Fausto Socini e i sociniani

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia (2012)

Fausto Socini e i sociniani

Mario Biagioni

Nel corso del Cinquecento le controversie teologiche costituirono spesso il terreno di incontro tra le idee: un caso emblematico è quello di Fausto Socini, una delle figure di maggiore rilievo tra gli esuli italiani che lasciarono la loro terra alla ricerca della libertà religiosa. Stabilitosi a Cracovia, egli divenne il leader della Chiesa antitrinitaria dei Fratelli polacchi, e la sua opera alimentò una tradizione di pensiero che fornì contributi importanti al dibattito culturale dell’età moderna. Nel Seicento il socinianesimo fu considerato come la più pericolosa delle eresie sopravvissute all’età della Riforma e, allo stesso tempo, rappresentò uno degli assi portanti del pensiero critico su tematiche fondamentali, quali la tolleranza, la riflessione etica e politica, il razionalismo.

La vita

Fausto Socini (il cognome originario era Sozzini) nacque a Siena il 5 dicembre 1539 in una famiglia che vantava illustri tradizioni giuridiche. Entrato nell’Accademia degli Intronati con il nome di Frastagliato, coltivò però interessi letterari. Fu attratto assai presto dalle idee della Riforma, come numerosi altri suoi parenti, tra i quali il nonno Mariano, il cugino Dario, gli zii Celso, Cornelio, Camillo e Lelio, e proprio per sfuggire a sospetti inquisitoriali si trasferì a Lione nell’aprile del 1561 (Marchetti 1975). Nel maggio dell’anno successivo lo raggiunse la notizia della morte dello zio Lelio (1525-1562) che, fin dal 1547, dopo essersi avvicinato ai gruppi anabattisti operanti nel Veneto, aveva scelto di dedicarsi allo studio e alla discussione delle questioni teologiche muovendosi tra Ginevra, Wittenberg, Cracovia, Basilea e Zurigo. In quest’ultima città si recò Fausto per raccogliere le carte dello zio, che si rivelarono decisive per la sua riflessione teologica. Tra il 1562 e il 1563 compose infatti la prima opera, dal titolo Explicatio primae partis primi capitis Evangelistae Johannis, nella quale negava il dogma trinitario, dimostrandone il carattere puramente ideologico. In seguito decise di rientrare in Italia, dove svolse per quasi dodici anni attività diplomatica a Roma presso monsignor Serafino Razzali e a Firenze presso Paolo Giordano Orsini e Isabella de’ Medici, simulando le convinzioni religiose con un atteggiamento nicodemitico. Nel frattempo l’Explicatio venne pubblicata anonima in Transilvania nel 1568. Prese la decisione di tornare allo studio dei problemi religiosi e lasciò definitivamente l’Italia verso la fine del 1575. Si diresse a Basilea, dove riallacciò rapporti mai del tutto interrotti con il gruppo di dissidenti raccolti intorno alla stamperia del lucchese Pietro Perna, del quale in passato avevano fatto parte lo zio Lelio, Sebastiano Castellione, Celio Secondo Curione, Bernardino Ochino e altri. Qui entrò subito nel vivo del dibattito teologico con l’autorità di un maestro, e sostenne dispute con il calvinista ginevrino Jacques Covet sulla funzione redentrice di Cristo e con l’esule fiorentino Francesco Pucci sulla natura immortale di Adamo.

Nell’autunno del 1578 lasciò la Svizzera per raggiungere Kolozsvàr in Transilvania (oggi Cluj-Napoca in Romania), invitato da Giorgio Biandrata (1516-1588) che ne chiedeva l’aiuto per contrastare le opinioni dell’antitrinitario radicale Ferencz Dávid. Fausto non riuscì a piegare la resistenza di Dávid e decise allora di stabilirsi a Cracovia in Polonia, dove viveva una nutrita comunità di italiani, per la maggior parte legati alla Ecclesia minor, ossia il ramo antitrinitario della Chiesa riformata dei Fratres Poloni. Rimase in Polonia fino alla morte, per un periodo di circa venticinque anni, e, anche se formalmente non entrò mai a far parte dell’Ecclesia minor a causa del suo rifiuto di sottoporsi a nuovo battesimo, ne divenne alla fine la guida riconosciuta. Fu grazie alla sua attività di esegesi e di controversia che essa superò le divisioni interne e poté resistere agli attacchi dei calvinisti e dei gesuiti.

La vittoria di Socini fu sancita dal sinodo di Lublino del 1593 e dall’uscita di scena, nel 1598, di Marcin Czechowic (1532-1613), l’ultimo a contrastare la sua egemonia. In quello stesso anno, a causa dell’inasprirsi dello scontro con i cattolici, Socini si ritirò nel villaggio di Lusławice, afflitto da problemi di salute ma ancora in grado di partecipare ai sinodi e guidare la Chiesa. Morì il 4 marzo del 1604, lasciando incompiuta la Christianae religionis brevissima institutio, un catechismo antitrinitario che venne poi completato dai suoi discepoli e, noto come catechismo di Raków, costituì il testo di riferimento della teologia sociniana.

La dottrina antitrinitaria

L’antitrinitarismo nel Cinquecento fu una peculiarità della Riforma radicale. Trovò spazio tra gli spiritualisti associandosi alla loro generale ostilità verso il dogmatismo, penetrò nel movimento anabattista in virtù dei risvolti etici e sociali derivanti dall’affermazione dell’umanità di Cristo, giunse a piena maturazione nell’opera di Michele Serveto (Miguel Servet) e poi in quella di Lelio e Fausto Socini, sviluppandosi in forme organizzate in Polonia, Moravia e Transilvania e finendo per rappresentare la terza alternativa protestante al cattolicesimo. In realtà, come affermava con chiarezza il critico testamentario Richard Simon alla fine del 17° sec., il movimento aveva subito una netta frattura proprio in seguito all’interpretazione sociniana del primo capitolo di Giovanni, che risultava estranea al pensiero di Serveto e sconosciuta nell’antichità (Firpo 1977, pp. 13-18; Rotondò 2008, p. 302). Essa venne formulata per la prima volta da Lelio nella Brevis explicatio in primum Iohannis caput, e poi sviluppata dal nipote Fausto nella Explicatio primae partis primi capitis Iohannis. I due testi (l’uno composto nel 1561, l’altro tra il maggio 1562 e il giugno 1563) ebbero una circolazione manoscritta e anonima. La testimonianza più antica su di essi è contenuta nei Dialogi XXX di Ochino (usciti a Basilea nel 1563), che li ritenne versioni diverse della stessa opera. Furono pubblicati, ancora anonimi e a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, in Transilvania nel 1568, a seguito della disputa di Alba Julia che vide il trionfo degli antitrinitari. Il solo testo di Fausto venne poi tradotto in polacco nello stesso anno (Szczucki 1967; A. Rotondò, nota critica a L. Sozzini, Opere, 1986, pp. 347 e segg.).

La dottrina della natura umana di Cristo apparve, sia a Lelio che a Fausto, come il presupposto per avviare l’opera di rimozione delle stratificazioni che il platonismo, ma soprattutto la metafisica aristotelica, avevano depositato sul corpo della dottrina cristiana. La purezza evangelica giaceva sepolta sotto il peso delle ideologie, e per liberarla si rendevano indispensabili strumenti immuni da contaminazioni filosofiche, come lo erano quelli offerti dalla filologia umanistica e già sperimentati da Erasmo da Rotterdam e da Lorenzo Valla. Quest’ultimo, in particolare, aveva messo in luce le conseguenze prodotte dallo slittamento semantico del termine persona, operato da Boezio e poi accentuato dai Padri, verso il significato di substantia, soprattutto sul dogma trinitario. Da questo punto riprendeva il discorso Fausto, secondo le indicazioni contenute nel testo di Lelio. Anche il metodo era lo stesso: osservazioni di natura filologica che muovevano dalla comparazione con altri luoghi neotestamentari e dalla verifica del senso complessivo del testo giovanneo. Egli spogliava il prologo di ogni valore metafisico e lo storicizzava, sostenendo che l’intenzione dell’evangelista era stata semplicemente quella di mostrare come l’uomo risorto dalla morte, e del quale adesso si apprestava a raccontare la vita e la parola, fosse proprio quello stesso Gesù nato da Maria e da lui seguito come un maestro. L’espressione «In principio», con la quale si apre il testo di Giovanni, non indica quindi l’eternità, ma solo il momento nel quale ha avuto inizio la predicazione del Vangelo. E a questa si riferisce la parola verbum o sermo, non a un ente eterno e consustanziale al Padre. Allo stesso modo la parola mundus veniva privata di qualunque risonanza cosmologica. In Giovanni essa ricorre con il significato di insieme degli uomini, non di sistema celeste. Quando egli scrive che «mundus per ipsum factus est» (Giovanni 1, 10), non vuole dire che Cristo ha presieduto alla creazione dell’universo, ma che ha riformato l’umanità parlando ai poveri, consolando gli infermi, mostrando loro la via per salire al Cielo. Lo conferma l’espressione successiva «et mundus eum non cognovit», che altrimenti non avrebbe nessun senso. Rimuovendo l’inganno ideologico dell’eternità del verbo, le parole di Giovanni diventavano chiare e scomparivano le contraddizioni. Dunque Cristo era un uomo, scelto da Dio e reso divino attraverso la resurrezione, perché mostrasse con la parola e l’esempio la via per raggiungere la vita eterna.

Rispetto al testo di Lelio, l’Explicatio di Fausto si presentava come un’opera più articolata e complessa. Il prologo giovanneo era analizzato integralmente fino al versetto 14, laddove Lelio aveva invece concentrato la sua attenzione solo su alcuni luoghi (1-4, 10, 14). Ma soprattutto la parte esegetica era preceduta da una premessa, che attribuiva un significato storico all’intervento cercando di collocarlo nell’alveo di una tradizione, e si chiudeva con un congedo rivolto al lettore, quindi presupponendo un pubblico. Si tratta di elementi che lasciano intendere come Fausto si collocasse già oltre la prospettiva della ricerca individuale della verità e avesse sviluppato la consapevolezza di rivolgersi a una comunità radicale (Marchetti 1999, pp. 85-107).

Una delle conseguenze più rivoluzionarie della dottrina dell’umanità di Cristo risiedeva nella negazione della sacralità del ruolo del pontefice e delle gerarchie ecclesiastiche, che giustificava una pratica religiosa incardinata sull’imitazione di Cristo anziché su riti e sacramenti. Anche per questi motivi l’antitrinitarismo, ancora prima dell’Explicatio sociniana, aveva trovato consensi presso le comunità anabattiste, nelle quali Lelio aveva probabilmente compiuto le prime esperienze eterodosse. Il vero Christus pauper era contrapposto al falso Cristo dei potenti: uno era l’uomo nato in povertà e disprezzato, che si mescola ai diseredati; l’altro era l’ente eterno dei trinitari, invenzione dei pontefici e dei re per giustificare il loro dominio, le decime, le vessazioni. Si tratta di un risvolto appena accennato nell’Explicatio, ma che fu sviluppato da Biandrata nella Antithesis pseudochristi cum vero illo ex Maria nato, pubblicata in Transilvania nel 1568, e che si pose alla base di una delle questioni più complesse nel campo della dottrina sociale alle quali dovette fare fronte Fausto Socini nelle sue controversie in Polonia.

La dottrina antimetafisica della redenzione

La negazione dell’esistenza ab aeterno di Cristo rappresentò il primo passo del percorso verso la rimozione dal pensiero cristiano delle strutture metafisiche della scolastica. Dopo il silenzio dei dodici anni trascorsi in Italia, Fausto riprese l’opera senza esitazione con altri principi fondamentali posti al centro del dibattito teologico della Riforma. Tra il 1575 e il 1578 a Basilea egli si concentrò sul problema della redenzione e su quello del peccato originale, giungendo a soluzioni che rivoluzionavano l’escatologia cristiana. Ne nacquero due opere, stampate solo più tardi, ma da subito affidate alla circolazione manoscritta e destinate a sollevare discussioni. Si tratta, rispettivamente, della Disputatio de Jesu Christo servatore, pubblicata in Polonia nel 1594, e della De statu primi hominis ante lapsum disputatio, pubblicata postuma a Raków nel 1610.

L’occasione per affrontare il problema della redenzione venne offerta a Socini dalle critiche avanzate da Covet, di passaggio a Basilea nel 1577, contro l’interpretazione del sacrificio di Cristo che egli andava diffondendo in città durante incontri e discussioni.

In effetti la posizione di Socini, così come emerge dalle pagine del De Jesu Christo servatore, era alternativa a quella di qualunque teologia cristiana, perché negava il valore metafisico della morte di Gesù sulla croce. Il sacrificio di Cristo non rappresenta il pegno necessario per redimere l’umanità dalla condizione di peccato dopo la disubbidienza di Adamo e per stabilire una nuova alleanza tra Dio e gli uomini. Sarebbe un Dio sanguinario quello che trova soddisfazione alla sua giustizia nella morte del proprio figlio. Inoltre, non esiste nessun peccato che si trasmetta di generazione in generazione a prescindere dalla responsabilità dei singoli. Cristo è il salvatore perché ha indicato agli uomini, attraverso la parola e l’esempio della sua vita, quale fosse la via per giungere al regno eterno, e con la resurrezione ha mostrato che «vitam aeternam nobis ei fidem habentibus ipse daturus sit» (Opera omnia, rist. anast. dell’ed. Irenopoli 1656, introduzione e sommari di E. Scribano, 2° vol., 2004, p. 121). La vita eterna è il dono che spetta a coloro che hanno fede in lui, credono nella sua parola, ne imitano l’esempio. In questo modo Socini forniva una ragione teologica alla pratica devozionale dell’imitatio Christi e al tentativo di restaurare la purezza della Chiesa apostolica che aveva attraversato molte delle istanze riformatrici. Gli strumenti che utilizzava per dimostrare la correttezza di una simile interpretazione erano ancora una volta quelli della filologia umanistica. Per esempio, Socini dimostrava che il termine mediator, usato per definire la funzione di Cristo e che Covet assumeva nel significato di colui che deve portare a un accordo due persone diffidenti, nelle Scritture indica piuttosto un interprete che rende palesi a una parte le offerte dell’altra, in modo che possa decidere consapevolmente se accettarle o no. Allo stesso modo la preposizione pro non significa affatto ‘al posto di’, ‘in sostituzione di’, ma solo ‘a vantaggio di’, nel senso che Cristo ha patito sulla croce non al posto degli uomini, facendosi carico della loro condizione di peccato, ma a loro vantaggio, per mostrare la via della resurrezione (M. Biagioni, introduzione a F. Sozzini, F. Pucci, De statu primi hominis, 2010, pp. XIX-XX). Una volta liberate dal valore simbolico, le parole ritrovavano il loro significato originale, facendo riemergere la lezione profonda del messaggio evangelico. Il carattere di esempio e non di espiazione attribuito alla missione di Cristo rimodulava inoltre i rapporti tra gli eventi decisivi dell’escatologia cristiana, negando l’incarnazione e ponendo al centro il momento della resurrezione rispetto a quello del sacrificio sulla croce.

La dottrina antimetafisica del peccato di Adamo

Contemporaneamente al dibattito con il Covet, si svolse quello con Pucci sul peccato di Adamo. In piena coerenza, Socini procedette anche questa volta a storicizzare il significato dell’evento e a negarne il valore metafisico. Pucci era giunto a Basilea dall’Inghilterra nel maggio del 1577 con il proposito di incontrare Socini e di discutere con lui i fondamenti della fede. Ma il dibattito si era presto arrestato sulla questione della natura di Adamo.

Pucci sosteneva che il primo uomo era immortale per natura in quanto creato a immagine del Padre: un dio terrestre, posto all’interno di un mondo che non conosceva la morte. La trasgressione aveva provocato una caduta della purezza di tutte le creature, anche piante e animali, determinando l’ingresso del dolore, dell’invecchiamento, della morte. Ma la ragione divina che brillava nell’universo e che egli identificava con il logos, ovvero il Cristo, efficace prima e dopo l’incarnazione, per quanto offuscata, riusciva ancora a indicare agli uomini la via della salvezza in virtù della sola religione naturale.

Socini, che sosteneva l’umanità di Cristo, a maggior ragione negava la divinità di Adamo, ritenendolo di natura mortale. Solo la grazia gli avrebbe consentito una vita senza fine, a patto dell’obbedienza. Il suo peccato, quindi, altro non era che il primo peccato della storia, e non trasmetteva alcuna colpa ai discendenti, ma segnava l’inizio dell’esperienza della trasgressione. Egli rifiutava l’idea di una conoscenza naturale di Dio e attribuiva alla parola di Cristo l’intera responsabilità della redenzione.

Dalla visione di Pucci emergeva il profilo di una neoplatonica harmonia mundi, che si irraggia nell’universo a livelli diversi di energia. In quella di Socini prevaleva il razionalismo della fisica aristotelica e la difficoltà di accettare l’idea di una natura in qualche modo snaturata da un evento storico. Il tema dell’immortalità di Adamo si poneva alla confluenza di numerose questioni e non tutte squisitamente teologiche: il problema etico della responsabilità, l’esistenza dell’anima degli animali e la loro possibilità di soffrire, il rapporto tra l’uomo e le altre creature, le caratteristiche e la natura dell’Eden. Ma soprattutto esso risultava preliminare al dibattito sull’ampiezza del regno di Dio, quindi al problema della salvezza. Mentre la prospettiva offerta da Pucci consentiva di formulare una soluzione estremamente latitudinaria, capace di abbracciare tutti gli uomini, anche al di fuori delle Chiese e prima della venuta di Cristo, nonché i bimbi scomparsi precocemente, quella di Socini implicava una individuale scelta di fede che presupponeva la conoscenza della parola di Cristo. Come non ammetteva il valore metafisico del peccato originale, che rendeva tutti gli uomini colpevoli fino dalla nascita senza alcuna loro responsabilità, Socini respingeva anche la possibilità di un beneficio che li rendeva meritevoli di salvezza a prescindere da un atto volontario e dal rispetto dei principi morali che esso comporta. Non si trattava di una questione secondaria.

Dal momento in cui Socini si trasferì in Polonia e assunse un ruolo di guida nella Chiesa antitrinitaria, l’esigenza di adattare la coerenza della sua riflessione teologica alla predicazione nelle comunità di fedeli fece emergere con maggiore chiarezza alcuni esiti ai quali conduceva quel presupposto, puntualmente segnalati da amici e discepoli: l’anima individuale sopravvive alla morte? quale sorte è riservata ai reprobi? qual è il destino dei bimbi morti nell’età dell’innocenza? e, soprattutto, sono esclusi dalla salvezza tutti coloro che non hanno conosciuto la parola di Cristo? Un interrogativo, quest’ultimo, di enorme portata storica nell’epoca delle scoperte geografiche e dell’esplorazione di nuove terre. L’impianto del pensiero teologico di Socini, la sua coerenza intellettuale e la prospettiva in qualche misura ancora settaria entro la quale si muoveva non consentivano soluzioni larghe: chi non sceglie consapevolmente di seguire l’esempio di Cristo non può aspirare alla vita eterna, né i bimbi né i selvaggi. Nel De Sacrae Scripturae auctoritate, composto intorno al 1580, egli confermava l’impossibilità di una conoscenza naturale di Dio, e nelle Praelectiones theologicae, forse composte intorno al 1590, portava come prova le testimonianze che gli giungevano dal Brasile e dalle Indie, dove venivano scoperti popoli «qui nullum penitus sensum aut suspicionem Divinitatis alicuius habent» (Opera omnia, cit., 1° vol., p. 538).

Le perplessità suscitate da questa posizione spinsero in seguito alcuni teologi sociniani ad allontanarsi dalla lezione del maestro. Nel corso del Seicento Johann Crell (1590-1633), e poi il nipote Samuel Crell, ammisero il principio della religione naturale, portandolo a sostegno della battaglia per la tolleranza religiosa (M. Biagioni, introduzione a F. Sozzini, F. Pucci, De statu primi hominis, cit., pp. XLV-LIX).

Il razionalismo problematico

A Cracovia Socini si trovò calato in una situazione per lui del tutto nuova ed estremamente complessa. L’intensa attività di esegesi e di controversia che egli sostenne da allora sino alla morte si rivelò di grande efficacia soprattutto per la sua capacità di utilizzare i presupposti del proprio razionalismo religioso in maniera non dogmatica, ma adattandoli alle necessità che di volta in volta erano determinate dal contesto della discussione. L’antitrinitaria Ecclesia minor, che si era separata nel 1565 dalla Chiesa riformata polacca fondata da Jan Laski e che era riuscita a darsi una struttura istituzionale con un collegio, una stamperia e un sinodo annuale, era al centro degli attacchi di cattolici e di calvinisti.

Socini era giunto a Cracovia dopo avere sostenuto una disputa contro Dávid nel vano tentativo di farlo recedere dalle sue posizioni, definite giudaizzanti, poiché negavano la liceità dell’adorazione di Cristo. Adesso il pastore evangelico Andrzej Wolan gli rivolgeva contro quelle stesse accuse. Egli si difese, precisando le proprie idee intorno alla natura di Cristo in due scritti, composti tra il 1579 e il 1583, successivamente pubblicati assieme con il titolo De Jesu Christi Filii Dei natura sive essentia (1588). Nel 1583 si impegnò nella risposta agli articoli teologici formulati dai gesuiti di Poznań «contra novos Samosatenicos» componendo una serie di Animadversiones e, l’anno successivo, la loro Defensio. Ma le difficoltà maggiori gli provennero dalle divisioni interne all’Ecclesia minor, attraversata dal conflitto tra coloro che si riconoscevano nello spiritualismo anabattista (come Grzegorz Paweł, 1525-1591, e Czechowic) e le fazioni più vicine al non adorantismo dei transilvani (per es., il gruppo di Szymon Budny). La fama acquistata contro Dávid lo collocava a fianco dei primi. Ma egli non condivise aspetti peculiari del loro pensiero, sia per quanto riguardava la pratica religiosa, sia nel campo della dottrina sociale. Lo spirito che aveva animato l’esperienza libertaria e utopistica della comunità fondata a Raków nel 1569 e fortemente sostenuta da Paweł (l’egalitarismo spinto fino al rifiuto della proprietà privata, la separazione del cristiano dallo Stato, il battesimo degli adulti, il profetismo) gli fu sostanzialmente estraneo. Socini non accettò mai di farsi ribattezzare, anche a costo della rinuncia all’ammissione nella Ecclesia minor. Egli riuscì a mantenere una posizione eccentrica rispetto alle fazioni, che gli permise di raccogliere entro un quadro unitario le istanze provenienti dai diversi orientamenti e di conferire solidità e una identità definita alla Chiesa unitariana (L. Szczucki, Fausto Sozzini in Polonia, in Faustus Socinus, 2005, pp. 113-28).

Subito dopo essere entrato in rapporti amichevoli con i principali esponenti della comunità antitrinitaria di Cracovia, in particolare Jerzy Schomann e Szymon Ronemberg, egli manifestò il suo disaccordo riguardo al battesimo per immersione degli adulti, mettendosi in contrasto con Czechowic, leader della comunità di Lublino, che rappresentava allora una delle guide spirituali degli unitariani polacchi. A tale scopo compose nel 1580 il trattato De baptismo aquae disputatio, che circolò manoscritto. Mentre Czechowic, radicalizzando temi della tradizione anabattista, indicava nel battesimo l’atto di rinascita interiore con il quale il cristiano accetta di separarsi dal mondo e rinuncia alle proprie ambizioni per seguire interamente l’esempio di Cristo, Socini, dopo avere negato l’esistenza del peccato originale, riduceva il battesimo a un adiaphoron, quindi a un rito ininfluente per il percorso di salvezza. Al contempo, però, ribadiva la propria distanza dal non adorantismo in alcuni interventi contro le posizioni espresse da Jacopo Paleologo (1520 ca.-1585), che era stato preside del collegio di Kolozsvár, l’alternativa transilvana al centro di Raków.

Nei primi anni Ottanta Fausto lavorò al De Sacrae Scripturae auctoritate, in seguito ai colloqui con Andrea Dudith (1533-1589), diplomatico e umanista che risiedeva a Breslavia ed era vicino alle posizioni di Paleologo. Quest’ultimo, nel De discrimine Veteris et Novi Testamenti del 1572, aveva sostenuto la sostanziale omogeneità tra la legge mosaica e quella cristiana, riducendo l’importanza del messaggio evangelico e del Discorso della montagna, che invece i rakowiani ponevano al centro del loro sistema etico e religioso. Dudith si spinse molto oltre, mettendo in dubbio anche l’autorevolezza dell’Antico Testamento e, forse, la verità dello stesso cristianesimo. Il De Sacrae Scripturae auctoritate non servì a convincere il Dudith, ma permise a Socini di difendere l’importanza delle Scritture in quanto unico tramite della verità rivelata, di negare la possibilità di una conoscenza naturale di Dio, di mantenere la missione di Cristo al centro del disegno escatologico della rivelazione (Caccamo 1970, pp. 109-25; Firpo 1977, pp. 41-43).

Il cristiano e lo Stato

Gli effetti della cristologia di Paleologo, e in generale dei non adoranti, si riflettevano anche sul versante della dottrina sociale e politica, e creavano ulteriori occasioni di conflitto con gli antitrinitari polacchi. Il problema del rapporto tra il cristiano e lo Stato fu al centro della disputa con Paweł, il quale rispose alle tesi contenute nella Defensio verae sententiae de magistratu politico in ecclesiis Christianis retinendo composta nel 1580 da Paleologo. Se la tendenza a un cristianesimo lontano dalla mondanità e dal potere apparteneva alla storia dell’antitrinitarismo, la corrente più legata alla tradizione anabattista interpretava in senso letterale il Discorso della montagna e considerava il cristiano come cittadino di un altro regno, che non può scendere a patti con la ragion di Stato. Ne seguivano un pacifismo e un egalitarismo radicali: il cristiano non doveva prendere le armi in difesa della patria né ricoprire cariche che prevedessero l’uso della forza, non si avvaleva del magistrato neppure per difendere i suoi diritti e risolvere controversie, non resisteva alla violenza, disprezzava la proprietà privata e la possibilità di ottenere profitti attraverso il lavoro di contadini sottomessi (Kot 1957). Sulla base di questi principi era nata l’utopia di Raków e a essi si ispirò l’attività di Czechowic, che con estrema coerenza concluse la sua vita in povertà. Paleologo, invece, ridimensionava la funzione di Cristo e difendeva l’autorità civile ispirandosi alla legge mosaica e ai presupposti della propria formazione umanistica. Guardava con sospetto alle posizioni settarie e tendenzialmente ascetiche di Raków e considerava lecita la guerra, in quanto la difesa dello Stato costituisce un vincolo etico per tutti i cittadini che godono dei benefici del suo ordinamento.

I testi della disputa con Paweł vennero pubblicati nel 1580 da Budny, simpatizzante del non adorantismo all’interno della Ecclesia minor, e suscitarono nuove discussioni. Alle accuse provenienti da cattolici e riformati, si aggiunsero le preoccupazioni del re di Polonia Stefano Báthory, appena eletto al trono, e di molti nobili, che temevano per la coesione del Paese mentre aumentava la minaccia militare della Russia. Allarmati dal clima ostile nei loro confronti, gli antitrinitari polacchi chiesero a Socini un intervento sull’argomento. Egli, però, non condivideva molte delle ragioni di Paweł e cercò di sottrarsi all’impegno. Ma le preghiere di quest’ultimo lo indussero infine ad accettare. La Ad Jacobi Palaeologi librum pro racoviensibus responsio, approvata dal sinodo di Chmielnik del 1581 e pubblicata anonima nello stesso anno, rappresenta uno dei testi più interessanti per valutare le implicazioni civili del pensiero di Fausto Socini.

La titubanza di Socini a impegnarsi su un argomento che usciva dall’ambito teologico e coinvolgeva questioni di ordine pubblico era accresciuta dal fatto che egli si trovava nella condizione di esule in un Paese ospite e ufficialmente non faceva neppure parte della Ecclesia minor. Fin dal titolo dell’opera Socini lasciò intendere di interpretare la questione come una difesa dei rakowiani dalle calunnie che ne fornivano un’immagine distorta e negativa. In realtà egli andava oltre e, pur con qualche disagio, proponeva una soluzione di compromesso tra il rifiuto assoluto dello Stato, collegato all’idea di una Chiesa dei giusti separata dal mondo, e la piena accettazione delle magistrature e delle leggi, fino al consenso nei confronti dell’uso della forza. Questo atteggiamento lo condusse verso proposte che in molti casi appaiono strumentali e artificiose, ma che miravano a smussare alcuni tratti del radicalismo anabattista e a dissipare le preoccupazioni circa i potenziali esiti eversivi dell’atteggiamento degli antitrinitari polacchi, dimostrando che essi potevano convivere con l’ordinamento civile, seppur con qualche limitazione e in modo talvolta non partecipativo.

Nella prima parte egli difendeva i principi del Discorso della montagna, in quanto cardini etici che tutti i cristiani sono chiamati a rispettare, e ribadiva il superamento della legge mosaica in virtù del messaggio di carità proclamato da Cristo. Ne derivavano il rifiuto della guerra, in qualunque forma, e l’illegittimità dell’uso della forza, anche contro quel governo che operi la repressione del credo religioso di una sola parte, con la critica esplicita delle teorie dei monarcomachi calvinisti (Opera omnia, cit., 2° vol., p. 30). Ma non ne seguiva una condanna delle cariche pubbliche in quanto tali. Anzi egli ammetteva che il cristiano potesse esserne investito, se ciò non implicava comportamenti contrari alla morale evangelica. Allo stesso modo, pur negando decisamente la partecipazione alla guerra e la possibilità di versare sangue altrui, Socini riteneva lecito il pagamento dei tributi allo Stato anche quando fossero impiegati per spese militari. E soprattutto ribadiva il vincolo dell’obbedienza alle leggi anche se emanate da un’autorità della quale non si condividevano gli intenti, sempre che non costringessero a violare i precetti di Cristo (Kot 1957).

L’intento di rimuovere ogni sospetto di irriducibilità del cristiano alla compagine statale lo portava ad argomentazioni capziose ma, al di là della casistica estremamente particolareggiata, nell’opera emergevano due aspetti significativi. Il primo era costituito dal riconoscimento dello Stato, che opera legittimamente nel mondo con leggi non necessariamente congruenti con i precetti di Cristo. L’altro era rappresentato dal tentativo di ricondurre il problema del rapporto che la Chiesa dei veri credenti deve stabilire con esso entro l’orizzonte del comportamento individuale. Si trattava di una prospettiva ancora settaria, che escludeva compromessi con la realtà del mondo considerata peccaminosa. Ma la volontà di superare l’integralismo anabattista operando sul fronte della definizione pratica, caso per caso, del grado di coinvolgimento che il singolo può accettare rappresentava comunque un risultato storicamente significativo.

Negli anni successivi Socini procedette a definire spazi progressivamente più ampi per la partecipazione del cristiano alla vita pubblica. Una sintesi delle posizioni che egli espose nel sinodo di Raków del 1601 venne redatta dal discepolo Valentin Schmalz: Socini ammetteva casi circoscritti di liceità dell’uso della forza, ampliava le circostanze che consentivano di adire ai tribunali, e addirittura prevedeva l’eventualità di prendere parte a spedizioni belliche per la salvezza della patria, sempre che si evitasse di uccidere il nemico, un peccato comunque ritenuto inferiore all’adulterio, soprattutto se si trattava di un infedele (Epitome colloquii Racoviae habiti anno 1601, ed. L. Szczucki, J. Tazbir, 1966). Il suo interesse era rivolto all’aspetto etico e religioso del problema, e solo di conseguenza ai risvolti politici. Si trattava comunque di una prospettiva che, diversamente da quella del radicalismo, presupponeva una distinzione tra la natura della compagine statale e quella della comunità religiosa che si annunciava gravida di conseguenze. Nell’immediato la proposta ottenne critiche da ogni parte. Suscitò le accuse di esuli italiani religionis causa, come Biandrata e Marcello Squarcialupi, convinti della necessità di usare maggiore prudenza e di non immischiarsi nel problema dei rapporti con l’autorità politica. Ma soprattutto provocò la reazione di cattolici e riformati polacchi, che paventarono conseguenze rischiose per l’ordinamento pubblico. Il clima di tensione spinse Socini a lasciare Cracovia per rifugiarsi a Pawlikowice presso la residenza del nobile Krzysztof Morsztyn, suo amico e protettore.

Il problema del rapporto tra il cristiano e lo Stato assunse un peso sempre maggiore nel dibattito dei decenni successivi, intrecciandosi con quello, strettamente connesso, della tolleranza. La riflessione teorica procedette sotto gli impulsi dell’avanzata in Polonia della Controriforma cattolica che, consolidatasi durante il lungo regno di Sigismondo III Vasa (1587-1632), produsse gli effetti più gravi sotto i suoi successori, Ladislao IV e Giovanni II Casimiro: i sociniani prima assistettero alla chiusura dei loro luoghi di culto a Lublino (1635), poi alla distruzione del centro di Raków (1638) che, con la scuola e la stamperia, costituiva il fulcro del movimento; infine dovettero abbandonare il Paese in seguito al provvedimento di espulsione emanato nel 1658. Alcuni vissero appartati praticando il nicodemismo, altri si diressero verso la Transilvania o la Germania, molti trovarono accoglienza in Olanda presso gli arminiani, dove riuscirono a salvare l’identità della loro Chiesa pubblicando i testi fondamentali dei padri fondatori nei volumi della Bibliotheca Fratrum Polonorum che videro la luce ad Amsterdam tra il 1665 e il 1668, con la data emblematica del 1656 a indicare l’inizio della persecuzione. La dispersione della Chiesa unitariana di Polonia finì per coincidere con la diffusione europea del movimento, che riuscì a innervarsi in profondità nel dibattito culturale, portando un contributo decisivo alla nascita del pensiero moderno.

Se fino ai primi anni del Seicento nel pensiero sociniano era mancata un’organica dottrina sulla tolleranza, durante il 17° sec. la battaglia per la sopravvivenza e per il riconoscimento della loro identità fu condotta con tale energia che spesso socinianesimo e tolleranza finirono per apparire sinonimi. Nello stesso tempo la riflessione sulla tolleranza finì sempre più per configurarsi come problema politico, spogliandosi dei caratteri prevalentemente teologici che l’avevano contraddistinta nel secolo precedente.

Il dibattito sul rapporto tra il cristiano e lo Stato: Wolzogen e Szlichtyng

La debolezza della posizione delineata da Socini sul rapporto tra il cristiano e lo Stato, nonché l’annosa contrapposizione tra lo spiritualismo anabattista e il realismo dei transilvani, resero ancora più evidente la mancanza nel pensiero sociniano di una teoria complessiva dello Stato. Il problema si ripropose intorno agli anni Quaranta del Seicento, sugli sviluppi del dibattito sorto tra i rimostranti d’Olanda, dopo il sinodo di Dordrecht del 1519 e la sconfitta degli arminiani, con la pubblicazione da parte di Simon Episcopius (1583-1643) del Tractatus brevis in quo expenditur quaestio an homini Christiano liceat gerere magistratum del 1620, nel quale l’autore riconosceva l’autonomia dell’ordinamento statale e rivendicava il pieno diritto del cristiano a partecipare alla vita pubblica.

Il problema riemerse tra i sociniani in tutte le sue contraddizioni nel 1641 grazie all’opera De qualitate regni domini nostri Iesu Christi dell’ex arminiano Daniel De Breen, che difendeva l’assoluto pacifismo e l’estraneità allo Stato secondo la prospettiva dello spiritualismo anabattista. Ne nacque un intenso confronto tra due dei maggiori teologi sociniani dell’epoca: il barone austriaco Johann Ludwig Wolzogen (1599-1661) e il nobile polacco Jonas Szlichtyng (1592-1661).

Wolzogen era uomo dai molteplici interessi (filosofia, matematica, teologia) e proveniva dalle fila dei calvinisti. Dopo il suo trasferimento in Polonia e la conversione all’antitrinitarismo, a Danzica si era avvicinato al pacifismo radicale di Daniel Zwicker e, forse, anche a quello delle comunità mennonite. Certamente aveva oltrepassato le posizioni formulate da Socini, e nel De natura et qualitate regni Christi ac religionis Christianae riproponeva nella sostanza gli esiti ai quali era giunto De Breen. Egli muoveva dall’idea dell’essenza spirituale della natura umana: il regno annunciato da Cristo non era di questa terra. Ne derivava il rifiuto di una distinzione tra legge di natura e legge di Cristo, quindi tra lo Stato e la Chiesa. Il cristiano doveva rispondere solo agli insegnamenti divini, senza cercare compromessi con il potere.

Si trattava di una posizione difficilmente accettabile per gli unitariani polacchi, abituati a un rapporto sereno con lo Stato e ben radicati anche nella classe dirigente (era relativamente alta la loro presenza nella nobiltà polacca). Ne sostenne le ragioni Szlichtyng in una serie di testi che circolarono manoscritti e successivamente furono raccolti nel sesto volume della Bibliotheca Fratrum Polonorum. Egli riteneva lecita sia l’assunzione di cariche pubbliche da parte del cristiano, sia la partecipazione alla guerra e l’uso della violenza per scopi difensivi, trovando legittimazione all’autorità statale nelle parole di Romani 13, 1-2: «Non c’è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio». La distanza tra le posizioni di Wolzogen e quelle di Szlichtyng nasceva, sul piano teologico, dalla diversa interpretazione del rapporto tra legge mosaica e parola di Cristo, una questione che divideva sino dalle origini il movimento unitariano. Per il primo l’etica dell’umiltà e della rinuncia insegnata da Cristo aboliva l’antica legge di natura; per l’altro, invece, ne rappresentava il più alto perfezionamento e promuoveva una nuova concezione anche del potere civile, piegandolo da una logica di dominio alle ragioni del bene pubblico. Ma era l’idea stessa della natura umana a porli in conflitto. Wolzogen la collocava interamente nella dimensione spirituale e riteneva che la parola di Cristo dettasse le norme necessarie per contrastare la dimensione corporea, a lei antitetica. Sulla base di tali principi, nelle Annotationes in “Meditationes metaphysicas” Renati Des Cartis, egli aveva mosso critiche anche al cartesianesimo, in particolare all’intreccio nell’uomo tra res extensa e res cogitans, e aveva negato alla ragione spazi di autosufficienza nella ricerca della verità. Szlichtyng invece, sulla scia del giusnaturalismo, presupponeva un’idea positiva della legge di natura e immaginava l’uomo come combinazione efficace di corporeità e spirito. Anche la ricerca di felicità nella vita terrena era considerata frutto di un istinto naturale e positivo, che non contrastava la spinta verso l’assoluto, anzi risultava funzionale a essa. La distinzione tra Chiesa e Stato si configurava come proiezione della duplice essenza dell’uomo. Per questo il cristiano non doveva separarsi dalla società, ma contribuire alla sua crescita in campo etico e civile. In entrambi i casi la posizione faticosamente definita da Socini risultava superata: Wolzogen la considerava insufficiente, Szlichtyng trovava argomenti a sostegno delle proprie conclusioni piuttosto nel giusnaturalismo di Ugo Grozio (Pintacuda De Michelis 1975, pp. 120-25).

Stato di natura e religione naturale nel pensiero di Przypkowski

La riflessione sullo stato di natura che aveva guidato Grozio, dopo la fine dell’unità cristiana e con l’Europa dilaniata dalla guerra dei Trent’anni, nella ricerca di un fondamento certo e universale del diritto, portandolo a sviluppare la teoria della separazione tra legge divina e legge naturale, trovava riscontri nel pensiero sociniano. Mentre in ambito teologico si facevano strada soluzioni favorevoli all’idea, sempre negata da Socini, di una conoscenza naturale di Dio (è il caso dell’opera De Deo et eius attributis di Johann Crell pubblicata nel 1630), sul versante della riflessione etica e sociale il pensiero di Socini veniva aggirato proprio sulla spinta delle teorie giusnaturalistiche.

A indicare esplicitamente il carattere obsoleto della sua posizione circa la natura dello Stato fu per primo Samuel Przypkowski (1592-1670) con il De iure Christiani magistratus et privatorum in belli pacisque negotiis, composto intorno al 1650 contro l’Adversus Palaeologum di Socini. Negli stessi anni Przypkowski portava a termine anche le Animadversiones contro il De qualitate regni domini nostri Iesu Christi di De Breen, intervenendo in modo organico e profondo sul pensiero etico e politico sociniano. Egli proveniva da una famiglia unitariana polacca, ma aveva studiato all’Accademia di Altdorf in Germania e poi all’Università di Leida, dal 1616 al 1619, negli anni dello scontro tra gomaristi e arminiani culminato con la sconfitta di questi ultimi. Tra i suoi maestri vi fu Episcopius, uno dei più energici sostenitori delle posizioni arminiane.

Przypkowski liquidava il pacifismo radicale, da Socini a De Breen a Wolzogen, per rivendicare il diritto del cristiano a una partecipazione piena alla vita dello Stato. La durezza della sua polemica suscitò qualche reazione (un invito a maggiore prudenza gli giunse, per es., dal pastore sociniano Joachim Stegmann), ma il rifiuto del radicalismo settario e l’opportunità di aprirsi al mondo erano ormai posizioni dominanti nel movimento, anche sulla spinta della necessità storica, intorno alla metà del secolo, di trovare una dimensione più internazionale o di scomparire. Przypkowski non individuava la legittimazione del potere dello Stato nel luogo neotestamentario di Romani 13, 1-2, come aveva fatto Szlichtyng, bensì nel diritto di natura, al quale l’uomo deve obbedire come alla legge divina. Si tratta di due dimensioni distinte ma parimenti decisive per il percorso di salvezza il quale, secondo uno dei cardini del pensiero sociniano, passa attraverso l’impegno etico del cristiano in questo mondo, che è regolato da norme e istituzioni. La distinzione tra Chiesa e Stato e la complementarità delle loro funzioni veniva proclamata in via definitiva con queste parole:

Infatti la Chiesa non ha sostituito lo Stato ma lo ha rafforzato: dunque l’istituzione della Chiesa non ha eliminato per il popolo di Dio l’istituzione del governo politico, ma ha voluto che i singoli regimi si mantenessero all’interno dei loro confini, in maniera tale che l’uno non usasse la falce sulle messi dell’altro (Cogitationes sacrae, 1692, p. 629).

Non si tratta di due poteri in competizione, estranei e opposti l’uno all’altro, come lo spirito alla carne, bensì di due forze che coesistono nell’orizzonte del cristiano. In tale prospettiva veniva interpretato anche il principio, formulato da Socini, che la parola di Cristo può essere al di sopra, ma non contro la ragione. Significava che Cristo ha perfezionato e non sovvertito la legge di natura, e che questa vale interamente anche per il suo popolo, il quale condivide gli ordinamenti dello Stato in quanto fondati sulla ragione. In tal modo Przypkowski accettava la prospettiva tracciata da Grozio nel De iure belli ac pacis del 1625 e riconosceva allo Stato il diritto, impegnativo anche per i cristiani, di stabilire la pace e la guerra (Pintacuda De Michelis 1975, pp. 126-36).

Il problema della tolleranza da Przypkowski a Crell

Le conseguenze di questa teoria dello Stato si riflettevano inevitabilmente sul problema della tolleranza. Il potere coercitivo è estraneo alla natura della Chiesa. Appartiene allo Stato, il quale però non ha facoltà di usarlo in un campo che non gli compete, qual è quello della cura delle anime. Pertanto la libertà di coscienza deve essere garantita non più in funzione di un imperativo religioso (la carità o il perdono) né di un’opportunità etica (l’intrinseca negatività dell’uso della forza), ma come risultato dell’ordine naturale che stabilisce per lo Stato e per la Chiesa funzioni diverse. Anche in questo caso la conclusione discendeva da un nuovo atteggiamento nei confronti della ragione naturale.

Il recupero di alcune forme di naturalismo appare quindi un tratto comune al pensiero sociniano dopo gli anni Trenta del Seicento, sia in campo teologico (l’immortalità di Adamo, la religione naturale e le aperture all’universalismo di Crell) sia, appunto, sul piano etico e politico con le teorie di Szlichtyng e di Przypkowski. Quest’ultimo era già intervenuto sulla questione della tolleranza con uno scritto che aveva avuto un rilievo notevole ossia la Dissertatio de pace et concordia ecclesiae, pubblicata sotto lo pseudonimo di Irenaeus Philaletes ad Amsterdam nel 1628, ma composta probabilmente durante gli anni del soggiorno a Leida. In quel caso, però, la proposta si fondava su motivazioni di carattere religioso (la riduzione dei fundamentalia fidei) ed etico (la priorità della vita morale rispetto al dibattito teologico), e sulla convinzione che fosse al di sopra delle capacità umane stabilire la verità su questioni di fede. Nessuna autorità poteva fondarsi su tale pretesa. Si trattava di argomenti che sviluppavano idee già presenti nel pensiero di Castellione e che sfociavano in una visione irenica di collaborazione tra le chiese, ma non entravano nella sfera del pensiero politico.

Questo passo decisivo fu compiuto da Crell in un breve scritto dal titolo Vindiciae pro religionis libertate uscito postumo ad Amsterdam nel 1637, ma composto intorno al 1632, sotto lo pseudonimo di Iunius Brutus Polonus. L’opera fu tradotta in olandese nel 1649, in francese nel 1687 e più tardi suscitò gli interessi dell’enciclopedista Jacques-André Naigeon, che la fece ripubblicare a Londra nel 1769. Il titolo e lo pseudonimo richiamavano quelli usati dall’ugonotto Philippe Du Plessis-Mornay nelle Vindiciae contra tirannos del 1574, dopo la strage della notte di San Bartolomeo nel pieno delle guerre di religione.

Dinanzi all’inasprirsi delle restrizioni nei confronti delle minoranze religiose in Polonia dopo il regno di Sigismondo III Vasa, Crell indicava come modello proprio quella tradizione militante del calvinismo dalla quale Socini nell’Adversus Palaeologus aveva esplicitamente preso le distanze. Del resto, come abbiamo visto, Crell era stato anche il primo teologo sociniano a sostenere l’idea della religione naturale, deviando dalla lezione del maestro e riconoscendo una funzione positiva allo stato di natura. Si trattava della condizione necessaria per legittimare distintamente i poteri della Chiesa e dello Stato, come sarebbe accaduto nelle Animadversiones di Przypkowski. Le Vindiciae erano uno scritto di teoria politica: il problema della tolleranza veniva affrontato su questo piano, piuttosto che su quello religioso. Una volta ammessa la divisione dei due poteri, Crell sosteneva che lo Stato ha il compito di garantire uguale trattamento a tutte le comunità religiose che ne fanno parte, senza intervenire a vantaggio dell’una contro l’altra, e favorendo anzi il loro libero confronto. La sua autorità deve essere esercitata solo nel caso di trasgressione della legge e di pericolo per l’ordine pubblico. In tal modo la tolleranza diventa una necessità per il buon funzionamento dello Stato, che diversamente finisce per mettere in forse la propria legittimità e la propria stabilità, come le guerre che insanguinavano l’Europa stavano tragicamente dimostrando. L’astensione dall’intervento nelle controversie teologiche non corrisponde a un giudizio di approvazione da parte dei governanti verso posizioni ritenute erronee, ma all’esercizio corretto delle proprie funzioni, che mirano a garantire pace, giustizia e stabilità a tutti coloro che fanno parte dello Stato, senza eccezione alcuna. Crell sintetizzava l’esito della riflessione con queste parole: «La pace civile può rimanere salda anche nella diversità delle opinioni religiose» (Vindiciae, a cura di L. Chmaj, D. Gromska, W. Wąsik, 1957, p. 33). La Chiesa può proteggere l’integrità della propria dottrina anche ricorrendo alla scomunica, ma questa non deve avere effetti civili, perché l’ordine dello Stato non implica l’unicità del credo dei cittadini.

Il dibattito sulla tolleranza che si svolse all’interno del socinianesimo si pose alle spalle della riflessione di John Locke. Il percorso verso il riconoscimento della religione naturale e, parallelamente, della positività dello stato di natura compiuto da Crell rappresentò la condizione necessaria per sostenere il principio della complementarità e della distinzione tra le funzioni dello Stato e quelle della Chiesa. Locke fu un profondo conoscitore dei testi sociniani, che abbondavano nella sua biblioteca. Sia in An essay concerning toleration del 1667 e ancor più nella Epistola de tolerantia pubblicata anonima nel 1689, nonostante il problema venga ormai affrontato quasi interamente sul piano politico, sono visibili le tracce lasciate dalle Vindiciae. Al di là dell’annosa (e mal posta) questione su Locke sociniano oppure no, l’influsso esercitato da questa tradizione su alcuni aspetti del suo pensiero è significativo e non generico, al punto che risulterebbe assai arduo comprenderne gli esiti a prescindere da essa.

Opere

S. Przypkowski, Cogitationes sacrae ad initium Evangelii Matthaei et omnes epistolas catholicas. Nec non tractatus varii argumenti, praecipue de jure Christiani magistratus, Eleutheropoli [Amsterdam] 1692.

J. Crell, Vindiciae pro religionis libertate/O wolność sumienia, a cura di L. Chmaj, D. Gromska, W. Wąsik, Warszawa 1957.

Epitome colloquii Racoviae habiti anno 1601, ed. L. Szczucki, J. Tazbir, Varsoviae 1966.

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