al componimento delle polemiche fra i sostenitori dell'eredità alternativa, o mendeliana, e dell'eredità mista, o galtoniana, che avevano diviso i naturalisti nei primi anni del secolo.

I lavori di Hardy e Weinberg dapprincipio passarono pressoché inosservati, ma furono poi ripresi e valorizzati allorché, nel decennio 1920-1930, i tre grandi biologi R. A. Fisher e J. B. S. Haldane in Inghilterra e S. Wright negli Stati Uniti d'America, indipendentemente l'uno dall'altro, gettarono le basi della moderna teoria evoluzionistica, a cui fu dato il nome di ‛teoria sintetica dell'evoluzione' (v. Huxley, 1942). Infatti, la teoria moderna si basa sulle nozioni acquisite dalla genetica relativamente a due argomenti fondamentali che ai tempi di Darwin erano, come egli aveva lamentato, completamente oscuri: le leggi dell'eredità, le leggi della variabilità. Su queste basi la genetica, soprattutto per l'opera di R. A. Fisher, autore di un libro fondamentale: The genetical theory of natural selection (1930), ha riabilitato la proposizione fondamentale del darwinismo classico: l'efficienza della selezione naturale.

La moderna teoria dell'evoluzione, che è esposta nell'articolo successivo, rappresenta uno dei più importanti sviluppi e una delle teorie più solidamente fondate della biologia moderna.

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La moderna teoria dell'evoluzione di Luigi l. Cavalli - Sforza

sommario: 1. Introduzione storica. 2. L'origine della vita. 3. I determinanti dell'evoluzione: la mutazione, la selezione naturale, la deriva genetica casuale. 4. La teoria matematica dell'evoluzione. 5. Differenziamento e formazione di razze e di specie. 6. Analisi filogenetica. 7. Evoluzione molecolare. 8. L'aumento di complessità. 9. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale e loro interazione. □ Bibliografia.

1. Introduzione storica

Secondo la teoria dell'evoluzione biologica gli esseri viventi hanno un'origine comune e si sono differenziati ed evoluti nel corso del tempo da un organismo vivente primordiale presumibilmente unico. Questo concetto, o più esattamente, il concetto ancora più generale che l'intero universo è in uno stato di perenne trasformazione, non era estraneo a alcuni filosofi greci, ma fu solo nel XVIII secolo e all'inizio del XIX che venne proposto in termini chiari. Un'ipotesi alternativa è che le specie siano state create identiche a quelle attualmente esistenti; questo fu il dogma ufficiale, fondato essenzialmente su basi religiose, originato da un'interpretazione della Genesi e oggi accettato solo da alcuni credenti rigidamente ortodossi.

Dobbiamo essenzialmente a J.-B. de Lamarck (1801) l'idea che l'evoluzione avvenga attraverso l'adattamento della vita all'ambiente. Lamarck era convinto che gli adattamenti acquisiti nel corso della vita potessero essere direttamente trasmessi alla progenie, ipotesi che è stata respinta dai moderni esperimenti. Fu solo nella seconda metà del sec. XIX che Ch. Darwin e A. R. Wallace proposero indipendentemente una teoria che era in grado di spiegare come si verifica l'adattamento all'ambiente.

È questa la teoria della selezione naturale, cioè della sopravvivenza e moltiplicazione differenziale degli individui più adatti all'ambiente in cui vivono. La teoria presuppone l'esistenza di una variazione che sia trasmessa ereditariamente. A quell'epoca la teoria dell'eredità e quella sull'origine delle variazioni ereditarie nuove non erano ancora sorte. La teoria dell'eredità ora universalmente accettata fu proposta per la prima volta da G. Mendel nel 1865, ma soltanto nel 1900 divenne nota e accettata (v. genetica). Analogamente, la comprensione di come si genera una nuova variazione era destinata ad avere inizio in questo secolo. È in un certo senso un'ironia della sorte il fatto che uno dei più famosi paleontologi della prima parte del XIX secolo, G.-L. Cuvier, si trovasse tra gli oppositori della teoria dell'evoluzione, in quanto è dallo studio accurato dei fossili che si sono ottenute le prove più convincenti della trasformazione continua degli esseri viventi e dell'esistenza in tempi remoti di piante e animali del tutto diversi da quelli attuali (v. paleontologia).

Fu soprattutto Darwin, con l'aiuto di parecchi seguaci e sostenitori, che combatté e vinse la battaglia per l'evoluzione. Questo secolo ha assistito a considerevoli sviluppi di questa teoria. L'idea della mutazione come cambiamento ereditario casuale fu proposta per la prima volta da H. De Vries (1900-1903). Lo sviluppo della teoria cromosomica dell'eredità da parte di Th. H. Morgan e dei suoi collaboratori, che lavorarono su Drosophila melanogaster, gettò molta luce sui meccanismi e sulla base fisica dell'eredità. Gli studi di H. J. Muller posero su una solida base il concetto di mutazione fino allora sostenuto da dati sperimentali insoddisfacenti. Infine, nella seconda metà di questo secolo, la prova che il DNA è il vettore dell'informazione genetica degli organismi viventi, la scoperta della sua struttura e del modo con cui essa può cambiare, e di come da essa dipenda la sintesi delle proteine e lo sviluppo dell'intero organismo costituiscono altrettante valide conferme all'idea dell'unità degli esseri viventi e del loro sviluppo attraverso l'evoluzione da progenitori comuni.

Lo studio dell'evoluzione a livello molecolare è stato reso possibile dalla conoscenza della struttura delle proteine e degli acidi nucleici e fu iniziato da B. Zuckerkandl e da L. Pauling. Lo studio delle popolazioni naturali, di cui S. S. Četverikov fu un pioniere negli anni venti, ha portato alla scoperta della enorme quantità di variazione esistente nelle popolazioni naturali. Tecniche recenti come l'elettroforesi delle proteine hanno mostrato che probabilmente ogni gene esiste in più di una forma in tutte le popolazioni sufficientemente numerose di una qualsiasi specie. Th. Dobzhansky e i suoi collaboratori hanno accumulato una sorprendente quantità di dati sulla genetica delle popolazioni naturali, arricchita dai risultati di un gran numero di esperimenti eseguiti in condizioni artificiali di laboratorio, che riguardavano soprattutto il genere Drosophila. Se si considera la lentezza dell'evoluzione biologica e quanto poco può durare un esperimento in confronto al tempo disponibile per l'evoluzione durante lo sviluppo della vita sulla Terra, ci si rende conto che è inevitabile che le osservazioni effettuabili con esperimenti di laboratorio si riferiscano solo a cambiamenti evolutivi relativamente modesti. Questi studi sono talvolta chiamati ‛microevolutivi' in contrapposizione allo studio della ‛macroevoluzione'.

Questo secolo ha anche assistito allo sviluppo della teoria matematica dell'evoluzione, sviluppo che ha avuto luogo soprattutto negli anni venti e trenta per merito di R. A. Fisher, J. B. S. Haldane e S. Wright. Alcuni dei problemi matematici posti nella teoria matematica dell'evoluzione hanno contribuito a stimolare lo sviluppo di una nuova branca della matematica, la teoria dei processi stocastici.

2. L'origine della vita

Le proprietà degli esseri viventi derivano essenzialmente da due tipi di sostanze macromolecolari che svolgono un ruolo fondamentale nei processi biologici: gli acidinucleici e le proteine. Gli acidi nucleici (specialmente il DNA) hanno la funzione di formare le proteine e anche quella di essere copiati dando origine a nuovo DNA che trasmette l'informazione per fabbricare le stesse proteine nelle generazioni successive. Gli acidi nucleici sono quindi riconosciuti come i veicoli fisici dell'eredità. Essi costituiscono circa la metà della composizione globale dei cromosomi, mentre la parte rimanente è costituita da proteine, alcune delle quali probabilmente rivestono un ruolo nel ‛programma di sviluppo di un organismo' (v. acidi nucleici).

Quindi, il problema dell'origine della vita è in parte il problema dell'origine sulla Terra degli acidi nucleici e delle proteine. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che gli amminoacidi (elementi che compongono le proteine) e anche le basi nucleotidiche (che danno origine agli acidi nucleici) possono formarsi, in adatte condizioni, da sostanze più semplici che furono presenti nell'atmosfera della Terra, come il metano, l'ammoniaca e l'acqua. Altri esperimenti hanno mostrato che queste sostanze possono polimerizzarsi per formare, rispettivamente, i polipeptidi (i componenti principali delle proteine) e i polinucleotidi. Come gli acidi nucleici e le proteine si siano uniti e abbiano formato un primo organismo è ancora difficile da capire. In questo momento non si hanno prove dell'esistenza di forme di vita di tipo terrestre su altri pianeti, ma questa possibilità non è stata nemmeno esclusa.

3. I determinanti dell'evoluzione: la mutazione, la selezione naturale, la deriva genetica casuale

I fattori principali dell'evoluzione saranno per semplicità ridotti a tre: mutazione, selezione, deriva genetica (random genetic drift). Altri fattori, come la migrazione, saranno trattati insieme con la deriva genetica.

La mutazione

È noto che la comparsa di varianti genetici nuovi è un evento raro, casuale e improvviso. Esistono parecchie categorie di mutazioni che meritano di essere trattate separatamente. Una mutazione genica, che talora è chiamata ‛mutazione puntiforme', è un cambiamento troppo piccolo per essere scoperto con il microscopio ottico. Anche la microscopia elettronica non si è sviluppata fino al punto di scoprire mutazioni geniche. I cambiamenti che possono essere individuati mediante l'esame dei cromosomi eseguito con il microscopio ottico sono generalmente indicati come ‛mutazioni cromosomiche' o ‛aberrazioni cromosomiche'.

Le mutazioni geniche sono spesso il risultato della sostituzione di una base nucleotidica con un'altra. Ciò porta, in circa un terzo dei casi, alla sostituzione di un amminoacido con un altro (in relazione al codice genetico) nella proteina sintetizzata sulla base dell'informazione contenuta nel gene in cui si è verificata la sostituzione nucleotidica. Perciò molte mutazioni, quando sono esaminate a livello proteico, sono singole sostituzioni amminoacidiche. Nelle proteine ben studiate, quasi tutti gli amminoacidi hanno dimostrato di poter essere sostituiti, con solo poche eccezioni riguardanti amminoacidi la cui sostituzione porterebbe presumibilmente alla perdita completa della funzione della proteina e quindi a un individuo non vitale. La delezione o l'aggiunta di uno o due nucleotidi nella catena del DNA (o di un qualsiasi altro numero che non sia multiplo di tre) risulta in un cambiamento radicale della sequenza degli amminoacidi nella proteina sintetizzata dopo che si è verificata la delezione o l'aggiunta, e spesso in una terminazione prematura della catena, cioè nel caso che si sia formata una tripletta ‛senza senso'. Quest'ultimo caso è noto come mutazione con cambiamento della ‛cornice di lettura' (frameshift mutation) ed è perfettamente spiegato sulla base delle proprietà del codice genetico. D'altra parte, la delezione o l'aggiunta di tre basi nucleotidiche consecutive porta alla perdita o, rispettivamente, all'aggiunta di un amminoacido e spesso anche alla sostituzione di uno dei due amminoacidi adiacenti. Tali mutazioni sono state trovate confrontando le sequenze amminoacidiche di proteine con origine simile.

La frequenza con la quale compaiono le mutazioni varia molto da un gene all'altro, e anche tra i vari amminoacidi e siti nucleotidici nell'ambito dello stesso gene. Le frequenze di mutazioni in genere si stimano contando il numero di gameti mutati per un dato gene. I gameti sono le cellule (come gli spermatozoi e gli ovociti) dalla cui fusione si formano gli individui della successiva generazione; pertanto l'unità di tempo di questa stima della frequenza di mutazione è una generazione. Le mutazioni possono verificarsi non solo nei gameti o nelle cellule che daranno origine ai gameti, ma anche nelle cellule somatiche; in questo caso però non hanno alcuna conseguenza per la progenie. Le frequenze di mutazione sono state stimate in diversi organismi per numerosi geni. Esiste in generale una tendenza a sovrastimare le frequenze medie di mutazione, perché i mutanti più frequenti sono scelti preferenzialmente per l'analisi. Dopo aver cercato di eliminare questa fonte di errore sistematico, le frequenze di mutazione nell'uomo risultano dell'ordine di 1 su 1.000.000 di gameti per gene per generazione. Ad analoghe stime si è giunti per organismi con una vita media più breve, come il topo e la drosofila. I Batteri hanno probabilmente una frequenza media di mutazione più bassa. Le frequenze di mutazione sono probabilmente sotto il controllo della selezione naturale. Spesso le mutazioni sono deleterie per l'organismo e un eccesso di mutazioni dovrebbe essere svantaggioso. È quindi verosimile che la selezione naturale tenda in media ad abbassare la frequenza di mutazione.

Queste sono ‛le frequenze di mutazione spontanea', cioè di quelle mutazioni che avvengono spontaneamente senza che ne siano note le cause. Parte di questa frequenza di mutazione spontanea è dovuta all'effetto della radioattività dell'ambiente. Quanto sia grande questa quota non è noto, ma potrebbe trattarsi di solo poche unità percentuali e forse anche meno nelle specie di animali con una vita più breve di quella dei Mammiferi, come per esempio gli Insetti. Perciò altri fattori oltre alla radioattività ambientale contribuiscono alla frequenza di mutazione spontanea. Oggi si conoscono numerosissime sostanze mutagene, ma è difficile dire quali in particolare potrebbero essere importanti nella determinazione della frequenza spontanea di mutazione. Tanto la valutazione della frequenza globale di mutazione per tutti i geni quanto la frequenza media di mutazione per gene sono difficili da ottenere: il numero di geni di un organismo non è noto esattamente. Se tutto il DNA fabbricasse proteine e un gene fosse considerato come un'unità che sintetizzi una proteina o una sua parte, allora un organismo come l'uomo, a giudicare dal contenuto di DNA delle sue cellule, potrebbe avere parecchi milioni di geni. Quindi, sebbene la frequenza di mutazione per gene per generazione possa essere molto bassa, ogni gamete può essere andato incontro a mutazione per uno dei suoi numerosi geni.

Altri tipi di mutazione sono causati da rotture cromosomiche, in genere seguite da una fusione dei frammenti in una posizione diversa da quella originaria. Possono verificarsi parecchi tipi di mutazioni cromosomiche. La perdita di un pezzo di cromosoma si chiama ‛delezione' o ‛deficienza'; per ‛duplicazione' si intende la duplicazione di un segmento di cromosoma; per ‛inversione' la conseguenza di due rotture in un cromosoma seguite dalla inserzione del segmento compreso tra queste due rotture dopo che è ruotato di 180°; la ‛traslocazione', infine, è l'attaccamento di un pezzo di cromosoma ad un altro cromosoma. Essa è spesso reciproca, cioè partecipano allo scambio due cromosomi. Rotture cromosomiche possono essere facilmente indotte da radiazioni e da alcune sostanze, ma sembra che avvengano anche spontaneamente. Esse hanno spesso conseguenze a livello fenotipico e alcune delle più gravi malattie ereditarie osservate nell'uomo sono il risultato di aberrazioni cromosomiche.

Cambiamenti genetici possono riguardare anche il numero di cromosomi. La maggioranza degli animali e delle piante sono diploidi, hanno cioè due serie di cromosomi, di cui una proviene dal padre e l'altra dalla madre. Gli organismi più semplici possiedono il più delle volte una singola serie cromosomica, sono cioè aploidi. Alcuni cromosomi si possono talora trovare in singola o tripla dose in un organismo diploide; queste condizioni sono indicate con il termine di monosomia o trisomia, rispettivamente. Un tipico esempio nell'uomo è la sindrome di Down, prima chiamata ‛mongolismo', che causa un'anormalità fisica e psichica grave. In alcuni casi si duplica l'intero corredo cromosomico risultandone una condizione che prende il nome di ‛poliploidia'. Essa è anche chiamata ‛autopoliploidia' per distinguerla dalla ‛allopoliploidia' a cui si arriva quando un individuo risultante dalla fusione di gameti di due specie diverse va incontro ad autodiploidizzazione. In questi allopoliploidi, chiamati anche ‛anfidiploidi', ambedue i corredi cromosomici delle due differenti specie parentali sono rappresentati due volte. Questo fenomeno è importante nella formazione di nuove specie e sarà preso in considerazione in seguito.

La selezione naturale

La mutazione produce la materia prima per la variazione genetica su cui agisce la selezione naturale. Il cambiamento che è avvenuto nel DNA è casuale, nel senso che esso non è diretto dall'organismo in alcun modo noto. Il fenotipo dell'organismo può essere alterato dalla mutazione e sorgono allora tre possibilità: il cambiamento può essere vantaggioso, non avere alcun effetto, o essere svantaggioso. Cambiamenti che compromettono funzioni importanti sono inevitabilmente deleteri e spesso assolutamente letali per l'organismo che li porta. La diploidia, però, protegge l'organismo dalle conseguenze di alcune di queste mutazioni - quelle che sono recessive (v. genetica). È verosimile che la diploidia possa essersi sviluppata per selezione naturale, dato che costituisce una protezione contro le mutazioni recessive che si verificano nelle cellule germinali e nelle cellule somatiche. L'unione di un gamete che porti un allele mutante recessivo con un altro gamete che non porti questo allele darà origine ad un individuo normale. Così le mutazioni recessive possono rimanere nascoste ed entro certi limiti accumularsi nelle popolazioni prima che la selezione naturale possa eliminarle. La selezione si verificherà solo quando si accoppiano due individui portatori ambedue della mutazione recessiva in uno dei loro cromosomi, e allora il fenotipo recessivo comparirà in un quarto della loro progenie, secondo quanto previsto dalle leggi di Mendel. È a questo stadio che la selezione naturale può operare a favore o contro una mutazione recessiva, a seconda che essa sia vantaggiosa o svantaggiosa.

Alcuni dei moderni studiosi di evoluzione molecolare pensano, basandosi su considerazioni teoriche, che molte mutazioni possano essere selettivamente neutre, cioè che non determinino né vantaggio né svantaggio selettivo ai loro portatori. È ancora difficile valutare la proporzione delle mutazioni neutre, ma l'importanza della selezione naturale nel plasmare le specie è così grande che è difficile credere che la maggior parte delle mutazioni siano neutre. Inoltre, sebbene effetti selettivi molto piccoli siano difficili da valutare, essi tuttavia potrebbero essere selettivamente rilevanti. D'altra parte è a priori poco verosimile che un tipo di mutazione di frequente insorgenza sia vantaggioso, perché se lo fosse, dato che si sarebbe verificato anche prima, sarebbe stato già facilmente assorbito dalla popolazione mediante il processo della selezione naturale. Tutti gli organismi hanno alle loro spalle una lunga storia evolutiva e pertanto mostrano un considerevole grado di adattamento al loro ambiente, a meno che esso non sia cambiato di recente. Perciò la maggioranza delle mutazioni frequenti e vantaggiose deve essere già stata adottata dagli organismi e non è quindi probabile che le nuove mutazioni siano vantaggiose. Anche la complessità fisiologica degli organismi viventi costituisce un'indicazione che molte mutazioni possono essere svantaggiose. Un organismo ha bisogno per vivere che funzionino tutte le sue parti essenziali e qualsiasi mutazione dannosa, che comprometta anche una sola di esse, darà luogo a un organismo non vitale o meno vitale.

Quegli organismi che, per una ragione o per l'altra, non lasciano discendenza (o ne lasciano, in media, meno degli altri) sono automaticamente esclusi dal contribuire alle generazioni successive. Se il motivo per cui essi hanno meno discendenti o non ne hanno affatto è genetico, e pertanto trasmissibile, la condizione genetica responsabile dello svantaggio sarà eliminata automaticamente. Se, viceversa, un individuo ha più progenie della media, e la condizione che fa sì che egli abbia più figli è ereditaria, cioè trasmissibile ai discendenti, questa caratteristica tenderà automaticamente ad aumentare di frequenza nelle future generazioni. Quindi la selezione naturale è un processo automatico che tende a favorire i tipi più adatti (intendendosi per più adatti quelli che lasciano un numero di discendenti maggiore della media) e a sfavorire quelli meno adatti, definiti come quelli che hanno meno discendenti. Naturalmente questo tipo di selezione può operare a livello evolutivo solo su caratteristiche ereditarie. Se la variazione è non genetica (cioè il carattere non è ereditario), la selezione naturale pro o contro di esso non avrà conseguenze a livello evolutivo. Il carattere in questione non andrà incontro a cambiamenti realmente evolutivi.

Questo è il concetto di selezione darwiniana o intragruppo. È stata posta la questione: ‟Gruppi diversi di una stessa specie possono mostrare una selezione naturale di tipo intergruppo?". Questo tipo di selezione si può osservare confrontando lo sviluppo demografico di differenti gruppi di una specie nei loro diversi ambienti. Il gruppo che occupa una nicchia ambientale particolarmente favorevole si svilupperà raggiungendo una numerosità maggiore e, se esso differisce geneticamente dagli altri gruppi, ne conseguirà un cambiamento della composizione genetica media della specie. Un fenomeno di questo tipo è particolarmente evidente nell'uomo come conseguenza di cambiamenti tecnologici, che hanno alterato profondamente i rapporti tra i vari gruppi etnici.

La deriva genetica casuale. - L'adattamento all'ambiente è un fenomeno deterministico, ma fenomeni casuali giocano un ruolo nell'evoluzione attraverso gli effetti del caso nelle segregazioni mendeliane, nella comparsa casuale di nuovi mutanti e infine nel fenomeno indicato più specificamente come random genetic drift (cioè, deriva genetica dovuta al caso). Si tratta dell'effetto delle fluttuazioni delle frequenze geniche dovute al campionamento statistico. Quest'ultimo è a sua volta la conseguenza del fatto che le popolazioni degli organismi viventi hanno dimensioni finite.

Il concetto di frequenza genica può richiedere qualche chiarimento. Se un gene esiste in una popolazione in parecchie forme alternative (che sono chiamate ‛alleli') la frequenza relativa di un qualsiasi particolare allele di quel gene è chiamata frequenza di quell'allele. Una frequenza genica può essere misurata in un qualsiasi stadio del ciclo vitale. Si possono studiare le frequenze geniche tra i gameti, tra gli zigoti appena prodotti, o tra gli zigoti considerati a vari stadi del loro sviluppo. Le fluttuazioni statistiche delle frequenze geniche in una popolazione sono una funzione del numero di individui di quella popolazione che si trovano nella stessa fase del ciclo vitale, nel senso che aumentano con il diminuire di questo numero. L'effettivo ‛collo di bottiglia' statistico è pertanto il numero di individui sessualmente maturi e riproducentisi di una popolazione. Essi in genere costituiscono una piccola frazione rispetto al numero totale di gameti o di zigoti che sono stati prodotti, e saranno questi individui a formare la generazione successiva. Infatti noi possiamo considerare i geni presenti negli individui adulti sessualmente maturi come un campione estratto dai gameti prodotti dalla generazione precedente. Se la selezione naturale non sta operando sul gene in esame, la frequenza dei suoi alleli sarà un campione casuale degli alleli presenti nella generazione precedente. Se il gene è sottoposto alla selezione naturale, la frequenza genica sarà da essa modificata, ma l'effetto del campionamento casuale sarà anch'esso presente. Semplici leggi di probabilità, e in particolare la distribuzione binomiale, permettono di predire la probabilità che una qualsiasi determinata frequenza genica cambi nella generazione successiva come conseguenza di questo campionamento casuale, purché sia nota questa frequenza nella generazione parentale. Se la popolazione è piccola la variazione delle frequenze geniche sarà maggiore e, se è grande, la variazione sarà più piccola, in accordo con quanto è previsto dalla distribuzione binomiale. In generale, la grandezza delle fluttuazioni da campionamento, se viene espressa come errore standard, è proporzionale a 1/√-N-, dove N è il numero di adulti in grado di riprodursi (o, più esattamente, la ‛dimensione effettiva della popolazione'). Così, con popolazioni molto piccole è possibile (anzi addirittura probabile) che un allele non sia rappresentato affatto nella nuova generazione, cioè che vada perduto, oppure che un allele sia l'unico a comparire nella generazione successiva: in questo caso si dice che l'allele è stato ‛fissato'. La probabilità di fissazione o di estinzione è una funzione della dimensione della popolazione. Tali fluttuazioni statistiche si verificano ad ogni generazione e hanno la proprietà di cumularsi. Infatti è la frequenza genica ad ogni generazione che determina la frequenza nella generazione successiva e se essa si è abbassata per un effetto accidentale del campionamento sarà da questa generazione con frequenza genica diminuita che si formerà la generazione futura. Se invece essa sarà aumentata, la frequenza genica della generazione successiva sarà ottenuta come quella di un campione estratto da una popolazione con frequenza genica più elevata.

Quando si considerano cambiamenti nelle specie nel loro complesso, la dimensione di popolazione che conta è quella dell'intera specie e allora si tratta di un numero in genere grande. Però, negli studi di microdifferenziamento geografico per stimare il possibile effetto della deriva genetica si devono usare le dimensioni dei gruppi locali e queste possono essere piccole. Quando si considerano sottogruppi di una specie, si deve tener conto di possibili scambi di individui tra i sottogruppi (migrazione); la sua misura è in genere espressa come la frazione di individui, per generazione, che vengono a far parte del sottogruppo essendo provenienti da altri sottogruppi (m = coefficiente di migrazione). Evidentemente, tanto più intensa è la migrazione, tanto meno i sottogruppi potranno cambiare per effetto della deriva genetica. La migrazione può così controbilanciare l'effetto della deriva genetica e, se sufficientemente intensa, può praticamente eliminarne del tutto gli effetti a livello microgeografico. Non deve quindi affatto sorprendere che le popolazioni più piccole che siano altamente isolate (che siano cioè soggette a poca immigrazione), siano quelle che mostrano le più grandi variazioni rispetto al resto della specie. È verosimile che parte di questa deviazione sia dovuta alla deriva genetica, ma si deve tener presente anche la possibile influenza dell'adattamento a speciali condizioni ambientali e non è semplice escluderne l'effetto nei singoli casi.

4. La teoria matematica dell'evoluzione

Nonostante la sua complessità il processo dell'evoluzione è stato analizzato con metodi matematici. Questo approccio ha avuto successo, perché erano già stati individuati i suoi principali determinanti, di cui si è parlato prima, e si conoscevano le grandezze dei relativi coefficienti. Il trattamento matematico dei processi di mutazione, selezione e migrazione può essere di tipo deterministico, cioè ignorare le fluttuazioni da campionamento, purché si considerino popolazioni molto grandi (in teoria, infinitamente grandi). Se è necessario tener conto della dimensione finita delle popolazioni reali, allora il trattamento deve essere stocastico ed è più difficile dal punto di vista matematico.

La diploidia introduce complicazioni che si superano facilmente in condizioni di matrimoni a caso (random mating). All'inizio di questo secolo G. H. Hardy e W. Weinberg indipendentemente hanno mostrato che, se i matrimoni (o per essere più esatti, gli incroci) si verificano a caso rispetto a un dato gene e la frequenza dell'allele A è p e quella dell'allele a è q, con q = 1 − p, in una generazione si raggiunge un equilibrio in cui i tre genotipi AA, Aa, aa hanno le frequenze p2, 2pq, q2, rispettivamente. Una frequenza genica p(di A) si ottiene dalla somma della frequenza relativa dell'omozigote AA più la metà della frequenza dell'eterozigote Aa. È facile generalizzare quest'equilibrio ai geni con molti alleli. Le condizioni della sua validità sono: dimensione infinita della popolazione, uguaglianza delle idoneità biologiche di tutti i genotipi, incroci veramente a caso. In queste condizioni e in assenza di mutazione, le frequenze geniche e genotipiche rimarranno stabili indefinitamente. Questa è la proprietà della invarianza dei sistemi mendeliani, che distingue la teoria mendeliana dalle precedenti teorie sulla ereditarietà (v. eredità biologica). Secondo il modello della ereditarietà proposto da F. Galton nel secolo scorso, modello che non aveva individuato la natura particolata dei determinanti ereditari né la loro relativa invarianza, la varianza genetica si dimezzava ad ogni generazione e doveva essere compensata da una quantità di variazioni nuove così grande da essere del tutto incompatibile con quanto si sa ora sui bassi livelli delle frequenze di mutazione.

Il trattamento deterministico della mutazione e della selezione in condizioni di incroci a caso è semplice. Sia le frequenze geniche sia, come conseguenza, quelle genotipiche, cambieranno sotto l'influenza della mutazione e della selezione. La velocità del cambiamento e l'equilibrio raggiunto possono essere determinati con una semplice formula. Per studiare la selezione si deve assegnare un certo valore alla idoneità biologica (fitness) di ogni genotipo. L'idoneità biologica di un genotipo è, in prima approssimazione, il numero relativo di discendenti sessualmente maturi atteso per quel genotipo. Se noi indichiamo con w1 l'idoneità biologica di AA, con w2 quella di Aa e con w3 quella di aa, le frequenze genotipiche prima e dopo una generazione di selezione saranno:

Tabella

La quantità ???09??? è anche chiamata idoneità biologica media. Per lo studio dei cambiamenti delle frequenze geniche non fa differenza se i valori di idoneità biologica che si usano sono relativi o assoluti. Per calcolare l'idoneità biologica relativa si pone uguale a 1 una delle quantità w e si standardizzano le altre rispetto ad essa. Per una sua valutazione più accurata si dovrebbero computare, come è stato mostrato da R. A. Fisher, quantità analoghe alle velocità intrinseche di accrescimento (r in termini demografici, secondo la definizione adottata per l'equazione fondamentale di Lotka che descrive l'accrescimento e la distribuzione delle età in una popolazione), tenendo conto sia dell'età sia delle fertilità e delle mortalità specifiche di ogni genotipo. La misura di idoneità biologica semplificata rappresentata dal numero medio di figli che raggiungono la maturità è un'approssimazione di erT, dove T è il tempo di generazione.

Il cambiamento di frequenza genica in una generazione è dato da

Δp = p1 − p (1)

p1 = (w1p²1 + w2pq)/ ???09???

dove p1 è la frequenza genica dopo una generazione di selezione e p è la frequenza genica nella generazione precedente. I valori delle frequenze geniche all'equilibrio, cioè quando esse non cambiano più, si possono ottenere ponendo Δp uguale a zero e risolvendo per i valori di p e di q. Se w1 = w2 = w3 non si verificano cambiamenti. Se w1 w2 w3 oppure w1 w2 w3 oppure w1 w2 w3 i valori all'equilibrio sono p = 0, q = 1, che corrisponde alla eliminazione di A e fissazione di a. Quando w1 > w2 > w3 oppure w1 w2 > w3 oppure w1 > w2 w3 si verifica il contrario. Se w2 è più piccolo (oppure più grande) delle idoneità biologiche w1 e w3 di entrambi gli omozigoti, allora si hanno equilibri diversi da 0 e da 1. Un'ulteriore analisi mostra però che quando l'eterozigote Aa è svantaggiato rispetto a tutti e due gli omozigoti (w2 w1, w3) l'equilibrio è instabile e qualsiasi anche piccola perturbazione porterà alla fissazione verso 0 o 1 nella stessa direzione della perturbazione. Quando l'eterozigote è avvantaggiato, cioè w2 > w1, w3, allora esiste un equilibrio stabile a un valore intermedio tra 0 e 1, che può essere calcolato risolvendo l'equazione (1) dopo avere fissato Δp = 0. Importanti casi di tali equilibri dovuti a vantaggio dell'eterozigote sono stati trovati in molte specie animali, specialmente Drosofila e uomo. Esempi classici nell'uomo sono l'anemia a cellule falciformi e la talassemia e in ambedue i casi l'agente selettivo è la malaria, malattia che è meno letale per gli eterozigoti che per l'omozigote normale, mentre gli omozigoti per l'anemia a cellule falciformi o per la talassemia tendono a morire a causa dell'anemia anche in assenza di malaria (v. sangue: Anemie emolitiche).

Per lo studio della cinetica della selezione, la soluzione diretta dell'equazione del tipo della (1), che è un'equazione con differenze discontinue, non è possibile altro che in pochi semplici casi. Per lo studio dei casi complessi si passa di regola dal trattamento discontinuo della equazione (1) a un trattamento continuo sostituendo Δp con dp/dt e risolvendo come in una equazione differenziale. Come alternativa, si può ottenere facilmente una soluzione numerica dell'equazione con differenze discontinue usando un calcolatore per risolvere l'equazione di tipo (1). I coefficienti di selezione (s) di genotipi dati sono in genere il complemento ad 1 dei valori delle loro idoneità biologiche standardizzati rispetto al valore della idoneità biologica di uno dei possibili genotipi, in genere AA (talvolta Aa, specialmente nel caso di vantaggio dell'eterozigote). Evidentemente la velocità del processo selettivo è una funzione del coefficiente di selezione.

Fisher ha dimostrato con un importante teorema (il teorema fondamentale della selezione naturale) che la velocità dell'aumento dell'idoneità biologica per effetto della selezione naturale è proporzionale alla variazione della componente genetica dell'idoneità biologica. Questi trattamenti matematici della selezione dipendono dall'assunzione che i coefficienti di selezione siano costanti. Se essi variano nel tempo, come è molto verosimile che accada, o se dipendono dalle frequenze geniche, è inevitabile che si vengano a creare situazioni più complicate. Tuttavia queste equazioni forniscono almeno gli ordini di grandezza riguardo all'azione della selezione naturale, che è il più veloce e più importante agente modificatore delle frequenze geniche.

Le frequenze di mutazione da sole possono influenzare le frequenze geniche e l'equazione del loro cambiamento è in generale

Δp = νq − μp (2)

dove μ è la frequenza di mutazione da A ad a e ν è la frequenza della mutazione inversa da a ad A. Equilibri intermedi tra 0 e 1 esistono e si possono facilmente calcolare dalla equazione (2), ma l'ordine di grandezza delle frequenze di mutazione è in genere di tanto più piccolo delle velocità delle variazioni dovute alla selezione che è poco verosimile che la mutazione da sola svolga un ruolo importante. È facile dimostrare che il tempo richiesto per raggiungere l'equilibrio atteso supponendo che operi solo la mutazione, partendo per esempio da p = 0, è approssimativamente il reciproco della frequenza di mutazione; è quindi facile che si tratti di un periodo di tempo dell'ordine di un milione di generazioni, che è un tempo evolutivo molto lungo. Raggiungere lo stesso risultato con i rapidi cambiamenti selettivi può essere questione di solo 100 o 1.000 generazioni.

Gli effetti combinati delle pressioni selettive e di mutazione sullo stesso gene si ottengono facilmente combinando la loro azione in una singola equazione. Tra gli equilibri più interessanti che si possono studiare in questo modo ci sono quelli della selezione contro mutazioni deleterie. Le frequenze geniche all'equilibrio per geni deleteri sono molto diverse nel caso di mutazioni recessive o di mutazioni dominanti essendo uguali a √-μ-/s e a μ/s nei due casi, dove s è il coefficiente di selezione del fenotipo svantaggiato (s = 1 − w rispetto a un'idoneità biologica relativa standardizzata w) e μ la frequenza della mutazione che produce l'allele deleterio. Quindi, a parità di forza selettiva si raggiungono frequenze molto più elevate nel caso di mutazioni recessive che per mutazioni dominanti. Però, in entrambi i casi, se il carattere è altamente deleterio (s = 1), il numero di individui che ne sono colpiti è essenzialmente dello stesso ordine di grandezza, che equivale alla frequenza di mutazione. Assumendo che la frequenza di mutazione sia la stessa, all'equilibrio vi è un numero doppio di individui colpiti nel caso di mutazioni dominanti rispetto al caso di mutazioni recessive. Poiché le frequenze di mutazioni sono tanto basse, le frequenze dei difetti dovuti a mutazione deleteria per un dato gene sono corrispondentemente basse. Ma, poiché i geni sono numerosi, ci si può attendere una grande quantità di malattie genetiche, ognuna diversa dall'altra (almeno a livello biochimico) se riguarda un gene diverso. Ci si attende pertanto di trovare un gran numero di malattie genetiche tutte rare se considerate singolarmente.

Questo è appunto quanto si verifica nell'organismo più studiato da questo punto di vista, l'uomo, le cui malattie genetiche già note sono nell'ordine delle migliaia. Ciascuna di esse è rara, a parte alcune poche eccezioni generalmente determinate da una condizione favorevole dell'eterozigote, come il caso della talassemia e dell'anemia a cellule falciformi.

Qualche volta il matrimonio a caso non è rispettato. Questo si verifica per alcune malattie genetiche nell'uomo e per molti caratteri di importanza sociale. Quando il sistema di matrimonio non è casuale, lo si chiama ‛assortativo' o ‛disassortativo' e anche positivo o negativo, a seconda che l'accoppiamento preferenziale sia quello tra individui simili oppure quello tra individui dissimili. Esistono metodi matematici validi anche per casi di questo genere, ma il trattamento è reso più complesso dal fatto che ciascuno dei possibili matrimoni deve essere trattato separatamente. Con due alleli e tre genotipi, come visto prima, vi sono nove possibili matrimoni. Alcuni casi semplificati sono stati studiati in modo esauriente e i loro risultati sono stati pubblicati. Questi studi si riferiscono principalmente a un singolo gene. Quando due o più geni diversi interagiscono, il trattamento diventa più complicato. Inoltre i geni che si trovano sullo stesso cromosoma sono ereditati in blocco, se si esclude la ricombinazione. Alla fine si raggiungerà l'equilibrio, ma in alcuni casi si può osservare un disequilibrio da associazione genica (linkage disequilibrium'), o perché l'equilibrio non è stato ancora raggiunto, o perché operano nel sistema condizioni selettive che conferiscono valori adattativi diversi ai vari genotipi in quanto portatori di assortimenti genici diversi. Lo studio di molti sistemi genetici è appena cominciato e si sta già rivelando di grande interesse.

Un altro modello, in cui si assume che molti geni influenzino in modo cumulativo un singolo carattere, è stato utilizzato per un lungo periodo, fin dal tempo del lavoro originale di Fisher sulla ‛correlazione tra parenti' pubblicato nel 1918. In questo caso ci si può attendere che il carattere mostri almeno in alcune condizioni una distribuzione normale continua. Questo tipo di analisi è indicato con il nome di ‛genetica biometrica', o anche come lo studio della ‛eredità poligenica'. Non è necessario che il carattere in esame sia per sua natura continuo, esso può essere discontinuo se esiste in aggiunta una distribuzione di suscettibilità genetica e una soglia di sensibilità al di sopra della quale il carattere può manifestarsi. Questo modello è stato usato per spiegare alcune malattie e anche alcuni caratteri normali. Lo studio dei sistemi poligenici è complicato dal fatto che in genere questi caratteri sono fortemente influenzati dall'ambiente. Quando esso può essere mantenuto costante, come in esperimenti di laboratorio, l'analisi può essere eseguita con un certo grado di precisione. In alcuni casi studiati particolarmente a fondo, si può arrivare fino all'identificazione dei singoli geni che costituiscono un sistema poligenico. Questo però è possibile solo in organismi suscettibili di studio sperimentale per i quali sono disponibili un gran numero di mutanti, come la Drosophila. Quando gli organismi sono studiati direttamente in condizioni naturali e si sa che il carattere in esame è influenzato da differenze ambientali, la distinzione tra l'effetto dell'ambiente e quello genetico è più difficile e può essere addirittura impossibile, a meno che non si possa allevare l'organismo in condizioni standard di laboratorio. La genetica biometrica ha ottenuto i migliori risultati quando è stata applicata nell'allevamento degli animali e delle piante.

Un'altra deviazione dall'incrocio a caso che, pur essendo simile al matrimonio ‛assortativo' descritto prima, è tuttavia diversa da esso in linea di principio, è l'incrocio tra parenti stretti (inincrocio, inbreeding). Esso è stato praticato su larga scala dagli allevatori di piante e di animali per ottenere le cosiddette linee pure, cioè delle linee costituite da individui tutti potenzialmente identici per il loro genotipo. Molto lavoro teorico è stato dedicato al problema di calcolare la frequenza attesa degli omozigoti per un dato gene in una linea ottenuta praticando questo particolare sistema di incrocio per molte differenti generazioni. Più stretta la parentela, più efficiente è il sistema di inincrocio. Il più stretto sistema disponibile di inincrocio è l'autofecondazione, ma praticamente esso esiste solo in alcune piante. Incroci tra fratello e sorella e tra genitori e prole sono anch'essi praticati spesso dagli allevatori. Il coefficiente di inincrocio (F) è stato introdotto da S. Wright per misurare la probabilità di omozigosi per un dato gene presente in uno (o più) ascendenti di un individuo che risulti da un determinato pedigree contenente uno o più inincroci. Questi risultati sono di particolare interesse per gli allevatori e sono stati da essi utilizzati su larga scala.

Se si tiene conto del fatto che le dimensioni delle popolazioni sono finite, il risultato di un processo evolutivo si può esprimere solo in termini di probabilità. Così, se una popolazione di dimensione finita è soggetta solo alla deriva genetica il risultato finale sarà o la fissazione o la estinzione di un allele la cui frequenza iniziale era p. La probabilità di fissazione è p e quella di estinzione è il suo complemento, 1 − p. La distribuzione di probabilità in un momento qualsiasi dall'inizio è stata calcolata in dettaglio. Quando altre forze evolutive si aggiungono alla deriva genetica, sorgono delle complicazioni specialmente se si introduce la selezione in un organismo diploide. I risultati devono allora essere calcolati con metodi approssimati. In particolare, tra questi metodi approssimati, si è dimostrato molto utile il metodo per diffusione. Molti dei risultati ottenuti con questi metodi sono stati confermati per simulazione, un procedimento standard della matematica di cui ci si serve nei casi in cui è difficile o impossibile utilizzare un trattamento analitico esatto e si deve ricorrere a procedimenti approssimati. Si accennerà ora ad alcuni risultati di interesse più generale.

La probabilità che un tipo mutante presente inizialmente in una popolazione con la frequenza p0 al tempo t = o venga alla fine fissato in una popolazione di dimensioni finite, è stata calcolata sia in presenza sia in assenza di selezione. In particolare, è interessante considerare il destino di un nuovo allele che sia comparso nell'ultima generazione di una popolazione e che non vi sia più reintrodotto (né per mutazione né per migrazione) nelle generazioni successive. Se si tratta di una mutazione selettivamente neutra la probabilità della sua fissazione è 1/2N, dove N è la dimensione o grandezza o numerosità della popolazione. Essa dovrebbe essere calcolata sulla base del numero di individui adulti maturi e attivi dal punto di vista sessuale e non del numero totale di individui della popolazione. Per maggior chiarezza in genere ci si riferisce a questo numero con il termine di dimensione (sessualmente) efficiente della popolazione: effective population size. Una mutazione che sia deleteria anche di poco non ha alcuna possibilità di venire mai fissata eccetto che in popolazioni molto piccole. Del resto, la probabilità di andare perduta è considerevole anche per una mutazione che conferisca un vantaggio selettivo e ciò vale soprattutto nelle prime generazioni in cui gli individui mutanti sono molto pochi. È stato dimostrato che se il coefficiente di selezione di un nuovo mutante è sufficientemente piccolo da essere dell'ordine di grandezza di 1/2N, esso può essere considerato quasi neutro, nel senso di andare incontro a un destino più o meno simile a quello di un allele perfettamente neutro. Perfino mutazioni vantaggiose possono andare perdute accidentalmente subito dopo la loro comparsa se il loro vantaggio selettivo non è grande. Quindi una mutazione che sia comparsa una sola volta in una popolazione ha una grande probabilità di andare perduta per accidenti di campionamento; tuttavia una certa frazione di questi mutanti verrà alla fine fissata anche se essi sono neutri o quasi neutri. Però il tempo richiesto in media per fissare mutazioni di questo tipo è grande, dell'ordine di 4N generazioni. Questo tempo sarebbe considerevolmente più breve se la selezione operasse a favore di questo nuovo mutante, e sarebbe tanto più ridotto per quanto più grande fosse il vantaggio selettivo. Quindi, mentre per una specie costituita da un milione di individui possono essere necessari quattro milioni di generazioni per fissare un gene neutro, per fissarne uno con un vantaggio selettivo del 10% rispetto al valore normale (uno dei valori più elevati che siano stati osservati per una mutazione vantaggiosa) possono bastare poche centinaia di generazioni. Un modello di mutazione in cui si consideri come un nuovo allele qualsiasi nuova mutazione sia comparsa in una popolazione, presenta una somiglianza particolarmente stretta con le condizioni naturali. Se la frequenza di mutazione di questo gene per generazione è μ, è stato dimostrato che, se queste mutazioni sono neutre, l'efficienza media di sostituzione è uguale al reciproco della frequenza di mutazione.

Un altro risultato di grande interesse è il calcolo del numero di alleli che ci si attende di trovare in una popolazione per un dato gene soggetto a un equilibrio tra la mutazione e altre forze. Se l'unica forza che tende a eliminare le nuove mutazioni è la deriva genetica, cioè gli accidenti da campionamento, si può calcolare che la proporzione attesa di individui omozigoti per un dato gene è all'incirca 1/(1 + 4Nμ). Il reciproco di questa quantità (1 + 4Nμ) esprime una media del numero di alleli attesi per quel gene. Stime non soggette a errori sistematici del numero di alleli effettivamente presenti in media non sono ancora disponibili, ma esse corrispondono grossolanamente ai valori che si avrebbero se per gli organismi studiati finora (dalla drosofila all'uomo) N (considerato per l'intera specie) fosse approssimativamente dello stesso ordine di grandezza di 1/μ. Il numero di alleli esistenti per un determinato locus aumenta però se è presente una selezione a favore dell'eterozigote (chiamata anche selezione stabilizzante o eterotica). In taluni casi esistono prove dell'esistenza di una selezione stabilizzante. In altri casi le prove sono indirette e molti genetisti pensano che la selezione eterotica sia molto diffusa in natura. Questo fenomeno è talvolta indicato col nome di omeostasi genetica.

È stato dedicato molto lavoro teorico al problema di calcolare la distribuzione attesa delle frequenze geniche in condizioni di deriva genetica specialmente se associata a altre forze evolutive. Se la deriva genetica opera da sola ci si attende che in un tempo infinito si arrivi alla fissazione di un allele e alla estinzione di tutti gli altri. Però, se la mutazione continua a produrre nuovi alleli ed è eventualmente aiutata dalla selezione stabilizzante o dalla migrazione tra differenti sottogruppi di una specie, si può arrivare a uno stato di equilibrio e si può calcolare la distribuzione attesa delle frequenze geniche in condizioni di equilibrio dinamico. Esempi di distribuzioni in queste condizioni di equilibrio dinamico sono presentati nella fig. 3. Essi mostrano che le frequenze geniche attese in una popolazione si troveranno a oscillare attorno a un valore atteso che in alcune condizioni può essere vicino a 0 o a 1 e in altre condizioni può essere intermedio. La media e la dispersione delle frequenze geniche attese nello stato di equilibrio dinamico dipendono dalla grandezza della popolazione e dalle forze evolutive bilanciantesi reciprocamente come la mutazione, la selezione stabilizzante o la migrazione.

Questi fattori, se misurati in modo corretto, possono mostrare di avere effetti simili e possono essere inclusi nei parametri U e V come indicato nella fig. 3. Così la migrazione può agire come una mutazione o come una selezione stabilizzante di equivalente intensità.

Ulteriore lavoro teorico è stato compiuto per misurare l'effetto della migrazione o di altre forze che tendono al raggiungimento di un equilibrio (mutazione, selezione stabilizzante) rispetto all'effetto contrastante della deriva genetica nei casi in cui la popolazione è distribuita in una vasta area geografica (e si verifica una differenziazione locale). Questi modelli sono spesso chiamati modelli di isolamento dovuti alla distanza, e sono stati studiati dal punto di vista teorico in uno spazio sia continuo sia discontinuo. Si è trovato che nella maggioranza dei casi la somiglianza tra due popolazioni diminuisce in modo esponenziale con l'aumentare della distanza che le separa, ma sembra che svolga un ruolo anche la dimensionalità della distribuzione geografica. Individui distribuiti solo lungo una dimensione (per es. viventi lungo una linea costiera) mostrano un aumento di variazioni con la distanza maggiore di quello mostrato da popolazioni distribuite in uno spazio a due dimensioni. Questi modelli introducono inevitabilmente un certo numero di assunzioni semplificatrici e l'analisi dei dati reali può talora richiedere l'uso di metodi più sofisticati, che non saranno discussi in questa sede.

Applicazioni di questi modelli matematici a dati reali sono state possibili in svariati casi e hanno contribuito considerevolmente a far luce sulla dinamica dei processi evolutivi.

5. Differenziamento e formazione di razze e di specie

Le specie vegetali e animali, che due secoli fa erano considerate fisse e immutabili, sono sottoposte a un processo continuo di trasformazione e quello che noi osserviamo in un qualsiasi momento non è altro che una fase di un processo destinato a continuare indefinitamente. Per lo scienziato che ha posto le fondamenta della moderna tassonomia, Linneo, le specie erano altrettante unità e le modeste variazioni tra individui appartenenti alla stessa specie potevano essere trascurate.

Tutta la storia della tassonomia indica che è difficile, in pratica, stabilire in modo univoco se due gruppi diversi di organismi viventi, che siano correlati in modo ovvio ma che anche mostrino alcune differenze nette, appartengano a una stessa specie oppure a due specie diverse. Questa difficoltà però non è dovuta alla mancanza di una definizione precisa di specie. Essa è dovuta in parte al fatto che, essendo la formazione di nuove specie un processo dinamico, ci si può trovare di fronte a una fase qualsiasi di esso; ma anche alla difficoltà che frequentemente si riscontra di applicare nei casi concreti le regole operative necessarie per definire se gruppi differenti appartengono o no a una data specie.

Il moderno concetto biologico di specie, che Darwin fu incapace di definire malgrado il titolo che egli diede alla sua opera fondamentale, On the origin of species, deve molto al lavoro di Th. Dobzhansky e E. Mayr. Per definizione, una specie è una serie di individui che sono potenzialmente interfertili senza alcuna limitazione o barriera. Non si può sottovalutare l'importanza di tale prerogativa: essa in pratica significa che, nell'ambito del gruppo, i geni possono essere scambiati senza limitazione. La capacità di scambiare geni determina la capacità a formare nuove combinazioni di geni. Il numero di potenziali nuove combinazioni è enormemente grande ed esso conferirà alla specie una considerevole plasticità, cioè capacità di adattarsi e di prosperare in condizioni ambientali nuove. Se due gruppi sono isolati, per esempio da barriere geografiche, pur non scambiandosi individui e quindi nemmeno geni, fino a quando conservano la capacità potenziale di scambiarseli continuano ad essere una specie dal punto di vista biologico, sebbene possano essersi sviluppate delle cospicue differenze tra di loro a causa della deriva genetica e dell'adattamento ad ambienti diversi.

Questa definizione biologica di specie è valida a patto che l'organismo in questione presenti una riproduzione sessuale. La riproduzione asessuale si osserva in alcune specie di animali e vegetali, ma si è in genere dell'opinione che sia secondaria a uno stadio sessuale e che conduca a un cul-de-sac evolutivo. Perfino gli organismi più bassi, compresi i virus, tendono a mostrare meccanismi riproduttivi tali da permettere scambi di materiale genetico, sebbene non si possa sempre dimostrare un vero dimorfismo sessuale o un regolare differenziamento sessuale. Non solo, ma in parecchie piante fisiologicamente ermafrodite e che andrebbero quindi incontro normalmente ad autofecondazione, riducendo in questo modo il vantaggio della propagazione sessuale e aumentando la omozigosi, si sono sviluppati meccanismi di ‛auto-incompatibilità' che fanno della fecondazione incrociata la regola.

Il vantaggio della riproduzione sessuale nell'evoluzione può essere agevolmente rappresentato da questo semplice modello. Supponiamo che un organismo di una determinata specie abbia sviluppato per mutazione un carattere genetico favorevole che chiameremo A, riservando il termine a al meno vantaggioso carattere originario più comune. Un altro individuo della stessa specie ha sviluppato un'altra caratteristica favorevole denominata B per distinguerla dalla forma comune meno vantaggiosa, b. Se è vantaggioso che coesistano nello stesso individuo entrambi i caratteri genetici A e B, come avviene in genere per caratteri non correlati, allora un sistema che renda probabile la formazione di individui AB sarà vantaggioso su un altro sistema con il quale ciò si verifichi difficilmente. In un organismo asessuato l'individuo AB può comparire solo per mutazione da b a B in un organismo A o da a ad A in un organismo B. Le mutazioni sono rare e pertanto lo sviluppo del doppio mutante più vantaggioso si verificherà raramente. Quando la riproduzione sessuale costituisce la regola la formazione del tipo ricombinante AB è in genere molto più frequente. Un'analisi matematica più rigorosa ha mostrato che la formazione del tipo AB è almeno due volte più veloce in popolazioni a riproduzione sessuata che in popolazioni che si riproducono asessualmente. Quindi la capacità di scambiare geni aumenta le opportunità dell'adattamento. Tuttavia, è stato anche dimostrato che in alcune condizioni la coesistenza dei due tipi di riproduzione, quello sessuale e quello asessuale, potrebbe costituire un vantaggio per la specie.

La formazione di nuove specie può avvenire bruscamente, soprattutto per mezzo della poliploidia. Si tratta di un meccanismo che è certamente importante nelle piante, ma che presumibilmente è molto più raro negli animali. In genere una specie nuova sorta per poliploidia non dà origine a prole fertile se incrociata con la specie originale. Per esempio, un tetraploide quando è incrociato con un diploide dà origine a una progenie triploide che è sterile perché la maggioranza dei suoi gameti possiedono assetti cromosomici sbilanciati costituiti dall'incontro casuale di uno o due membri di ciascuna coppia cromosomica. Ciò può spiegare in parte perché la poliploidia è più rara tra gli animali che per lo più non hanno la riproduzione asessuale, dato che un individuo formatosi per poliploidia in genere non può moltiplicarsi se la riproduzione sessuale è l'unico mezzo per riprodursi. Vi sono altri motivi connessi soprattutto con questioni di equilibrio cromosomico che possono contribuire a rendere la poliploidia più rara tra gli animali.

È noto che la autopoliploidia, cioè la formazione di un poliploide mediante il raddoppio dell'assetto cromosomico di una cellula, si verifica molto di frequente nelle piante e si induce con facilità sperimentalmente. La possibilità di una iniziale moltiplicazione asessuale di tali doni può spiegare la formazione di nuove specie poliploidi. D'altra parte, è stata dimostrata l'importanza di un altro meccanismo di formazione di poliploidi, l'allopoliploidia. Questo può verificarsi dopo una fecondazione interspecifica, evento più frequente nelle piante che negli animali. Un organismo allopoliploide derivato da due specie lontane può riprodursi solo asessualmente e può darsi che presenti squilibri fisiologici. Se però esso a un certo punto è andato incontro a diploidizzazione spontanea (amfidiploide) allora può mostrare capacità normali sia dal punto di vista fisiologico sia da quello della riproduzione sessuale. Tali amfidiploidi sono stati prodotti sperimentalmente e sono stati trovati anche in natura.

Una rara mutazione cromosomica risulta da un meccanismo anomalo di divisione del centromero, cioè da una divisione del centromero che si attua perpendicolarmente all'asse del cromosoma invece che lungo di esso. La maggior parte dei cromosomi hanno braccia di lunghezza per solito ineguale ai due lati del centromero. Una divisione anormale del centromero (come quella detta sopra) di un cromosoma fa sì che le sue due braccia si separino l'una dall'altra. Ciascun braccio può continuare a riprodursi da solo e costituire un cromosoma indipendente, e in questo modo il numero aploide totale di cromosomi aumenta di 1. Si crede che questo sia il meccanismo responsabile dell'aumento del numero dei cromosomi. Anche altre aberrazioni contribuiscono a spiegare in che modo i cromosomi possono cambiare di numero e di forma. Le traslocazioni possono renderli più lunghi o più corti. Le inversioni possono alterare la posizione del centromero se esso è compreso nell'inversione, e alterare in questo modo le lunghezze relative delle due braccia del cromosoma interessato dall'inversione. Mutazioni cromosomiche possono fissarsi in una specie attraverso la deriva genetica o la selezione naturale, allo stesso modo delle mutazioni geniche, rendendosi così possibile l'evoluzione del numero e della forma dei cromosomi.

Se la poliploidia permette la formazione improvvisa di nuove specie, in pratica in tutti gli altri casi la formazione di una nuova specie è un processo graduale. Oggi si è concordemente dell'idea che questo processo in genere si verifichi attraverso l'isolamento geografico. Questo meccanismo di speciazione è detto ‛speciazione allopatrica' in contrapposizione alla ‛speciazione simpatrica' che è la formazione di specie differenti nella stessa area geografica generale attraverso l'azione di altri meccanismi di isolamento, per esempio l'isolamento ecologico, ecc.

Alcuni autori, e specialmente il Mayr, escludono che la speciazione simpatrica abbia realmente avuto importanza nel corso dell'evoluzione. Inevitabilmente l'isolamento geografico è accompagnato dall'adattamento ad ambienti alquanto diversi e in più favorisce lo stabilirsi delle differenze mediante la deriva genetica. Però può essere necessario molto tempo perché si crei una barriera interspecifica, perché si attui cioè la intersterilità. Per cui è possibile che organismi diventati nettamente diversi dal punto di vista fenotipico siano ancora interfertili in condizioni di laboratorio o in territori in cui le loro distribuzioni si sovrappongano. Lo sviluppo di differenze in condizioni di isolamento è lento, poiché l'evoluzione geologica nel suo complesso è lenta e la formazione di differenze di entità tale da costituire una barriera interspecifica può richiedere periodi dell'ordine di un milione di anni. Il processo di differenziamento tra due popolazioni che siano isolate l'una dall'altra può essere scoperto, mentre si sta ancora svolgendo, in un momento qualsiasi. Si possono cioè scoprire tutti i gradi di differenziamento che sono al di sotto del livello strettamente interspecifico. Popolazioni che siano esaminate mentre ancora appartengono, potenzialmente almeno, alla stessa specie, ma che mostrano una diversità di un certo grado (praticamente tutte le popolazioni sono lievemente diverse l'una dall'altra) possono essere indicate con diversi nomi: demi, ecotipi, razze, razze geografiche, sottospecie. Nessuno di questi termini è molto preciso o utile, dal momento che la soglia realmente importante dal punto di vista evolutivo è quella che corrisponde a una differenza interspecifica cioè una linea di demarcazione tale che da una parte di essa ci sia la interfertilità e dall'altra la intersterilità. Però anche questa soglia può essere raggiunta gradualmente e/o con passaggi bruschi. Le specie sorelle (sibling species) costituiscono un esempio interessante. Si tratta di specie molto simili dal punto di vista morfologico, ma che tuttavia mostrano un certo grado di differenziamento specifico, da una fertilità incompleta fino a una completa sterilità, e che abitano all'incirca la stessa area o almeno la condividono in parte. Per esempio Drosophila pseudoobscura e D. persimilis formano ibridi, ma i maschi ibridi sono sterili, mentre le femmine sono fertili se reincrociate con una delle due specie parentali.

I meccanismi di sterilità interspecifica sono di varia natura. Alcuni di essi sono precopulatori, cioè la copulazione non può verificarsi o comunque non avviene. Altri sono postcopulatori, e si formano degli ibridi che sono sterili o che non si sviluppano. Secondo alcuni autori le barriere di sterilità interspecifica ricevono un premio dalla selezione naturale, in quei casi in cui il differenziamento che ha portato alla formazione in aree diverse di differenti popolazioni è andato avanti fino al punto che gli ibridi, pur formandosi ed essendo fertili, non sono tuttavia adatti sufficientemente a nessuno dei due ambienti. Secondo altri autori la sterilità si sviluppa in modo essenzialmente accidentale. È opportuno tener presente che in tutte le popolazioni naturali finora esaminate, anche in quelle che occupano un'area ristretta, la quantità di variazione genetica esistente è sempre estremamente grande. Persino un singolo individuo è sede di eterozigosi per una gran parte dei suoi geni. Questo fatto non era noto, o perlomeno non era chiaro, fino a poco tempo fa, fino a quando cioè l'analisi elettroforetica delle proteine ha reso possibile lo studio della variazione genetica in un campione di geni scelti a caso, o più precisamente delle proteine da essi prodotte. Circa un terzo di tutte le proteine studiate in questo modo mostrano l'esistenza di più di un allele come conseguenza di sostituzioni amminoacidiche risultanti in differenze elettroforetiche. Dato che l'elettroforesi può scoprire solo una parte di tutte le variazioni esistenti, probabilmente non più di un terzo (in media forse meno), la regola è che quasi tutti i geni contengono varianti, alcuni in frequenze considerevoli in una popolazione.

Esistono parecchie centinaia di migliaia di specie diverse e quelle animali sono circa 5 volte più numerose di quelle vegetali. In continuazione si devono formare specie nuove mentre altre devono estinguersi o perché costituite da un numero troppo piccolo di individui o perché si trovano di fronte a cambiamenti ambientali per esse catastrofici. Un problema ancora non del tutto chiarito è come alcune specie siano andate incontro solamente a pochi cambiamenti durante lunghe ere geologiche dando origine al fenomeno dei ‛fossili viventi'. Si è supposto che ciò potesse essere la conseguenza della distruzione della variazione genetica propria della specie, ma più probabilmente si è raggiunto in questa specie un alto grado di omeostasi genetica, presumibilmente attraverso meccanismi di selezione stabilizzante (vantaggio dell'eterozigote o meccanismi più complessi).

6. Analisi filogenetica

Con l'avvento dei calcolatori elettronici è diventato possibile trattare un numero di osservazioni molto grande su un gran numero di individui o su un gran numero di specie e tentare in questo modo l'applicazione di metodi obiettivi di classificazione al materiale biologico. È sorta quindi la cosiddetta ‛tassonomia numerica' che ha attratto un certo numero di ricercatori. Sebbene metodi messi a punto in questo modo possano essere considerati più ‛obiettivi', non sempre sono stati esposti in modo chiaro gli scopi che ci si propone di raggiungere con questi criteri di classificazione. In particolare non è chiaro se tali metodi possano servire allo scopo di delineare la ‛filogenia' delle specie. Per questo scopo in particolare sembra preferibile ricorrere a metodi che specifichino in modo chiaro un modello evolutivo e lo analizzino sulla base delle prove a disposizione. È questa l'analisi filogenetica e dovrebbe essere tenuta distinta in linea di principio dalla tassonomia numerica, sebbene in alcuni casi i risultati di queste due differenti tecniche possano essere strettamente concordanti. Sono stati proposti diversi metodi di analisi filogenetica, alcuni dei quali si basano sull'assunto di velocità costanti di evoluzione, altri solo sull'assunto che l'evoluzione si svolga in modo indipendente in popolazioni isolate e altri ancora hanno utilizzato il criterio della ‛evoluzione minima' per ricostruire gli alberi filogenetici. L'ultimo criterio è quello meno soddisfacente dal punto di vista genetico, ma i suoi risultati sono simili a quelli ottenuti con altri metodi. Un esempio della sua applicazione ad alcuni gruppi etnici umani è presentato nella fig. 4. Evidentemente un'analisi filogenetica completa richiede l'integrazione di dati ottenuti da tutte le fonti, paleontologica (quando è disponibile), genetica, morfologica, fisiologica, ecc. I caratteri genetici, quando sono stati esaminati isolatamente per ricostruire quello che era reputato essere l'albero filogenetico esatto, si sono dimostrati più efficienti dei caratteri strettamente morfologici. Sfortunatamente, è più difficile ottenere i primi che gli ultimi. È in genere chiaro che l'adattamento puramente morfologico, o l'adattamento fisiologico superficiale, riflette la somiglianza degli ambienti più facilmente della vera filogenesi. La maggioranza dei caratteri morfologici e fisiologici hanno una base poligenica.

Evoluzione parallela o convergente è stata osservata in molti gruppi di animali e di piante, per esempio i Marsupiali hanno sviluppato forme che somigliano a quelle sviluppate in aree diverse da Mammiferi Placentali. Un'analisi morfologica superficiale può suggerire una somiglianza molto maggiore di quella che si troverebbe con un'analisi genetica, poiché quando la selezione naturale opera in ambienti simili si possono raggiungere risultati simili anche se essa si è esercitata su complessi genetici interamente diversi. Perciò, se si verifica un'evoluzione parallela in gruppi che si sviluppano in ambienti simili anche se separati, la base genetica della loro evoluzione può essere del tutto diversa e apparire tale solo se le due specie sono confrontate a livello genetico; la pura somiglianza morfologica rivelerà invece solo che gli ambienti erano simili. Sfortunatamente, per la maggior parte delle specie si dispone solo di dati morfologici e talora fisiologici. Per le forme estinte i dati morfologici sono gli unici disponibili. Inoltre la documentazione paleontologica ha un certo numero di interruzioni e quindi non c'è da sorprendersi se la filogenesi degli organismi viventi è ancora incompleta, anche se per i rami principali, e in taluni casi perfino per l'evoluzione di sottogruppi per lunghi periodi, è stata ricostruita in dettaglio.

7. Evoluzione molecolare

Per poter spiegare in modo esauriente l'evoluzione a livello molecolare sarebbe necessario conoscere la sequenza delle coppie nucleotidiche del DNA dell'organismo. Procurarsi questa informazione costituisce però un'impresa molto ardua perché in media una cellula di Mammifero contiene un numero di coppie nucleotidiche per nucleo compreso tra 1 e 10 milioni. Perfino i Batteri hanno un gran numero di coppie nucleotidiche che è solo di tre ordini di grandezza inferiore al numero appena detto. Oggi è possibile determinare la sequenza nucleotidica solo per polinucleotidi relativamente corti, dell'ordine di centinaia di nucleotidi, e l'isolamento di geni singoli è un procedimento ancora soggetto a limitazioni considerevoli. È possibile però studiare la somiglianza media tra DNA di organismi affini con le tecniche note come ibridazioni DNA-DNA o DNA-RNA. Con questi mezzi è possibile stimare almeno approssimativamente la percentuale di coppie nucleotidiche che sono identiche in organismi diversi. Questa tecnica può essere applicata più facilmente se le differenze non sono troppo piccole e la si deve pertanto riservare all'analisi di organismi che sono rimasti separati per un tempo considerevole. Può darsi che in futuro sarà possibile aumentare il suo potere di risoluzione fino al punto di mostrare differenze tra specie affini e perfino all'interno di singole specie. Questi esperimenti hanno concordemente dimostrato che la dissimiglianza tra organismi, a livello del DNA, è quasi perfettamente proporzionale al tempo, stimato sulla base di dati geologici e paleontologici, durante il quale essi sono rimasti separati. Ulteriori chiarimenti si sono avuti dall'analisi di proteine, che, essendo i prodotti diretti dei geni, forniscono informazioni dirette sul DNA. Per quanto si sa ora, le uniche riserve a cui è soggetta questa affermazione derivano dalla esistenza della degenerazione del codice e dal fatto che una parte del DNA non fabbrica proteine. Già oggi parecchie proteine di molte specie animali e vegetali sono state purificate e se ne è determinata la sequenza amminoacidica. Quando si studia una determinata proteina in organismi diversi, di nuovo si osserva la regola che le differenze in amminoacidi tra le diverse specie riguardo a quella proteina sono proporzionali al tempo di separazione delle specie. Più esattamente, queste differenze seguono una semplice legge esponenziale che si può facilmente ricavare dall'assunzione che la probabilità che un amminoacido venga sostituito da un altro rimanga costante nel tempo. La velocità delle sostituzioni sembra abbastanza regolare, tanto che alcuni autori hanno supposto che il numero di differenze amminoacidiche esistenti tra specie diverse per una determinata proteina potrebbe costituire un orologio biologico utilizzabile per misurare la loro separazione evolutiva. Questo procedimento però ha parecchie limitazioni. Studi su proteine singole solo di rado forniscono informazioni sufficienti, specialmente se l'analisi comparativa è eseguita su organismi molto affini. Si deve però sottolineare il fatto che nel caso del citocromo C, una proteina molto diffusa nel regno animale e vegetale (manca solo in alcuni Batteri), è possibile una ricostruzione quasi completa della filogenesi dei vari organismi che è in accordo molto stretto con quanto ci si attende dalle prove paleontologiche e morfologiche. L'albero evolutivo della fig. 5 si ottiene sottoponendo all'analisi filogenetica la distanza tra organismi, espressa come numero di differenze amminoacidiche esistenti fra loro, per quest'unica proteina, il citocromo C.

Alcune difficoltà di questo approccio sono dovute al fatto che le velocità di evoluzione calcolate su proteine diverse sono chiaramente differenti. È anche chiaro che, come si è già accennato prima, alcuni amminoacidi (presumibilmente quelli più importanti per la funzione della proteina) non cambiano nel corso dell'evoluzione. Alcune proteine, come gli istoni, che fanno parte della struttura cromosomica, e importanti ormoni come l'insulina sono estremamente stabili nel corso dell'evoluzione. Il citocromo cambia con una velocità molto più piccola delle emoglobine. Le molecole più variabili trovate finora sono i fibrinopeptidi, piccoli peptidi che sono staccati dalla molecola del fibrinogeno al momento della coagulazione. L'origine di queste differenze non è nota in modo preciso, ma sembra ragionevole postulare che una proteina è tanto più soggetta a una selezione di tipo stabilizzante quanto più è essenziale per un organismo. Dalla velocità media di sostituzione calcolata dai dati relativi a una mezza dozzina di proteine risulta che deve trascorrere circa 1 miliardo di anni perché un amminoacido sia sostituito da un altro. Questo tempo può sembrare molto lungo se si pensa che rappresenta ben 1/3 o 1/4 dell'intero periodo durante il quale si è sviluppata la vita sulla Terra, ma per una proteina di 150 amminoacidi si trovano una dozzina di differenze amminoacidiche tra primati inferiori e superiori che sono stati separati per 70-80 milioni di anni.

Alcuni autori hanno suggerito che le sostituzioni amminoacidiche nelle proteine si verifichino soprattutto attraverso la deriva genetica e che non siano soggette alla selezione naturale. Per alcune sostituzioni amminoacidiche è praticamente certo che questo non è vero. Per altre la questione è discutibile e una stima della parte di evoluzione molecolare dovuta alla deriva genetica e di quella dovuta alla selezione costituisce tuttora un problema difficile.

8. L'aumento di complessità

Le ricerche a livello molecolare sono state di grande aiuto, perché hanno fornito informazioni molto più dettagliate su un altro aspetto importante dello studio dell'evoluzione: il problema di come aumenta la complessità degli organismi. Era già noto da studi classici sui cromosomi delle ghiandole salivari delle larve di alcune specie di Drosophila, che si prestano a un'analisi molto dettagliata della morfologia e sequenza delle loro bande (banding patterns), che alcuni geni o alcuni segmenti cromosomici del genoma sono duplicati. Gli effetti della duplicazione genica sono chiaramente riconoscibili a livello molecolare. Sono state trovate nello stesso organismo parecchie proteine in forme diverse, che devono essere derivate l'una dall'altra per duplicazione di un gene o di un segmento cromosomico. Così, tanto per dare qualche esempio, le catene polipeptidiche dell'emoglobina esistono in almeno 5 forme diverse (v. sangue: Emoglobina); anche altre proteine, per esempio le gammaglobuline, esistono in un certo numero di forme molecolari e anche in questo caso la loro origine può essere fatta risalire a geni ancestrali comuni. L'emoglobina si trova nei globuli rossi e serve a trasportare ossigeno dai polmoni ai tessuti. Anche la proteina che è deputata a una funzione di questo genere, cioè dell'immagazzinamento dell'ossigeno nel tessuto muscolare, la mioglobina, mostra una origine comune a quella del- l'emoglobina, ma si è da essa differenziata prima che le catene polipeptidiche emoglobiniche si separassero nei cinque tipi oggi noti. Ciò mostra in modo molto chiaro il significato che la duplicazione dei geni ha avuto nell'evoluzione, così come era stato sospettato per molto tempo sulla base di studi a livello citologico effettuati su molti organismi. La disponibilità in un organismo di due siti genetici ambedue deputati alla sintesi della stessa proteina rende possibile a uno (o all'altro) di essi di evolvere in diverse direzioni e di svolgere funzioni alquanto diverse. Si rende così possibile l'aumento di complessità. Possono evolversi nuovi meccanismi e possono essere espletate nuove funzioni.

Un altro meccanismo che ha presumibilmente contribuito, almeno nelle prime fasi dell'evoluzione, ad aumentare la complessità, è l'acquisizione di una simbiosi permanente tra differenti organismi. Sebbene non si abbia ancora una prova assoluta di questo fenomeno, appare tuttavia molto verosimile che organelli citoplasmatici come i mitocondri, i cloroplasti e altri siano stati in origine microrganismi indipendenti che abbiano stabilito uno stato di simbiosi con una cellula più grande (v. cellula: Fisiologia della cellula). La loro indipendenza originale è indicata dal fatto che essi hanno un proprio DNA e un proprio apparato per sintetizzare le proteine, e che il loro DNA ha una composizione del tutto diversa da quella dell'organismo nel cui citoplasma essi dimorano. Per quanto ne sappiamo, i cloroplasti e i mitocondri hanno perduto un certo numero di funzioni essenziali per cui, pur essendo in grado di moltiplicarsi entro certi limiti indipendentemente dalla cellula ospite, non possono più vivere indipendentemente da essa. Alcuni altri esempi di simbiosi di questo genere che, pur essendo meno antichi, non sono tuttavia recenti, si trovano in alcune famiglie di Insetti. Per esempio, si sono trovati Batteri che vivono dentro le cellule del tessuto adiposo di termiti e di blatte. Sembra che questi Batteri non siano capaci di vivere in modo indipendente, al di fuori di quelle cellule, ciò nonostante possono essere eliminati somministrando antibiotici ai loro ospiti. Non è chiara la funzione di questi Batteri simbiotici ma è certo che essi non sono per la vita del loro ospite così necessari come i mitocondri e, anche se in misura più ridotta, i cloroplasti. Si possono anche distruggere, almeno temporaneamente e talora permanentemente, i cloroplasti con antibiotici come la streptomicina, e le piante e le alghe così trattate sono ancora capaci di vivere, purché, naturalmente, siano poste in ambienti adatti, dal momento che hanno perduto le capacità fotosintetiche.

Può valere la pena di aggiungere poche parole riguardo alla complessità degli organismi viventi attualmente. Esiste tra questi organismi una considerevole gerarchia di complessità. I microrganismi, che sono unicellulari, sono più semplici degli organismi più elevati, che sono costituiti da molte cellule. L'organizzazione multicellulare richiede maggiori quantità di informazione genetica e quindi di DNA. Tuttavia i microrganismi non possono essere considerati organismi ‛semplici'. Quelli che vivono ora non sono informativi su come devono essere stati gli organismi veramente primitivi. Tra gli organismi più semplici capaci di vita autonoma viventi attualmente vi sono alcuni batteri e alghe, che possono vivere usando come sostanze nutritive delle sostanze molto semplici. Essi hanno un metabolismo molto complicato, come si può inferire con certezza dopo aver constatato la loro capacità di riprodurre la propria complessa struttura partendo da sostanze semplici. Essi mostrano quindi un'organizzazione decisamente complessa e la quantità di informazione genetica deputata alla sua riproduzione è relativamente grande, anche se minore di quella degli organismi superiori. Gli unici organismi che possiedono quantità molto piccole di DNA sono alcuni virus che possono riprodursi esclusivamente a spese di microrganismi o di organismi più elevati. Essi sono più semplici perché hanno perso varie funzioni, come per esempio quella della produzione di energia, per la quale sfruttano le capacità dell'ospite. Quindi si deve presumere che i virus attualmente esistenti si siano formati attraverso un processo di evoluzione regressiva di parti di organismi più complessi e non possono pertanto essere paragonati agli organismi più primitivi che devono essere vissuti sulla Terra. Questi ultimi devono inevitabilmente essere stati molto più semplici, ma è poco verosimile che sarebbero in grado di sopravvivere oggi in presenza della competizione con gli organismi attuali con la loro grande varietà e alto adattamento, in un mondo in cui praticamente tutte le nicchie ambientali sono state già occupate da organismi, sia uni- sia pluricellulari, ma comunque altamente organizzati e adattati. Abbiamo visto all'inizio di questo articolo come possono essersi originati nell'ambiente primordiale della Terra i polinucleotidi e i polipeptidi. Come essi potrebbero avere formato un primo organismo primitivo è tuttora argomento di speculazione. Tali speculazioni sono state fatte e hanno in genere portato all'idea che la formazione di un organismo nuovo è un evento del tutto improbabile. Il fatto che tutti gli amminoacidi prodotti dagli organismi più elevati sono della forma ‛levo' è stato considerato una prova che la vita è sorta in questo pianeta solo una volta. Oggi è stato prodotto un ‛gene artificiale' copiando la sequenza nucleotidica di un piccolo gene noto di origine naturale. Non è stato dimostrato che funzionerebbe come un ‛gene' in condizioni di laboratorio. Comunque non sarebbe in grado di riprodursi in modo autonomo eccetto che in un ambiente estremamente artificiale e non è capace di produrre un organismo completo. Tuttavia non riesce troppo difficile credere che la ricerca futura proverà, o almeno migliorerà considerevolmente, le nostre attuali supposizioni sul come si siano formati i primi organismi viventi sulla Terra.

9. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale e loro interazione

Tutto è soggetto a evoluzione, compresi gli atomi e le particelle subatomiche, ma qui ci siamo occupati solamente dell'evoluzione biologica (talvolta detta anche organica). Gli organismi viventi però, e in modo particolare i Vertebrati, hanno sviluppato un altro tipo di evoluzione che, pur svolgendosi parallelemente all'evoluzione biologica, interagisce tuttavia fortemente con essa. Tale evoluzione può essere chiamata ‛culturale'. Sembra che sia sviluppata soprattutto nell'uomo e alcuni preferiscono considerarla una peculiarità limitata a questa sola specie. Recenti osservazioni degli etologi hanno mostrato che molti altri animali sono capaci di evoluzione culturale. Così, per esempio, alcuni uccelli hanno imparato ad aprire le bottiglie di latte e questa nuova caratteristica si è estesa largamente per diffusione culturale a un gran numero di uccelli di specie diverse. È stato dimostrato, con osservazioni eseguite sia in laboratorio sia in condizioni naturali, che i Roditori sono dotati della capacità di apprendimento sia attraverso l'osservazione sia attraverso l'imitazione. Quindi, anche se alcuni scienziati preferiscono riservare il termine di evoluzione culturale solo per l'uomo, essa non è un fenomeno limitato unicamente a questa specie. A parte questa difficoltà puramente semantica, è certo che l'evoluzione culturale ha svolto un ruolo preminente nell'uomo e assai più che in qualsiasi altro organismo.

Esistono alcune somiglianze e differenze tra le due evoluzioni, quella biologica e quella culturale, che è importante tenere presente. Il substrato dell'evoluzione biologica è costituito dagli acidi nucleici, i suoi cambiamenti sono le mutazioni. Questi cambiamenti sono diffusi ad altri acidi nucleici mediante la copiatura e la trasmissione della copia ad altri individui e, negli animali superiori, la trasmissione ha luogo solo attraverso la riproduzione sessuale. Gli organismi mutati sono sottoposti agli effetti della selezione naturale mediante la sopravvivenza e/o la riproduzione preferenziale degli organismi più adatti. Come abbiamo visto, sono anche soggetti all'azione del caso. Nell'evoluzione culturale gli equivalenti dei geni sono le idee, e l'equivalente della mutazione è l'innovazione. Il meccanismo di diffusione delle nuove idee è del tutto diverso da quello della diffusione dei geni. È più simile a un'epidemia che all'eredità mendeliana degli organismi superiori. Nell'eredità biologica i geni sono trasmessi dai genitori ai figli seguendo regole molto rigide. Nell'eredità culturale le idee possono essere diffuse tanto più rapidamente quanto più veloci sono i mezzi di comunicazione, di persuasione e di apprendimento. Ma anche per questo tipo di evoluzione si possono descrivere processi che sono almeno superficialmente simili alla selezione naturale e alla deriva genetica. La principale differenza riguarda però la velocità di cambiamento e di diffusione, che sono molto più grandi nell'evoluzione culturale che in quella biologica.

È anche evidente che nella storia dell'uomo le innovazioni tecnologiche hanno esercitato un'influenza molto profonda. L'addomesticamento delle piante e degli animali ha portato a un aumento delle capacità di sostentamento offerte dalla Terra così grande da rendere possibile la moltiplicazione degli esseri umani di un fattore mille, e forse più.

È oggi chiaramente riconosciuto che tutte le popolazioni umane appartengono a un'unica specie (v. razza). La differenziazione razziale, come la osserviamo ora, può aver avuto un'origine relativamente recente. Il processo di ominizzazione però è stato lungo, e il decidere in che momento dell'evoluzione un primate che stava evolvendosi in uomo può essere considerato come appartenente al genere e/o alla specie che noi abbiamo autodefinito Homo sapiens, è essenzialmente una questione di definizione. Indubbiamente le caratteristiche più peculiari dell'uomo sono la capacità di fabbricare utensili e lo sviluppo del linguaggio, anche se nessuna delle due è in senso stretto una proprietà esclusiva di questa specie. È ora noto che altri primati oltre all'uomo, come lo scimpanzé, usano arnesi molto primitivi per particolari scopi. La comunicazione mediante suoni è diffusa tra gli animali; ma nessun altro animale ha sviluppato un linguaggio articolato allo scopo di comunicare come noi abbiamo fatto. I primati possono basarsi più sui segni che sul linguaggio sonoro, sebbene anch'essi usino suoni. Tenendo conto delle limitazioni dovute alla struttura dei loro organi di fonazione, recentemente si sono effettuati esperimenti in cui si insegnano agli scimpanzé il linguaggio americano a segni e altri tipi di linguaggio (invece di quello parlato), e i risultati sono stati molto soddisfacenti. Questi esperimenti hanno mostrato che gli scimpanzé possono formare nuove frasi nelle lingue che sono state loro insegnate, riassortendo i simboli che hanno imparato.

L'evoluzione dell'uomo sembra essere dipesa in larga misura dallo sviluppo di queste due funzioni: la fabbricazione di utensili, che ha probabilmente favorito la posizione eretta grazie alla quale le mani divengono libere di fabbricarli; e il linguaggio, che presumibilmente si è sviluppato più tardi e ha determinato un ulteriore sviluppo del cervello e degli organi della fonazione in modo tale da rendere possibile il linguaggio articolato. Queste due caratteristiche fondamentali devono aver conferito un forte vantaggio selettivo all'uomo e reso possibile una sua ulteriore, relativamente rapida, evoluzione. L'epoca più remota presunta in questo momento per la comparsa negli ominidi della capacità di fabbricare utensili è circa due milioni di anni fa. Questi ominidi avevano però cervelli molto più piccoli dei nostri e l'evoluzione della grandezza e della complessità del cervello nell'uomo si è svolta tardivamente e in modo relativamente rapido. È possibile tuttavia che l'uomo di Neanderthal (presubilmente una sottospecie di uomo ormai estinta o parzialmente riassorbita, mediante ibridazione, nella specie Homo sapiens) avesse un cervello più grande del nostro.

Quindi l'uomo è una specie unica solo nel senso che combina parecchie capacità che sono in essa molto più sviluppate che negli organismi viventi evolutivamente più vicini tra quelli a noi affini. Non esiste tuttavia alcuna differenza biologica fondamentale tra l'uomo e gli altri animali.

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