MARLIANI, Fabrizio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70 (2008)

MARLIANI, Fabrizio

Francesca M. Vaglienti

– Figlio di Giacomo, dei Capitani e difensori della communitas ambrosiana, e di Giovanna di Ubertino Casati, nacque probabilmente a Milano intorno al 1440. Al battesimo gli fu padrino il conte Giovanni Rusca.

Rilevante era la rete familiare di questo ramo del casato, tra i più nobili di Milano, discendente da Vincenzo Marliani, intraprendente castellano di Porta Giovia. Giacomo era fratello di Michele, consigliere segreto e vescovo prima di Tortona e poi di Piacenza; di Pietro, ricco mercante padre di Lucia, che fu amante del duca Galeazzo Maria Sforza; di Giovanni Antonio, arciprete del santuario di S. Maria del Monte di Varese, e di Giorgio, cameriere ducale e gentiluomo di corte.

La potente parentela, di parte ghibellina, condizionò la vita del M. che, abbracciata la carriera ecclesiastica, seguì giovanissimo le orme dello zio Michele, ereditandone incarichi e titoli. Nel 1475 era cappellano ducale e, insieme con Paolo di San Genesio, uno dei confessori di Galeazzo Maria. Per intercessione sforzesca, quell’anno ottenne la cattedra episcopale di Tortona e il 14 genn. 1476, in occasione del compleanno del duca, fu nominato vescovo di Piacenza, sedi in cui subentrò allo zio, morto nell’ottobre 1475. La giovane età, la stretta familiarità con il duca, di certo avvantaggiatasi della relazione di Galeazzo Maria con la cugina del M., Lucia, e la carriera fulminea indussero i contemporanei a dubitare che egli «ne ab auro perventum sit ad ferrum» (Raulich, p. 6). L’opinione fu immediatamente smentita dai fatti, perché il M. si impegnò in una potente e scomoda campagna di moralizzazione dei costumi religiosi del clero di Piacenza e in una strenua difesa delle prerogative giurisdizionali ecclesiastiche, anche e soprattutto contro le ingerenze laiche, comprese quelle sforzesche.

In una supplica rivolta ai duchi Bona di Savoia e Gian Galeazzo Maria Sforza, il M. denunciò il comportamento corrotto dell’economo dell’episcopato piacentino, un laico da loro nominato, rammentando che questi incarichi non erano «competenti a laici, secondo le constitutione de sacri canoni, anzi più presto – dato casu – sono officii de Ecclesia et cum hoc sit che se dimandano custode et conservatores de essi beni, non consumatori et dissipatori», tanto più considerando le condizioni in cui aveva trovato la diocesi, dove si era perpetrato «uno mezo sacomano» (Arch. di Stato di Milano, Autografi, cart. 47, f. 12, 1478 circa). Lo stato di permanente e violenta ribellione del clero piacentino, favorito dalla debolezza del governo di reggenza milanese, andò ulteriormente degenerando in oltraggiose azioni di guerriglia urbana: nell’autunno del 1483 bande di 40-50 persone, guidate da preti ribelli, assaltavano le sedi degli enti religiosi, rubavano, assassinavano e saccheggiavano impunemente, entrando e uscendo dalle mura a loro piacimento, avendole smantellate in più punti. Erano giunti persino ad assaltare il vescovado, talmente numerosi che, se il M. non avesse potuto disporre di propri armati, sarebbe stato «amazato […] cum tuta la mia brigata et asacomanato lo episcopato. Et tanto fu lo excesso grande che me fu forza fare sonare la campana […], quale fu casone che quisti ribaldi habandonarono la impressa per la moltitudine de li citadini che corsero in socorso» (ibid., 16 ott. 1483).

L’opera di riforma dei costumi del clero locale – intrapresa sul fronte ecclesiastico con la convocazione di frequenti sinodi (dieci in trent’anni) e la consacrazione di nuove chiese (collegiata di Cortemaggiore, collegiata di Fiorenzuola) – fu sostenuta da una sistematica azione di recupero dei beni della diocesi, perseguita con grande tenacia a dispetto delle lungaggini giudiziarie e delle minacce, anche fisiche, portategli dagli avversari, spesso appartenenti a potenti consorterie. È lo stesso M. a darne ripetute testimonianze: così, nel 1481 scrisse al duca Gian Galeazzo Maria di come, in seguito alla confisca del feudo che detenevano i fratelli Giovanni e Francesco Arcelli, notai di Piacenza, contasse di poter finalmente vivere in pace, dopo aver speso cinque anni in controversie continue «et periculo più volte de la vita». Con l’assunzione nella Cancelleria ducale di Niccolò Gambarelli, già procuratore degli Arcelli, il M. temeva nuove ritorsioni, nonostante, grazie alla sua intercessione, un fratello di Gambarelli avesse potuto studiare, godendo dell’ospitalità del collegio Castiglioni a Pavia. Non ritenendo che il duca avesse assunto Gambarelli per favorire interessi privati, si permise di rammentare che costui si era già segnalato come «persecutore de chiese et de lor beni, como quello ha pochi altri beni, se non de chiese» e «volendo favorezare li soy simili cum sue astutie, li fece havere la gratia da Orfeo [Cenni da Ricavo] al qualle forno dati de molti ducati e la Camera remase in tuto defraudata» (ibid., 4 genn. 1481). La palese riprovazione del M. nei confronti dei profittatori dei beni ecclesiastici non risparmiò neppure due dei principali puntelli del potere ducale, il primo segretario Cicco Simonetta e Orfeo Cenni da Ricavo, all’indomani della loro caduta in disgrazia, decretata dall’ascesa politica di Ludovico Sforza, detto il Moro: nel settembre 1479 il M. ricordava che «el tavernaro d’Orpheo da Richavo, como quello presumptuoso bufalo et che se stimava duca de Milano» avesse goduto dei beni del suo vescovato nel territorio di Fiorenzuola, senza mai esserne investito, ma «insiema cum il Co’ de manzo de Cicho, menazaveno de mandarme in Corsica» (ibid., 13 sett. 1479).

L’intransigente senso di giustizia del M. non arretrò, complice anche l’intrinseca debolezza del governo di reggenza, neppure innanzi alla richiesta di grazia espressa dal duca Gian Galeazzo nei confronti di un laico reo di sacrilegio: così rifiutò di intercedere in favore del magnifico Cristoforo Tornaro, condannato per avere picchiato a sangue, in un luogo sacro, un barbiere. Un rigore che, per altro canto, lo portò a non sottrarsi a quelli che riteneva gli obblighi legittimi da assolvere nei confronti del potere ducale, come il versamento, richiesto nel 1479, della tassa dell’inquinto sui beni immobili dell’episcopato e degli enti religiosi del Piacentino. La solerzia nella riscossione gli procurò reiterate accuse di esosità fiscale mossegli nel 1497 dal clero piacentino, tortonese e dal monastero di S. Savino di Piacenza. Il M. si difese allora ricordando che i finanziamenti riscossi per conto del duca e del pontefice non contribuivano alle spese di mantenimento dell’episcopato, per cui si era visto costretto a imporre un ulteriore prelievo, dovendo anche saldare parte del debito lasciato da suo zio Michele per il vescovato di Tortona, in occasione del sussidio del 1467.

Uomo raffinato e colto, come sottolinea il Muratori definendolo «vir non literis minus quam rerum experientia preclarus» (Raulich, p. 6), il M. amò i libri, che raccolse in una ragguardevole biblioteca, le opere d’arte e gli arredi preziosi, di cui circondò se stesso e arricchì le chiese della sua diocesi. Nel 1480 ammise di avere contratto un debito cospicuo con i monaci di S. Sisto di Piacenza, ai quali aveva commesso la copia di libri liturgici per dotare le chiese cittadine, spogliate di ogni bene in seguito ai ripetuti saccheggi patiti. Ornò la cattedrale cittadina con le pregiate tappezzerie di suo zio, tanto sontuose da attirare l’attenzione del duca Gian Galeazzo Maria che, nel 1484, le pretese in prestito per arredare gli appartamenti dei suoi ospiti illustri. Il M. fu peraltro autore di una breve cronaca dei vescovi di Piacenza, la Chronica episcoporum Placentinorum (in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XVI, Mediolani 1730, coll. 627-634), continuazione del Chronicon Placentinum di Giovanni de Mussi (ibid., coll. 447-584), e forse di un’opera a carattere liturgico per il clero della sua diocesi, oggi peraltro irriperibile. Non è invece opera sua la miscellanea di cronache milanesi note con il nome di El Valison, che a lungo gli fu ascritta, ma una copia della quale gli apparteneva soltanto, insieme con una copia del De remediis utriusque fortunae di Petrarca. Nel 1476 commissionò a Cristoforo de Predis le miniature di un Antifonario, donato poi, nel 1500, al santuario del S. Monte di Varese.

Il 17 ag. 1482, insieme col protonotario apostolico Ibletto Fieschi, già acerrimo nemico dello zio, il M. fu nominato consigliere segreto. S’intendeva così favorirne, come era accaduto con Michele, l’inserimento politico nella Curia romana, ma anche consentirgli di compiere, investito di maggior prestigio, delicate missioni diplomatiche, principalmente nel Ducato di Ferrara, a Firenze, nel Marchesato di Monferrato. Nel 1491 accompagnò Anna Sforza alla corte estense, dove si sarebbero celebrate le nozze della figlia di Galeazzo Maria con Alfonso d’Este, futuro duca di Ferrara.

Fedelissimo partigiano di Ludovico il Moro, il M. era chiamato a trascorrere le festività natalizie alla corte milanese e si adoperò strenuamente per conservare il Ducato allo Sforza contro le mire francesi, anche facendo spiare e riferendo le mosse dei nemici. Il 10 luglio 1495 si premurò di informare il Moro che, a causa dell’ingrossamento del fiume Trebbia, l’esercito francese aveva dovuto accamparsi, sottolineando quanto i Transalpini risultassero avversati in ragione dei loro «cativi deportamenti», mentre Gian Giacomo Trivulzio era biasimato per aver «posto la patria ad focho et fiama» per pura ambizione (Arch. di Stato di Milano, Autografi, cart. 47, f. 12). Nel 1498, nonostante la grande sofferenza procuratagli da un attacco di gotta che lo immobilizzava, il M. si fece condurre a Milano, dove il duca lo attendeva per avviare le pratiche volte a ottenergli la necessaria dispensa pontificia e procedere all’acquisizione del terreno a vigna, di proprietà del monastero di S. Vittore, in Porta Vercellina: dell’appezzamento, 16 pertiche erano destinate in dono a Leonardo da Vinci, che in una registrazione del 26 apr. 1499 viene definito «pictoris celeberrimi virtute nulli veterum pictorum» (Ibid., Governatore degli Statuti [Panigarola], cart. 15, cc. 182v-183r), e il restante a essere trasformato in un quartiere elegante, per i funzionari e i notabili ducali, attraversato da una strada nuova (corrispondente all’attuale via S. Vittore).

Dedizione alla famiglia d’origine e alla dinastia sforzesca si fusero quando, nel 1497, il M. fu incaricato da Ludovico il Moro di operare presso il clero locale per favorire il pacifico insediamento a Lodi del nuovo vescovo, il giovanissimo Ottaviano Maria Sforza, parente di entrambi in quanto figlio della relazione adulterina del defunto duca Galeazzo Maria con Lucia Marliani. Di lì a breve, la fedeltà al Moro sarebbe costata cara al M. che, il 17 giugno 1501, per ordine di Luigi XII d’Orléans, nuovo signore di Milano, fu incarcerato nel castello di Porta Giovia sotto false accuse. Liberato soltanto sei mesi dopo, il 12 novembre tornò a Piacenza per proseguire nella sua attività pastorale, protrattasi per altri sette anni.

Il M. morì a Milano nel 1508 e la sua salma, traslata a Piacenza il 30 luglio di quell’anno, fu tumulata nella cattedrale, vicino all’altare di S. Anna.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Autografi, cartt. 47, f. 12; 51, f. 10; Governatore degli Statuti (Panigarola), cart. 15; G. Sitoni di Scozia, Theatrum equestris nobilitatis secundae Romae seu Chronicon insignis Collegii, Mediolani 1706, p. 3; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, II, Venetiis 1717, pp. 232 s.; F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, Mediolani 1745, II, p. 865; I. Raulich, La cronaca Valison e il suo autore, in Riv. stor. italiana, VIII (1891), pp. 5-11; F. Novati, recensione a M. Vattasso, I codici petrarcheschi della Biblioteca Vaticana, in Arch. stor. lombardo, XXXVI (1909), vol. 2, p. 238; C. Santoro, Gli uffici del dominio sforzesco (1450-1500), Milano 1948, p. 20; L. Samarati, I vescovi di Lodi, Milano 1965, pp. 192-194; M. La Rosa, Realtà e immagine della città di Ludovico il Moro, in Ludovico il Moro. La sua città e la sua corte (1480-1499), Milano 1983, p. 77; A. Osimo, Bramante, Leonardo e gli altri, ibid., p. 92; M.T. Liuzzo, El Valison di F. M., in Novarien, XXII (1992), pp. 197-244; F.M. Vaglienti, «Fidelissimi Servitori de Consilio suo Secreto». Struttura e organizzazione del Consiglio segreto nei primi anni del ducato di Galeazzo Maria Sforza (1466-1469), in Nuova Riv. storica, LXXVI (1992), p. 681; G. Lubkin, A Renaissance court. Milan under Galeazzo Maria Sforza, Berkeley-Los Angeles-London 1994, pp. 225, 265, 336; M.A. Casagrande, Per la biblioteca di F. M., vescovo di Piacenza (1476-1508), in Libri & documenti, XXIII (1997), 1-3, pp. 59-72; Hierarchia catholica, II, pp. 216, 239, 247.