Favola

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Breve narrazione per lo più in versi. Quando si parla di f. come genere letterario, ci si riferisce comunemente a quella i cui caratteri fondamentali furono segnati già da Esopo e universalmente diffusi da Fedro: essenziale è che essa racchiuda una verità morale o un insegnamento di saggezza pratica e che vi agiscano (a volte insieme a uomini e dei) animali o esseri inanimati, sempre però tipizzazioni e quasi stilizzazioni di virtù e di vizi umani. Da notare però che l’animale perde talvolta, e sempre più frequentemente quanto più ci si avvicina ai tempi moderni, ogni caratterizzazione psicologica peculiare, diventando semplice pretesto per introdurre la conclusione morale. È difficile distinguere la f. dall’ apologo, se non forse per il fatto che in questo possono agire anche solo uomini e il fine morale è assolutamente predominante, sì che non si ha neppure il tentativo di personalizzare i protagonisti; similmente è difficile distinguere l’apologo dalla parabola, se non per il fatto che quest’ultima parola è ormai riservata agli apologhi evangelici. Possibile invece, e necessario, distinguere la f. dalla fiaba anche se il confine tra esse è incerto, tanto che le due parole sono talvolta impropriamente usate l’una invece dell’altra.

Nell’Oriente ario, specialmente in India, la f. raggiunse un alto grado di elaborazione letteraria, di cui restano documento famose raccolte come il Pañcatantra e il Hitopadeśa. Nel mondo occidentale, creatore della f. fu Esopo; ma, anche se f. si incontrano sporadicamente in vari scrittori greci e latini, colui che ne fissò il genere fu Fedro. Proprio a lui fa riferimento la copiosa tradizione favolistica medievale, anche se ciò non avviene per conoscenza diretta bensì attraverso i rifacimenti contenuti nel Romulus, titolo, forse dal nome del compilatore, di una raccolta diffusa nel 12° secolo. Alla materia di Fedro si aggiunsero però presto elementi nuovi provenienti dall’antichità e dall’Oriente e dalle nuove condizioni di vita e di cultura; centro principale di diffusione della favolistica medievale, dal 7° al 14° sec., fu la Francia del Nord. Il Medioevo presenta poi un altro tipo di f.: l’epopea animalesca, che si aggira intorno alla volpe e al lupo (ted. Reinhart e Isengrim), e il cui più cospicuo documento è il Roman de Renard, opera di vari autori della Francia settentrionale e di vari periodi che ebbe imitazioni, continuazioni, rimaneggiamenti per più secoli. Il Quattrocento amò poco la f. moralizzante, ma la rinnovò il Cinquecento e l’apprezzarono Lutero e Melantone; fra gli Italiani ricordiamo A. Firenzuola (La prima veste dei discorsi degli animali, 1541) e A.F. Doni (La moral filosophia, 1552). L’età barocca, in Italia, Spagna, Germania, trascurò la f., anche se coltivò la fiaba (e basti ricordare, in Italia, Lo cunto de li cunti del napoletano G. Basile); invece proprio allora, in Francia, J. de La Fontaine pubblicò (a partire dal 1668) le sue stupende Fables, destinate ad avere tanto influsso sulla favolistica posteriore. Il Settecento, illuministicamente didascalico, fu l’età aurea della f., la cui teoria fu allora formulata da G.E. Lessing (1759); fra gli Italiani ricordiamo A. Bertola, autore anche di un Saggio sopra le favole (1788), L. Pignotti, T. Crudeli, G.B. Roberti, L. Fiacchi (il Clasio) ecc. I romantici, che pur predilessero la fiaba, respinsero la f. come troppo didascalica e poco ingenua. Una grandiosa epopea animalesca è costituita da The jungle book di R. Kipling (1894-95), che però è altra cosa dalla f. e dalla fiaba. Alla tradizione favolistica vera e propria si riallaccia invece Trilussa, mentre G. Rodari (Favole al telefono, 1961) ha rinnovato lo spirito educatore tipico delle f. stesse.

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