FEDERICO II, ATTIVITA POETICA

Federiciana (2005)

FEDERICO II, ATTIVITÀ POETICA

SStefano Rapisarda

Sono sei i componimenti che, con vario grado di attendibilità, diversi testimoni assegnano al nome di Federico. Pressoché certa è l'attribuzione della canzone De la mia dissïanza, che è tràdita dal ms. Vat. Lat. 3793. Il senso complessivo della canzone parrebbe constare nell'attesa del compimento di una disianza lungamente agognata e minacciata dall'ombra della ria e mala giente, quelle "persone, / per chui cagione facciamo membranza" dei vv. 8-9, "[...] la mala giente, / che per neiente vanno disturbando / e rampongnando chi ama lealemente" (vv. 15-7); ma anche senza dover necessariamente ipotizzare quelle che parrebbero "delle lacune e delle corruzioni gravissime nella lezione" (Contini, 1952, p. 373), certi passaggi delle strofi I e IV restano alquanto oscuri, e più probabilmente per una forte carica di allusività, non estranea in genere alla lirica siciliana e qui manifesta al massimo grado, che non per veri e propri guasti testuali. Il tentativo del più recente editore, Letterio Cassata, di leggervi una psicofisiologia di ascendenza araba è suggestivo, ma fondato su eccessi di sottigliezza e privo di prove a sostegno (Federico II di Svevia, 2001, pp. XV-XVII).

Lo stesso criterio attributivo vale per la canzone Dolze meo drudo, assegnatagli anch'essa dal Vaticano, stavolta contro l'anonimato del Palatino. È una 'canzone di donna' che parrebbe imitare Dolce coninzamento del caposcuola Giacomo da Lentini, ma con una significativa variatio in direzione embrionalmente narrativa. La voce di donna lamenta l'imminente partenza del suo amante verso una destinazione non precisata e l'uomo risponde rassicurandola circa la solidità del suo sentimento d'amore. Se di crociata si tratta, certo non è esplicitata, né il testo contiene riferimenti che possano farvi pensare, come in Rinaldo d'Aquino, Già mai non mi conforto, vv. 5-6: "Vassene lo più gente / in terra d'oltremare". Unico riferimento geografico è qui la Toscana, cui la donna reca biasimo, ma senza esplicitare se essa sia la destinazione del suo amato o il luogo dal quale sia stato emanato l'ordine di partenza. Per il fatto che l'uomo dica mi convene ubidire quelli che m'a n'potestate qualche studioso ha ritenuto che la canzone non sia ascrivibile a Federico (da Torraca, 1902, p. 173, a Debenedetti, 1947, p. 12, e Panvini, 1962-1964, p. XLVI), ma è argomento debole e nella sostanza ingenuo: ogni ipotesi di corrispondenza tra testo e 'vissuto' è del tutto improponibile in questo tipo di 'poesia formale'. Qualche irregolarità metrica dipende forse dalla mimesi di gusto popolareggiante (Contini, 1970, p. 50); presente anche una delle poche assonanze non riducibili a rima perfetta della lirica siciliana, Toscana: amava; si riscontra anche un discreto margine d'incertezza per quanto attiene alla divisione delle 'battute' tra l'uomo e la donna, ma nel complesso il testo è piuttosto semplice e non reca cruces insormontabili. Dolze meo drudo è l'unico componimento siciliano di cui esista un accompagnamento musicale, ma ciò non ha alcun significato ai fini della vexata quaestio del cosiddetto 'divorzio tra musica e poesia'. Si tratta infatti di un brano musicale posteriore di circa un secolo, conservato in un manoscritto contenente composizioni polifoniche dell'ars nova italiana trecentesca, di presumibile provenienza veneta; le conclusioni di Nino Pirrotta, scopritore del brano, non lasciano adito a dubbi: "Della musica abbiamo poche speranze di poter mai conoscere l'autore, possiamo però escludere che risalga al tempo di Federico II" (Pirrotta, 1984, p. 144).

Possibile anche l'attribuzione a Federico del sonetto Misura, providenza e meritanza, anche se un ramo della tradizione lo dà per anonimo; cautamente favorevole all'attribuzione è Angelo Monteverdi, decisamente favorevoli Bruno Panvini e Cassata; contrario Errico Cuozzo, secondo il quale l'attribuzione va messa in dubbio in ordine a criteri di congruità concettuale con altre affermazioni federiciane. Secondo Monteverdi (1954, pp. 51-54), il sonetto fu scambiato in tenzone con il sonetto di re Enzo, Tempo veneche sale chi discende. Lo testimonia oltre che il tema ("l'uno parte dal fatto della mutabilità di fortuna per trarne consiglio di saggezza, [...] l'altro comincia col definire la saggezza per giungere poi a considerarla come un'arma contro i colpi della fortuna"), anche il richiamo intertestuale delle rime in -ende e in -ente, quali discende re Enzo: scende Federico II, imprende e riprende re Enzo: prende Federico II, e soprattutto dei rimanti gente e chonosciente; in particolare l'emistichio finale del v. 9 di re Enzo è uguale a quello finale del v. 2 di Federico II: "saggio e conoscente". Tali indizi d'intertestualità contribuiscono, secondo Monteverdi, a dirimere la questione attributiva; se di tenzone si tratta, l'attribuzione a Federico viene corroborata: "Padre e figlio, negli ozi della corte, si sarebbero divertiti a mettere in versi l'eterno motivo dell'uomo di fronte alla fortuna, moraleggiando anch'essi, per una volta, come facevano [...] altri poeti della loro corte, Giacomo da Lentini o Rinaldo d'Aquino" (ibid., p. 53). È sempre difficile avanzare congetture circa la cronologia interna del corpus siciliano, ma, se è vera l'ipotesi della tenzone con re Enzo, il sonetto andrebbe collocato in una fase tarda della produzione di Federico. Il tema del sonetto è il rapporto tra nobiltà e valore individuale (e presso la Curia federiciana non erano infrequenti dibattiti e contentiones, talvolta anche iocosae, sull'argomento, come quella che si ebbe tra Pier della Vigna e Taddeo da Sessa, ripubblicata da Fulvio Delle Donne nel 1999), ma la conclusione è tutta centrata sulla mutevolezza delle cose umane e sulla fragilità del potere: "Omo ch'è posto in alto signoragio / e in riccheçe abonda, tosto scende, / credendo fermo stare in signoria. / Onde non 'salti troppo omo ch'è saggio, / ma tuto giorno manthengha cortesia / per grande alteça che ventura prende" (vv. 9-14). L'autore del sonetto Misura, providenza e meritanza, se è l'imperatore Federico, parrebbe offrire una definizione di nobiltà più complessa di quella che Dante gli attribuisce in Convivio, IV, canzone Le dolci rime d'amor ch'i' solia, vv. 21-24: "Tale imperò [Federico II] che gentilezza volse, / secondo 'l suo parere, / che fosse antica possession d'avere / con reggimenti belli". Nella prosa di autocommento Dante scrive: "Dov'è da sapere che Federico di Soave, ultimo imperatore de li Romani, [...] domandato che fosse gentilezza, rispuose ch'era antica ricchezza e belli costumi" (Convivio, IV, iii, 6). Quella cui Dante allude è una definizione di nobiltà alquanto diversa da quella offerta dall'autore del sonetto, ed è citazione rispettosamente polemica, nella quale Dante rileva un difetto di ragionamento: "messer lo imperadore in questa parte non errò pur nelle parti della diffinizione, ma eziandio nel modo del diffinire, avegna che, secondo la fama che di lui grida, elli fose loico e chierico grande" (ibid., IV, x, 6). L'errore logico viene esplicitato ai vv. 49-51 della canzone: "che le divitie, sì come si crede, / non posson gentilezza dar né tòrre, / però che vili son da loro natura". Non si sa donde Dante abbia ricavato il concetto di nobiltà che egli attribuisce a Federico, contestandogli il valore dato alla possessione: forse da una epistola ai senatori romani (Corti, 1959, p. 65), nella quale l'imperatore parla di nobilitas come prodotto della generositas proavorum; né Dante dà segno di riconoscere la citazione aristotelica (Politica, IV, 8, 1294a, 21-22) che risuona nella presunta definizione federiciana. Più o meno con le stesse parole Dante riporta nel De Monarchia II, III, 4 quel concetto di nobiltà che nel Convivio era ascritto a Federico, ma questa volta restituendolo ad Aristotele e senza ricordare l'imperatore a suo tempo menzionato: "Est enim nobilitas virtus et divitie antique, iuxta Phylosophum in Politicis". La sentenza aristotelica è integrata con altra sentenza tratta da Giovenale, da Satire, VIII, 20: "Nobilitas animi sola est atque unica virtus", e con essa posta in relazione di complementarità: "Que due sententie ad duas nobilitates dantur: propriam et maiorum". Dante non solo non rinomina qui Federico, come aveva fatto nel Convivio, ma recupera con Aristotele una definizione di nobiltà che nel Convivio aveva contestato. La contraddizione non è tuttavia insanabile: basta osservare che il passo del De Monarchia si riferisce in verità non alla nobiltà individuale (che parrebbe fondata esclusivamente sulla virtus) ma alla nobiltà di un popolo: in quel capitolo del De Monarchia (II, III, 1) si dimostra infatti "quod Romanus populus de iure, non usurpando, Monarche offitium, quod Imperium dicitur, sibi super mortales omnes ascivit", ed è superfluo dunque congetturare (come fa Cassata) che Dante "abbia conosciuto il sonetto di Federico II dopo aver scritto il Convivio, e che l'abbia tenuto presente nella Monarchia, elaborando una più matura concezione dell'argomento, in sintonia con l'altissima valutazione della provvidenziale funzione storica dell'impero" (Federico II di Svevia, 2001, pp. 38-39). In realtà Dante parrebbe operare una certa forzatura del pensiero dell'imperatore, che parla di nobiltà come sommatoria di ricchezze e di bei costumi, e non di effetto della pura e semplice ricchezza. In sintesi: il concetto di 'nobiltà' che scaturisce dal sonetto non coincide esattamente con quello che Dante nel Convivio attribuisce a Federico, posto che non è messo in risalto il requisito dell'antichità del possesso, ma non si può nemmeno dire che ne sia troppo distante, se la grande aundança di richeça del v. 5 (che di per sé non nobilita, non rende valente colui che è vile) altro non è che la "possession d'avere" e se la ordinata costumanza che produce gentileça dei vv. 7-8 è cosa non troppo diversa dai "reggimenti belli" citati da Dante. In ogni caso, l'autore del sonetto non parrebbe prendere posizione circa il problema del primato della nobiltà di sangue rispetto alla virtù individuale o viceversa, dato che afferma esplicitamente che tutte e due le forme di nobiltà si avvantaggiano dell'esercizio di "misura, previdenza e meritanza" e la ricchezza, se antica o recente non viene specificato, di per sé non è nobilitante.

Possibile, seppur sostanzialmente indecidibile (Contini, 1952, pp. 388, 395), è l'attribuzione di Poiké ti piace,Amore, che nel Palatino reca il nome di Rex Fredericus, laddove nel Vaticano risulta anonimo, ma dopo due pentimenti dell'amanuense, che dapprima aveva scritto il nome di un 'Guglielmo' e successivamente, dopo aver cancellato, riscrisse un "Messer Rinaldo daquino" che fu pure di seguito abraso. La canzone è una dichiarazione di disponibilità ad assecondare la forza di Amore come origine dell'espressione poetica; è Amore che induce a trovare, a comporre poesia, e il poeta vi si consegna con onne possanza al fine di giungere a compimento (vv. 1-4); questo consiste nella visione della donna amata ("che ciò ch'io più colio / è voi veder sovente, / la vostra dolze vista, / a chui sono ublicato, core e corpp'ò donato", vv. 62-67), dalla visione della quale, come si ribadisce in chiusura, era stato d'altronde generato il sentimento amoroso: "Alora ch'io vi vidi primamente, / mantenente fui jn vostro podere, / che altra donna mai non volglio avere" (vv. 68-70). Dubbia, e discussa, è stata l'attribuzione a Federico. La didascalia in caso nominativo del ms. Palatino, Rex Fredericus, sarebbe secondo Ernesto Monaci una dimostrazione dell'autenticità dell'attribuzione a Federico, in base alla sua nota teoria (1884-1885, pp. 657-662) secondo la quale nelle rubriche resterebbe traccia del nome dell'autore in caso nominativo e del primitivo destinatario in caso dativo; mettendo insieme il dato del Palatino e le raschiature del Vaticano, Monaci ipotizzava dunque che nelle rubriche restasse traccia di un primitivo invio della canzone da Federico a Rinaldo d'Aquino. Ma già Salvatore Santangelo nel suo libro sulle tenzoni (1928, p. 25) esclude ogni ipotesi di corrispondenza tra Federico II e Rinaldo d'Aquino, e Contini (1952, pp. 376-377) finisce di rilevare le "insufficienze metodologiche" della teoria di Monaci, pur giudicandola "seducente ipotesi di lavoro", ma notando nel medesimo tempo l'impossibilità di ritrovare in alcun caso "una rubrica latina o tanto meno volgare, di origine seriamente dativale". In base ai criteri esposti da Contini (ibid., p. 373), si tratta anche qui, come per Oi lasso non pensai, di un caso di "attribuzione controversa, uno contro uno [...]", ma questa volta indecidibile, "poiché all'attribuzione stemmatica della famiglia di P nulla oppone di definito V" (ibid., p. 374). Contini conclude dunque con la formula sospensiva del "non liquet" (ibid., p. 383), con la quale non si può fare a meno di convenire.

Poco plausibile anche l'attribuzione di Per la fera membranza, tràdito in forma anonima dal Palatino e citato sotto il nome di Federico nella Poetica di Gian Giorgio Trissino (1529); già Contini (1952, p. 369) dubitava dell'attribuzione a Federico in ordine a ragioni linguistiche, parendogli la canzone "dalla lingua rivelata centrale, dunque toscana" e ritenendo ostative alla 'sicilianità' del componimento la presenza di certe rime come 19-24 ausèllo: quéllo, o la desinenza -ìo di prima persona (ibid., p. 369 n.). Ma più che su indizi linguistici, spesso infidi per l'alto grado di ibridazione delle lingue medievali, sarà forse più efficace un'esclusione per ragioni strettamente ecdotiche: come notava Monteverdi (1954, pp. 48-49), la Poetica di Trissino, che è uno dei due testimoni, attinge 'notoriamente' a un affine del ms. Palatino, il che vale a spiegare l'errore di attribuzione: nel Palatino la canzone Per la fera membranza è anonima, ma segue immediatamente Poiké ti piace, Amore ivi attribuita a Rex Fredericus; attingendo dunque ad un manoscritto vicino al Palatino, Trissino potrebbe aver inteso che la rubrica Rex Fredericus andasse riferita anche a Per la fera membranza. Così anche Roberto Antonelli (1984, p. LXXXVIII) che giudica "più che sospetta" l'attribuzione a Federico II e sostanzialmente ribadisce il ragionamento di Monteverdi. Ben diversa l'opinione di Peter Dronke (1994, pp. 439-458) che, dietro suggestioni di Joachim Schulze (1987 e 1989), giudica Per la fera membranza "uno dei gioielli della lirica siciliana". Come anche Dolze meo drudo dello stesso Federico, si tratterebbe di un Wechsel, cioè di uno scambio in versi tra uomo e donna sul modello del Minnesang, e la prima strofe andrebbe attribuita alla donna e la seconda al poeta-amante; ancora, secondo Dronke, l'attribuzione di Trissino a Federico si spiegherebbe "col fatto che egli pensava a questa forma di scambio lirico tra uomo e donna ‒ il Wechsel nella sua veste italiana ‒ come al contributo decisivo dell'imperatore alla tradizione". L'asserzione di Dronke ha il pregio di riaprire la questione dei rapporti tra lirica siciliana e Minnesang, che forse era passata troppo rapidamente in giudicato a seguito delle riserve manifestate da István Frank (1955) e generalmente condivise dagli specialisti (la sintesi in Folena, 1965, pp. 237-238: "[…] tra la 'excellentissima Ytalorum curia', culla dei Siciliani, e la 'curia regis Alamanie', centro focale del Minnesang, non sembra esserci altro rapporto se non quello costituito dalla bifronte attività di Federico II, il quale tendeva a incoraggiare nelle due nazionalità del suo impero l'esercizio dell'alta poesia in lingua nazionale"); più morbida e cautamente 'possibilista' la posizione di Furio Brugnolo (1995, p. 271: "[…] il sostanziale disinteresse di Federico per i rappresentanti in carne e ossa di quella poesia non esclude che i rimatori della Scuola siciliana ‒ alcuni dei quali accompagnarono, in qualità di funzionari, l'imperatore durante i suoi soggiorni in Germania ‒ abbiano potuto trovare motivi di convergenza, soprattutto metrico-formale, con la coeva produzione in mittelhochdeutsch: le riserve di Frank al riguardo sono forse eccessive. Ed è comunque degno di nota che il sistema dei generi siciliani, con la tripartizione in canzoni, di-scordi e sonetti, arieggi in qualche modo, fra i tanti dell'epoca, solo quello dei Minnesänger, con la tripartizione in liet, leich e spruch"). Gli argomenti utilizzati da Dronke sono tuttavia di modesto valore probatorio, dato che egli prescinde totalmente dalle risultanze ecdotiche; né la presunta opinione di Trissino può dirsi in alcun modo probante ai fini dell'attribuzione, tanto più che parrebbe fondata su un equivoco. Quanto al tema della canzone, il senso della strofe I è piuttosto oscuro. La situazione generale è quella di una 'canzone di separazione', come meglio si chiarisce nella strofe II, ma le allusioni restano qui del tutto opache. La seconda strofe, unica, non a caso, a essere stata antologizzata da Giosuè Carducci in Primavera e fiore della lirica italiana, supera la impenetrabile allusività della prima e, aprendosi nella similitudine dell'uccello in gabbia (vv. 18-23), distende il senso complessivo della canzone: 'Farò come l'uccello quando è prigioniero, che vive per la sola speranza che nutre nel cuore e non muore, sperando di fuggire'.

Allo stesso modo di Per la fera membranza parrebbe da escludersi, con solide motivazioni, l'attribuzione di Oi lasso non pensai, che risulta assegnata a un Rex Federigo dal ms. Laurenziano Rediano 9. Vari studiosi (alcuni autorevoli come Robert Davidsohn, 1908, p. 312, e Santorre Debenedetti, 1947, p. 12) sostennero in passato, con argomentazioni eccessivamente sottili, l'attribuzione a un altro Federico, re Federico d'Antiochia (Monteverdi, 1951), ma è quasi certamente da escludere in favore del difficilior Ruggerone da Palermo, come risulta nel ms. Vat. Lat. 3793. È anche questa una 'canzone di separazione', o meglio stando alla stanza-congedo una canzonetta, inviata a una fior di Soria: "Oịllasso! nom pensai / sì fortte mi paresse / lo dipartire da madonna mia; / da poi ch'io m'alontai, / ben paria ch'io morisse, / menbrando di sua dolze compangnia; / e giamai tanta pena non durai, / se non quando a la nave adimorai" (vv. 1-8); la situazione poetica è quella topica (separazione dall'amata, struggimento nel ricordo, ardente desiderio di ritornare); nella stanza-congedo il poeta apostrofa così la sua 'creatura': "Kanzonetta gioiosa, / va' a la fior di Soria, / a quella c'à im presgione lo mio core; / di' a la più amorosa / ca per sua cortesia / si rimembri del süo servidore, / quelli che per suo amore va penando" (vv. 31-37); non è necessario attribuire un'identità precisa alla fior di Soria, per quanto i sostenitori della paternità di Federico (Monaci, Cesareo, Panvini con ripensamenti, da ultimo Cassata), vi riconoscessero Anaìs, cugina della seconda moglie di Federico II, Iolanda di Brienne, entrambe residenti in Siria.

Cassata ha recentemente proposto di attribuire a Federico la canzone Amor voglio blasmare; è un componimento adespoto, tràdito solo nel ms. Vat. Lat. 3793, nel quale si augura morte violenta ai malparlieri che operano partimento tra gli amanti: "Ben al di là dello spunto convenzionalissimo della maledizione ai lauzangier, il tono è talmente intenso e altero da farmi nascere il sospetto che l'autore possa essere proprio lui, il sovrano. E chi altri poteva, alla sua corte, scrivere versi così accesi, per di più in tono esplicitamente profetico?" (Federico II di Svevia, 2001, p. XXVIII); in realtà l'attribuzione parrebbe del tutto soggettiva e fondata su nient'altro che una generica affinità tematica con De la mia dissïanza; la stessa vis irascibilis, sempre che sia di esclusiva pertinenza dell'imperatore, si direbbe più di tono comico che tragico.

Infine è stata attribuita a Federico la canzonetta di ottonari Di dolor comvien cantare che nel ms. Vat. Lat. 3793 segue immediatamente, ma senza nome dell'autore, De la mia dissïanza. È una 'canzone di malmaritata' che chiede a Dio la morte del marito: "Nel mondo nom foss'io nata / femina co ria ventura: / c'a tal marito son data / che d'amar non mette chura. [...] Dio del cielo, tu che 'l sai, / or mi dona jl tuo comfortto, / del pegior che sia giamai: / uguanno il vedess' io mortto / com pene e dolori assai! / Poi ne saria a bom portto; / ched i' ne saria gaudente / a tuto lo mio vivente; / piangierialo jnfra la giente, / e bateriami a mano; / poi diria jmfra la mia mente: / lodo Dïo sovrano" (vv. 25-48). L'attribuzione a Federico, che parte da Ludovico Valeriani (1816) e tramite l'inclusione in varie antologie carducciane (Carducci, 1907 e 1912) ebbe in passato una certa diffusione, è oggi unanimemente esclusa.

Del tutto fantastico l'arruolamento di Federico nella presunta milizia iniziatica dei 'Fedeli d'amore', operata da Gabriele Rossetti e da Luigi Valli nell'ambito dell'esoterismo dantesco. Per Valli, come già per Rossetti, l'imperatore sarebbe uno dei più autorevoli membri della 'setta segreta'. In Poiké ti piace, Amore Valli ne ritrova le tracce presunte: "L'ipotesi che alla corte di Federico II si sia a un certo punto trapiantata per l'influenza più o meno diretta della tradizione provenzale e dell'Oriente una setta segreta che parlava d'amore in versi secondo un convenzionalismo segreto, spiega innumerevoli cose. Spiega cioè [...] il fatto che questi poeti [i Siciliani] più volte si lascino sfuggire l'idea che essi 'debbano cantare per comando di Amore'. Poiché ti piace Amore che io debba trovare e simili formule, usate quasi da tutti, si riportano all'ipotesi di una setta nella quale (come poi nel dolce stil novo) fosse obbligo degli adepti di comunicare ogni tanto in versi e mantenere in tal modo i contatti. Si comincia così la tradizione dei poeti, i quali ogni tanto parlano dell'obbligo che hanno di cantare". L'ipotesi è sostenuta da una vera e propria falsificazione filologica: Federico chiamerebbe la sua donna "Rosa di Soria" perché dalla Siria "veniva tutta la tradizione del misticismo eterodosso e quella della poesia settaria sotto veste d'amore" (L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei 'Fedeli d'Amore', Milano 19942 [Roma 1928], p. 153), laddove in realtà l'unica lezione dei mss. di Oi lasso non pensai, v. 32 è "fior di Soria" (G. Rossetti, Il mistero dell'amor platonico del medioevo derivato da' misteri antichi, I-V, Londra 1840; L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante [...], Milano 1994).

Se a partire dalla definizione dantesca della Scuola siciliana, nessuno ha potuto negare il ruolo e le capacità di Federico quale 'organizzatore culturale' e primo propulsore della lirica volgare italiana, i giudizi su Federico poeta sono assai più vari, specie nella critica moderna. Eppure la celebre testimonianza di Salimbene de Adam ("[Fridericus] legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire", 1966, p. 508), dimostra la indubbia notorietà di Federico quale poeta. Ad esempio nel Chigiano L. VIII. 305, manoscritto stilnovistico fiorentino, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia "sono gli unici, in tutto il codice, a fregiarsi nell'incipit dei rispettivi componimenti di apertura [...] di una grande iniziale decorata: segno […] non solo della loro assoluta preminenza, ma anche di un discrimine e di un'impostazione storiografico-esegetica alla cui luce dovrà essere letto l'intero libro" (Brugnolo, 1989, p. 16); lo stesso trattamento di riguardo è riservato dal compilatore del Chigiano solo a Poi ch'a voi piacie, Amore, che è collocata in apertura della terza sezione delle canzoni, dedicata a quelle di più antica composizione, ed esibisce il capolettera riccamente decorato. Ciò accade "certo in ossequio al rango dell'autore" (ibid., p. 22). La critica moderna, al contrario, è stata tutt'altro che ossequiosa nei confronti di Federico poeta, imputandogli più che altro la 'disparità' di realizzazioni tra azione politica e creazione poetica. Così Monteverdi: "[...] invano si cercherebbe nei versi di Federico II una pur lieve traccia di quella potente personalità ch'egli seppe così originalmente affermare, sia nell'azione, sia nel pensiero. La concezione ch'egli ebbe della poesia ci è ormai chiara: poesia come gioco, poesia come oblio della realtà. Ed è la concezione che ebbero, con lui, tutti i poeti della scuola siciliana, ma che egli forse più di ogni altro e prima d'ogni altro contribuì a fissare" (1954, pp. 56-57); per Contini "migliori dei versi italiani che gli sono ascritti sono quelli in medio-alto tedesco attribuiti a suo padre Enrico VI, comunque i pregevoli di suo nipote Corradino; migliori gli italiani di suo figlio Enzo [...] enciclopedico, illuminista, naturalista, sperimentatore, Federico è tutto nella presenza attiva e politica della cultura" (1970, p. 50); per Antonio Enzo Quaglio è "[...] presenza determinante [...] nella storia della prima poesia italiana", ma "rimatore complessivamente mediocre" e infatti "rappresentato esilmente dagli antichi canzonieri" (19752, pp. 171-172); per Folena quella di Federico è produzione poetica "scolorita e secondaria" (1965, p. 245). Non mancano, specularmente, gli apprezzamenti: per Maurizio Vitale "[...] rimangono i suoi versi, per nulla distinti dalla lirica d'arte che con lui ebbe vita e impulso notevoli, ma che pur testimoniano di una squisita raffinatezza tecnica e di una aristocratica sensibilità artistica" (1951, p. 250); infine Letterio Cassata opera una rivalutazione di Federico in termini di giudizio di valore 'estetico': egli vede in Dolze meo drudo "ironico distacco ed elegante leggerezza"; il sonetto Misura, providenza e meritanza è "tutt'altro che banalmente convenzionale"; De la mia dissïanza, "tutt'altro che banale affastellamento di luoghi comuni, è una intensa e profonda meditazione sul carattere 'fantasmatico' dell'amore"; Oi lasso è un'"elegia di lontananza, con un notevole grado d'intensità sentimentale" e Poiché vi piace, Amore è "non privo di maestria nella trama fonico-ritmica" (in Federico II di Svevia, Rime, 2001, pp. XIV-XV, 48, 64).

Quello dell'attribuzione di 'valore' è in realtà un esercizio difficile e persino di dubbia utilità, specie in ambiti lirici altamente formalizzati. Se l'importanza di un testo letterario deriva dalla sua capacità di esercitare 'influenza' e di costituire un canone con il quale gli altri testi entrano in 'imitazione agonistica', allora non c'è dubbio che Federico, per la sua stessa posizione e ruolo, sia uno dei rimatori più importanti in termini di 'effetto', quali che siano le qualità poetiche delle sue realizzazioni e la loro presunta misurabilità in termini estetici.

Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3793, c. 13rv, Dolze meo drudo, eh! vatène (Re federigo); c. 13v, [O]i lasso!, non pensai (Rugierone di Palermo); c. 14, Dela mia dissïanza (jperadore federigo); cc. 56v-57r, Poi ch'a voi piace amore (anonimo); Vat. Lat. 3214, Poi ch'a voi piace amore (Federigo Imperadore); Urb. 697, c. 73r, Misura, providenza e meritanza (Imp[er]ador federicho); Chig. L. VIII. 305, c. 78r, Poi ch'a voi piace amore (Lomperadore federigho); Bologna, Biblioteca Universitaria, 1289, c. 43rv, Poi ch'a voi piace amore (Federigo Imperatore); Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Red. 9, c. 102c, [O]i lasso!, non pensai (Rex Federigo); ivi, Biblioteca Nazionale, Palatino 418, c. 29rv, Poi ch'a voi piace amore (Rex fredericus); c. 29v, Per la fera membranza (Rex fredericus); ivi, Magliabechiano VII.7.1208, c. 31v, Poi ch'a voi piace amore (Federigo i[m]peradore); Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. 0 63 sup., c. 13rv, Misura, providenzia e meritanza (anonimo); Valladolid, S. Cruz 332, c. 167rv, Poi ch'a voi piace, Amore (Canzona dello Imp[er]adore Federigo). Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, in dieci libri raccolte e stampate dagli eredi di Filippo di Giunta, Firenze 1527, c. 114, Poi ch'a voi piace amore (Canzone de lo imperadore Federigo II di Sicilia e di Napoli Re); G.G. Trissino, La poetica, Vicenza 1529, p. 25v, Per la fera membranza (Re Federigo di Sicilia / Re Federigo); p. 53v, Poi ch'a voi piace amore (Re Federigo di Sicilia); p. 54, Per la fera membranza (Re Federigo di Sicilia / Re Federigo). La bibliografia 'non specifica' sull'attività poetica e culturale di Federico II è vastissima, e si può dire pressoché coincidente con quella dedicata alla Magna Curia e alla Scuola poetica siciliana, non esistendo nella pratica contributo bibliografico che possa esimersi dal far riferimento anche a Federico. Ci limitiamo qui perciò a far menzione della bibliografia specificamente dedicata a Federico poeta e alle edizioni delle sue liriche. Queste, oltre a essere state editate in tutte le edizioni complessive della Scuola poetica siciliana o di poesia italiana delle Origini (Panvini, Vitale, Contini, CLPIO), hanno anche goduto di edizioni 'monografiche'. Edizioni complessive: M. Vitale, Poeti della prima scuola, Arona 1951; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I-II, Milano-Napoli 1960; B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Introduzione, testo critico, note, II, Glossario, Firenze 1962-1964; Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO), a cura di d'A.S. Avalle, Milano-Napoli 1992. Edizioni 'monografiche': H.H. Thornton, The Poems Ascribed to Frederick II and 'Rex Fridericus', "Speculum", 1, 1926, pp. 87-100; C. Riera, I poeti siciliani di Casa Reale (Re Giovanni, Federico II, Re Enzo), Palermo 1934; L. Cassata, Poesie di Federico II, "La Parola del Testo", 1, 1997, pp. 7-35, poi con lievi varianti in Federico II di Svevia, Rime, a cura di L. Cassata, Roma 2001; ultima in ordine di tempo è S. Rapisarda, Federico II, in Corpus poetico siciliano, a cura di R. Coluccia-C. Di Girolamo, in corso di stampa. Studi specifici: E. Monaci, Sulle divergenze dei Canzonieri nell'attribuzione di alcune poesie, "Atti della R. Accademia dei Lincei. Rendiconti", 282, 1884-1885, pp. 657-662; F. Torraca, Studi sulla lirica italiana del Duecento, Bologna 1902; R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, Berlin 1908 (ediz. it. Firenze ai tempi di Dante, Firenze 1929); G.A. Cesareo, Le origini della poesia lirica e la poesia siciliana sotto gli Svevi, Milano 1924; S. Debenedetti, Di alcune differenze di attribuzione tra il Vat. 3793 e il Laur. Red. 9, "Studi Romanzi" 31, 1947, pp. 5-21; A. Monteverdi, L'opera poetica di Federico II imperatore, "Studi Medievali", 17, 1951, pp. 1-20, poi in Id., Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954, pp. 35-58; G. Contini, Questioni attributive nell'ambito della lirica siciliana, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, VII Centenario della morte di Federico II imperatore e re di Sicilia (10-18 dicembre 1950), Palermo 1952, pp. 367-395; Id., Federico II, Dolze meo drudo, in Id., Letteratura italiana delle Origini, Firenze 1970, pp. 50-52; N. Pirrotta, Musica polifonica per un testo attribuito a Federico II, in Id., Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino 1984, pp. 142-153; J. Schulze, Hat Friedrich II. die Lieder seines Vaters Heinrich VI. gekannt?, "Germanisch-Romanische Monatsschrift", 37, 1987, pp. 376-386; F. Delle Donne, Una disputa sulla nobiltà alla corte di Federico II di Svevia, "Medioevo Romanzo", 23, 1999, pp. 3-20. Altri riferimenti bibliografici: L. Valeriani, Poeti del primo secolo della lingua italiana in due volumi raccolti, Firenze 1816; G. Carducci, Antica lirica italiana (Canzonette, canzoni, sonetti dei secc. XIII-XV), ivi 1907; Id., Cantilene e ballate, strabotti e madrigali nei secoli XIII e XIV, Sesto S. Giovanni 1912; S. Santangelo, Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle Origini, Genève 1928; I. Frank, Poésie romane et Minnesang autour de Frédéric II. Essai sur les débuts de l'école sicilienne, "Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani", 3, 1955, pp. 51-83; M. Corti, Le fonti del 'Fiore di virtù' e la teoria della 'nobiltà' nel Duecento, "Giornale Storico della Letteratura Italiana", 136, 1959, pp. 1-82; G. Folena, Cultura e poesia dei Siciliani, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, I, Le Origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 171-347; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, I, Bari 1966; A.E. Quaglio, I poeti della 'Magna Curia' siciliana, in Letteratura italiana, diretta da C. Muscetta, II, Il Duecento, ivi 19752, pp. 169-240; R. Antonelli, Repertorio metrico della scuola poetica siciliana, Palermo 1984; F. Brugnolo, Il libro di poesia nel Trecento, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di M. Santagata-A. Quondam, Modena 1989, pp. 9-23; J. Schulze, Sizilianische Kontrafakturen, Versuch zur Frage der Einheit von Musik und Dichtung in der sizilianischen und siculo-toskanischen Lyrik des 13. Jahrhunderts, Tübingen 1989; P. Dronke, La poesia, in Federico II e le scienze, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 439-458; F. Brugnolo, La Scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, I, Dalle Origini a Dante, Roma 1995, pp. 265-337; E. Cuozzo, La nobiltà dell'Italia meridionale e gli Hohenstaufen, Salerno 1995; C. Calenda, Ruggerone da Palermo, in Corpus poetico siciliano, a cura di R. Coluccia-C. Di Girolamo, in corso di stampa; R. Gualdo, Anonimo,Di dolor mi comviene cantare, ibid.; S. Rapisarda, Federico II, ibid.; M. Spampinato, Anonimo, Amor voglio blasmare, ibid.