CORNER, Federico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 29 (1983)

CORNER, Federico

Paolo Frasson

Nacque da Adriana Pisani e Giovanni di Giorgio, che era cavaliere e procuratore di S. Marco, il 9 giugno 1531. Del ramo di S. Polo della famiglia, era fratello di Giorgio, del cardinale Alvise, di Francesco governatore di galea morto nelle guerre contro i Turchi e di Marcantonio, padre del doge Giovanni. Dopo gli studi di diritto, fu accolto nell'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme e fu creato priore dell'isola di Cipro per rinuncia in suo favore del fratello Alvise. Il 27 marzo 1560, già chierico, fu promosso vescovo di Traù in Dalmazia (non di Troyes, come vollero alcuni, basandosi su un'imprecisione degli Atti concistoriali). Successe alla morte del vescovo Cristoforo de Nigro, e non fu mai presente, delegando come vicario il canonico Tomaso Sperandeo.

Citò in tribunale l'erede del suo predecessore, Pietro de Natali, il quale avanzava pretese su beni mobili ed immobili rivendicati dalla Camera apostolica. Pio VI lo invitò a difendere le ragioni della Chiesa anche ricorrendo, se fosse stato necessario, all'autorità civile; ed effettivamente la causa finì dinnanzi al capitano di Spalato.

Nel gennaio 1561 il C. passò alla diocesi di Bergamo, cedutagli dal fratello Alvise, il quale però se ne riservava il frutto mentre a sua volta passava amministratore a Traù. Dal febbraio 1562 prese parte ai lavori del concilio tridentino, partecipando in particolare alle discussioni sull'obbligo della residenza. Al suo ritorno a Bergamo si adoperò nel tradurre in pratica i decreti tridentini.

Tenne tre sinodi: il 4 sett. 1564, il 10 maggio 1568 e il 15 sett. 1574. Ridusse i canonici a tre classi di ordini sacri, quando precedentemente la situazione era molto più complessa, con un decreto del 1° ag. 1573. Nella vecchia canonica di S. Marco diede vita al seminario dei chierici. Ampliò il palazzo episcopale. Intervenne ai primi quattro concili provinciali indetti dall'arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, dal quale fu elogiata la sua solerzia in occasione della visita apostolica alla diocesi nel 1575. È interessante la relazione sul proprio operato che il C. tenne davanti al superiore. In essa cercava di giustificare le assenze dalla diocesi e tra l'altro metteva in luce di aver istituito i vicari foranei, visitato le duecentodiciotto chiese parrocchiali, le ventitré pievi affidate alla sua cura e iniziata una "lectionem theologalem" presso la cattedrale.

Nell'ottobre del 1572 venne incaricato da Gregorio XIII, insieme allo stesso nunzio apostolico in Venezia e al vescovo di Brescia Domenico Bollani, di rilevare, avvalendosi di esperti, l'entità di ciascun beneficio ecclesiastico della Repubblica onde poter ricavare da questi, con il minor disagio possibile, la somma di 100.000 scudi d'oro.

Con tale denaro il pontefice intendeva recare aiuto alle ormai esauste finanze veneziane onde evitare lo scioglimento dell'alleanza di questo Stato con il Papato e la Spagna contro i Turchi. Nel 1575, in occasione di una ulteriore esazione di 70.000 scudi, il gruppo preposto alla riscossione, di cui faceva parte il C., informava in una lettera il segretario pontificio Tolomeo Galli di due difficoltà che contrastavano col tenore del breve della Sede apostolica. Da un lato sembrava che per raggiungere la cifra indicata fosse necessario o aumentare la tassa o aumentare il valore attribuito a tutti i beni: in entrambi i casi il clero sarebbe stato troppo aggravato. D'altro canto essi, pur non avendo perso un solo giorno, ormai alla fine dell'anno non erano in grado di portare a termine il loro compito entro breve tempo, mentre i Veneziani reclamavano il denaro entro l'anno, secondo quanto stabiliva la concessione del papa. La risposta da Roma fu che né si alterassero le tasse né si accrescesse il numero delle decime ma si facesse pagare in base al reale valore dei benefici, in quanto nell'ultima tassazione il grano era stato stimato molto meno del suo prezzo. Inoltre i prelati dovevano consegnare il denaro secondo quanto stabilito, facendo pagare chi ne aveva la possibilità, dando invece ai poveri un lasso di tempo adeguato in modo che tutto avvenisse senza danno per il clero.

Nel gennaio 1577 moriva Nicolò Ormanetto vescovo di Padova, e a questa diocesi di lì a pochi mesi veniva preposto il C.: si realizzava in questo modo una certa continuità pastorale in quanto lo stesso Ormanetto, formato agli insegnamenti del cardinale Borromeo, aveva avviato un processo di riforma. Tuttavia all'entrata in Padova il C. si trovò di fronte al problema di restituire vigore alla vita ecclesiastica, che, a causa della peste del 1575-76, aveva avuto un momento di crisi con la morte di più di centocinquanta religiosi.

Una delle prime preoccupazioni del nuovo vescovo fu la visita della diocesi. Subito dopo il suo arrivo, infatti, lasciando da parte le chiese cittadine, si premurò di conoscere quelle del territorio. Ispezionò con precisione gli edifici ecclesiastici e le suppellettili, controllò i registri dei battesimi, dei morti e dei matrimoni, si informò della frequenza ai sacramenti. Se v'erano casi particolari come pubblici concubini o inconfessi ordinava che in breve tempo fossero ridotti all'obbedienza. Del rettore poi voleva conoscere la condotta morale e ne sollecitava la preparazione teologica. Le relazioni venivano scritte parte in latino e parte in volgare e in questa forma per lo più quando si trattava di dare al parroco e al popolo direttive o disposizioni particolari.

Celebrò tre sinodi, tra i quali senza dubbio il più importante fu il primo, promulgato tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1579. Da quasi cento anni quella diocesi non aveva avuto un sinodo con costituzioni proprie: nel 1564 e 1566 vi erano state soltanto le riunioni sacerdotali per la promulgazione del concilio tridentino e per motivi disciplinari. Questa assemblea diocesana fu preparata con l'invio da parte delle diverse parrocchie di "polizze di chiesa", documenti in cui venivano trasmessi inventari e informazioni sulle attività, e in generale sullo stato religioso del territorio. Il vescovo s'impegnava intanto a scrivere e dare alle stampe un libriccino, in volgare, di avvertimenti ai confessori della città e diocesi, esponendo le regole alle quali essi dovevano attenersi (Avvertimenti ai confessori della città, et diocesi di Padova, Padova 1579). Fin dal luglio 1579 ripresero le visite pastorali, volte alla verifica dell'applicazione delle costituzioni e dei decreti, e nel caso all'ammonimento severo. Comprendendo l'importanza del libro come aiuto all'istruzione, esortava all'uso del catechismo quando egli stesso non lo consegnava di persona agli educatori.

Il C. comprese che l'azione del sacerdote, per quanto assidua e incisiva, non avrebbe mai potuto da sola sviluppare l'opera di rinnovamento spirituale proposta dal concilio tridentino. Si adoperò allora a favorire l'impegno dei laici nelle attività parrocchiali. La maggiore aspirazione fu istituire, ovunque fosse stato possibile, una Compagnia della dottrina cristiana e una scuola per l'insegnamento del catechismo. Alcuni anni dopo la morte del C., nel 1596, queste compagnie avevano già struttura e organizzazione proprie e autonome: una congregazione di persone ecclesiastiche e laiche doveva presiederle e coordinarne il lavoro. Tale congregazione non poteva superare le venticinque o trenta persone. Tra questi doveva essere eletto un priore generale ecclesiastico e un sottopriore secolare, coadiuvati da due assistenti, uno laico, l'altro religioso. Anche le scuole avevano i propri ordinamenti, volti a far sì che nessuno avesse modo di sfuggire all'insegnamento del catechismo. Se solo dopo la partenza del C. si venne a una chiara definizione pubblica di queste istituzioni, fu comunque soprattutto per opera sua che esse divennero uno strumento di trasformazione della vita religiosa della diocesi padovana. Attenzione particolare anche in questa città il C. ebbe per il seminario istituito dal predecessore: cercò una sede stabile e mezzi economici idonei al suo sviluppo autonomo. Ordinò alle monache del monastero di S. Sofia e di Ognissanti di trasferirsi in città. A Este fondò un monastero di monache, altrove acconsentì all'erezione e consacrazione di nuove chiese; egli stesso volle abbellita la facciata della cattedrale e alcune stanze del palazzo vescovile. Tra queste attività sapeva periodicamente ritirarsi in maggior quiete a meditare e riflettere: a questo scopo si era fatto costruire una piccola cappella e una cella nell'eremo del monte Rua, in territorio padovano.

Quando, nel 1578, Gregorio XIII decise d'inviare nunzio a Venezia A. Bolognetti per la visita apostolica, conoscendo quanto le autorità veneziane fossero restie nell'accettare tutto ciò che sembrasse limitare la loro autonomia, ordinò che il nunzio venisse accompagnato dal vescovo di Verona, Agostino Valier e dal C., prelati bene accetti alla Signoria.

Non minori difficoltà venivano dall'atteggiamento del patriarca: egli riteneva i visitatori una minaccia alla sua autorità e giurisdizione. Il C., considerando che in quel momento il Senato aveva una maggioranza contraria alla Curia romana, riteneva opportuno, e suggeriva allora, di non mostrar troppa precipitazione. Questa azione mediatrice fu considerata dal Bolognetti troppo accondiscendente, al punto da ritenere il C. quasi un ostacolo alla propria missione.

I biografi concordano nell'attribuire ai meriti pastorali del C. la sua elezione alla dignità cardinalizia: Sisto V lo elevò il 18 dic. 1585, nella seconda promozione. Nel gennaio dell'anno seguente egli ricevette il titolo di S. Stefano in Monte Celio con la presidenza dell'Annona in tutto lo Stato della Chiesa. Di ritorno nella sua diocesi, per incarico del papa si fermò a Firenze e a Venezia, nel tentativo non riuscito di appianare i contrasti sorti tra questi due Stati per la pretesa dei cavalieri di S. Stefano di esercitare un diritto di ispezione sulle navi veneziane.

A Venezia il C. era anche latore di un testo, redatto dal S. Uffizio, comprendente alcuni capitoli che per volere del pontefice avrebbero dovuto essere osservati negli Studi della penisola e in modo particolare a Padova. Sollecitava i riformatori dello Studio a prenderli in considerazione. Il Senato accolse queste norme, volte a tutelare la religione e che non mancarono di suscitare, secondo il Papadopoli, la protesta degli stranieri.

Il C. continuò ad adoperarsi allo sviluppo religioso della sua diocesi e ottenne da Sisto V di tenere come coadiutore, con diritto di successione, il nipote Alvise Corner.

Morì a Roma, durante il conclave che elesse Urbano VII, il 4 ott. 1590.

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