LANCIA, Federico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LANCIA, Federico

Aldo Settia

Nipote ex fratre, piuttosto che figlio (come sostengono alcuni) di Manfredi (II) Lancia marchese di Busca, figlio di una Beatrice signora di Paternò e fratello minore di Galvano: doveva essere nato prima del 1230 poiché era certo adulto nel 1251, allorché raggiunse la corte di Manfredi di Svevia insieme con il fratello.

Il L. è direttamente attestato per la prima volta solo nel 1252 quando, insieme con gli altri "consanguinei et affines" di Manfredi, fu costretto da Corrado IV a trasferirsi fuori dal Regno, per riprendere il suo posto non appena questi morì (maggio 1254). L'importanza della sua posizione è provata dal fatto che il 27 sett. 1254, ad Anagni, papa Innocenzo IV lo investì "per anulum" della contea di Squillace, ma il 25 marzo 1255 fu compreso tra i collaboratori di Manfredi ai quali papa Alessandro IV intimò di lasciare il servizio pena la scomunica che, per la mancata obbedienza, divenne efficace tre settimane dopo. Secondo quanto afferma, forse erroneamente, Bartolomeo da Neocastro in quell'anno il L. ottenne da Manfredi incarichi di comando in Calabria e sconfisse alla Corona di Seminara i ribelli messinesi sbarcati sul continente.

Nell'assemblea generale del Regno tenuta a Barletta il 2 febbr. 1256, quando Manfredi era ormai vicino alla definitiva presa del potere (e nello stesso tempo il fratello Galvano diventava maresciallo del Regno e conte nel Principato di Salerno) il L. fu confermato nel titolo di conte di Squillace. Un mese dopo, nel timore di un'irruzione dell'esercito papale, Manfredi lo nominò vicario generale in Calabria e in Sicilia. In Calabria, regione già in gran parte sottomessa, egli fu ben accolto salvo che nelle piazzeforti di Santa Cristina e Bovalino rimaste nelle mani di Folco, nipote di Pietro Ruffo, vicario imperiale in Sicilia che aderiva al papa e dunque non riconosceva l'autorità di Manfredi. Il L. diresse personalmente l'assedio alle due fortezze calabresi e preparò intanto il terreno per un intervento in Sicilia inviando propri messi con il compito di sottrarre l'isola, ancora in stato di completa ribellione, all'obbedienza papale. La missione ottenne un certo successo: il legato pontificio fu catturato e Palermo fece atto di dedizione a Manfredi servendo da esempio a numerose altre città.

Pur continuando le operazioni in Calabria, il L. curò allora l'invio di un esercito destinato a continuare la conquista della Sicilia volgendosi dapprima contro Messina; la spedizione ebbe esito favorevole ed egli dovette varcare temporaneamente lo stretto per accettare la dedizione della città; subito dopo, tornato in Calabria, costrinse alla resa Santa Cristina e Bovalino completando così la sottomissione della regione. Nel frattempo doveva essersi impadronito abusivamente di redditi e proventi di Roccella Ionica appartenenti al monastero di S. Maria di Montevergine, perché nell'agosto Manfredi gli ordinò di restituirli.

In Sicilia, ormai in massima parte ridotta all'obbedienza, resistevano ancora le città di Piazza, Castrogiovanni (oggi Enna) e Aidone. Alla testa di un numeroso esercito il L. passò nell'isola in settembre, assediò e prese Piazza punendo severamente i capi della ribellione; in conseguenza di tale successo la vicina Aidone venne a patti con gli inviati del L., che assediò Castrogiovanni costringendola alla resa: tutta la Sicilia obbediva quindi a Manfredi. Il 10 apr. 1259 papa Alessandro IV rifiutò di revocare la scomunica al L. e a suo fratello Galvano confermando altresì l'interdetto per i luoghi loro soggetti; le dure condizioni furono mitigate soltanto nel gennaio 1264.

Una nuova missione militare in Sicilia fu affidata al L. nel maggio 1260. Il giovane tedesco Teobaldo (tale doveva essere il vero nome di colui che Saba Malaspina chiama Goblus), già al servizio di Bertoldo di Hohenburg, uccise il conte Federico Maletta e si rifugiò con i suoi complici a Monte San Giuliano (odierna Erice). A reprimere il moto fu inviato il L. con il titolo di capitano generale di Sicilia: con rapida azione egli assediò il monte, distrusse Monte San Giuliano e, per ordine del re, deportò i suoi abitanti in una città di nuova fondazione battezzata Regale, oggi difficilmente localizzabile. Pacificata così l'isola egli lasciò l'anno dopo l'incarico a Riccardo Filangieri.

Durante il regno di Manfredi il L. mise insieme cospicue proprietà e ricchezze, per quanto inferiori a quelle del fratello Galvano; esse si concentravano soprattutto nel territorio calabrese ma giungevano a comprendere anche la città di Messina. Oltre alla giurisdizione sulla contea di Squillace, egli estese il suo potere per mezzo di amministratori a lui devoti, ma soprattutto ricorrendo a espropri a danno degli oppositori del regime: si impossessò del casale Cristo, posto nella piana di San Martino, già appartenente ai Ruffo; ebbe i beni di Raimondo di Oppido distribuiti in numerose località e quelli di Ruggero de Rao in Anoia; a questi si aggiunsero i possessi immobiliari in Messina, città nella quale dal 1250 al 1263 ebbe l'appoggio della sua parente Beatrice Lancia, badessa di S. Maria Monialium, fiera oppositrice dei domenicani nonostante gli ammonimenti di Alessandro IV nel 1259 e di Urbano IV nel 1263. Risulta evidente la capacità del L. di creare fedeltà e consenso nei luoghi sottoposti alla sua influenza attraverso la distribuzione di privilegi a clientele di milites e di borgesi; seppe inoltre impegnarsi in redditizie intraprese economiche come la costruzione del grande fondaco dei Veneziani a Messina, che rendeva ogni anno più di 50 once d'oro, e nell'organizzare allevamenti in Calabria di mandrie di buoi e cavalli e di greggi di pecore. Tra le sue realizzazioni si conta anche la costruzione di una villanova nell'attuale Torriana presso Reggio Calabria, avvenuta negli anni in cui era vicario generale nella regione.

Il cronista Saba Malaspina indica il L. come genericamente presente alla battaglia di Benevento (1266) insieme con altri conti "lombardi" nella cerchia di Manfredi; sembra però poco probabile che ciò sia vero. Egli non fece in tempo a giungere sul luogo dello scontro, e mobilitò invece i calabresi a lui fedeli resistendo in seguito contro gli Angioini. Assediato, patteggiò con i vincitori ottenendo di raggiungere Galvano, intanto rifugiatosi in Abruzzo. Sempre secondo Saba Malaspina i due fratelli sarebbero stati catturati insieme con Corrado e Marino Capece e poi rilasciati dal re su preghiera dell'arcivescovo di Messina Bartolomeo Pignatelli.

Probabilmente nel novembre 1266 il L. si recò col fratello Galvano e altri esuli siciliani e ghibellini di Toscana a Innsbruck per sollecitare l'intervento di Corradino. Nel gennaio 1267 il L. e Galvano erano a Terracina, intenti a trattare con il pontefice al fine di ottenere un salvacondotto per presentarsi a Carlo d'Angiò e fare atto di sottomissione. Si trattava però di una semplice manovra dilatoria poiché nel febbraio successivo raggiunsero invece i ghibellini toscani.

Nella primavera 1267 Corradino nominò il L. vicario in Sicilia. Da quel momento, probabilmente, i due fratelli si divisero i compiti per allestire lo strumento militare destinato alla riconquista del Regno di Sicilia al servizio di Corradino: mentre a Roma Galvano si occupava dell'esercito, il L. si dedicava all'approntamento della flotta. La sua presenza è infatti segnalata a Pisa il 16 ag. 1267 e ancora nel maggio 1268, quando giunsero contributi pecuniari senesi e pisani alla causa imperiale.

Si provvide così all'allestimento di una grande spedizione navale per recare aiuto a coloro che nel Regno già si erano sollevati contro Carlo d'Angiò. La flotta - composta di 28 galee e 4 saettie, con 6000 uomini e alcuni dei più eminenti esuli del Regno, al comando di Guido Boccia per i Pisani e del L. come vicario di Corradino - salpò nel mese di luglio, si soffermò alla foce del Tevere per proteggere la partenza della spedizione terrestre da Roma e proseguì quindi lungo la costa mettendo a sacco Gaeta, Ischia e la costa amalfitana, ma senza destare la sperata insurrezione delle popolazioni locali; ciò avvenne solo in Calabria dove, per l'autorità lì mantenuta dal L., il giudice Carlo a lui fedele fomentò la rivolta a Seminara.

I componenti della spedizione ritenevano di essere i precursori di un vittorioso Corradino e ignoravano che invece egli era stato sconfitto a Tagliacozzo. La flotta giunse a Milazzo il 30 agosto e la città fu presa senza difficoltà; in seguito fu attaccata Messina, invano difesa da una squadra navale angioina comandata dal ligure Roberto di Laveno. La flotta pisana fu tuttavia messa in fuga dal popolo messinese mentre giungeva notizia della sconfitta di Corradino e si manifestavano gelosie e rivalità tra il L. e Corrado Capece, entrambi convinti di essere capitano e vicario generale in Sicilia.

Secondo gli Annali genovesi, gli insorti dell'isola avrebbero eletto loro "capitano e signore" il L. il quale, per le sue parentele e per il ruolo in precedenza sostenuto, era uno dei grandi del regime svevo, ma forse Corradino aveva inteso preporlo soltanto all'impresa navale; egli poteva nondimeno giovarsi della rete di relazioni a suo tempo stabilita in Calabria e nel Messinese sollecitando alla rivolta i suoi fedeli contro gli Angioini: se Messina non aderì, la rivolta ebbe invece notevole successo negli anni 1268-69 nel Giustizierato di Calabria.

Non è chiaro se il L. abbia continuato nel 1270 la resistenza in Sicilia contro il ritorno offensivo degli Angioini, rinchiudendosi infine con Federico di Castiglia in Agrigento e negoziando poi con lui la partenza per Tunisi, oppure se, scampato alla vicende siciliane - come sostengono altre fonti - abbia invece proseguito la lotta in Calabria nel castello di Stilo. Assediato in quel castello, egli avrebbe ottenuto di ritirarsi in Grecia e di là, in un secondo momento, avrebbe raggiunto gli altri esuli dal Regno a Tunisi, ospiti dell'emiro che era stato in rapporti tradizionalmente amichevoli con gli Svevi. Là dovette combattere, nel settembre 1270, contro i crociati francesi e angioini che attaccarono Tunisi dal momento che, nel concludere la pace, Carlo d'Angiò richiese all'emiro la sua estradizione.

Le fonti tacciono sul L. fino al 12 febbr. 1286, quando a Palermo sottoscrisse come conte di Squillace un atto di Giacomo d'Aragona (citato in Amari, p. 408) del quale era stato tutore; insieme con lui erano Manfredi Maletta e altri rappresentanti della tradizione sveva e ghibellina che trovava continuità nel nuovo Regno aragonese di Sicilia. Sempre ne 1286 egli figura come curatore e mundualdo della nipote Beatrice, figlia di re Manfredi, che il 2 ottobre, nell'andare sposa al figlio del marchese di Saluzzo, rinunciò ai suoi diritti sul Regno di Sicilia in favore del fratello. Il L. morì probabilmente non molto tempo dopo la stesura del suo testamento, redatto a Reggio Calabria il 20 ag. 1289 (menzionato in Davidsohn, p. 281). Non risulta che egli abbia mai portato il titolo di marchese di Busca.

Non è noto il nome della moglie del L.; molto probabilmente furono suoi figli Corrado, Manfredi e Margherita.

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