Fallimento. Presupposti

Diritto on line (2012)

Concetto Costa

Abstract

Vengono esaminati i presupposti per la dichiarazione di fallimento, così come rielaborati dal d.lgs. 9.1.2006, n. 5 (legge di riforma organica del fallimento) e dal d.lgs. 12.9.2007, n. 169 (successivo decreto correttivo) alla luce delle più recenti decisioni giurisprudenziali, e con cenni anche al problema del fallimento dell’impresa cessata e del fallimento dell’imprenditore defunto.

1. Premessa

Il fallimento è una procedura concorsuale liquidatoria che riguarda solo alcune categorie di soggetti, in particolare gli imprenditori commerciali (art. 1 l. fall.), che si trovino in stato di insolvenza (art. 5 l. fall.). Non tutti gli imprenditori commerciali, poi, sono soggetti al fallimento, ma solo quelli al di sopra di certi limiti dimensionali (art. 1 l. fall.). Sono altresì esclusi gli enti pubblici (art. 1 l. fall.) e gli imprenditori soggetti ad altre procedure concorsuali, in particolare alla liquidazione coatta amministrativa (art. 5 l. fall.).

Una ipotesi particolare è costituita dalle imprese per le quali la legge ammette sia la procedura di liquidazione coatta amministrativa sia quella di fallimento (art. 2, co. 3, l. fall.). In tal caso l’eventuale conflitto tra le due procedure viene risolto con il criterio della prevalenza della procedura avviata per prima (art. 196 l. fall.). Va altresì segnalato che l’imprenditore soggetto al fallimento se supera i parametri previsti dall’art. 2 del d.lgs 8.7.1999, n. 270, relativamente al numero di dipendenti ed alla esposizione debitoria, non viene sottoposto alla procedura di fallimento, ma a quella di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, previo accertamento dello stato di insolvenza e delle concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali. Anche per tali imprese, però, verrà dichiarato il fallimento qualora si accerti che non sussistono tali prospettive di recupero (art. 30, d.lgs. 8.7.1999, n. 270) o qualora, aperta la procedura di amministrazione straordinaria, in qualsiasi momento risulti che tale procedura non possa essere utilmente proseguita (art. 69, d.lgs. n. 270/1999).

Durante i lavori preparatori della riforma della legge fallimentare, riforma entrata in vigore nel luglio 2006, si è a lungo discusso dell’opportunità di assoggettare alla procedura fallimentare anche l’imprenditore agricolo, o persino il debitore civile. La soluzione finale accolta dal legislatore della riforma è però rimasta nel solco della tradizione italiana, che, formatasi già al tempo degli Statuti comunali, e transitata dal codice di commercio del 1882, è stata confermata sia dalla legge fallimentare del 1942, sia dalla attuale riforma. Soluzione, questa, che peraltro desta in molti non poche perplessità, sia per le dimensioni ed il significativo ricorso al credito di numerose imprese agricole, sia per la diversa soluzione oggi accolta in altri Stati, anche dell’Unione europea.

Va infine segnalato che si ritengono soggette al fallimento anche le fondazioni che svolgono attività di impresa commerciale (sul noto “caso San Raffaele” che ha dato luogo ad un concordato preventivo si è pronunziato Trib. Milano, decr. 28.10.2011, in Fallimento, 2012, 1, 78; in precedenza Trib. Alba, 25.3.2009, in Guida dir., 2009, 23, 62).

2. Il presupposto soggettivo

Il secondo comma dell’art. 1 l. fall., così come modificato dal d.lgs. 9.1.2006, n. 5 (legge di riforma del fallimento) e dal d.lgs. 12.9.2007, n. 169 (successivo decreto correttivo), stabilisce dei parametri quantitativi ai fini della individuazione dell’imprenditore sottoponibile a fallimento.

Va subito rilevato che la norma non utilizza volutamente la tradizionale espressione «piccolo imprenditore», ma utilizza la nuova terminologia di «imprenditori non sottoposti al fallimento». Ciò è facilmente spiegabile in base alla storia dell’art. 1 l. fall. ed alla genesi della nuova disciplina. L’art. 1 della legge fallimentare del 1942 escludeva i piccoli imprenditori dall’ambito dei soggetti sottoposti al fallimento, e ciò per l’ovvia considerazione che la procedura di fallimento, con i suoi costi e la sua complessa organizzazione, appariva, come appare ancor oggi, inadeguata alla gestione della crisi delle piccole imprese, in relazione alle quali la tutela e la realizzazione del credito può meglio essere effettuata tramite lo strumento dell’esecuzione civile di cui al codice di procedura civile. Ai fini dell’individuazione del piccolo imprenditore venivano poi individuati due parametri, uno di carattere fiscale (il minimo imponibile dell’imposta di ricchezza mobile), l’altro quantitativo (capitale investito pari a lire 900.000). Il primo criterio venne meno già nel 1973 con la riforma tributaria, che abolì l’imposta di ricchezza mobile; il secondo, divenuto esiguo a seguito della svalutazione monetaria, venne dichiarato incostituzionale nel 1989 (C. cost., 22.12.1989, n. 570), ma era già di fatto da tempo disapplicato da numerosi tribunali. Considerato, a questo punto, che anche l’art. 2221 c.c. prevedeva che non fossero soggetti al fallimento ed al concordato preventivo i piccoli imprenditori, e che l’art. 2083 c.c. conteneva l’unica definizione di piccolo imprenditore presente nel nostro ordinamento, il criterio ivi indicato, quello della «prevalenza del lavoro proprio e della propria famiglia» sul lavoro altrui e sul capitale investito, è stato quello utilizzato, sino alla riforma del 2006, dai tribunali fallimentari per individuare la «soglia minima» di fallibilità dell’imprenditore commerciale. Con la conseguenza di generare da un canto una assoluta disomogeneità di comportamenti tra i vari tribunali, vista la genericità della formulazione dell’art. 2083 c.c., ma soprattutto di causare, dall’altro, la dichiarazione di fallimento di imprese di piccole dimensioni, fallimenti quindi antieconomici e spesso assolutamente inutili. Da qui l’esigenza del legislatore della riforma di sganciare definitivamente i presupposti di fallibilità dall’art. 2083 c.c., dettando criteri certi, omogenei e di facile applicabilità, esigenza che si è concretizzata anche nell’abbandono dell’utilizzo della tradizionale espressione «piccolo imprenditore». È rimasto peraltro aperto un problema: l’art. 2221 c.c. che prevede la non assoggettabilità al fallimento del «piccolo imprenditore» non è stato abrogato, con la conseguenza che ci si è chiesti se, a seguito della riforma, anche il vecchio criterio sia rimasto in vita, in aggiunta a quello nuovo di carattere quantitativo. Il problema, peraltro, appare di scarsa rilevanza pratica, in quanto le nuove soglie di fallibilità, come si vedrà, sono abbastanza elevate, e tali da ricomprendere abbondantemente ogni ipotizzabile figura di «piccolo imprenditore» ai sensi dell’art. 2083 c.c.

3. I parametri quantitativi

L’art. 1, co. 2 e 3, l. fall. stabilisce che «Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti tre requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della Giustizia sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento». Nessuno dei suddetti limiti, quindi, deve essere stato superato dall’impresa in crisi per essere ritenuta non fallibile. L’attuale formulazione della norma è quella introdotta dal d.lgs. 12.9.2007, n. 169 (cd. decreto correttivo), a modifica dell’originaria formulazione, che aveva dato luogo a critiche ed a numerosi dubbi interpretativi, di cui al d.lgs. 9.1.2006, n. 5.

Passando ad esaminare nello specifico i tre criteri, ed in particolare quello dell’attivo patrimoniale (lett. a), va sottolineato che il legislatore fa riferimento ad un parametro preciso che, secondo le scienze aziendalistiche, è identificabile nell’attivo dello stato patrimoniale di cui all’art. 2424 c.c. (immobilizzazioni ed attivo circolante). Il suddetto attivo di bilancio non deve superare l’ammontare complessivo annuo di euro trecentomila (si riporta all’attivo dello stato patrimoniale anche Cass., 29.7.2009, n. 17553). È stato osservato peraltro che sovente l’attivo di bilancio, essendo valutato in base ai criteri prudenziali previsti dalla legge, potrebbe notevolmente discostarsi dall’attivo reale, cioè dal valore reale dei beni ricompresi nell’attivo, concludendosi che nel caso di macroscopica discordanza tra valori di bilancio e valore di mercato di alcuni beni dell’attivo dovrebbe accedersi ad una valutazione sostanziale dell’attivo ai fini del riscontro della presenza o meno del requisito (Sandulli, M., Le dimensioni dell’imprenditore, in Le procedure concorsuali, a cura di A. Caiafa, Padova, 2011, I, 11). Discusso è inoltre se vadano computati nell’attivo patrimoniale i beni in leasing, e la tesi affermativa è quella che appare prevalere in giurisprudenza (Trib. Terni, 4.7.2011, in Fallimento, 2011, 12, 1427). Non sembra invece che debba tenersi conto dei ratei e dei risconti, vista la loro particolare natura (App. Brescia, 21.2.2007, in Giur. it., 2007, 2224).

Mentre il parametro dell’attivo patrimoniale è maggiormente inerente alla finalità dell’accertamento della presenza nell’impresa insolvente di un attivo patrimoniale tale da giustificare l’avvio di una procedura fallimentare, per quanto riguarda invece i ricavi lordi, l’accertamento della presenza di questo parametro attiene in prevalenza alla necessità di riservare la procedura fallimentare ad imprese che abbiano una certa rilevanza nel mercato, risultando invece tale parametro neutro dal primo punto di vista. Anche qui il legislatore si è rifatto ad un concetto della dottrina aziendalistica, identificabile in linea generale con i dati di conto economico di cui all’art. 2425 c.c. La nozione di ricavi lordi non coincide necessariamente con il fatturato, consistendo nei ricavi ordinari generati dall’attività d’impresa in ciascun esercizio di riferimento secondo il criterio di competenza. Non dovrebbe pertanto tenersi conto di eventuali ricavi straordinari realizzati in un particolare esercizio a causa, ad esempio, dell’alienazione di cespiti ed immobilizzazioni non rientranti nella tipica attività d’impresa. Va altresì sottolineato che la legge, proprio perché il parametro tende a valutare le dimensioni dell’impresa nel mercato, si riferisce ai ricavi lordi, e quindi non depurati dai costi, sia generali dell’impresa che attinenti alla specifica operazione. In ciascun singolo esercizio del triennio non bisogna, pertanto, aver realizzato ricavi lordi superiori ad euro duecentomila. Poco comprensibile appare infine l’espressione «in qualunque modo risulti», probabile refuso della precedente formulazione, espressione che può avere un senso solo in riferimento ai poteri di accertamento del tribunale fallimentare, in un sistema ove peraltro l’onere della prova, come vedremo, grava sul debitore insolvente.

Il terzo criterio, quello della esposizione debitoria, non presente nella formulazione precedente, è stato introdotto dal d. lgs. 12.9.2007, n. 169 (cd. decreto correttivo), in base alla considerazione che per valutare le ridotte dimensioni dell’impresa ai fini della fallibilità non è sufficiente il dato patrimoniale positivo dei ricavi lordi, ma è necessario il dato dell’indebitamento, potendo certamente ipotizzarsi che una impresa commerciale, pur priva nel triennio precedente di ricavi significativi, abbia dimensioni rilevanti desumibili da un significativo indebitamento (situazione certamente presente con frequenza nelle imprese in crisi). Va rilevato che, mentre per i due requisiti precedenti si fa riferimento al dato storico del triennio precedente, il requisito dell’indebitamento va valutato al momento della dichiarazione di fallimento, in sede di istruttoria prefallimentare. La legge fa riferimento ai debiti, anche non scaduti, per un importo globale non superiore ad euro cinquecentomila. Si tratta manifestamente dei debiti certi e liquidi, anche se non scaduti. Discusso è invece se possano rientrarvi debiti condizionali e garanzie, che costituiscono solo debiti potenziali (in senso negativo Sandulli, M., Le dimensioni dell’imprenditore, cit., 14; ma in senso affermativo ora Cass., 4.5. 2011, n. 9760).

In ordine alla fase di accertamento della ricorrenza del presupposto soggettivo la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che i parametri dimensionali sono in linea generale desumibili dai dati contabili dell’impresa insolvente, dati che però non assumono valore di prova legale, né introducono una limitazione all’assunzione e valutazione delle prove nel corso dell’istruttoria prefallimentare, all’esito della quale è possibile procedere ad una loro rettifica ed integrazione, essendo scopo della norma quello di accertare le dimensioni reali ed effettive dell’impresa insolvente (Trib. Terni, 4.7.2011, in Fallimento, 2011, 12, 1427).

Qualche problema si pone poi in ordine alla individuazione dei parametri quantitativi nell’ipotesi in cui l’imprenditore insolvente sia un imprenditore individuale. Mentre, infatti, le società esauriscono il loro patrimonio, attivo e passivo, nei rapporti aziendali, e solo in relazione ad esso va valutata la presenza o meno dei requisiti di fallibilità, gli imprenditori individuali hanno un patrimonio anche estraneo ed ulteriore a quello tipicamente riconducibile all’attività d’impresa, patrimonio personale che peraltro viene anch’esso coinvolto nella procedura fallimentare. Il problema consiste ovviamente nello stabilire se i suddetti criteri vadano applicati all’intero patrimonio dell’imprenditore, o solo a quello destinato all’esercizio dell’impresa. Si ritiene che i tre criteri, con esclusione forse solo di quello dei ricavi lordi, vadano applicati all’intero patrimonio dell’imprenditore individuale (Sandulli, M., Le dimensioni dell’imprenditore, cit., 9). A favore di tale soluzione militano sia la considerazione che in caso di fallimento è l’intero patrimonio dell’imprenditore a venire sottoposto all’esecuzione collettiva, sia l’art. 2217 c.c., che prevede che nel bilancio annuale dell’imprenditore individuale siano indicate anche le attività e passività extra-aziendali, in forza del principio della unicità del patrimonio ai fini della responsabilità patrimoniale generale di cui all’art. 2740 c.c. Non sembra invece che debba computarsi, ai fini della fallibilità delle società di persone, il patrimonio attivo e passivo dei soci illimitatamente responsabili, per via sia della autonoma soggettività della società, sia della sussidiarietà della responsabilità dei soci, anche se qualche dubbio potrebbe avanzarsi in ordine al criterio dell’attivo patrimoniale, che, per quanto pensato in relazione all’attività di impresa, ha sostanzialmente la funzione, come si è già detto, di costituire un importante indice della utilità della futura procedura fallimentare, nella quale i patrimoni dei soci verranno anch’essi coinvolti.

Un profilo molto importante è infine quello dell’onere della prova. Dopo un breve ma intenso travaglio giurisprudenziale sul punto, il d.lgs. 169/2007 (decreto correttivo) nel riformulare l’art. 1 l. fall. ha stabilito che non sono soggetti al fallimento gli imprenditori commerciali che dimostrino il possesso congiunto dei tre requisiti di non fallibilità, così facendo gravare l’onere della prova sull’imprenditore insolvente (norma ritenuta costituzionalmente legittima da C. cost., 1.7.2009, n. 198). A tale soluzione era già pervenuta la giurisprudenza prevalente in base al cosiddetto principio della “prossimità della prova”, apparendo incongruo e troppo gravoso far carico al creditore di dare dimostrazione della fallibilità del debitore, cosa sovente possibile solo in base a documentazione di cui il creditore non è normalmente in possesso. Il debitore che voglia evitare di fallire ha quindi l’onere di dimostrare documentalmente di trovarsi al di sotto dei tre parametri previsti dalla legge (ad esempio producendo in sede di istruttoria prefallimentare bilanci, registri IVA, documentazione contabile, ecc.: cfr. Cass., 31.5.2011, n. 12023). Ciò ha peraltro comportato in un primo momento l’effetto negativo, e contrario allo scopo della riforma di evitare fallimenti improduttivi, della dichiarazione di fallimento di tutti quegli imprenditori che, per quanto non fallibili in astratto, non hanno voluto o potuto resistere in sede prefallimentare, con il conseguente incremento del numero dei fallimenti. Da ciò l’orientamento dei tribunali, avallato in motivazione da una recente pronunzia della Corte costituzionale (ord. 1.7.2009, n. 198), secondo il quale la mancata o insufficiente difesa da parte del debitore non esclude che il tribunale, in sede di istruttoria prefallimentare, possa utilizzare i suoi poteri di accertamento d’ufficio per valutare la ricorrenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento.

4. Il presupposto oggettivo

L’art. 5 l. fall. si occupa del presupposto oggettivo del fallimento, stabilendo che «[l]’imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito», ed al secondo comma precisa che «[l]o stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni». Presupposto oggettivo del fallimento è quindi una generale situazione di difficoltà economica riguardante l’impresa, che genera l’impossibilità di far fronte regolarmente, quindi con modalità e tempi fisiologici, alle obbligazioni assunte, indipendentemente dai motivi che l’hanno generata. Pur non essendo esplicitamente previsto dalla legge, si ritiene comunque che tale situazione non debba essere momentanea e transitoria, ma che debba consistere in una condizione ormai patologica dell’impresa, tale da non consentirle di onorare le obbligazioni assunte con mezzi ordinari (Capo, G., I presupposti del fallimento, in Fallimento ed altre procedure concorsuali, Trattato diretto da G. Fauceglia e L. Panzani, Torino, 2009, 1, 63; Cass., S.U., 13.3.2001, n. 115). Da tal punto di vista l’insolvenza nel fallimento si distingue, consistendo in uno status da valutare in termini prospettici e dinamici, dall’insolvenza di cui al diritto generale delle obbligazioni.

L’insolvenza dell’imprenditore, ai fini del fallimento, si presenta inoltre quando si versa in una situazione di crisi finanziaria, indipendentemente dalla consistenza del patrimonio dell’imprenditore medesimo. Ciò che rileva è che l’imprenditore non sia più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. A nulla rileva che il patrimonio sia superiore alla esposizione debitoria, in quanto il patrimonio potrebbe essere altrimenti impegnato o non facilmente liquidabile.

Che l’insolvenza di cui all’art. 5 l. fall. consista in uno status dell’imprenditore è confermato dal fatto che la legge parla di «inadempimenti o altri fatti esteriori», con ciò evidenziando che gli inadempimenti non sono l’essenza stessa dell’insolvenza, ma uno degli indici sintomatici di essa, che può rilevarsi anche da «altri fatti esteriori».

In particolare, poi, non è detto che degli inadempimenti comportino necessariamente l’insolvenza, potendo l’imprenditore non aver onorato il debito volontariamente, ad esempio perché trattasi di debito contestato, prescritto o estinto per compensazione. In altre parole, ciò che occorre verificare non è la presenza di inadempimenti, ma la capacità dell’imprenditore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, con mezzi propri o forniti da terzi.

All’inverso, la desistenza del creditore, o comunque la composizione stragiudiziale della singola posizione debitoria, non è detto che faccia venire meno l’insolvenza. Venuta a mancare, peraltro, con la riforma, la possibilità di dichiarare il fallimento d’ufficio, in tal caso il tribunale dovrebbe segnalare l’insolvenza al pubblico ministero (art. 7 l. fall.).

Per quanto riguarda gli «altri fatti esteriori» una prima casistica è data dall’art. 7 l. fall., relativo al potere del pubblico ministero di proporre l’istanza di fallimento, ove risultano menzionati fuga, irreperibilità, latitanza dell’imprenditore, chiusura dell’impresa, trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo. Ad essi si aggiungono poi altri indici ben noti alla prassi fallimentare, come la presenza di numerosi protesti o di procedure esecutive, una esposizione debitoria eccedente eccessivamente l’attivo, la revoca dei fidi bancari (secondo Trib. Monza, 26.3.2011, in Riv. dott. comm., 2011, 2, 431, indici potrebbero anche ricavarsi in seno alla prova dei requisiti di cui al secondo comma dell’art. 1 l. fall.). Va altresì ricordato che la giurisprudenza ritiene rilevanti per la prova dello stato di insolvenza, ma ovviamente a posteriori ed in sede di una eventuale opposizione alla dichiarazione di fallimento, le risultanze della verifica dello stato passivo (da ultimo Cass., 4.5.2011, n. 9760). Particolare carattere assume poi l’accertamento dello stato di insolvenza nelle società in liquidazione, perché qui l’attività di accertamento deve essere diretta a verificare se gli elementi attivi del patrimonio consentano di assicurare l’integrale soddisfazione dei creditori, non potendo richiedersi che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (Cass., 14.10.2009, n. 21834).

Si discute infine se vada ricompresa nell’ambito del presupposto oggettivo, o comunque in genere dei presupposti del fallimento, la regola, contenuta nell’art. 15 l. fall., secondo la quale non può darsi luogo alla dichiarazione di fallimento se nel corso dell’istruttoria prefallimentare emerga che l’esposizione dell’imprenditore, per debiti scaduti e non pagati, non raggiunge il limite di trentamila euro. Questa norma, manifestamente dettata al fine di evitare fallimenti «inutili», sembra peraltro costituire una condizione procedurale, e non di carattere sostanziale, della dichiarazione di fallimento (così Ferri, G. jr., In tema di piccola impresa tra codice civile e legge fallimentare, in Riv. dir. comm., 2007, I, 753).

5. Cessazione dell’impresa e fallimento

Se da un canto vi è la necessità di tutelare i creditori a fronte del tentativo del debitore di evitare il fallimento cessando l’attività d’impresa, dall’altro vi è la necessità della certezza dei rapporti giuridici, che impone che il fallimento possa venire dichiarato solo entro certi limiti temporali ben definiti.

Una sintesi tra questi due opposti interessi è data dall’art. 10 l. fall., secondo il quale «[g]li imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo».

A differenza quindi del regime precedente, il legislatore della riforma ha voluto legare il termine iniziale del decorso dell’anno non ad un generico momento sostanziale di cessazione dell’attività, ma ad un dato formale certo quale è la cancellazione dal registro delle imprese, ponendo così fine al clima di incertezza in precedenza imperante in ordine ai limiti temporali di fallibilità, specie per le società.

In particolare, dal punto di vista processuale e nell’ipotesi di fallimento successivo alla cancellazione dal registro delle imprese, mentre per quanto riguarda l’imprenditore individuale il contraddittore naturale nella fase prefallimentare e nelle fasi successive è il medesimo imprenditore, per quanto riguarda le società è l’ultimo amministratore o liquidatore in carica, il quale sarebbe anche legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento (Cass., 5.11.2010, n. 22547).

Potrebbe peraltro ben verificarsi che un’impresa prosegua l’attività anche dopo la cancellazione dal registro delle imprese. A tale ipotesi si riferisce il secondo comma dell’art. 10 l. fall., ove si stabilisce che «[i]n caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o il pubblico ministero di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine di cui al primo comma». Questa norma, che tende a far valere la sostanza sulla forma, ha però una diversa applicazione per l’impresa individuale e per le società. Per l’impresa individuale la presunzione di coincidenza tra la data di cancellazione dal registro e quella di cessazione dell’impresa viene meno ogni qual volta si dimostri che l’esercizio dell’impresa è cessato in data successiva, mentre per le società ciò è possibile solo in caso di cancellazione d’ufficio dal registro, mentre nel caso di cancellazione su domanda della società la suddetta presunzione appare insuperabile.

Per le imprese commerciali non iscritte, infine, si discute se esse possano dimostrare la data dell’avvenuta cessazione dell’esercizio dell’impresa, ovvero se esse, pur cessate, restino per sempre esposte al rischio di fallimento, in quanto l’art. 10 l. fall. assumerebbe in sostanza riflessi sanzionatori nei confronti dell’inadempimento degli obblighi di pubblicità legale (Capo, G., I presupposti del fallimento, cit., 52). Nel caso in cui si accedesse alla prima tesi, e si ritenesse possibile dimostrare l’avvenuta cessazione dell’impresa ai fini di far decorrere l’anno, il dies a quo sarebbe da ritenere il momento in cui la cessazione dell’attività è stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, o comunque sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata (Trib. Bari, 10.6.2010, in www.giurisprudenzabarese.it, 2010)

6. Il fallimento dell’imprenditore defunto

L’art. 11 l. fall. stabilisce che «[l]’imprenditore defunto può essere dichiarato fallito quando ricorrono le condizioni stabilite nell’articolo precedente». Il richiamo all’art. 10 l. fall. fa sì che l’imprenditore defunto possa essere dichiarato fallito entro un anno dal decesso, se l’insolvenza si è manifestata prima del decesso medesimo o entro l’anno successivo.

Questa regola, ispirata a garantire l’applicazione delle regole del concorso anche in caso di morte dell’imprenditore, comporta la necessità di adattare le norme della procedura alla ipotesi del tutto peculiare di un fallimento senza imprenditore. Si ritiene, ad esempio, in proposito che nel corso dell’istruttoria prefallimentare, nell’impossibilità di ascoltare il defunto, il tribunale debba convocare l’erede, anche se non è subentrato nell’attività d’impresa (Capo, G., I presupposti del fallimento, cit., 54). È l’erede, inoltre, a poter richiedere al tribunale il fallimento del de cuius (art. 11, co. 2, l. fall.).

Il fallimento dell’imprenditore defunto pone delicati problemi di coordinamento tra la disciplina fallimentare e quella successoria, specie qualora gli eredi abbiano accettato l’eredità prima della dichiarazione di fallimento. Si ritiene comunque che la legge speciale debba prevalere, ed in particolare che la procedura fallimentare debba sostituirsi a quella per beneficio di inventario, mentre in caso di accettazione pura e semplice i patrimoni andranno comunque tenuti divisi, sottoponendosi quello del de cuius al fallimento, mentre il patrimonio dell’erede rimarrebbe separato, ma comunque esposto agli attacchi dei creditori del de cuius. Alla stessa logica è ispirato il terzo comma dell’art. 11 l. fall. secondo il quale «[c]on la dichiarazione di fallimento cessano di diritto gli effetti della separazione dei beni ottenuta dai creditori del defunto a norma del codice civile».

Fonti normative

Artt. 1, 2, 5, 7, 10, 11, l. fall.

Bibliografia essenziale

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