FEDERICO II DI SVEVIA, IMPERATORE, RE DI SICILIA E DI GERUSALEMME, RE DEI ROMANI

Federiciana (2005)

FEDERICO II DI SVEVIA, IMPERATORE, RE DI SICILIA E DI GERUSALEMME, RE DEI ROMANI

NNorbert Kamp

Nacque il 26 dicembre 1194, due giorni dopo che il padre, l'imperatore Enrico VI di Svevia, era stato incoronato a Palermo re di Sicilia, a Jesi nelle Marche (provincia di Ancona), dove la madre, la quarantenne imperatrice Costanza, figlia postuma di Ruggero II di Sicilia, si era fermata quando il marito aveva intrapreso la sua seconda, vittoriosa, spedizione per la conquista del Regno. Il fanciullo riunì nella sua persona l'eredità di due dinastie che solo nel sec. XI erano salite al vertice della nobiltà europea: gli Svevi, ai quali il legame matrimoniale con la casa imperiale salica aveva aperto la via all'Impero, e il casato normanno degli Altavilla, i quali nel 1130 avevano fondato in Italia meridionale la più giovane monarchia del continente. Grazie ai nonni, l'imperatore Federico I Barbarossa e il re di Sicilia Ruggero II, F. poteva vantare legami di parentela con famiglie principesche e nobili di tutta Europa.

Che Costanza pensasse di chiamare Costantino l'erede del trono di Sicilia e del Sacro Romano Impero è tramandato solo da fonti posteriori. La scelta del nome, come è testimoniata nel 1195, si orientò in realtà verso quelli dei nonni, Federico e Ruggero, e alla fine prevalse quello del nonno paterno. Quando Costanza, nella primavera 1195, partì verso Bari e Palermo per assumere la reggenza del Regno dopo la partenza di Enrico VI, affidò il figlio alla cura della duchessa di Spoleto, consorte del duca tedesco Corrado di Urslingen, residente a Foligno. La duchessa, la cui famiglia d'origine ci è ignota, allevò F. e nel 1196 predispose anche il suo battesimo, che, contrariamente ai desideri di Enrico VI, il quale avrebbe voluto che fosse celebrato dal papa, ebbe luogo ad Assisi (Schaller, 1957).

La nascita dell'erede della dinastia spinse Enrico VI a nuove iniziative per consolidare le sorti del suo vasto dominio. Il progetto di trasformare l'Impero in una monarchia ereditaria doveva assimilare la successione imperiale a quella sul trono di Sicilia, ma il piano fallì per l'opposizione dei principi tedeschi e del papa Celestino III. I primi tuttavia nel dicembre 1196 elessero F., che si trovava sempre in Italia, re di Germania. Enrico VI a questo punto, dopo aver regolato il problema della successione, avrebbe dovuto essere in grado di intraprendere la prevista crociata, ma nel settembre 1197 morì a Messina, dove aveva sedato una nuova pericolosa rivolta. Il sistema della successione che era riuscito a costruire non riuscì comunque a scongiurare lo scoppio delle tensioni prodotte dalla sua instancabile politica condotta su vari fronti.

Mentre il fratello di Enrico VI, il duca Filippo di Tuscia, che avrebbe dovuto condurre l'erede al trono F. da Foligno in Germania, alla notizia della morte di Enrico VI rientrò anticipatamente, i conti Pietro da Celano e Berardo da Loreto, su ordine dell'imperatrice Costanza, poche settimane dopo portarono F. nel Regno. Già nel dicembre 1197 F. si trovava a Messina. Con il consenso del nuovo papa Innocenzo III, Costanza il 17 maggio 1198 fece incoronare il figlio re di Sicilia. Il fatto che dopo questa investitura il titolo di re dei Romani, fino ad allora attribuito a F., non sia più riportato nei documenti prova che Costanza non rivendicò più i diritti che spettavano al figlio in base all'elezione del 1196: il suo obiettivo politico era unicamente quello della successione in Sicilia. Nelle trattative con Innocenzo III accettò le condizioni in materia di politica ecclesiastica imposte dal papa per l'infeudazione sua e del figlio. I documenti erano già stati redatti, ma non ancora consegnati, quando il 27 novembre 1198 Costanza morì.

Nel suo testamento aveva nominato papa Innocenzo III reggente del Regno e tutore di F., che allora aveva solo quattro anni. Come organo investito delle funzioni di governo fu designato il collegio dei familiari a Palermo, composto da alti prelati e dal cancelliere Gualtiero di Palearia; a quest'ultimo fu anche affidato l'incarico di provvedere all'educazione del fanciullo. Contemporaneamente però Marcovaldo di Annweiler, il principale sostenitore tedesco di Enrico VI, basandosi su una procura dell'imperatore fatta passare per testamento, rivendicò per sé la reggenza e la tutela e queste sue pretese furono riconosciute da Filippo di Svevia, fratello dell'imperatore defunto ed eletto re di Germania dal partito svevo nel 1198. L'invasione di Terra di Lavoro effettuata da Marcovaldo provocò una lotta per la reggenza che non conobbe vincitori, ma compromise in maniera grave l'ordine dello stato e i diritti della Corona. Dopo i primi insuccessi in Campania, nel 1200 Marcovaldo, con l'aiuto dei genovesi, sbarcò in Sicilia, si accordò con una parte dei familiari e nel novembre 1201 nel Castellammare di Palermo si impadronì della persona di F. con un colpo di mano. Da quel momento Marcovaldo di Annweiler governò in nome del giovane re, anche se, nei fatti, la sua autorità fu limitata alla Sicilia. Dopo la sua morte, nel 1202, gli successe un altro capitano tedesco, Guglielmo Capparone, che tenne F. sotto il suo controllo fino al 1206 nel palazzo reale di Palermo, ma estese il suo dominio anche ad alcune zone della Sicilia.

Nonostante il succedersi dei reggenti, F. ricevette a Palermo un'educazione cavalleresca, che gli trasmise i molteplici stimoli che si agitavano nell'ambiente culturale aperto e cosmopolita della metropoli siciliana, anche se egli (al contrario di quanto afferma una tradizione più tarda) non si poteva muovere liberamente nella città. In momenti critici, come ad esempio la cattura da parte di Marcovaldo, F. mostrò uno spiccato senso del proprio rango e una suscettibile consapevolezza della propria dignità di sovrano. La viva intelligenza, le doti cavalleresche, ma anche l'asprezza del giudizio e la determinazione irremovibile colpirono gli osservatori già in questi primi anni.

Dal 1206 F. risiedette a Palermo sotto la diretta custodia del cancelliere Gualtiero di Palearia, il quale, come antico fiduciario di Enrico VI, non aveva esitato ad affrontare il conflitto con il papa per evitare rischi alla successione di F. sul trono di Sicilia. Con il suo consenso Innocenzo III riprese vecchi progetti matrimoniali in funzione di un'alleanza con gli Aragonesi e concluse il matrimonio di F. con Costanza d'Aragona, vedova di re Emerico d'Ungheria, di dieci anni più anziana di lui.

Nel 1208 Innocenzo III lo dichiarò maggiorenne. Il giovane re, senza avere nelle sue mani alcun mezzo concreto per promuovere una politica personale, si propose il compito di restaurare l'autorità della monarchia nel Regno, a partire dalla periferica Palermo. La speranza di potere disporre del seguito di cavalieri che accompagnò la moglie Costanza d'Aragona a Palermo nell'estate 1209 svanì, dato che la maggior parte di essi morì in quella stessa estate vittima di un'epidemia. Comunque F., con le prime revoche di concessioni feudali, con il licenziamento del cancelliere Gualtiero di Palearia, sostenitore di una politica filonobiliare, e con il deciso intervento nell'elezione controversa dell'arcivescovo di Palermo diede i primi segnali di una nuova politica che provocò reazioni non solo da parte del pontefice: rivolte e complotti si erano verificati tra i feudatari siciliani e calabresi già nel 1209 e nel 1210 furono soffocati da Federico.

Questa politica preoccupò la nobiltà e spinse cavalieri tedeschi come Dipoldo di Schweinspeunt e alcune famiglie, come ad esempio quella dei Celano, che vedevano minacciata la loro concentrazione di potere realizzata negli ultimi decenni, a un'alleanza con il nuovo imperatore Ottone IV. Questi, dopo la sua incoronazione, fu sollecito a riprendere la linea politica di Enrico VI. La sua spedizione nel Regno, con i successi militari che conseguì, dimostrò quanto fosse decaduta l'autorità del re durante il periodo della reggenza, ma fu anche la prova della debolezza di F. nelle province del continente. Papa Innocenzo III, che aveva sperato in uno sviluppo affatto diverso degli eventi, di fronte all'invasione degli eserciti imperiali non ebbe altra scelta che privare Ottone IV del sostegno dei principi tedeschi con l'aiuto dello stesso F. per garantire il mantenimento della riacquisita libertà politica della Chiesa romana in Italia. Ma dopo i primi contatti con Ottone, che avevano scontentato tutte le parti e ottenuto solamente di irritare il papa, F. reagì agli attacchi dell'imperatore, penetrato fino in Calabria senza avere una strategia precisa.

A Norimberga nell'autunno 1211 un gruppo di principi tedeschi, con l'appoggio politico del re francese Filippo Augusto e con l'approvazione di Innocenzo III, elesse F. re dei Romani e futuro imperatore. La notizia dell'elezione bastò perché Ottone interrompesse la campagna nel Regno nel novembre 1211, cosicché la minaccia immediata fu scongiurata. F. si trovava ora dinanzi alla scelta se proseguire o meno, pur non disponendo di mezzi propri, la battaglia per impadronirsi della corona del padre, assumere l'eredità degli Svevi e salire alla massima dignità del mondo occidentale, anche mettendo in gioco il Regno di Sicilia, nel quale non aveva ancora imposto per intero la sua egemonia.

Contro il parere della moglie Costanza d'Aragona e di altri dignitari, F. decise di accettare l'elezione dei principi tedeschi, certo anche in considerazione del fatto che una rinuncia non avrebbe evitato lo scontro con Ottone IV per la Sicilia, ma lo avrebbe solo rinviato. Con un piccolo seguito si recò in Germania passando per Gaeta e per Roma. Qui nell'estate 1212 prestò il giuramento feudale ligio per il Regno, dove prima della sua partenza, esaudendo il desiderio papale, egli aveva fatto incoronare il figlio Enrico, che non aveva ancora compiuto l'anno, e nominato la moglie Costanza reggente. Innocenzo III ottenne in cambio le garanzie richieste circa una duratura separazione tra Impero e Regno. Sotto la protezione dei genovesi, F. attraversò quindi la Lombardia e proseguì per vie secondarie attraverso l'Engadina fino a Costanza, dove giunse alla metà di settembre 1212, precedendo solo di poche ore Ottone IV.

Dopo il successo di Costanza F., il puer Apuliae, erede degli Svevi e speranza del loro partito, riuscì a sobillare la rivolta contro Ottone e a estendere la sua supremazia sulla Germania meridionale. Una nuova elezione da parte dei principi a Francoforte, il 5 dicembre 1212, sanò le mende della precedente elezione e preparò l'incoronazione, celebrata a Magonza il 9 dicembre. Nel luglio 1213 F. emanò a Eger i diplomi per Innocenzo III, il cui contenuto era già stato delineato da Ottone: riconobbe al papa le proprietà recuperate nell'Italia e la libertà di elezione e di appellazione delle Chiese tedesche, fatto che sottrasse completamente i principati ecclesiastici tedeschi all'influenza del sovrano.

Il provvisorio equilibrio creatosi tra F., che controllava la Germania centrale e meridionale, e Ottone IV, che prevaleva nelle regioni settentrionali, si concluse con la sconfitta di quest'ultimo nello scontro anglo-francese per il controllo delle Fiandre a Bouvines, nel luglio 1214. Filippo Augusto rese palese il suo orientamento con un gesto inequivoco: l'aquila imperiale sottratta in battaglia a Ottone IV fu restituita a F.; Innocenzo III da parte sua ratificò formalmente l'esito dello scontro per l'Impero nell'ultima sessione del concilio lateranense, nel novembre 1215, quando riconobbe apertamente i diritti derivati a F. dall'elezione dei principi tedeschi e con ciò la sua pretesa alla dignità imperiale.

Ottone rimase in possesso della corona e del tesoro imperiale, ma non riuscì a frapporre ostacoli seri sulla strada di F. fino alla sua morte, nel 1218. Questi in seguito non tralasciò alcuna occasione per accrescere la sua autorità e promuovere una politica improntata a una piena consapevolezza dei suoi nuovi compiti. Quando Aquisgrana gli aprì le porte nel 1215, si fece incoronare di nuovo il 25 luglio nel duomo, nel quale tradizionalmente venivano incoronati i re tedeschi. Salì sul trono di Carlomagno e chiuse di propria mano lo scrigno d'oro nel quale le ossa di quel sovrano sarebbero state da allora in poi venerate. Nella stessa occasione prese pubblicamente la croce, mostrando di volere portare a compimento l'impresa che secondo la leggenda Carlomagno aveva intrapreso e suo nonno Federico I Barbarossa e suo padre Enrico VI non erano riusciti a realizzare. L'atto simbolico di riallacciarsi alla tradizione di Carlomagno e l'adesione alla crociata misero chiaramente il giovane sovrano nella posizione di futuro imperatore. Il re di Sicilia, che ancora nel 1211 era minacciato nella sua stessa sopravvivenza politica, in pochi anni si era trasformato in monarca di livello europeo, i cui obiettivi e le cui iniziative dovevano determinare in misura sempre più decisiva la politica dell'intero continente.

Se gli esordi della sua politica in Germania furono caratterizzati da una certa liberalità per trovare e mantenere sostenitori tra i principi laici ed ecclesiastici, d'altro canto, per compensare le perdite nel conflitto per il trono imperiale, F. si riallacciò ovunque gli fosse consentito alla politica territoriale seguita dai suoi predecessori. In Alsazia, oltre alla sua residenza favorita di Hagenau, fondò nuove città e nuove zecche, ma anche in altre regioni ancora controllate dalla monarchia si sforzò di raggruppare i demani regi, i ministeriali e le città in unità amministrative più efficienti. F. aveva compreso che queste ultime in particolare, con il numero crescente degli abitanti e perciò del gettito fiscale, potevano diventare un nuovo sostegno della monarchia in Germania.

La crociata, ma anche la coscienza sempre più acuta della grandezza dei compiti che gli spettavano come sovrano, spinsero F. a mettere in discussione la divisione tra Impero e Regno concordata nel 1212 con il pontefice. La Sicilia infatti aveva una funzione strategica determinante e ineliminabile per la spedizione in Terrasanta. Subito dopo il concilio lateranense F. fece venire la moglie Costanza e il figlio Enrico di cinque anni in Germania senza nominare un nuovo reggente nel Regno. L'irritazione di Innocenzo III fu placata con la dichiarazione resa a Strasburgo il 1o luglio 1216, con la quale F. si impegnò a rinunciare alla corona di Sicilia a favore di Enrico e a nominare un reggente dopo l'incoronazione imperiale. Quando Costanza ed Enrico arrivarono in Germania F. conferì però al figlio il ducato di Svevia e nel 1219 anche il rettorato sulla Borgogna, ma non fece più parola della corona di Sicilia, cosicché il suo obiettivo di mantenere concentrate nella sua persona la corona imperiale e quella del Regno divenne chiaro a tutti.

L'occasione per fare marcia indietro rispetto agli accordi del 1212 e del 1216 fu creata dall'elezione di Enrico a re dei Romani, settimo di questo nome, nella Curia di Francoforte nell'aprile 1220. L'elezione, la cui iniziativa F. attribuì esclusivamente ai principi tedeschi, sebbene avesse lavorato intensamente per questo obiettivo, gli consentì, durante le trattative intercorse con Onorio III immediatamente prima dell'incoronazione imperiale, di fare decadere il principio fin lì sostenuto di una divisione tra i due domini, e questo avvenne senza che il papa sollevasse una formale opposizione all'unione del Regno e dell'Impero realizzatasi di fatto nella persona di Federico. I vecchi piani venivano rovesciati: la Germania ebbe come sovrano il minorenne Enrico, per il quale fu affidata la reggenza all'arcivescovo Engelberto di Colonia, mentre in Sicilia F. governava come re in virtù dei suoi diritti ereditari. Contemporaneamente era anche imperatore e sovrano della parte italiana dell'Impero.

Il prezzo politico per l'elezione di Enrico fu la Confoederatio cum principibus ecclesiasticis, un privilegio che obbligava la giurisdizione penale temporale ad eseguire le sentenze ecclesiastiche e ratificò l'evoluzione degli ultimi decenni, che tendeva a conferire ai principati ecclesiastici autonomia territoriale. Riconoscendo il principio che nuovi diritti emanati dal re non potevano danneggiare diritti preesistenti dei principi, F. garantì i principati ecclesiastici anche contro i possibili abusi della politica territoriale del sovrano.

Nell'agosto 1220 F. poté quindi riprendere la strada per l'Italia. Già dalla Lombardia e dall'Emilia ordinò la restituzione alla Corona di alcuni feudi nel Regno. Il 22 novembre 1220, a Roma, Onorio III lo incoronò imperatore. F. rinnovò al papa i suoi voti per la crociata ed emise leggi imperiali per la tutela dell'immunità fiscale e giudiziaria del clero minacciata nei comuni, nonché per la lotta all'eresia, concordandone il contenuto con la Curia. Il testo delle leggi fu trasmesso all'Università di Bologna.

Dopo essere rientrato nel Regno, nel dicembre 1220 F. realizzò con le Assise di Capua una svolta radicale nella politica interna. Risalendo indietro nel tempo per gli anni equivalenti a una generazione stabilì la data del 1189 come termine legittimo per l'esistenza di ogni diritto, consuetudine e proprietà e al contempo annunciò che tutti i diritti nel paese provenivano dalla Corona e perciò potevano essere riorganizzati anche ricorrendo alla revoca dei privilegi. Questa politica contava alcuni precedenti, ma nel 1220-1221 il preteso ritorno alle buone consuetudini di Guglielmo II rappresentò in realtà una rivoluzione mascherata sotto forma di recupero della tradizione. Nobili e Chiesa persero feudi e giurisdizioni, mercati e porti, terre e sudditi, e inoltre con la confisca di castelli e di fortificazioni sottoposti direttamente all'autorità della Corona fu sottratta ad essi la loro parte del potere. Le città furono private del loro spazio d'azione, di cui alcune avevano già approfittato realizzando in proprio accordi politici e promuovendo iniziative commerciali autonome. Le repubbliche marinare, Genova in primo luogo, persero i loro privilegi commerciali e le basi in Sicilia che avevano acquisito durante il periodo della reggenza.

Le Assise di Capua miravano a un nuovo equilibrio nei rapporti tra monarchia e nobiltà. Uffici che avevano consentito alla nobiltà comitale di partecipare al potere dello stato, come ad esempio la carica di maestro giustiziere nelle regioni, furono aboliti in un sol colpo. Ci fu però bisogno di diverse campagne militari negli anni 1223 e 1224 per domare e costringere a emigrare la famiglia dei Celano, che dal Molise e dalla Marsica animava l'opposizione alla nuova politica della monarchia. Conseguito questo primo successo, fu possibile per F., con uno spiegamento di forze più modesto, esiliare altre famiglie comitali e incamerare i loro feudi.

Contemporaneamente alla rivolta feudale F., per ristabilire l'autorità della Corona sull'isola, dovette affrontare anche i saraceni siciliani in continua rivolta, trovandosi per qualche tempo impegnato su un duplice fronte nel Nord e nel Sud del Regno. Anche per quest'altro problema egli adottò una soluzione radicale: gli abitanti saraceni della Sicilia, sconfitti in campagne pluriennali, dopo il 1224-1225 furono sistematicamente deportati a Lucera in Capitanata. Qui i musulmani, che fino ad allora avevano abitato per lo più nelle campagne, furono concentrati in un centro urbano: fatto che da un lato li isolò a lungo dal mondo islamico, ma che, d'altro canto, garantì loro, sotto la protezione dell'imperatore, libertà religiosa e condizioni favorevoli per lo sviluppo delle attività produttive, cosicché la nuova città saracena nel corso dei decenni successivi avrebbe conosciuto una fioritura economica in alcuni settori specifici dell'artigianato. Inoltre Lucera divenne la guarnigione di un corpo militare d'élite che appoggiò la monarchia sveva anche dopo la morte di Federico.

Altre riforme che modificarono radicalmente l'edificio dello stato seguirono in breve volgere di tempo. Il sovrano decise con maggiore autonomia la nomina e il normale avvicendamento dei funzionari provinciali. Giustizieri e camerari costituirono da allora in poi una classe di funzionari che formò il nerbo di una nuova nobiltà formatasi al servizio dello stato. Ancora più denso di conseguenze fu il fatto che il tribunale della Magna Curia dal 1221 fu rinnovato con nuovi giudici e presto fu anche introdotto un nuovo ordinamento destinato a sopravvivere all'epoca sveva. Da tribunale collegiale formato da maestri giustizieri della Magna Curia con gli stessi diritti, divenne un tribunale organizzato gerarchicamente, presieduto da un maestro giustiziere che proveniva dal ceto baronale e perciò non era esperto del diritto; come giudici gli erano affiancati giuristi professionisti o comunque laureati in questa disciplina. La nuova composizione del tribunale garantì una diversa qualità nell'applicazione della giustizia e nell'efficienza dell'amministrazione. Esso divenne una scuola in cui primeggiarono talenti come quelli di Pier della Vigna e Taddeo da Sessa e in questo modo si aprì per gli specialisti del diritto la possibilità di una carriera al servizio della Corona fino ai posti al vertice dello stato, nel Consiglio del re e nella diplomazia, ma anche nelle province, dove già al tempo di F. dei giuristi trovarono una solida sistemazione nell'amministrazione, come assessori dei camerari e dei giustizieri.

La riforma del tribunale della Magna Curia portò direttamente alla fondazione dell'Università di Napoli nel 1224, che divenne la prima università statale in Europa. Il nuovo Studio, da quando F. proibì ai sudditi di studiare all'estero, fu destinato a soddisfare nel tempo il fabbisogno dello stato di giuristi preparati che provenissero dal Regno e, al contempo, assicurò che i contenuti dell'insegnamento fossero orientati verso il diritto pubblico e le leggi locali.

Con il ristabilimento della sovranità dello stato sulle fortificazioni la Corona acquisì oltre cento tra castelli, torri di guardia portuali e costiere, ma si sobbarcò pure l'onere della manutenzione, nonché quello di nuove costruzioni. La finalizzazione dell'attività edilizia pubblica sulla sicurezza interna ed esterna limitò altre iniziative in questo settore. L'amministrazione dei castelli fu riformata e F. all'inizio cercò di applicare esperienze maturate in Terrasanta, dato che prima del 1228 nominò provisores imperialium castrorum in Calabria un templare e un gioannita. Ai provisores provinciali furono affiancati in seguito anche speciali collettori per soddisfare, con una procedura preferenziale, le crescenti necessità finanziarie dei castelli. Uno statuto emanato dopo il 1240 obbligò invece i feudatari, le chiese e le comunità locali a provvedere alla manutenzione.

Dopo l'espulsione dei genovesi, F. ordinò la formazione di una flotta autonoma, che fu allestita in breve tempo e al comando della quale fu messo comunque un ammiraglio genovese. La base del rapido rafforzamento militare della Corona fu una severa leva dei feudatari sulla base del catalogo aggiornato dei baroni, che fornì il personale e i mezzi per i vari servizi nell'esercito, nella manutenzione dei castelli, nella gestione dei cantieri e della flotta.

Con la revoca dei vecchi privilegi e concessioni le Assise di Capua risolsero anche il problema dello spopolamento dei territori demaniali; il rimpatrio degli abitanti comportò un miglioramento della loro produttività, soprattutto in Puglia e in Sicilia. I nuovi insediamenti decisi da F. furono popolati anche con il ricorso a trasferimenti coatti. Le nuove città di Augusta, Eraclea, Altamura e Monteleone compensarono la distruzione delle città avvenuta durante la repressione delle rivolte nobiliari: Celano e Sora, nonché Centuripe e Capizzi.

Il fallimento nel 1221 della quinta crociata sotto le mura di Damietta, che la flotta inviata da F. in Oriente non riuscì a scongiurare perché arrivò solo dopo la caduta della città egiziana, ripropose in primo piano negli incontri con Onorio III il voto di intraprendere una crociata, sempre rinviato dall'imperatore impegnato prima nei preparativi per la sua incoronazione imperiale, poi nelle riforme in Sicilia. L'elezione di vescovi siciliani e l'invasione del ducato di Spoleto, inoltre, crearono nuove tensioni nei rapporti tra l'imperatore e il pontefice, nonostante il sincero desiderio di entrambi di trovare un accordo. Nel settembre 1225 Onorio III decise di risolvere un lungo blocco nelle elezioni di prelati siciliani, nominando cinque vescovi e arcivescovi di sua scelta. F. a sua volta impedì il loro insediamento, ma dopo un ragionevole lasso di tempo poté mutare politica, perché Onorio III aveva designato, trasferito e consacrato vescovi che l'imperatore poteva accettare.

In accordo con il pontefice, nel 1225 F. sposò Iolanda (Isabella) di Brienne, erede del Regno di Gerusalemme. Subito dopo le nozze assunse il titolo di re di Gerusalemme, contestando al suocero Giovanni di Brienne i suoi diritti su quel Regno, con il risultato di procurarsi un irriducibile avversario della propria politica in Oriente.

Dopo che insieme con Onorio III fu stabilito, come termine ultimo per effettuare la crociata, l'anno 1227, F. invitò i principi tedeschi e i comuni italiani, nonché la nobiltà dell'Italia settentrionale, a una dieta da tenersi a Cremona nella Pasqua 1226 e mise all'ordine del giorno il ripristino dei diritti imperiali, la lotta contro l'eresia e l'organizzazione della crociata. Sebbene la politica di F. nelle regioni italiane dell'Impero fosse stata fino ad allora caratterizzata da una certa prudenza, l'invito, sicuramente anche in considerazione del nuovo indirizzo intrapreso da F. in Sicilia, provocò un moto di resistenza tra i comuni, preoccupati per la loro indipendenza; la stessa scelta della filoimperiale Cremona come sede della dieta dovette sembrare non imparziale. Sotto la guida di Milano i comuni rinnovarono dunque la Lega lombarda, che aveva sconfitto Federico Barbarossa costringendolo a cambiare politica con la pace di Costanza. La dieta non ebbe luogo perché le città lombarde impedirono ai principi tedeschi di recarsi a Cremona e F. non di-sponeva di forze sufficienti per rimuovere il blocco. Il bando imperiale emanato contro i comuni con l'accusa di avere ostacolato la crociata non mutò l'entità degli eventi: la Lega aveva inflitto uno scacco all'autorità imperiale, i cui effetti erano destinati a farsi sentire ancora a lungo. La questione lombarda acquistava così un ruolo di primo piano nei rapporti tra Papato e Impero, perché diveniva sempre più evidente che la libertà della Chiesa romana era garantita dalla libertà dei comuni piuttosto che dal rispetto dell'integrità territoriale dello Stato della Chiesa. La crisi del 1226 si concluse comunque senza uno scontro frontale e Onorio III riuscì a ricomporla trovando un compromesso tra F. e la Lega.

Durante il suo soggiorno nell'Italia settentrionale nel marzo 1226 con la Bolla d'oro di Rimini F. concesse all'Ordine dei Cavalieri teutonici, nella persona del loro Gran Maestro Ermanno di Salza, l'investitura feudale per i territori che l'Ordine avrebbe potuto conquistare nella Prussia. In maniera analoga l'elevazione di Lubecca a città imperiale nel giugno 1226 era destinata a produrre effetti a lunga scadenza, non prevedibili in quel momento: la nuova libertà imperiale costituì infatti un modello per altre città e fu la premessa per l'affermazione di Lubecca come avamposto della Hansa nel bacino del Baltico.

Nell'agosto successivo all'elezione del nuovo papa Gregorio IX (marzo 1227) F. salpò da Brindisi a capo della crociata, ma la spedizione si interruppe subito per l'epidemia scoppiata tra i crociati e i pellegrini; lo stesso F. si ammalò. Gregorio IX protestò, ricordando che F. si era deciso a partire sotto pena di scomunica, e interpretò la malattia come un pretesto per sottrarsi all'impresa: per questo il 29 settembre, nella cattedrale di Anagni, scomunicava l'imperatore.

Senza badare alla scomunica, F. proseguì nell'organizzazione della crociata. Dopo la partenza di un'avanguardia di cinquecento cavalieri s'imbarcò egli stesso a Brindisi nel giugno 1228 e, dopo una sosta a Cipro, il 7 settembre dello stesso anno giunse a S. Giovanni d'Acri con un piccolo esercito di crociati e accompagnato da numerosi pellegrini. I cristiani in Terrasanta, il patriarca di Gerusalemme e la maggior parte degli Ordini cavallereschi rifiutarono però ogni collaborazione a causa della scomunica e F., per il successo della sua azzardata impresa, fu obbligato a ricorrere alle vie diplomatiche. Attraverso trattative già preparate da una precedente missione e protrattesi per diversi mesi egli si guadagnò la fiducia del sultano d'Egitto al-Kāmil, finché nel febbraio 1229 riuscì a concludere con lui un accordo decennale che prevedeva la restituzione ai cristiani di Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e di una fascia costiera, mentre ai musulmani riservava l'area del tempio considerata sacra per la loro religione. Sebbene questo risultato mettesse in ombra i successi di tutte le crociate successive alla caduta della Città Santa, gli avversari colsero il pretesto per obiettare che la nuova libertà di Gerusalemme poggiava solo su una tregua destinata ad avere fine. Dopo una messa di ringraziamento sul S. Sepolcro, alla quale per via della scomunica non partecipò, F. cinse nella stessa chiesa la corona di re di Gerusalemme. Poche settimane dopo Corrado, il figlio avuto nel 1228 da Iolanda di Brienne (morta in seguito al parto), fu creato re di Gerusalemme e al suo posto venne nominata una reggenza.

L'andamento della crociata fu preso a pretesto da Gregorio IX per rinnovare la scomunica nel marzo 1228, sciogliere i sudditi di F. dal giuramento di fedeltà e sostenere l'elezione di un nuovo sovrano antisvevo in Germania.

Il reggente lasciato da F. a governare il Regno, Rainaldo di Spoleto, aveva effettuato di sua iniziativa un attacco nella Marca di Ancona e nel ducato di Spoleto; Gregorio IX, in risposta, nel gennaio 1229 inviò nel Regno milizie già reclutate per questo scopo da tempo, sotto il comando di un legato, di Giovanni di Brienne e di fuorusciti siciliani. Le truppe pontificie, dopo avere superato presso Montecassino l'iniziale resistenza dell'esercito imperiale guidato dal maestro giustiziere Enrico di Morra, si spinsero rapidamente fino in Puglia. Alla notizia dell'invasione F. interruppe immediatamente la crociata, anche perché la sua posizione in Terrasanta, a causa delle resistenze opposte dai cristiani locali, permaneva difficile. La spinta verso una rivolta generale nel Regno provocata dall'invasione degli eserciti pontifici, anche grazie al diffondersi della notizia della morte dell'imperatore in Oriente, cessò, dopo il ritorno di F. a Brindisi nel giugno 1229, con la stessa velocità con la quale si era propagata. La rapida riconquista delle province fu accompagnata da processi contro le città e i feudatari traditori e da messe di ringraziamento. D'altra parte F. fu attento a non oltrepassare i confini dello Stato della Chiesa per mostrare la sua disponibilità alla pace. Dopo lunghe trattative, nelle quali il Gran Maestro dell'Ordine teutonico Ermanno di Salza e il cardinale Tommaso di Capua fecero da mediatori e anche i principi tedeschi intervennero in favore della riconciliazione, si arrivò nell'estate 1230 alla pace di San Germano. Un incontro diretto tra F. e Gregorio IX ad Anagni portò a un ulteriore riavvicinamento, sebbene F. avesse pagato caro l'accordo a causa di una serie di concessioni a favore della Chiesa siciliana (concessioni comunque meno incisive di quanto si sia a lungo ritenuto).

La profonda crisi dello stato che l'invasione aveva fatto emergere fu affrontata da F. con le Costituzioni di Melfi e con riforme economiche su larga scala che occuparono quasi l'intero decennio successivo. Le Costituzioni pubblicate a Melfi nell'agosto 1231 rappresentavano in un certo senso la riedizione delle Assise di Ariano di Ruggero II, ma al contempo ne costituivano l'ampliamento e il sistematico completamento. Una novità evidente era rappresentata dalla concettualità filosofica e dall'eleganza del linguaggio, cui i dettatori della cancelleria imperiale si applicarono con dedizione, ma anche da un'impostazione sistematica, dietro la quale si intuiva l'affermazione del tribunale della Magna Curia e della nuova scienza giuridica. Anche se l'immagine che le Costituzioni davano dei doveri del sovrano e dei compiti dello stato, dell'autonomia dei magistrati e dei fondamenti giuridici della loro azione era in evidente contraddizione con il reale sviluppo dell'amministrazione della giustizia, della divisione dei poteri e del reclutamento dei funzionari ‒ ed era inevitabile fosse così ‒, le Costituzioni anticiparono i tempi, perché tentavano di ordinare lo stato e i suoi organi in un sistema coerente e perciò ampliavano in maniera cospicua l'insieme degli obblighi che lo stato aveva nei confronti dei sudditi. Il diritto amministrativo delle Costituzioni mirava, nel pieno recupero della tradizione, a un sistema che si legittimasse da sé, andando ben oltre l'ordinamento normativo dei formulari e delle consuetudini di cancelleria proprie di altre istituzioni, senza però trascurarlo del tutto. Le Costituzioni non si fermavano davanti alla sfera privata, ma con l'ordinamento per i medici e i farmacisti presagivano il moderno sistema sanitario. Non è perciò un caso che l'opera legislativa di F. avesse una lunga durata e ancora dopo molte generazioni fosse elogiata dai giuristi che si formarono sulle Costituzioni come il più grande e duraturo merito dell'imperatore svevo. L'opera interpretativa dei giuristi successivi, che si orientarono in prima istanza alle leggi, alla concettualità e al linguaggio delle Costituzioni, alimentò nei posteri l'opinione, talora anche la convinzione, che la monarchia siciliana di F. dovesse essere considerata come un'opera d'arte anticipatrice dei tempi o addirittura, come la definì Antonio Marongiu, come stato modello.

Le riforme economiche introdotte con le Costituzioni fecero sì che la Corona si imponesse nei commerci e nei mestieri come soggetto esclusivo o come potenziale monopolista. Le condizioni materiali per il progresso del commercio e dei trasporti migliorarono grazie alla creazione di nuovi porti, mercati e magazzini, ma l'obiettivo perseguito da F. di aumentare le entrate della Corona attraverso il controllo dell'economia condizionò il loro sviluppo. All'espansione dell'economia controllata dallo stato seguì l'espansione dell'amministrazione finanziaria a causa della suddivisione dei compiti e della distribuzione delle competenze a livello provinciale e locale, che promosse forme molto differenziate e generò anche strutture irregolari, eliminate solo con la promulgazione di posteriori Novelle. Questo intensificarsi del controllo statale sull'economia comportò una contrazione dell'autonoma iniziativa commerciale e produttiva dei ceti borghesi, anche se i patrizi delle città, in qualità di funzionari nei porti e nei magazzini, affittuari di sericulture e di monopoli commerciali, dazieri e cambiavalute, affittuari di masserie e di colture specializzate, prestarono alla prepotente economia statale il motore della loro intraprendenza, traendone al contempo beneficio per i loro interessi. In contraddizione con le Costituzioni e con affermazioni dello stesso F., l'appalto degli uffici e delle imposte registrò nel 1231 una brusca impennata a partire dai dazi portuali fino all'affitto degli uffici di camerario e di secreto nelle province. L'effetto concreto delle riforme economiche introdotte nel 1231 fu che i mercanti di Amalfi, che da sempre avevano dominato le attività commerciali e finanziarie nelle città del Meridione, si affermarono come partners privilegiati dell'economia statale.

F. intuì per tempo anche la necessità di sottoporre a un regolare controllo i funzionari dello stato, che con l'autorità loro conferita distribuivano pene e incameravano denaro, e di assegnare a tale controllo uno spazio preciso nel regime amministrativo. Se pure la procedura del sindacato usata nei comuni aveva potuto costituire un modello, la creazione della corte dei conti nel 1240 e la sua composizione con funzionari esperti nel ramo rappresentano un'innovazione pionieristica nella storia dell'amministrazione in Europa. Con i rendiconti pretesi dai funzionari locali essa concentrò nella Magna Curia una quantità di informazioni sull'andamento della gestione finanziaria dello stato che offriva alla monarchia un'inedita possibilità di controllo sull'operato dei suoi funzionari, purché solo ne sapesse fare un uso proficuo.

Le riforme del 1231 riguardarono anche la dotazione della Chiesa siciliana, sin dal periodo normanno solidale con la Corona riguardo alla tassazione dell'economia, dato che la decima di tutte le entrate dello stato costituiva di regola il grosso dei suoi introiti correnti. Con i nova statuta F. eliminò in parte questa ipoteca ereditata dai suoi predecessori: garantì alla Chiesa lo status quo patrimoniale, ma le sottrasse per il futuro il diritto a partecipare all'incremento delle finanze statali, dopo che nel passato ne era stata largamente partecipe. Con la riassociazione al demanio delle regalie godute dalla Chiesa fu fatto valere lo stesso principio: il risarcimento corrispose al loro valore nominale, mentre i vantaggi che derivarono dalla loro concentrazione e riorganizzazione toccarono alla Corona. Dato che F., anche dopo la pace di San Germano, era riuscito ad orientare le nomine ecclesiastiche secondo i suoi voleri, determinando in tale modo l'accesso alle alte gerarchie di molti rappresentanti della nuova nobiltà di servizio, i duri attacchi ai beni ecclesiastici, le prevaricazioni nell'amministrazione delle sedi vacanti, le richieste esorbitanti di tributi e altre pressioni del genere non ebbero conseguenze negative: il tradizionale legame della Chiesa siciliana con la monarchia rimase intatto e anche dopo la seconda scomunica e la deposizione dell'imperatore le correnti ostili ebbero poco spazio.

L'impegno in quest'ampia opera di riforma del Regno si interruppe bruscamente quando il figlio di F., Enrico (VII), maggiorenne dal 1228, nella sua politica in Germania non tenne conto del fatto che i principi tedeschi, con la mediazione svolta per la pace di San Germano tra F. e il papa, avevano acquisito dei meriti nei confronti dell'imperatore. La politica aggressiva di Enrico, portata avanti con il sostegno dei ministeriali e delle città con l'obiettivo di aumentare il suo controllo sul paese, unificò i principi in un fronte compatto che costrinse il sovrano a un brusco cambiamento di rotta. Lo Statutum in favorem principum, emesso nel maggio 1231 a Worms, fu una capitolazione dinanzi alle richieste della controparte. Il documento equiparava infatti i principi laici ed ecclesiastici nella sovranità territoriale, opponeva un rifiuto alle aspirazioni d'indipendenza delle città e con la rinuncia da parte del re all'esercizio di alcuni dei diritti di sovranità sottraeva alla monarchia i mezzi concreti per realizzare la politica di supremazia territoriale cui aspirava.

F. invitò Enrico a un colloquio a Ravenna: l'incontro ebbe luogo però solo nella Pasqua 1232 ad Aquileia e si concluse con la sottomissione di Enrico al padre e con l'assicurazione del suo impegno a una politica di apertura verso i principi. F. si vide comunque costretto a ratificare nello stesso anno a Cividale lo statuto, risultato della poco avveduta politica del figlio in Germania, con poche correzioni migliorative di modesta entità.

Il tentativo di F. di risolvere la questione lombarda in accordo con Gregorio IX, il quale era stato peraltro cacciato da Roma da una rivolta, non portò nel 1233 ai risultati attesi, anche perché il pontefice non poteva associarsi alle richieste dell'imperatore per lo scioglimento della Lega e per la rinuncia ai diritti imperiali usurpati dalle città. Dopo un nuovo incontro a Rieti, Gregorio IX si dichiarò tuttavia disposto a intervenire come paciere e a imporre alle città l'obbligo di non bloccare più i collegamenti tra Germania e Italia.

Poiché Enrico in Germania, contrariamente agli impegni presi, era ritornato a una politica antiprincipesca e aveva deviato dalla linea del padre anche nella persecuzione dell'eresia, F. si vide costretto a ricorrere all'aiuto spirituale del papa, il quale nel luglio 1234 inflisse a Enrico la scomunica. Il tentativo di quest'ultimo di formare un fronte di opposizione a F. in Germania e di convincere le città lombarde a bloccare i passi alpini condusse alla crisi definitiva. Nel maggio 1235 F. si recò personalmente in Germania, senza esercito ma con la massima dimostrazione di pompa imperiale, e nel luglio dello stesso anno, a Worms, costrinse Enrico a rinunciare alla corona e ai suoi possedimenti. Enrico fu incarcerato e tenuto prigioniero per sette anni in alcuni castelli della Calabria, e nel febbraio 1242, durante il trasferimento da un castello all'altro, avrebbe trovato la morte, forse per sua stessa volontà.

Nel luglio 1235 F. si era intanto sposato per la terza volta. La nuova imperatrice Isabella, sorella di re Enrico III d'Inghilterra, sarebbe morta nel 1241 dopo avergli dato un figlio, Enrico (o Carlo Ottone), e una figlia, Margherita. Il matrimonio fu anche la premessa di una riappacificazione con la casa dei Guelfi. Nell'agosto 1235 F. investì infatti il nipote di Ottone IV, Ottone di Brunswick, del titolo del nuovo ducato di Brunswick-Luneburgo e lo elevò al rango di principe dell'Impero. Sempre in agosto, nella dieta di Magonza fu conclusa un'importante tregua, che l'imperatore fece pubblicare in tedesco e in latino. La tregua regolamentò il diritto penale e l'applicazione delle pene. Stabilì per l'amministrazione della giustizia un giudice della Curia imperiale (iusticiarius curiae), il quale aveva solo il nome e non le funzioni dei giustizieri della Magna Curia; peraltro i diritti di sovranità (come il diritto di battere moneta, di imporre dogane, di conductus e di giurisdizione) ceduti ai principi furono di nuovo fatti derivare dalla Corona e ciò creò di fatto la possibilità di controllare il loro esercizio da parte dei principi nell'interesse dell'Impero. Nel complesso comunque la tregua non controbilanciò del tutto le concessioni della Confoederatio e dello Statutum, ma garantì al sovrano nuovi spazi di manovra per una politica autonoma.

Quando i principi tedeschi decisero per la primavera del 1236 una spedizione contro le città lombarde che consideravano ribelli, Gregorio IX si sforzò con tutti i mezzi diplomatici di evitare la spedizione imperiale. F., che nel maggio 1236 assistette all'elevazione delle ossa di s. Elisabetta di Turingia a Marburgo e consacrò alla sua santa parente una corona, durante il viaggio verso l'Italia settentrionale dovette dividere le sue truppe per reprimere la rivolta del duca Federico d'Austria. Impiegò il suo soggiorno a Vienna nel febbraio 1237 per ottenere dai principi l'elezione del figlio Corrado di nove anni a re dei Romani e futuro imperatore: con questo risultato la questione della successione nell'Impero, rimasta aperta dal 1235 con la deposizione di Enrico, veniva di nuovo risolta.

Dopo il fallimento delle trattative tra rappresentanti delle città lombarde, del papa e dell'imperatore, F. penetrò con un nuovo esercito da Verona in Lombardia tentando una soluzione di forza. Nel novembre 1237 presso Cortenuova, a sud di Bergamo, sconfisse l'esercito milanese già sulla via della ritirata. Nel fervore della vittoria F. fece esporre il carroccio dei milanesi sul Campidoglio a Roma, respinse le offerte di pace di Milano e, sopravvalutando la sua posizione strategica, puntò verso la completa sottomissione dei comuni lombardi. Nel 1238 però un nuovo esercito, composto da mercenari e cavalieri provenienti da diverse parti d'Europa, non riuscì ad espugnare Brescia.

Di fronte a questa situazione anche Gregorio IX intervenne nel conflitto, inviando in Lombardia un legato esperto di guerra nel tentativo di scongiurare una supremazia militare di F. e negoziando nel 1238 un'alleanza tra Genova e Venezia, alla quale aderì egli stesso l'anno dopo, con l'obiettivo di preparare un'invasione del Regno. Il 20 marzo 1239 il pontefice formalizzò la rottura con l'imperatore. Come motivo della scomunica furono invocati gli attacchi alla Chiesa siciliana che avevano causato rimostranze ogni volta più gravi da parte della Chiesa a partire dal 1236. Questo pretesto consentì di non menzionare nell'atto di scomunica il vero motivo politico del conflitto che aveva portato il pontefice e l'imperatore su posizioni inconciliabili.

La scomunica ebbe come effetto di alimentare una folta e duratura pubblicistica polemica nella quale i migliori pamphlettisti del tempo diedero sfogo a invettive e calunnie, ma anche a paure escatologiche o alla ferma convinzione della propria salvezza: lo scontro di ideali si trasformò in un certo senso in una competizione letteraria tra maestri di ars dictaminis che si combatterono a suon di figure retoriche. Gli avversari di F., richiamandosi alle profezie di Gioacchino da Fiore, presentarono l'imperatore come il predecessore dell'Anticristo (v.), contro il quale era lecito ogni parallelo di tono apocalittico e ogni invettiva. I sostenitori dell'imperatore, sfruttando il repertorio di concetti e di immagini legate all'Impero, al Regno di Davide ma anche a concezioni monarchiche orientali, attribuirono alla persona di F. una missione provvidenziale, che dopo il 1245 si concretizzò nell'obiettivo di contrapporre al Papato corrotto dei tempi presenti il cristianesimo primitivo.

La consapevolezza da parte di F. che per superare il conflitto con il papa e i comuni lombardi sarebbe dovuto ricorrere alle risorse militari e finanziarie del Regno, fece sì che egli proseguisse nell'opera di riforma dell'amministrazione, in maniera tale da garantirsi un dominio effettivo sullo stato anche in caso di una lunga assenza. Così nel 1239 a due capitani generali furono conferiti ampi poteri militari, politici e giuridici, pari a quelli di un viceré, per le due parti del Regno. La pressione fiscale fu aumentata ancora una volta, anche perché a causa della durata limitata del servizio militare feudale un numero sempre maggiore di mercenari dovette essere reclutato nell'esercito imperiale. Contemporaneamente F. espulse dal Regno gli antichi oppositori e rese più severe le prove di lealtà da parte dei vescovi e dei funzionari nonché di tutti i sudditi.

Nelle regioni italiane dell'Impero, dopo la vittoria sui comuni, F. cambiò la politica adottata fino ad allora di ricorrere a legati prevalentemente di origine tedesca, politica rivelatasi poco efficace per riaffermare la presenza dell'Impero. Con l'istituzione di circa dieci vicariati generali egli creò un nuovo sistema amministrativo imperniato su unità territoriali e dotò i vicari generali di pieni poteri, senza il condizionamento di autorità superiori. Come legato generale per le regioni italiane dell'Impero il figlio di F., Enzo, coordinò la politica e le iniziative militari dei vicari generali. A questa importante carica furono destinati conti o esponenti della nobiltà di servizio del Regno, figli e generi di F., e anche nobili ghibellini dell'Italia settentrionale.

Per ristabilire il collegamento territoriale tra il Regno e le regioni dell'Italia settentrionale così riorganizzate, F., dopo un formale preavviso nel 1240, penetrò nella Marca di Ancona e nel ducato di Spoleto e quindi nei territori settentrionali del Patrimonium Sancti Petri. Nello Stato della Chiesa egli si presentò come un liberatore e il suo ingresso nel paese fu celebrato dalla propaganda imperiale con paragoni cristologici. Capitani generali provenienti dal Regno con un seguito di funzionari siciliani sostituirono i rettori pontifici.

Il tribunale della Magna Curia assunse nel 1240 la giurisdizione per le regioni italiane dell'Impero e di conseguenza nei suoi ranghi furono accolti giudici lombardi e toscani. Il fatto però che la cancelleria, la camera e i principali consiglieri di F. cominciassero a formare nella corte itinerante un autonomo organismo di governo, che aveva autorità su tutte le parti dell'Impero, non consentì una reale omologazione delle strutture politiche e amministrative tra le regioni italiane dell'Impero e il Regno: le due realtà politiche ed economiche erano troppo differenti perché fosse pensabile di realizzare un'unificazione che andasse oltre il semplice scambio di personale amministrativo.

La minaccia dell'attacco contro Roma fu scongiurata da Gregorio IX nel febbraio 1240 mediante una processione durante la quale la presenza dello stesso pontefice trasmise nuovo slancio a resistere nei suoi seguaci. Quando però Gregorio IX nella Pasqua 1241 indisse un concilio generale a Roma, la flotta unificata dei siciliani e dei pisani bloccò le navi genovesi che trasportavano i partecipanti al concilio nelle acque dell'arcipelago toscano, presso l'isola del Giglio. La cattura dei prelati impedì il concilio ma non fu quel giudizio di Dio preteso da F., dato che il sopruso attuato diede nuovo vigore alla propaganda pontificia contro di lui. In questa situazione si arrivò alla morte di Gregorio IX il 22 agosto 1241.

F. rientrò in Puglia nell'attesa dell'elezione del nuovo pontefice. Dopo il primo concistoro conclusosi con l'elezione di Celestino IV, morto dopo soli diciassette giorni di pontificato, i cardinali fuggirono ad Anagni e la sede rimase vacante fino al giugno 1243, quando fu finalmente eletto Innocenzo IV. Le speranze che F. riponeva nel nuovo pontefice furono subito frustrate. Il cardinale Ranieri di Viterbo, che era diventato un accanito avversario di F. e aveva adoperato toni di feroce invettiva nei suoi libelli antimperiali, cercò di bloccare le prime trattative di pace con una sollevazione provocata deliberatamente a Viterbo nel settembre 1243. I colloqui che comunque proseguirono portarono a un accordo provvisorio sulla restituzione dei territori dello Stato della Chiesa occupati da F., nonché sulle riparazioni da pagare a prelati, chiese e monasteri. Per la questione lombarda non si trovò invece alcuna soluzione, dato che la pretesa del papa di fungere da arbitro era inaccettabile per Federico.

Ma si trattava di una riconciliazione solo apparente. Quando F., per superare gli ultimi contrasti, propose al papa un incontro a Narni, Innocenzo IV finse di aderire alla proposta, mentre in segreto preparò la fuga con l'aiuto della flotta genovese. Nel giugno 1244 si imbarcò a Civitavecchia per Genova e da qui alla fine dell'anno proseguì per Lione, dove indisse un concilio generale per il giugno 1245. Una svolta sembrò profilarsi quando i corasmi (v.) nel 1244 conquistarono Gerusalemme e F. si dichiarò disposto ad andare per tre anni in Terrasanta. La revoca della scomunica nel maggio 1245 rimase tuttavia un episodio isolato e temporaneo e rimangono tutt'oggi oscure le cause del fallimento di quest'ultimo riavvicinamento.

F. si fece rappresentare al concilio dal suo più ferrato giurista e diplomatico, Taddeo da Sessa, il quale, tuttavia non riuscì a evitare che Innocenzo IV nell'ultima sessione dichiarasse F. colpevole di spergiuro, rottura della pace, bestemmia ed eresia e che lo deponesse di fronte all'assemblea dal titolo di imperatore e re di Germania; una decisione circa il Regno di Sicilia fu riservata al papa e al collegio dei cardinali, ma ebbe comunque un esito sfavorevole a Federico. Questi si appellò contro la sentenza con grossi proclami alla solidarietà dei principi europei, ma non ottenne la reazione sperata, perché Innocenzo IV riuscì ad attrarre dalla sua parte l'incerto re di Francia Luigi IX, spianando la strada già subito dopo il concilio al matrimonio del fratello di questo, Carlo d'Angiò, con Beatrice di Provenza.

La deposizione di Lione costrinse sempre di più F. sulla difensiva, anche se egli fu sempre fiducioso di poter volgere a suo favore la situazione con un intervento personale. In Germania l'opposizione incoraggiata dal papa elesse l'uno dopo l'altro due antiré con l'obiettivo di spodestare il giovane figlio di F., Corrado, reggente per conto del padre. Costoro, anche con l'appoggio di legati pontifici, compromisero in realtà assai modestamente l'autorità di Corrado, anche perché questi acquistò nuovo sostegno mediante il matrimonio con Elisabetta di Baviera e pure la restituzione del ducato d'Austria all'Impero, ordinata da F., ebbe un effetto favorevole. Nelle regioni italiane i conflitti ormai radicati tra le fazioni filoimperiali e filopontificie nei comuni si mantennero a lungo in una situazione di stallo, anche perché la scomunica e l'interdetto persero la loro efficacia come armi spirituali a causa dell'abuso che ne era stato fatto a fini politici.

Nel Regno di Sicilia i partigiani di Innocenzo IV riuscirono però a reclutare tra i vertici dell'amministrazione e della nobiltà gli adepti a una congiura che aveva come obiettivo eliminare F. e insediare un nuovo sovrano. Dopo la scoperta dei congiurati il piano sfociò in un tentativo di rivolta a Capaccio (v.), nel sud della Campania, che F. represse con durezza spietata. Una parte non piccola della nobiltà di servizio, tra cui anche i due capitani generali, aveva partecipato alla rivolta, pagando con la vita propria e dei propri familiari. Questo scacco, che aveva colpito a morte il modello di una nobiltà cavalleresca e di servizio, non modificò tuttavia l'atteggiamento del sovrano, che continuò a considerare il Regno la base della sua strategia politica e militare. Con Novellae alle Costituzioni promulgate a Grosseto e a Barletta nel 1246 intraprese, infatti, una nuova sistematica riforma dell'amministrazione delle province; l'istituzione delle capitanie generali, screditatesi per il tradimento dei detentori nel 1246, significativamente non appare più menzionata negli ultimi anni del regno.

Nel 1247 F. decise di guidare da Cremona un esercito con l'intenzione di recarsi a Lione per difendersi di persona contro le accuse mossegli e far valere così le sue ragioni. Da Lione intendeva passare poi in Germania. Quando lo raggiunse a Torino la notizia della defezione di Parma la spedizione però venne interrotta. La città fu cinta d'assedio, ma nel febbraio 1248 i parmensi effettuarono una sortita nell'accampamento imperiale, chiamato auguralmente Vittoria (v.), durante la quale le truppe degli assedianti furono sbaragliate e il tesoro imperiale comprendente la corona e il sigillo cadde nelle mani degli assalitori. Tra i caduti fu anche Taddeo da Sessa. Un ulteriore colpo di non minore impatto simbolico toccò a F. nel febbraio 1249 con l'inspiegabile e oscuro tradimento di Pier della Vigna, il cancelliere che per venticinque anni era stato il rappresentante e portavoce della politica federiciana e aveva prestato alle lettere, ai proclami e ai discorsi imperiali le elegantiae della sua arte oratoria. Inoltre, quando nel maggio 1249 rientrò nel Regno dopo una lunga assenza, F. ricevette la notizia che il figlio Enzo, legato generale in Italia settentrionale, era caduto prigioniero dei bolognesi presso Fossalta.

Solo nel 1250 si arrivò a una congiuntura favorevole agli imperiali, allorquando il vicario generale delle Marche sconfisse il legato pontificio e i successi conseguiti dai vicari generali in Lombardia e in Piemonte suscitarono nuove speranze. Stava ancora progettando una spedizione in Germania attraverso la Borgogna, allorché nel novembre, mentre si trovava nel suo luogo di soggiorno preferito, Castel Fiorentino (presso S. Severo, nell'odierna provincia di Foggia), F. fu colpito da una malattia intestinale. Ivi, in presenza di numerosi dignitari il 7 dicembre dettò il testamento; spirò il 13 dicembre 1250, dopo avere vestito l'abito grigio dei Cistercensi e avere ricevuto l'assoluzione e l'estrema unzione dall'arcivescovo di Palermo Berardo di Castagna, che gli era stato accanto dal 1209. La salma fu traslata a Palermo e composta in un sarcofago di porfido nella cattedrale.

Nel suo testamento F. designò Corrado erede dell'Impero e del Regno; fino al suo arrivo dalla Germania, Manfredi, figlio naturale avuto da Bianca Lancia, avrebbe dovuto svolgere le funzioni di reggente in Italia. F. ordinò anche restituzioni alla Chiesa romana, con la riserva del ripristino dei diritti imperiali, alla Chiesa siciliana e ad alcuni Ordini cavallereschi. In considerazione dei gravosi oneri fiscali imposti al Regno, stabilì che le tasse ritornassero al livello del tempo di Guglielmo II.

Con la morte di F. ebbe fine il grande Impero, il progetto che egli aveva concepito sin dal suo primo viaggio, carico di incertezza, in Germania e che aveva coltivato fino alla fine, con il favore della sorte, con un'attività indefessa e con non minore energia, nonostante le sconfitte e le irriducibili opposizioni suscitate. La sua morte rappresentò anche la fine dell'idea imperiale e di dominio degli Svevi, che con F. e i suoi ispiratori letterari e intellettuali tra Palermo e Aquisgrana, Roma e Gerusalemme aveva acquisito forza e concretezza. Dalla tradizione imperiale di Roma e dai culti orientali del sovrano era inoltre derivato il principio della divinizzazione del principe, che suscitò in pari misura venerazione e resistenza, e che le generazioni successive riuscirono a riproporre solo parzialmente come ideologia del potere. Se la concezione imperiale basata su una nuova sacralizzazione dell'azione del governo e il ritorno a concezioni antiche di una monarchia universale non sopravvisse a F. come principio politico autonomo, d'altro canto le posizioni di F., sostenitore di una concezione laica dello stato opposta alla supremazia dei papi basata sul primato spirituale, erano destinate ad avere il sopravvento: per le generazioni future F. avrebbe rappresentato un antesignano della concezione di uno stato moderno ed emancipato dalla Chiesa.

Nell'orizzonte del suo tempo l'azione politica di F. fu condizionata in primo luogo dalla tradizione e dalle esperienze del Regno di Sicilia e dei suoi antenati normanni. Questo retaggio gli impedì di comprendere l'organizzazione corporativa dei comuni e la loro determinazione nel difendere l'indipendenza e gli ideali repubblicani. Fu così inevitabile che giudizi erronei e pretese esagerate accompagnassero la politica di F. nelle regioni italiane dell'Impero. Aspirazioni a un'autonomia civica di questo tipo nel Regno di Sicilia furono represse con durezza e anche in Germania, dopo il 1230, F. strinse un'alleanza con i principi contro le città. Durante il suo primo soggiorno in Germania d'altro canto F., uniformandosi alla condotta dei suoi predecessori, aveva adottato una politica territoriale in competizione con quella dei principi, motivo per cui dal 1220 era stato costretto a cedere loro diritti appartenenti alla Corona, che furono la base per il futuro consolidamento della sovranità territoriale dei principi stessi.

Il progetto politico attribuito a F. di integrare, mediante la creazione dei vicariati, le regioni italiane dell'Impero con il Regno in un'unica grossa compagine politica che unificasse la penisola italiana portò a un sistematico sfruttamento delle risorse del Regno al di là delle sue possibilità, dato che esso non era in grado di fornire a lunga scadenza il personale per il nuovo ordinamento, cooptato dai ranghi della nobiltà di servizio e del resto della burocrazia, né poteva sopportare gli oneri di una guerra continua e dispendiosa contro i comuni lombardi, inevitabile per i progetti palesatisi con l'istituzione dei vicariati e con la soppressione delle frontiere.

Per quel che riguarda l'organizzazione interna della monarchia europea, con le riforme attuate tra il 1220 e il 1246, F. realizzò, almeno nel Regno di Sicilia, un notevole progresso sugli altri stati nel governo delle province e nella specializzazione dei funzionari impiegati in esse, nell'introduzione di una tassa generale, nella legislazione e nella concentrazione della giurisdizione e dell'interpretazione delle leggi nel tribunale della Magna Curia. Anche la formazione dei giudici e dei funzionari in una università 'di stato' e il controllo istituzionalizzato sulla loro attività mediante la corte dei conti erano passi verso il futuro che in altri contesti politici potevano trovare appena tiepide premesse. Allo stesso tempo però si manifestarono nel Regno contraddizioni e resistenze. L'arbitrio del sovrano nelle punizioni sfociò non di rado in un contrasto con il diritto proclamato nelle Costituzioni; i sudditi subirono peraltro gli svantaggi della pressione fiscale e dell'assorbimento delle risorse economiche da parte della Corona, del controllo sulla vita civile, sull'espressione spirituale e religiosa, della vigilanza e del sistema della delazione organizzata e delle punizioni collettive; a ciò si aggiunse il controllo politico, crescente con il trascorrere degli anni e attuato senza né un giudizio critico sulle informazioni ricevute né il ricorso a periodiche amnistie per alleggerire le tensioni.

All'arte, alla letteratura e alla scienza F. si dedicò con un'intensità e un'apertura mentale che generarono insieme stupore e fascino, anche se la coesistenza, non insolita in quell'età, di proposizioni razionali e di teorie occulte diede luogo già durante la vita di F. a malintesi e anche a deliberati travisamenti.

F. possedeva il dono di scoprire talenti, di conquistare con i suoi quesiti l'interesse di filosofi, matematici e scienziati e di trasformare la sua sempre intatta sete di sapere, insieme con la sua erudizione che non cessava di stupire, in forza d'attrazione intellettuale. Michele Scoto, reclutato con l'incarico di astrologo di corte, o il traduttore Teodoro di Antiochia furono ospitati alla corte imperiale per parecchi anni e non si limitarono a dedicare al loro mecenate scritti o traduzioni: dialogando con loro F. dischiuse alle sue conoscenze nuovi territori. Opere fino a quel momento sconosciute di Aristotele, di Averroè, di Avicenna, attraverso le traduzioni dall'arabo o dal greco promosse da F. ed eseguite da Michele Scoto, da Teodoro e da altri, trovarono di nuovo cittadinanza nel dibattito filosofico del mondo occidentale. F. rivolse i suoi quesiti a dotti arabi, ebrei e greci ma anche al matematico pisano Leonardo Fibonacci, dal quale egli si recò di persona nel 1226.

Con il trattato De arte venandi cum avibus F. ci ha lasciato una testimonianza di se stesso anche come studioso di scienze naturali. L'opera riprendeva modelli e spunti dalla letteratura precedente sulla caccia, ma l'assunto metodologico di "manifestare […] ea quae sunt, sicut sunt" e la critica alle autorità tradizionali portarono in F. a un salto di qualità, grazie al quale il suo trattato sulla caccia si trasformò in uno studio ornitologico di ispirazione scientifica, corredato di illustrazioni che testimoniano un'impostazione fortemente realistica, anche se nelle descrizioni degli uccelli F. si attiene a metodologie e a un atteggiamento concettuale che altri scienziati avevano già superato, e pertanto nello studio dei movimenti e delle posture dei corpi dei volatili rimane attardato rispetto a essi. Ma pure con questi limiti il trattato appartiene ai grandi prodotti scientifici del sec. XIII.

Con notai della cancelleria, giustizieri e altri membri della nobiltà di servizio, nonché con alcuni suoi figli, F. partecipò personalmente alla famosa Scuola poetica siciliana. Lo scopo principale di questo cenacolo era di poetare in volgare italiano secondo lo stile della lirica trobadorica. Anche se le poesie amorose composte da F. hanno un tono formale e mancano di vitalità, il suo esempio incoraggiò letterati più dotati a sperimentare nelle loro canzoni e sonetti le potenzialità del volgare siciliano come lingua poetica, dando vita così al primo esempio di produzione letteraria in un volgare italico.

La cancelleria siciliana si ispirò ai modelli della scuola stilistica di Capua e recepì gli stimoli della Curia di Roma e dei suoi notai. A partire dal rientro di F. nel Regno dalla Germania, accanto alle sue funzioni tradizionali, acquistò un nuovo carattere, divenendo un'alta scuola di stile latino. Con Pier della Vigna e i suoi discepoli gareggiò con la cancelleria pontificia e F. stimolò questa competizione, dato che fece di Piero uno dei suoi più stretti collaboratori e lo nominò suo portavoce. Nelle costruzioni sintattiche, nelle figure ritmiche e retoriche della nuova scuola di dettatori la lingua latina acquistò un'inedita capacità espressiva e una duttilità stilistica che assicurò ai proclami e alle lettere politiche dell'imperatore l'ammirazione dei contemporanei e dei posteri.

F. si era avvicinato all'arte antica anche prima di celebrare Roma come caput Imperii e di accentuare il carattere romano del suo Impero in sempre nuove espressioni. Sin dai primi tempi raccolse sculture e cimeli antichi. Scultori eseguirono per lui copie di opere del passato, incisori cammei la cui iconografia riprendeva modelli dell'antichità classica. La Porta del ponte a Capua (v. Capua, Porta di), il cui progetto fu approvato personalmente da F., arricchita di sculture di ispirazione classica e di elementi antichi inseriti nella struttura, testimoniava all'ingresso del Regno di Sicilia i valori cui si ispirava la sua monarchia, mentre il nuovo Castel del Monte, con la sua pianta ottagonale, applicò in maniera originale idee di F. in campo architettonico. Anche gli augustali (v.), la moneta aurea messa in circolazione da F. nel 1231, destinata come moneta di pregio alle esigenze economiche del mercato mediterraneo, al contempo serviva a rappresentare F. come Cesare coronato d'alloro secondo l'iconografia classica, come egli voleva apparire.

F. fu considerato già nella sua epoca uno scettico, la cui tolleranza derivava dalla concezione relativistica che egli aveva della religione e degli articoli della fede. Non fu comunque un illuminista ante litteram. I suoi precoci rapporti con i Cistercensi, il cui capitolo generale nel 1215 lo accolse nella comunità di preghiera dell'Ordine, i suoi legami, sia pur temporanei, con un circolo di Francescani, la sua venerazione per s. Elisabetta di Turingia, ma anche altri tratti del suo carattere, testimoniano che F. durante la sua vita si considerò un cristiano conforme ai precetti della Chiesa. Anche se nella sua concezione dell'Impero erano presenti elementi pagani e orientali, egli era convinto che i suoi poteri di sovrano provenissero dal Dio dei cristiani. Nel conflitto con i pontefici in nessun momento mise in discussione l'istituzione stessa del Papato, anche se ne contestò il primato rispetto all'Impero e rivendicò per quest'ultimo la stessa plenitudo potestatis che i papi a partire da Innocenzo III avevano preteso come loro attributo.

Dato che leggi e proclami, lettere e opere letterarie, prediche e profezie, ma anche i pamphlets dei suoi avversari, riconobbero a F. qualità sovrannaturali, come l'ubiquità e addirittura l'immortalità, in un mondo che accolse la perdita dell'immutator mundi e dello stupor mundi ora con lutto ora con soddisfazione, sorse il dubbio sulla sua effettiva scomparsa. Falsi Federico pretesero dapprima in Sicilia e poi in Germania nuova ubbidienza e il loro seguito all'inizio non fu modesto. In Sicilia si sparse la voce che F. si fosse gettato nell'Etna, in Germania invece che si fosse ritirato a dormire in una montagna (che fu poi identificata con il Kyffhäuser in Turingia) e che si sarebbe ridestato alla fine dei tempi per ridare al mondo il suo ordine. L'imperatore addormentato nella montagna perse la sua identificazione con F. per la prima volta nel 1519: dal sec. XVI nel mondo delle saghe tedesche l'imperatore addormentato nel Kyffhäuser in attesa del risveglio fu identificato non più con F. ma con suo nonno Federico I Barbarossa.

Il giudizio su F. fu controverso in tutti i tempi, anche quando si elevò al di sopra delle lotte tra le fazioni, nelle quali all'inizio era stato inquadrato. L'opinione di Jacob Burckhardt, che vide in F. il primo uomo moderno salito sul trono, fu seguita da molti biografi dell'Ottocento e anche del Novecento. Ernst Kantorowicz nella sua biografia valutò approfonditamente le fonti in ogni loro aspetto ma innalzò F. al di sopra del suo orizzonte storico, in una dimensione talora mitica, rintracciando in lui il punto focale e il catalizzatore di diversi elementi tradizionali e di linee di sviluppo ideologico destinate a un ampio futuro, trascurando la situazione generale politica e sociale del tempo. A differenza dell'interpretazione congeniale e letteraria di Kantorowicz, la ricerca recente si è sforzata di analizzare con maggiore attenzione le condizioni sociali e storiche della legislazione e delle riforme statali, della politica della crociata e dei conflitti con la Chiesa, dello scontro politico-teorico con i pontefici, nonché di esaminare più obiettivamente il naturalista e il mecenate nei suoi debiti e nei suoi limiti. Con l'accento posto sulla descrizione della realtà sociale, spirituale, religiosa, sulle tradizioni e le strutture politiche che influenzarono F. e anche sulle contraddizioni del personaggio, questa ricerca corre tuttavia il pericolo di perdere di vista il fascino e i timori di contemporanei e posteri, ai quali le imprese fuori del comune e la statura eccezionale di F. suggerirono i giudizi che determinarono la lunga sopravvivenza nel mito dell'imperatore svevo.

Discendenti diretti di F. furono dal primo matrimonio con Costanza d'Aragona (m. 1222): Enrico (1211-1242), incoronato re di Sicilia nel 1212, poi re dei Romani fino al 1235; dal secondo matrimonio con Iolanda di Brienne (m. 1228): Corrado IV (1228-1254), re di Gerusalemme, dal 1237 re dei Romani, nel 1250 re di Sicilia; dal terzo matrimonio con Isabella d'Inghilterra (m. 1241): Margherita (m. 1270) ed Enrico (o Carlo Ottone, m. 1253 o 1254). Dalla relazione con Bianca Lancia nacque Manfredi (m. 1266), principe di Taranto, reggente del Regno, dal 1258 al 1266 re di Sicilia. Da altre relazioni nacquero Enzo, re di Sardegna (m. 1272), Federico d'Antiochia (m. 1256), Riccardo di Chieti (m. 1249), Selvaggia, moglie di Ezzelino da Romano, Violante (m. 1266 o 1267), moglie del conte Riccardo di Caserta, Margherita (m. 1297 o 1298), moglie del conte Tommaso II d'Aquino di Acerra. Altri discendenti sono segnalati in E. Maschke, Das Geschlecht der Staufer, München 1943 (ma v. anche Federico II, figli).

Fonti e Bibl.: Opere: Friderici Romanorum imperatoris secundi De arte venandi cum avibus, a cura di C.A. Willemsen, I-II, Leipzig 1942; 'Fridericus II, De arte venandi cum avibus', Ms. Pal. lat. 1071, Biblioteca apostolica Vaticana, facsimile con commento, I-II, a cura di C.A. Willemsen, Graz 1969. Canzoni: W.H. Thornton, The Poems Ascribed to Frederick II and 'Rex Fridericus', "Speculum", 1, 1926, pp. 87-100; B. Panvini, La scuola poetica siciliana, "Biblioteca dell'Archivum Romanicum", 43, 1955, pp. 139 ss.; Id., Le rime della scuola siciliana, I-II, Firenze 1962-1964, ad indicem. Per le fonti e la letteratura critica si rinvia alla bibliografia in T.C. van Cleve, The Emperor Frederick II of Hohenstaufen. Immutator Mundi, Oxford 1972, pp. 541-598 (registra i titoli fino al 1970 circa), e a C.A. Willemsen, Bibliographie zur Geschichte Kaiser Friedrichs II. und der letzten Staufer, Hannover 1986 (alle pp. 19 ss., nn. 52-212, c'è un elenco quasi completo delle fonti narrative). Le lettere, i diplomi e le leggi emanate da F. sono pubblicate o registrate in Epistolarum Petri de Vineis cancellarii quondam Friderici II imperatoris libri VI, a cura di S. Schard, Basileae 1566 (rist. 1991); Constitutiones regum Regni utriusque Siciliae mandante Friderico II imperatore, a cura di G. Carcani, Neapoli 1786; Historia diplomatica Friderici secundi; Acta Imperii inedita; Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des Kaiserreiches […], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901; 4, Nachträge und Ergänzungen, a cura di P. Zinsmaier, Köln-Wien 1983; M.G.H., Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, a cura di C. Rodenberg, I-III, 1883-1894; ibid., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, 1198-1272, a cura di L. Weiland, 1896; Die Konstitutionen Friedrichs II. von Hohenstaufen für sein Königreich Sizilien, a cura di H. Conrad-T. von der Lieck-Buyken-W. Wagner, Köln 1973. Tra i numerosissimi studi su F. si segnalano i seguenti titoli: E. Winkelmann, Philipp von Schwaben und Otto IV. von Braunschweig, I-II, ivi 1873-1878 (rist. 1963); Id., Kaiser Friedrich II., I-II, Leipzig 1889-1897 (rist. 1963); C.H. Haskins, Studies in the History of Medieval Science, Cambridge, Mass. 1924 (rist. 1960), pp. 242-326; E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, Berlin 1927 (trad. it. Federico II, imperatore, Milano 1988); P. Collenuccio, Compendio de le istorie del Regno di Napoli, a cura di A. Saviotti, Bari 1929 (contiene brani della biografia contemporanea di Mainardino da Imola, oggi perduta); W.E. Heupel, Der sizilische Grosshof unter Kaiser Friedrich II., Berlin 1940; E. Klingelhöfer, Die Reichsgesetze von 1220, 1231-32 und 1235, Weimar 1955; H.M. Schaller, Die Kanzlei Kaiser Friedrichs II. Ihr Personal und ihr Sprachstil, "Archiv für Diplomatik", 3, 1957, pp. 207 ss.; 4, 1958, pp. 264 ss.; A. Marongiu, Uno 'Stato modello' nel Medioevo italiano. Il Regno normanno-svevo di Sicilia, "Critica Storica", 2, 1963, pp. 379-394; P. Colliva, Ricerche sul principio di legalità nell'amministrazione del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, Milano 1964; E. Mazzarese Fardella, Aspetti dell'organizzazione amministrativa nello Stato normanno e svevo, ivi 1966; B. Gloger, Kaiser, Gott und Teufel. Friedrich II. von Hohenstaufen in Geschichte und Sage, Berlin 1970; T.C. van Cleve, The Emperor Frederick II.; N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, 1-4, München 1973-1982; Probleme um Friedrich II., a cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen 1974; H. Dilcher, Die sizilische Gesetzgebung Kaiser Friedrichs II.: Quellen der Constitutionen und ihrer Novellen, ivi 1975; Federico II e l'arte del Duecento, a cura di A.M. Romanini, I-II, Roma 1980; Stupor Mundi, a cura di G. Wolf, Darmstadt 1982; W. Stürner, Rerum necessitas und divina provisio. Zur Interpretation des Proemiums der Konstitutionen von Melfi (1231), "Deutsches Archiv", 39, 1983, pp. 467-554; M.J. Wellas, Griechisches aus dem Umkreis Kaiser Friedrichs II., München 1983; Potere, società e popolo nell'età sveva. Atti delle seste giornate normanno-sveve, Bari 1985; R. Neumann, Parteibildungen im Königreich Sizilien während der Unmündigkeit Friedrichs II. (1198-1208), Frankfurt a.M. 1986; Politica e cultura nell'Italia di Federico II, a cura di S. Gensini, Pisa 1986; D. Abulafia, Frederick II. A Medieval Emperor, London 1988; W. Stürner, Friedrich II., I, Die Königsherrschaft in Sizilien und Deutschland, Darmstadt 1992; G. Baaken, Ius Imperii ad Regnum, Köln-Wien-Weimar 1993; H.M. Schaller, Stauferzeit: ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993; Federico II e il mondo mediterraneo, Federico II e le scienze, Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994; Intellectual Life at the Court of Frederick II Hohenstaufen, a cura di W. Tronzo, Washington 1994; W. Stürner, Friedrich II., II, Der Kaiser 1220-1250, Darmstadt 2000.

TAG

Ordine dei cavalieri teutonici

Biblioteca apostolica vaticana

De arte venandi cum avibus

Enrico iii d'inghilterra

Scuola poetica siciliana