FERDINANDO I de' Medici, granduca di Toscana

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 46 (1996)

FERDINANDO I de' Medici, granduca di Toscana

Elena Fasano Guarini

Nacque a Firenze, nel luglio del 1549, quintogenito maschio di Cosimo I, duca di Firenze, e di Eleonora de Toledo, figlia di don Pedro, vicerè di Napoli.

Biografi e mernorialisti del tempo non sono concordi sul giorno della sua nascita, secondo alcuni avvenuta il 19, giorno nel quale il granduca festeggiava il suo geneatliaco, secondo altri il 30 del mese. Che la data esatta, con il connesso oroscopo, fosse effettivamente stata tenuta nascosta, come talvolta si faceva per i principi, e continuasse ad essere oggetto di incertezza tra gli stessi familiari di F. prova il fatto che nel 1609, in occasione della malattia che gli fu fatale, la moglie, Cristina di Lorena, chiedesse a Galileo Galilei di individuarla con i procedimenti propri dell'astrologia giudiziaria, onde stabilire le cure più adeguate al malato. F. fu tenuto a battesimo da Ferdinando d'Asburgo, re di Boemia e di Ungheria e futuro imperatore, da cui prese il nome.

F. trascorse gran parte dell'infanzia nelle ville medicee suburbane di Castello, dell'Ambrogiana, di Belvedere. Pur affidato come i fratelli alle cure di dotti precettori, tra i quali era il letterato Antonio Angeli da Barga, e indirizzato da essi allo studio dei classici latini, fu ritenuto, come scrive il suo segretario e più attento biografo, Pietro Usimbardi, svogliato e "alquanto ottuso", forse anche a causa di un difetto alla vista. Sulle orme del padre manifestò tuttavia un precoce interesse per le "anticaglie", i reperti archeologici, che già collezionava nel 1560. In un primo tempo la sua posizione di quartogenito tra i maschi sopravvissuti parve escluderlo da ogni eventualità di successione al trono granducale e da ogni ruolo primario nel casato. Ma la sua vita cambiò prospettiva allorché, nel novembre del 1562, morirono, a causa delle febbri malariche contratte nella Maremma pisana, due suoi fratelli maggiori, Giovanni, destinato alla carriera ecclesiastica, nominato cardinale nel 1560 ed arcivescovo di Pisa nel 1561, e Garzia, destinato alla carriera militare, erede designato dei patrimonio materno. F., colpito dalle stesse febbri ma ad esse sopravvissuto, venne a trovarsi nella posizione di secondo figlio maschio di Cosimo I, dopo l'erede al trono granducale, Francesco.

Il 6 genn. 1563, all'età di poco più di tredici anni, fu nominato a sua volta cardinale da Pio IV, in sostituzione del fratello Giovanni. A differenza di questo, egli non ricevette tuttavia mai gli ordini sacri; e se le pressioni esercitate dal padre - cui il pontefice doveva gratitudine per l'appoggio ricevuto al momento della sua elezione e poi in occasione della ripresa dei lavori del concilio di Trento -, sostenute a Roma dal cardinale Giovanni Ricci di Montepulciano e dal segretario ducale Bartolomeo Concini, ebbero la meglio sulle non lievi resistenze opposte alla sua promozione al cardinalato in così giovane età da alcuni membri del Collegio cardinalizio (tra i quali era Michele Ghislieri, il futuro Pio V), esse non valsero ad ottenergli l'attribuzione dell'arcivescovado di Pisa, assegnato invece nel 1564 ad Agnolo Niccolini, aristocratico fiorentino, già governatore dello Stato di Siena. La dignità conseguita e le responsabilità connesse non apportarono mutamenti immediati nella vita e nel comportamento di Ferdinando. Questi continuò a risiedere nel Ducato, a Pisa, oltre che a Firenze. Nel luglio del 1563 gli fu posto al fianco dal padre come precettore l'umanista Ludovico Beccadelli, vescovo di Ragusa, già segretario di Nicolò Contarini e precettore di Ranuccio Farnese, nipote di Paolo III: anche a lui F. appariva "molto fanciullo et fievole", "non avezzo a lettere", allievo indocile ed irrequieto, amante, ben più che dello studio, della vita all'aria aperta e della caccia, che praticava assiduamente, spesso in compagnia del padre, cui egli fu particolarmente legato.

Il rapporto, non facile e poco fruttuoso, tra il discepolo ed il nuovo maestro, "cortigiano salvatico" e personaggio poco gradito al pontefice ed alla Curia, a causa delle posizioni assunte al concilio sulla questione della residenza dei vescovi, ebbe peraltro termine nell'autunno del 1564. F. fu allora nuovamente affidato all'insegnamento di Antonio Angeli, che lo seguì poi anche a Roma e restò con lui finché, nell'agosto del 1570, grazie anche ai buoni uffici del principe, fu promosso al vescovado di Massa Marittima. La scarsa applicazione di F. e l'inadeguatezza della sua conoscenza del latino ai livelli, pur modesti, richiesti dalle pratiche liturgiche e dagli usi del Collegio cardinalizio continuarono anche in quegli anni ad essere oggetto, oltre che della "reprensione litteraria" del più dotto fratello Francesco, delld scherno di chi gli era ostile e della preoccupazione dei suoi collaboratori. Ad Averardo Serristori. ambasciatore ducale a Roma, pareva necessario esortarlo, in occasione del suo primo viaggio nella capitale pontificia, ad imparare a memoria "la confession generale come la dice il prete, con tutto l'introito intero con l'assolutione, la gloria il credo et il sanctus, perché tutto si dice sotto voce l'un cardinale con l'altro, però è bene che sappi tutto bene a mente" (a Francesco de' Medici?, 22 marzo 1565: Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 3472, c. 108r). Ed il bergamasco Ludovico Ceresola, agente mediceo a Roma, alle ironiche esortazioni rivolte dal cardinale Alessandro Farnese a F. nel 1566 a dedicare allo studio e non ad altro le sue notti, replicava che "il cardinal mio non è per addottorarsi né in theologia né in filosofia né in leggi, e sempre che verrà a Roma, saprà tanto che potrà comparire fra molti di voi altri"; ma privatamente lo sollecitava poi ad imparare a parlar latino, "poiché due parole latine che V. S. I. dica in Concistoro valeranno più che le cento dette da gravissimi e consumatissimi oratori e servitori suoi amorevoli" (4 nov. 1566: ibid. 5096, c. 857 ss.). L'educazione di F. sembra in effetti essere stata ancora in corso nel 1574: nel dichiarato intento di riprendere gli studi "a confusione dell'invidi e maligni", egli chiedeva ed otteneva allora dal fratello Francesco l'assegnazione di un nuovo maestro nella persona di Pietro Angeli da Barga, il più noto fratello di Antonio, con il quale, negli anni successivi, si esercitava a parlar latino mentre andava "in cocchio".A Roma F. si recò una prima volta nel maggio del 1565, in compagnia di Angelo Niccolini, incluso nella nuova promozione cardinalizia di Pio IV, per ricevere la porpora ed insieme il titolo di cardinale diacono assente di S. Maria in Doninica, di tradizionale spettanza della casa dei Medici, titolo che successivamente avrebbe lasciato per quello di cardinale diacono di S. Eustachio (15 maggio 1585) e quindi di S. Maria in via Lata (7 genn. 1587). La sua inesperienza e le esitazioni dello stesso pontefice a riceverlo indussero tuttavia Cosimo I a limitare a poche settimane la durata del soggiorno del figlio, pur guidato da personaggi autorevoli ed esperti come il Ricci, il Serristori ed Ugolino Grifoni, vecchio cortigiano di Cosimo I e maestro dell'Ordine di Altopascio. Un secondo soggiorno più impegnativo F. dovette compiere nel dicembre dello stesso anno, dopo la morte di Pio IV, per partecipare, in compagnia sempre del Niccolini, al conclave, conclusosi con la sconfitta dei candidati medicei e con l'elezione al pontificato di Pio V, Michele Ghislieri, sostenuto dalla fazione avversa ai Medici, guidata da Alessandro Farnese. Della vicenda, condotta per parte toscana da esperti collaboratori di Cosimo I, come Bartolomeo Concini, il Serristori e Onofrio Camaiani, il giovane F. fu tuttavia ancora semplice spettatore e non parte attiva.

Le tensioni politiche esistenti in un primo tempo tra il nuovo pontefice, già avverso alla promozione di F., e la corte medicea consigliarono di trattenere ancora il cardinale nel Ducato. Dal 1566, tuttavia. questi risulta destinatario di una fitta corrispondenza proveniente dai suoi rappresentanti a Roma, in primo luogo Ludovico Ceresola, che, oltre a trasmettergli puntuali informazioni sulle vicende curiali, sulle misure politiche e le rigorose riforme progettate e introdotte da Pio V in campo ecclesiastico, sull'intensificarsi delle pratiche devozionali e della difesa della fede sotto il suo pontificato, riferisce in merito al restauro compiuto nel 1566 della chiesa della Navicella (S. Maria in Domnica), dove l'impresa nuovamente affrescata sul soffitto, caratterizzata dalla centralità del simbolo dei leone, si proponeva di associare il nome di F. da un lato a quello del primo pontefice mediceo, Leone X, dall'altro, esplicitamente, al ricordo della sua città natale. Il giovane Medici iniziava così a far sentire, seppur indirettamente, la sua presenza a Roma. Per questi lavori, volti a celebrare il casato legandone il nome ad un luogo di culto, come era consono ai tempi e come i Medici facevano anche a Firenze, egli ebbe l'appoggio finanziario della famiglia, renitente, invece, ad affrontare le spese necessarie a restaurare palazzo Firenze nella zona di Campo Marzio, donato da Pio IV a Cosimo I nel 1561 e successivamente assegnato da questo al figlio come sua residenza.

Pur continuando a mantenere casa aperta a Firenze, dove nel 1570 gli fu concesso, in condominio con il fratello Pietro, l'uso del palazzo di famiglia situato in via Larga, F. fissò la sua dimora a Roma a partire dal gennaio 1569. La decisione di mandarlo, come scrive l'Usimbardi, "alla disciplina della corte romana", era conforme alle direttive di Pio V, tendenti a vincolare i cardinali alla residenza nella capitale, e si inquadrava nel clima favorevole dei rapporti instauratisi tra Cosimo I ed il papa, che di li a poco gli avrebbe conferito il titolo granducale. Diversamente dal fratello Giovanni, accompagnato nel 1560 da un seguito fastoso ed acclamato da circa duemila persone, F. fece il suo ingresso a Roma il 16 genn. 1569 in forma modesta, consona alla austerità richiesta dal pontefice: fu accolto da un gruppo ristretto di cardinali, legati ai Medici da rapporti di alleanza o di clientela, tra i quali spiccavano il cardinale nipote Michele Bonelli (l'Alessandrino), lo spagnolo Francesco Pacheco, Antonio Perrenot di Granvelle, Alessandro Sforza di Santa Fiora, il veneziano Zaccaria Dolfin. Nel nuovo clima controriformistico le giornate di F. furono ritmate, oltre che dagli impegni di culto privati, da quelli liturgici e devozionali pubblici, a lui richiesti in qualità di cardinale diacono. Restio a partecipare alle riunioni concistoriali, nel marzo 1569 entrò a far parte della congregazione delle Fonti, che anche in seguito costituirà il quadro prevalente della.sua attività curiale: in particolare fu incaricato dal pontefice di curare il completamento dell'acquedotto di Salone.

Agli impegni ecclesiastici e curiali F. venne affiancando quelli più strettamente connessi con le strategie e gli interessi dinasticì, da lui attentamente seguiti, come dimostrano le lettere inviate con cadenza più che settimanale al padre ed al fratello Francesco, cui nel 1564 il primo aveva ceduto il governo dello Stato. Inizialmente dovette affrontare non poche difficoltà materiali. Nonostante le modifiche da lui intraprese a proprie spese (in primo luogo la costruzione di uno "studiolo", simile a quello più noto del fratello Francesco, e di un campo da gioco per la pallacorda), palazzo Firenze restò residenza nutta antica et su puntelli", lontana dal lusso dei palazzi dei cardinali d'Este e Farnese, rivali e modelli dei cardinali figli di Cosimo I, e "defettiva grandemente" rispetto alle esigenze della corte cardinalizia, ammontante a circa trecento bocche, composita per origine e costumi e perciò agitata da contrasti talvolta violenti. Compenso solo parziale fu la disponibilità della villa suburbana del Popolo, pure concessagli dal padre. Inizialmente F. poté anche contare su entrate relativamente limitate: 24.000 scudi all'anno, provenienti dalle casse della Depositeria ducale, cui si aggiungevano poco più di 4.500 scudi di rendite provenienti da benefici, in parte situati fuori dal territorio toscano (abbazia di S. Stefano di Carrara nel Padovano, abbazia di S. Cristofano di Casteldurante nel Ducato di Urbino, alcuni benefici in Spagna) e perciò di difficile esazione. Egli fu perciò costretto ad indebitarsi gravemente e ad avanzare frequenti richieste di contributi straordinari al padre ed al fratello Francesco, accolte, specie da quest'ultimo, con dure recriminazioni contro la dispendiosità del suo tenore di vita. Solo nel 1572 la sua provvisione annua fu portata dal padre a 36.000 scudi; e solo due anni più tardi, alla morte di Cosimo, essa toccò la somma, ragguardevole ma sempre insufficiente alle esigenze del cardinale, di 80.000 scudi. Fin dall'inizio, tuttavia, F. tenne tavola imbandita per chi, come scriveva, avesse in animo "di insinuarsi con noi". La sua casa diventò luogo di scambio di favori e di accordi tra "amici", dai quali, allievo più pronto in materia di arti cortigiane e curiali che non negli studi letterari e filosofici, egli imparò ben presto "a pigliare di mano in mano quella parte che vogliono dare della loro amorevolezza et cercar con la dissimulazione, con la corrispondenza et co' piaceri di guadagnar il resto" (a Francesco de' Medici, 26 febbr. 1569, Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 5085, cc. non num.).

Legato ai parenti di Pio V, ed in primo luogo al cardinale Alessandrino, da una familiarità vista da alcuni "con livido occhio", abile nell'instaurare rapporti di patronato sui cardinali più poveri, come Innocenzo Del Monte, Benedetto Lomellini e Girolamo Simoncelli, con favori e segrete sovvenzioni in denaro, disposto a trattare senza pregiudizi anche con chi rendesse omaggio ai cardinali antagonisti, diventò nel giro di qualche anno uno dei poli di aggregazione del Collegio cardinalizio, riuscendo in ciò a competere con Alessandro Farnese, da tempo avversario irriducibile e temuto dei Medici. Se talvolta incorse, per la sua gioventù ed inesperienza, in alcuni errori di comportamento (come fu, nell'aprile del 1570, l'avanzare avventatamente la propria candidatura alla carica di legato, contro quella più autorevole di Giorgio Corner, in occasione della lega che il pontefice stava promuovendo contro i Turchi), F. ebbe facile udienza presso Pio V. Pur guidato e controllato da esperti uomini di fiducia di Cosimo I, come Ugolino Griffoni e Bartolomeo Concini, trattò con il papa le questioni politiche e diplomatiche di maggiore rilievo per la dinastia, in particolare il riconoscimento imperiale e spagnolo del titolo granducale conferito dal pontefice a Cosimo e la diuturna disputa della precedenza con la corte estense. Incline allora ad una linea politica decisamente filospagnola, operò per dissolvere i sospetti sollevati in Filippo II e nel pontefice dalle aperture della monarchia francese verso Cosimo I e dal favore con cui questi sembrava accogliere il matrimonio tra Margherita di Valois ed Enrico di Navarra e le prospettive di conciliazione religiosa in Francia. Seguì con interesse le vicende che condussero alla formazione della Lega santa contro i Turchi ed alla partecipazione delle galere dell'ordine di S. Stefano all'impresa.

Il prestigio raggiunto da F. nel Collegio cardinalizio e la vastità della rete di alleanze da lui intessuta nei tre primi anni del suo soggiorno romano diede i suoi frutti nel conclave seguito alla morte di Pio V (5 maggio 1572), conclusosi con l'elezione al soglio pontificio del cardinale Ugo Boncompagni (Gregorio XIII), candidato gradito ai Medici. Se F. non ebbe allora il ruolo decisivò che nelle sue lettere tende ad attribuirsi, e del quale cercò di farsi credito anche presso il Boncompagni, offrendogli segretamente, prima del conclave, la tiara a nome del granduca, egli tuttavia contribuì fattivamente ad unire intorno alla sua candidatura le due più recenti fazioni cardinalizie di Pio IV e di Pio V e ad isolare il Farnese, prima del decisivo pronunciamento a favore del Boncompagni del cardinale di Granvelle, portavoce di Filippo II. Nonostante i suoi meriti, F. non godette però dell'immediata confidenza di Gregorio XIII, incline al rispetto delle gerarchie curiali ed all'iniparzialità tra le fazioni cardinalizie, a tratti ostile al Granducato per motivi di natura politica, non ultimo, dopo il 1580, il fondato sospetto che Francesco proteggesse il banditismo sviluppatosi alle frontiere tra i due Stati. Non servirono molto a F. neppure gli sforzi compiuti per legare a sé il figlio naturale del Boncompagni, Iacopo, di cui nel 1576 patrocinò con successo il matrimonio con Costanza degli Sforza di Santa Fiora, accomandati al granduca e suoi fedeli servitori.

F. continuò a segnalarsi nelle pratiche devozionali. Nel 1573, se non prima, assunse la carica di protettore dell'Ospedale e della Confraternita della Ss. Trinità, istituita nel 1548 da s. Filippo Neri, organo ed espressione della nazione fiorentina a Roma. Le fonti del tempo celebrano l'ospitalità da lui offerta in tale qualità ai pellegrini durante il giubileo del 1575 e la sua partecipazione alla cerimonia del lavacro dei piedi, insieme ad Alessandro Farnese e Paolo Giordano Orsini. Dal 1580 fu protettore dei frati minori osservanti.

Svolse anche compiti politici ed amministrativi di qualche rilievo. Ascritto alla congregazione per le Strade e le Fontane, continuò ad occuparsi, come già sotto Pio V e successivamente sotto Sisto V, dell'amministrazione urbanistica della città e più particolarmente del problema degli acquedotti. Fu membro di diverse congregazioni temporanee. A partire dal 1583, pur ricusando di entrare nella Consulta progettata da Iacopo Boncompagni, ebbe parte nella organizzazione delle misure promosse dal pontefice contro i banditi. Ebbe un ruolo anche nel quadro dei disegni gregoriani di evangelizzazione: nominato dal papa protettore dei patriarcati di Antiochia, Alessandria e del Regno di Etiopia, nel 1584 si fece carico di organizzare una stamperia orientale, che avrebbe dovuto in primo luogo pubblicare una versione della Bibbia in lingua araba, da diffondere in territorio islamico. Dell'impegnativa impresa - i cui frutti tardivi (in primo luogo l'edizione dei Vangeli) incominciarono in realtà ad apparire, sotto la direzione di G. B. Raimondi, solo nel 1590 dopo la partenza di F. da Roma - egli si addossò tutti i costi, dietro concessione, da parte del pontefice, di una privativa decennale sui libri pubblicati, e, fino alla vendita al Rainiondi nel 1596, si servì con largo respiro, come di uno strumento per creare una ampia rete di rapporti, in primo luogo culturali, intorno al Mediterraneo.

F., tuttavia, non percorse una rilevante carriera in Curia e la sua posizione continuò ad essere in primo luogo quella di un eminente rappresentante della dinastia medicea. La sua profonda identificazione con il casato appare evidente nelle pitture eseguite da Iacopo Zucchi, su ispirazione di Pietro Angeli, a villa Medici, la nuova prestigiosa dimora che F. acquistò nel 1576 dagli eredi del cardinale Ricci e fece restaurare e ampliare tra il 1577 ed il 1588. Intessute non solo, secondo mode diffuse a quel tempo, di elementi naturalistici e magico-astrologici, ma di motivi mitologici e di richiami al linguaggio encomiastico già proprio di Leone X e di Cosimo I, caratterizzate dalla ripresa di temi politici tipici di quest'ultimo (come la rappresentazione, di modello vasariano, dello Stato con le sue città), esse sono volte a celebrare la grandezza del principe nella grandezza del casato e nella continuità con le sue tradizioni, adombrando forse in alcune parti, come è stato recentemente sostenuto da F. Morel e già sospettavano gli informatori di Francesco, l'aspirazione di F. alla successione dinastica.

Sul piano politico F. contribuì efficacemente al riconoscimento del titolo granducale da parte della Spagna e dell'Impero, infine ottenuto nel 1576, ed alla soluzione della questione della precedenza con la corte estense. Con non minor cura seguì, a partire dal 1572, le complesse vicende, intessute di conflitti familiari e di contrastanti appetiti, di diversi centri di potere (in primo luogo la S. Sede ed i Farnese), del feudo imperiale orsiniano di Pitigliano e Sorano, accomandato al granduca, suggerendo alcune delle mosse spregiudicate (la ribellione di Alessandro Orsini contro il padre Niccolò, inViso al papa come "ricettatore di banditi", e la successiva cessione delle fortezze al granduca Francesco, nel 1580) che consentirono di mantenere il controllo su quella irrequieta area di frontiera.

Dalla corte romana F. si occupò anche delle strategie matrimoniali del casato e fu attento patrono degli interessi di chi si poneva sotto la sua protezione. Nella prospettiva di un miglioramento delle relazioni medicee con le massime case principesche italiane, negoziò i matrimoni tra Vincenzo Gonzaga ed Eleonora, figlia di Francesco, celebrato nel 1584 a Mantova, dove F. accompagnò personalmente la nipote; e tra Cesare d'Este e Virginia, figlia di Cosimo 1 e di Camilla Martelli (1586). Legato da tenero affetto al nipote Virginio Orsini, figlio di Isabella de' Medici (morta nel 1576) e di Paolo Giordano, duca di Bracciano, vegliò sulle sue sorti, allorché il padre si rese responsabile, nel 1581, di relazione adulterina con Vittoria Accoramboni e dell'uccisione del di lei marito, Francesco Peretti, nipote del cardinale di Montalto, futuro Sisto V. Si preoccupò di mitigare la severità di Gregorio XIII nei confronti del colpevole, di tutelare, alla morte di Paolo Giordano (1585), i diritti ereditari di Virginio, minacciati dal tenore dello stesso testamento paterno, di prepararne le nozze con Flavia Peretti, onde sancire la definitiva riconciliazione delle due famiglie e chiudere la strada a possibili vendette. Tra il 1580 ed il 1583 F. non esitò a concedere protezione ed ospitalità anche ad Alfonso Piccolomini, feudatario e capo di banditi allora vicino al granduca di Toscana, e ad interporre i propri buoni uffici per appianare il conflitto apertosi in quegli anni tra il Piccolomini ed il pontefice, che aveva portato al suo bando ed alla confisca del feudo di Montemarciano.

Ma Roma, "officina - egli scriveva - di tutte le pratiche del mondo", fu per F. in primo luogo osservatorio e scena politica privilegiata. Le sue lettere al padre ed al fratello sono ricche di informazioni non solo sulle vicende della Curia, sullo svolgimento delle riunioni concistoriali e le promozioni cardinalizie, ma anche sui grandi eventi internazionali, sui rapporti tra gli Stati e sugli orientamenti della politica pontificia. Esse rendono conto anche dei numerosi interventi di F., impegnato a mediare, negoziare, risolvere contrasti, sia nell'interesse del casato sia secondo più vaste logiche politiche. Di particolare rilievo fu l'azione svolta con grande ostentazione presso Gregorio XIII nel 1581-82, affmché egli rinnovasse la concessione a Filippo II dell'excusado d'una parte delle decime ecclesiastiche e della cruzada, nonostante il cattivo uso precedentemente fatto dal sovrano di queste esenzioni, destinate alla formazione di una nuova lega antiturca. Al ruolo svolto in quell'occasione, oltre che all'appoggio già dato a suo tempo da Garcia de Toledo, cui F. era legato da parentela per parte di madre, egli dovette la carica prestigiosa di protettore degli affari di Spagna, da lui lungamente desiderata e finalmente conseguita all'inizio del 1583.

Le lettere di F. a Francesco sono anche intessute di consigli, talvolta polemici. Legato al padre da rispetto incondizionato fino alla morte di questo, F. ebbe invece con il fratello un rapporto difficile. Ad una forte rivalità personale si aggiunse la sua manifesta riprovazione per il legame e poi per il matrimonio di Francesco con Bianca Capello (1579). Un pesante clima di sospetto si instaurò tra i due allorché, nel 1582, la morte dell'unico figlio legittimo di Francesco, Filippo, e l'inaffidabilità del fratello minore, Pietro, privo di vincoli ecclesiastici, Ma noto per la vita disordinata oltre che per l'uccisione della prima moglie, Eleonora de Toledo, e renitente a contrarre nuove nozze di livello adeguato, aprirono a F. la prospettiva della successione. Un ulteriore inasprimento fu provocato, tra il 1586 ed il 1587, dalla falsa gravidanza di Bianca Capello, cui F. non prestò mai fede. Ma. al di là dei dissidi familiari, alimentati anche dai giochi delle fazioni di corte, non è difficile cogliere nel carteggio tra i due fratelli il segno di una diversità profonda di linea e di stile politico. A F. Francesco rimproverava la disinvoltura del comportamento e l'eccessiva autonomia di iniziativa. Di Francesco F. condivideva l'orientamento filospagnolo e la fedeltà alla S. Sede, ma criticava la netta sottovalutazione dell'importanza del Collegio cardinalizio come centro di potere e luogo d'azione politica; l'insufficiente sostegno dato non solo alle proprie richieste personali, ma ai propri sforzi "di far amici et di confermar li vecchi" in Curia, nell'interesse stesso dei Medici; la scarsa inclinatione al "negotiar dolce et pieno di modestia", indispensabile al successo entro una Corte, "la quale malvolentieri si muove al suono di diversa maniera"; la scarsa propensione ad estendere la rete delle alleanze medicee, quasi che "nel correr la fortuna di Spagna fusse la intera sicurezza di V. A.".

In contrasto con la rigidità del fratello e la sua tendenza all'arroccamento, F. esprimeva così la sua propensione alla negoziazione, la sua convinzione della centralità della Curia come luogo a ciò propizio, e, pur nel suo orientamento allora sostanzialmente filospagnolo, la sua tendenza a instaurare rapporti autonomi con altre corti ed altri centri di potere. In effetti egli continuò a corrispondere amichevolmente con Caterina de' Medici anche negli anni in cui la stretta adesione di Francesco alla parte spagnola, la rivendicazione da parte di Caterina dei suoi diritti sul patrimonio dei Medici a Roma ed a Firenze, le azioni compiute da sicari granducali a danno degli esuli fiorentini rifugiatisi in Francia provocarono una forte tensione tra le due corti. Non meno attento fu a coltivare buoni rapporti con i Gonzaga di Mantova e con gli Este. Noto è il suo riavvicinamento al cardinale Luigi d'Este, da lui sostenuto nel 1580 contro Gregorio XIII, e trasformatosi da allora, da fiero avversario, in amico personale ed alleato di F. nella Curia e tramite nei rapporti dei Medici con la corte di Ferrara.

L'autorevolezza e l'abilità di F. si manifestarono pienamente dopo la morte di Gregorio XIII (10 apr. 1585). Insieme con i cardinali Ascanio Colonna e Filippo Guastavillani fu allora incaricato di vegliare sull'ordine pubblico, minacciato dalle bande al servizio dei feudatari pontifici e, loro tramite, delle grandi potenze - questione cui tentò di far fronte in primo luogo cercando la collaborazione dei principi confinanti, a partire dal fratello granduca di Toscana. Ma fu soprattutto tra i grandi organizzatori del conclave, svoltosi, questa volta, nel relativo distacco delle grandi monarchie europee e dominato dai due partiti dei Farnese e dei Medici. Benché protettore degli affari di Spagna, F. non ricevette da Filippo II l'incarico di dirigere i cardinali spagnoli: le commissioni segrete a ciò connesse furono invece affidate al cardinale Ludovico Madruzzo. Con ovvio risentimento ed apprensione, egli vedeva in ciò una prova non solo dell'"humore" a lui avverso di una parte della Corte spagnola (in primo luogo di E. Guzmán, conte di Olivares, ambasciatore a Roma dal 1582, e del cardinale di Granvelle), ma anche del favore, o almeno della neutralità, con cui era considerata la rinnovata candidatura di Alessandro Famese. La prima preoccupazione di F. (non alieno, per parte sua, dall'usare anche forme di corruzione nei confronti dei cardinali più poveri, ma da ciò apparentemente distolto da Francesco) fu quindi di evitare l'elezione sia del Farnese che del cardinal Savelli a lui vicino, creando una larga confluenza a favore di una soluzione tanto rapida da precorrere di fatto il pronunciamento spagnolo. Abbandonate perciò le candidature granducali del cardinale Pier Donato Cesi e del Sirleto, ed accantonata la considerazione delle possibili conseguenze negative che la sua scelta avrebbe potuto avere per gli Orsini, insieme a Luigi d'Este e al cardinale Marco Sittico Altemps, sostenne la candidatura di Felice Peretti, cardinale di Montalto, tardivamente appoggiato anche dal Madruzzo e dai cardinali filospagnoli, ed eletto per adorazione.

Benché, ancora una volta, F. si vantasse con il fratello della gratitudine a lui tributata dal nuovo pontefice, Sisto V, "dicendo voler ch'io sia il figliuolo diletto et che niente passi senza mia partecipatione" (cit. in Hübner, I, pp. 487-492), neppure ora godette di una posizione preminente. Fu suo autorevole consigliere in questioni di politica estera e contribui forse a determinarne l'atteggiamento antispagnolo dei primi anni; conservò il suo ruolo nella congregazione delle Strade e Fontane. Ma non pochi furono i suoi contrasti con il pontefice. Violento quello, scoppiato nel 1585 e faticosamente appianato dal cardinale d'Este, intorno alla nomina di Fabio Mirto Frangipani alla nunziatura di Parigi, contrastata da F. e rifiutata da Enrico III. Meno rilevante, ma pur sempre indicativo di uno stato di tensione, il malcontento del papa per la conduzione degli ultimi grandi lavori urbani affidati a F.: la ricostruzione, secondo Sisto V troppo lunga e dispendiosa, del grande acquedotto dell'Acqua Alessandrina (poi detta Acqua Felice), cui F. sovrintese come presidente di una commissione apposita, arruolando maestranze toscane, e l'erezione dell'obelisco nella piazza di S. Pietro. Da Roma F. si allontanò nel settembre del 1587, per recarsi a Firenze. Il viaggio rientrava nelle sue abitudini, e nel caso specifico era motivato da un desiderio di riavvicinamento al fratello, dopo la conclusione della falsa gravidanza della moglie. Ma si trattò di una partenza definitiva. Il 19 ottobre a Poggio a Caiano moriva Francesco e F., pur mantenendo al momento il cappello cardinalizio e i benefici connessi, gli succedeva sul trono granducale.

Durante il suo lungo soggiorno romano F. aveva trovato modo di intercalare agli impegni religiosi, politici, cortigiani anche qualche "honesta recreatione" e qualche svago meno onesto: la caccia, sua perdurante passione; il gioco d'azzardo, che gli fruttò a più riprese (1575 e 1580) i rimproveri di Gregorio XIII e l'attenzione degli Avvisi; le avventure galanti, tra le quali, nel 1586, non sfuggi agli autori di pasquinate quella, pur circondata di segreto, con Clelia Famese, figlia illegittima del cardinale. Era stato protagonista di qualche episodio oscuro, come l'aggressione subita nel 1576, nella quale era morto un uomo della sua scorta. Ma aveva anche avuto l'occasione di sviluppare interessi ed iniziative impegnative. Seguendo mode diffuse negli ambienti curiali e cortigiani del tempo, si era dedicato agli scavi archeologici: di notevole importanza quelli condotti intorno al 1570 a Palo, nel feudo orsiniano di Bracciano, e quindi, nel 1576, con l'autorizzazione della Camera apostolica, entro il perimetro dell'Urbe. Con l'aiuto di esperti, come il cardinale Ricci, Diomede Leoni, Iacopo Del Duca, Francesco Usimbardi, aveva dispendiosamente coltivato il collezionismo. Nel 1569, insieme con il fratello Francesco, aveva acquistato le sculture già appartenenti al vescovo di Pavia Girolamo de' Rossi, mentre il Ricci faceva posto nella propria casa alle antichità donate a F. da Pio V, non essendo palazzo Firenze adeguato a riceverle. Erano questi gli inizi della grandiosa collezione di sculture antiche originali (come gli otto rilievi dell'Ara pacis, il gruppo delle Niobidi e la Venere medicea), di copie e di restauri che, dopo il 1576, avrebbe decorato il complesso di villa Medici e sarebbe stata arricchita nel tempo da acquisti importanti, come quello delle raccolte dei palazzi Della Valle e Capranica nel 1584.

Precoce era anche stato l'interesse manifestato da F. per lo sviluppo agricolo e la messa a coltura di nuove terre, verosimilmente ispirato, oltre che dall'esempio paterno, da quello di altri cardinali (primo, ancora una volta, Alessandro Famese), interessati ai profitti realizzabili con la vendita del grano alla Camera apostolica, e accresciuto dall'incitamento specifico del cardinale Ricci, a lungo tra i responsabili dell'Annona pontificia. Nel 1570 F. si era impegnato a estendere la coltura della vite e dell'olivo alla vigna del Popolo. Nel 1571 aveva preso in affitto la tenuta della Magliana, già luogo di caccia di Leone X, destinandola all'allevamento; aveva progettato - senza tuttavia ottenere l'avallo familiare - l'acquisto della tenuta di Palo, anche nell'intento di sottrarla alle mire di Alessandro Famese. Nel 1572, dopo essere stato investito da Pio V del governo di Castel della Pieve, aveva progettato la bonifica della Val di Chiana, "granaio copiosissimo - scriveva - che sta perso sotto l'acque e impresa che ebbe un primo avvio negli anni successivi con il concorso dei Medici e di finanzieri pontifici.

Nel 1580 l'acquisto del casale di Pian d'Arcione, nella Maremma pontificia, già affittato agli Odescalchi, lo aveva impegnato, con esito peraltro negativo, in un violento conflitto conibattuto tra opposti fronti di mandriani per l'occupazione dei pascoli e l'accesso ai campi coltivati a grano e, con grave disappunto di Gregorio XIII, in una causa davanti alla Rota contro la Camera apostolica. Alla "disciplina della corte romana" F. era cosi venuto accumulando esperienze disparate e maturando molti dei tratti che ne connoteranno la personalità anche negli anni successivi. Ma in primo luogo aveva acquisito le qualità politiche di un uomo di Stato.

Prefigurata fin dal 1582 ed apparentemente confermata, sul letto di morte, dallo stesso Francesco, che gli consegnò i contrassegni delle fortezze, la successione di F. avvenne in modo sostanzialmente tranquillo. Non mancarono, tuttavia, segni di apprensione. F. si affrettò a prendere possesso delle fortezze ed allertare per ogni evenienza le milizie granducali. Si preoccupò di difendersi dai sospetti di veneficio suscitati contro di lui dalla morte quasi improvvisa di Francesco, seguita ad un solo giorno di distanza da quella della moglie, ordinando che le salme fossero sottoposte ufficialmente ad autopsia e diffondendo voci che attribuivano a Bianca Capello Pindiretta responsabilità della morte del marito, e quella di lei a suicidio. Si premunì contro le eventuali pretese di Antonio, figlio di Bianca e di Francesco, nato al di fuori del matrimonio, ma successivamente legittimato dal padre e da lui riccamente dotato di beni immobili e di rendite, affidando all'arcivescovo di Pisa, Carlo Antonio Dal Pozzo, suo intimo e giurista di grido, la preparazione di documenti - poi tenuti segreti - che ne ponessero in dubbio i natali. Di Bianca volle cancellare fin il ricordo: ne ordinò l'immediata sepoltura nella cripta sotterranea di S. Lorenzo, escludendola totalmente dal funerale solenne poi celebrato per Francesco il 15 dicembre; ne fece cancellare dovunque le armi, restaurando al loro posto quelle di Giovanna d'Austria, prima moglie di Francesco. Il 25 ott. 1587 F., presentatosi al Senato dei quarantotto ed al Consiglio dei duecento uniti, fu acclamato capo della Repubblica fiorentina, secondo modalità costituzionali simili a quelle seguite in occasione dell'innalzamento di Cosimo I, che sanzionavano ad un tempo la natura cittadina e non feudale dei potere ducale e la libertà originaria di Firenze, riconosciuta anche in occasione del conferimento del titolo granducale ai Medici. Di ciò F. andò fiero, gloriandosi - come scriverà l'ambasciatore veneto Francesco Morosini nel 1608 - "d'essere prencipe di ellezione". 1 messaggi a lui inviati in quella circostanza esprimevano il largo favore con cui fuori Firenze era accolta l'ascesa al trono di un principe ricco di esperienza e di amicizie. Che le sue apprensioni non fossero tuttavia infondate dimostra il fatto che egli non ricevette allora dal sovrano spagnolo l'investitura dello Stato senese a titolo, feudale. Questa fu tenuta in sospeso fino al 1605: situazione anomala, che non impedì a F. di esercitare di fatto pienamente il suo governo, imponendo ad esempio nel 1588 regole minuziose agli organi locali (Riforme delli magistrati della città di Siena), ma che attestava la diffidenza di Filippo II e di una parte della sua corte verso il granduca e che pesò su quest'ultimo come una concreta minaccia, continuando a dargli "gran pensiero".

Da Francesco F. ereditò, oltre ad un vastissimo patrimonio fondiario e al controllo sulle risorse minerarie della Toscana (dal sale alla Magona del ferro), enormi ricchezze mobiliari che gli consentirono di svolgere, con il sostegno di una vasta rete internazionale di corrispondenti d'affari, attività mercantili e di prestito finanziario, traendone grandi profitti personali e potere politico. Fedele alle linee già elaborate durante il cardinalato, pur cercando di mantenere buoni rapporti formali con la Spagna, non volle, diversamente dal fratello, legare interamente ad essa le proprie fortune. Egli percepiva i fattori di movimento innestati nel quadro politico europeo durante gli ultimi decenni del Cinquecento dai nuovi contrasti tra Spagna e Francia e dall'ascesa dell'Olanda e dell'Inghilterra. Non meno chiari gli erano i rischi creati nella penisola dall'aggressiva politica filospagnola di Carlo Emanuele 1 di Savoia, manifestatasi in particolare, nel 1588, con l'occupazione del Marchesato di Saluzzo, testa di ponte francese al di qua delle Alpi, già segretamente offerto da Enrico III a F. ma rifiutato da questo per non incorrere nelle ire di Filippo II e nell'ostilità degli Stati italiani. Facendo "professione di buon principe italiano", impegnato nella "conservazione della quiete e libertà di detta provincia", come scriverà dopo la sua morte un altro ambasciatore veneto, Francesco Badoer, e dirà con altre parole l'autore di una biografia anonima conservata a Parigi, egli volle riavvicinarsi a Venezia, con la quale stabili in breve volgere di tempo uno scambio di rappresentanze diplomatiche. Accantonando i contrasti sulle questioni di precedenza, su cui si era tanto accalorato Francesco, instaurò anche con i Ducati padani relazioni più distese. Appoggiò le richieste di Cesare d'Este, volte ad ottenere l'investitura imperiale di Modena e di Reggio e quella pontificia di Ferrara e non rinunciò successivamente ad appoggiarlo, seppur segretamente, durante la guerra di devoluzione (1598). Negoziò con impegno, benché senza successo, il matrimonio della nipote, principessa Maria, con Ranuccio Farnese. Persuaso sempre della centralità dello scacchiere romano, si preoccupò di mantenere buoni rapporti con Sisto V: a ciò contribuirono anche le nozze di Virginio Orsini, nipote dei granduca, con Flavia Peretti, finalmente celebrate nel 1588. Anche in seguito F. ebbe larga udienza a Roma, e dopo la morte di Sisto V (1590) non rinunciò ad influire dall'esterno sullo svolgimento dei conclavi. A più riprese riuscì a far eleggere dei candidati amici dei Medici: Urbano VII Castagna nel 1590; Innocenzo IX Facchinetti nel 1591, dopo la parentesi di Gregorio XIV Sfondrati; e più tardi, al concludersi del lungo pontificato di Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605), Leone XI (Alessandro de' Medici) e Paolo V (Camillo Borghese), ambedue nel 1605. Al desiderio di mantenere relazioni amichevoli con la S. Sede, oltre che alla sua piena partecipazione al clima controriformistico, è forse dovuta la sua maggior inclinazione - giudicata dalla storiografia sette-ottocentesca come colpevole debolezza - alla trattativa che non allo scontro sulle questioni di natura fiscale e giurisdizionale aperte nei confronti del clero toscano, dalla bolla gregoriana del 1591, così come più tardi sul problema delle eredità lasciate ai monasteri, vivacemente discusso in Senato nel 1606.

Stretti rapporti mantenne con Caterina de' Medici ed Enrico III di Valois, che sostenne con forti prestiti. Ai due matrimoni propostigli da parte imperiale e spagnola (una figlia dell'arciduca Carlo d'Austria e una figlia del duca di Braganza, entrambe, peraltro, non ancora in età da matrimonio), F. preferì quello con Cristina (nata nel 1565), figlia di Carlo duca di Lorena, appartenente alla famiglia dei Guisa, aderente alla Lega cattolica e filospagnola, ma cresciuta alla corte di Caterina de' Medici, e da questa calorosamente protetta. Gli sponsali, propiziati da un contratto dotale che prevedeva, oltre al versamento di una somma cospicua, la rinuncia di Caterina alle sue ragioni sui beni medicei a favore di Cristina, e dalla sottoscrizione, da parte di Enrico III, dell'impegno (ora bene accetto) a vendere a F. con facoltà di riscatto il Marchesato di Saluzzo, qualora ne fosse rientrato in possesso, furono stipulati il 25 febbr. 1589. L'arrivo di Cristina a Firenze avvenne il 30 aprile e segnò l'inizio di un mese di solenni festeggiamenti. Il 14 dic. 1588 F. aveva rinunciato al cappello cardinalizio, ottenendo dal pontefice di trasmetterlo al cardinale Francesco Maria Del Monte, suo protetto.

Vedendo nella Francia il principale contrappeso alla potenza spagnola nell'area mediterranea, F. operò con spregiudicatezza a favore del rafforzamento del potere monarchico al suo interno, servendosi dei canali paralleli di una diramata ed abile diplomazia segreta o di tramiti indiretti, come l'ambasciatore francese a Venezia. Nel 1589 tentò vanamente di indurre Sisto V a desistere dalla sua rigida condanna (culminata nella scomunica) della politica di riconciliazione allora perseguita da Enrico III. Dopo l'assassinio di questo, non esitò ad appoggiare segretamente Enrico di Navarra, erede legittimo al trono, con cospicui prestiti finanziari, finalizzati anche al reclutamento di truppe, con informazioni e consigli, nonché con diretti interventi politici. Nel 1590 si impegnò nel duplice tentativo di staccare il duca Carlo di Lorena, suo suocero, dalla Lega, di cui era il candidato al trono, e di creare in seno al Collegio cardinalizio una corrente non ostile al Navarra. F. premette fin dall'inizio su Enrico IV affinché egli si convertisse al cattolicesimo, e dopo la sua conversione (23 luglio 1593) negoziò per lui l'assoluzione pontificia, infine concessa da Clemente VIII l'8 sett. 1595.

Nei conflitti aperti nell'area mediterranea F. intervenne anche in modo diretto. Già da tempo impegnato in una politica di aiuti segreti alla Provenza ed alla città di Marsiglia (dove, in contrasto con la sua linea generale, si sosteneva la Lega), nel 1591 inviava una guarnigione nel castello d'If, all'imbocco del porto marsigliese, sottoscrivendo con il capitano della cittadella l'impegno a tenerlo in nome di chi fosse infine riconosciuto re di Francia nell'ambito della fede cattolica. La mossa, giustificata anche in nome dei diritti rivendicati sulla Provenza dalla casa dei Guisa e quindi da Cristina di Lorena, obbediva all'intento primario di garantire alle galere toscane sicurezza di navigazione nel Mediterraneo occidentale, proteggendole dalle aggressioni spagnole e sabaude. Ma rifletteva anche la volontà di impedire un'ulteriore espansione sabauda e spagnola in quest'area, che precludesse i collegamenti via mare di Livorno con Marsiglia, provocando l'isolamento del Granducato dalla Francia ed il suo accerchiamento di fatto, per terra e per mare, da parte della Spagna. Alle reiterate richieste di Filippo II di cedergli il castello F. oppose sempre un fenno rifiuto.

Rapporti non meno spregiudicati annodò, a partire dal 1589, per tramiti sempre segreti, con Elisabetta I d'Inghilterra. Pur turbati dalle aggressioni dei corsari inglesi contro le navi che trasportavano merci di sudditi toscani e dai conflitti giurisdizionali a ciò connessi (particolarmente aspri quando questi sudditi erano ebrei e marrani di origine spagnola o portoghese), questi rapporti furono intensi. Li alimentarono, da un lato, i legami commerciali che si stavano sviluppando tra i due paesi, dall'altro la comune preoccupazione per gli equilibri europei, minacciati dalla preponderanza spagnola. Se ufficialmente F. non fece mancare a Filippo Il il suo aiuto in occasione degli attacchi contro l'Inghilterra nel 1588 e nel 1589, egli non esitò a far pervenire alla regina indicazioni preziose per la guerra di corsa contro gli Spagnoli, raccolte attraverso la larghissima rete di informatori e di spie di cui disponeva. Così nel 1591, la informava, tramite Enrico IV, della composizione, carico e data di partenza di una flotta spagnola dall'Avana, in modo che sir Francis Drake potesse intercettarla.

La tensione crescente tra il sovrano spagnolo ed il granduca si manifestò non solo nelle reiterate minacce di Filippo Il di proclamare la decadenza di F. dal feudo senese, ma con il rafforzamento delle guarnigioni spagnole alle frontiere del Granducato, nei Presidi maremmani, nello Stato di Piombino. A ciò concorsero, nel 1589, l'uccisione di Alessandro Appiani, signore di Piombino, ad opera di una congiura protetta, se non promossa, dalla moglie di questo, la spagnola Isabella di Mendoza, e dal comandante spagnolo della fortezza, ed il conseguimento, da parte di quest'ultimo, della signoria della città in nome di Filippo II, cui seguì la cacciata del presidio toscano da Rio d'Elba, dove il granduca disponeva dell'appalto delle miniere di ferro. Pur senza assumere posizioni di rottura, F. si impegnò a tutelare davanti alla corte imperiale i diritti alla successione paterna del giovane Iacopo Cosimo Appiani, infine riconosciuti all'inizio del 1591. Nello stesso anno, tuttavia, il governatore di Orbetello concluse un trattato con il conte di Pitigliano, mirante a introdurre in questo feudo una guarnigione spagnola. In tal quadro di ostilità non dichiarate rientrò anche l'impiego da parte spagnola e sabauda, tra il 1590 ed il 1591, del bandito Alfonso Piccolomini, già protetto dei Medici, ora protagonista di pericolose azioni ai confini tra lo Stato toscano e quello della Chiesa. Il Piccolomini, contro il quale F. poté contare, più che sull'aiuto pontificio, su quello di Venezia, fu infine arrestato in Romagna all'inizio del 1591, prima che potesse congiungere le proprie truppe con quelle di Marco Sciarra e costituire un grande assembramento di banditi nella Maremma senese, in prossimità delle guamigioni spagnole. Fu quindi impiccato a Firenze (15 marzo). Filippo II poté servirsi contro F. anche di don Pietro de' Medici, che, dopo essere stato richiamato a Firenze nell'agosto del 1588, era nuovamente tomato nel 1589, contro il volere del granduca, alla corte spagnola. Profondamente risentito contro il fratello per il trattamento finanziario, a suo dire iniquo, che questi gli aveva riservato, don Pietro, appoggiato dai giuristi spagnoli dell'università di Salamanca, non solo rivendicava davanti al foro pontificio metà dell'asse ereditario mediceo (1592), ma era pronto a farsi strumento di attacchi e trame politiche contro Ferdinando I. Nel 1593 i giureconsulti spagnoli lo consideravano il possibile candidato all'investitura senese, in caso di decadenza di Ferdinando I.

Un momento unitario, di superamento dei contrasti che lo dividevano dal mondo ispano-asburgico (oltre che di difesa di interessi concreti), fu trovato da F. nella lotta contro i Turchi, che condusse in contrasto con gli orientamenti politici dell'alleato francese. Nel 1594-95, senza attendere l'invito pontificio alla mobilitazione e precorrendo l'intervento spagnolo, profuse forze sul fronte ungherese. All'imperatore Rodolfo II d'Asburgo inviò, nel 1594, aiuti in denaro ed un contingente toscano di 2.000 fanti e 400 cavalli, sotto il comando di Giovanni de' Medici, cui si affiancarono, con proprie truppe, come "venturieri", Antonio de' Medici e Virginio Orsini. In cambio ebbe la promessa di investitura del feudo di Piombino, qualora esso fosse devoluto all'Impero. L'anno successivo un'altra spedizione toscana, accompagnata da ingegneri ed architetti esperti di fortificazioni, venne mandata a soccorrere Sigismondo Báthory, principe di Transilvania. Alle ragioni ideali e politiche si intrecciava in questo caso la preoccupazione di tutelare le posizioni mercantili conquistate dalla nazione fiorentina in quest'area, recentemente aperta alla penetrazione della produzione laniera cittadina e diventata un prezioso canale proprio in direzione del mercato turco.

La politica europea di F. ebbe un complemento essenziale nel suo interesse per lo sviluppo di Pisa e Livorno: interesse ereditato dal padre e dal fratello, ma ora acuito dalla congiuntura politica ed economica. Già essenziale ai commerci con il Levante, a partire dall'ultima decade del '500, segnata da gravi carestie ricorrenti, Livorno, infatti, diventò il centro di importazione anche delle partite di grano, che, insieme ad altri mercanti. il granduca acquistava in Inghilterra, a Danzica, a Lubecca, in Linguadoca con enormi investimenti (fino a due milioni di scudi in quattro anni), per far fronte alle esigenze dello Stato e rivendere ad acquirenti esterni, ricavando profitti e meriti politici, nonché per creare una pericolosa concorrenza alle aree produttrici di grano del Regno di Napoli e della Sicilia. Negli stessi anni prendeva avvio la costruzione della città. A partire dall'inizio del 1590 furono avviate la costruzione di una nuova fortezza (compiuta nel 1597) e la revisione complessiva del sistema delle fortificazioni, su disegni di Bernardo Buontalenti e sotto la supervisione di Giovanni de' Medici, figlio naturale di Cosimo I, esperto militare e buon conoscitore di tecnica architettonica, allora richiamato da F. dalle Fiandre, dove militava sotto il comando del Farnese. Sempre nel 1590 fu intrapreso l'ingrandimento del porto, già progettato nel 1572 per conto di Cosimo I da Bartolomeo Ammannati e mai realizzato. Riprendendo il progetto urbanistico elaborato dal Buontalenti per Francesco, che nel 1577 aveva simbolicamente posto la prima pietra della città, F. procedette, mediante finanziamenti pubblici della Depositeria e di altri enti (come, a partire dal 1593, i Ceppi di Prato), alla costruzione di nuove case, destinate alla vendita o all'affitto a condizioni agevolate. Ai costi enormi di questo insieme di operazioni si fece fronte anche mediante il lavoro coatto degli schiavi, dei forzati e dei confinati a Livorno, nonché l'imposizione di "opere" e "comandate" alla popolazione rurale.

Contemporaneamente F. si preoccupò di incrementare il popolamento e le attività economiche sia di Pisa, dove nel 1588 furono trasferite le fiere già tenute a Besanzone, che di Livorno. Anche in questo seguiva le orme paterne, ma ai propri provvedimenti assicurava, almeno nei primi anni, ben altra pubblicità. Ai bandi popolazionistici, o specificamente diretti ad attirare le maestranze necessarie ai lavori di costruzione ed al porto, del 1590 e del 1592, fondati sulla promessa di ampie esenzioni fiscali ed immunità dalle condanne, si aggiunsero, nel 1591 e nel 1593, quelli, noti come "Livornine", rivolti a mercanti "di qualsivoglia natione, Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portughesi, Greci, Todeschi et Italiani, Hebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani" affinché si insediassero nei due centri urbani. Agli ebrei, secondo linee praticate anche dalla Repubblica di Venezia, dal duca di Savoia e dagli stessi pontefici, ma applicate nel caso livornese in modo più radicale, venivano promessi privilegi commerciali ed esenzioni fiscali, libertà di culto e protezione dall'Inquisizione. Non fu. tuttavia, questa l'unica direzione in cui si cercò di rendere concretamente operanti le "Livornine". Esse per certo furono solennemente inviate anche alla regina Elisabetta; e si può forse collegare alla loro emanazione anche il tentativo compiuto nel 1592, peraltro senza frutto, di ottenere dal sultano Murad III la concessione di privilegi a favore dei mercanti toscani nell'Impero turco, con promessa di reciprocità per quelli turchi nel Granducato. Con mercanti ed imprenditori, disposti ad impiantare a Pisa e Livorno nuove attività economiche, F., come già Cosimo I, praticò anche accordi privati, concedendo monopoli e talvolta, come all'ebreo Maggino Gabriele, di provenienza veneziana, finanziamenti.

Il successo della politica di F. si manifestò non solo nel rapido incremento del traffico portuale, ma nel decollo demografico del centro urbano, passato da poco più di 700 abitanti nel 1591 a poco meno di 6.000 alla sua morte, nel 1609, e nell'insediamento, qui ed a Pisa, di mercanti ebrei e marrani, provenienti da altre aree italiane, dal Levante o dal Portogallo (primi gli Ximenes), di inglesi, olandesi e provenzali. Si trattò di un successo durevole, destinato a modificare gli equilibri economici e commerciali del Mediterraneo. Pisa d'altro canto, come al tempo di Cosimo I, continuò ad essere sede dell'Ordine dei cavalieri di S. Stefano, che F. rafforzò e riordinò, rivedendone gli statuti (1590), e, a partire dal porto labronico, impiegò intensamente nella guerra di corsa; a scopo difensivo, in primo luogo contro i pirati turchi e barbareschi.Lungi dal migliorare la posizione del Granducato nell'Europa mediterranea, la conciliazione di Enrico IV con la Chiesa ed il successivo avvio (1596) di trattative di pace con Filippo II (seguite per conto di F. da Alessandro de' Medici) provocarono rapidamente uno stato di tensione tra il sovrano francese ed il granduca, timoroso di non riceverne sufficiente protezione contro la Spagna, dopo aver "messo a rischio" per lui "uno stato ed una fortuna" e preoccupato per l'eventualità di un suo accordo con il duca di Savoia. Cambiò il senso politico dell'occupazione del castello d'If. Se nel 1596 F. fece fronte vittoriosamente all'attacco mosso da una flotta spagnola, e nel 1597 resistette, in nome dei diritti del re, ad una sollevazione interna capeggiata dai Guisa, fortificando a sue spese la piccola isola di Pomègues, egli rifiutò però anche di accedere alle ripetute richieste di restituzione di Enrico IV. Nel possesso della fortezza vedeva infatti da un lato uno strumento di pressione politica su un sovrano di cui lamentava lo scarso interesse per l'Italia e la Provenza, dall'altro una garanzia finanziaria rispetto al debito di oltre un milione di scudi d'oro, che questi aveva accumulato nei suoi confronti e che ora gli premeva di riscuotere, tanto da pretendere senza riguardi, nel 1597. la malleveria esterna di alti personaggi della corte. Alla occupazione, ed alle tensioni connesse, posero termine solo l'inclusione, tenacemente perseguita da F., del Granducato nella pace di Vervins (2 maggio 1598) e la paziente negoziazione sul debito condotta dall'inviato francese, cardinale Arnaud d'Ossat.

Furono queste le premesse di un riavvicinamento franco-toscano, apparentemente caloroso ma temporaneo. Esso fu sancito dalle nozze di Enrico IV con Maria de' Medici, figlia di Francesco, celebrate il 4 ott. 1600. Già ventilate fin dal 1591-92, ma dilazionate in attesa della conversione del sovrano francese e dello scioglimento del suo matrimonio con Margherita di Valois, esse non suscitavano in verità l'entusiasmo di Enrico IV, protagonista di accese vicende sentimentali e poco incline a contrarre un legame con un casato che gli sembrava di recente origine "borgliese". Agli occhi dei suoi ministri, a partire dal Sully e dal Villeroi, rappresentavano tuttavia una accettabile sistemazione della sua vita familiare ed un contributo importante, grazie alla ricca dote (700.000 scudi) pattuita per Maria, al risanamento delle finanze reali ed al saldo dei debiti verso Ferdinando I. Per F. esse costituivano non solo un traguardo di prestigio, ma uno strumento per rafforzare la propria influenza alla corte francese, tramite la regina ed il suo seguito; e quindi la garanzia di un'alleanza a lui ancora essenziale. Proprio nei mesi in cui si stipulava il matrimonio F. assisteva con soddisfazione all'attacco mosso da Enrico IV a Carlo Emanuele I di Savoia per riappropriarsi del Marchesato di Saluzzo: un'impresa di cui Sabaudi e Spagnoli tendevano a ritenerlo corresponsabile. Le speranze del granduca furono però rapidamente frustrate. Le negoziazioni volte a includere nel seguito della regina suoi uomini di fiducia, condotte dal segretario Belisario Vinta in un clima di manifesto antitalianismo, ebbero scarso successo; né giovarono a F. il peggioramento, negli anni successivi, dei rapporti tra Enrico IV e Maria de' Medici e l'ostilità suscitata dalle ambizioni dei cortigiani fiorentini, dominati dalle figure di Concino Concini e di Leonora Dori (Galigai). Quanto a Saluzzo, il trattato di Lione (17 genn. 1601), nonostante le recriminazioni del granduca, ne stabiliva la cessione ai Savoia in cambio della Bresse, sanzionando il ritiro della Francia al di là dei monti.

Si chiudevano gli spazi entro cui si era sviluppata la politica estera toscana. Il riavvicinamento alla Spagna era ormai per F. una strada obbligata, non facile, peraltro, da percorrere. Già nel 1597, con il sostegno della fazione capeggiata a corte da Juan de Idiáquez e Cristóbal de Moura, egli aveva compiuto un tentativo in questa direzione: aveva allora anche accarezzato senza successo l'idea di un adeguato matrimonio spagnolo per la nipote Maria, in luogo di quello con Enrico IV. Ma prima la revoca, ad opera di Filippo II, degli assegnamenti fatti per pagare i mercanti toscani, poi la sua morte (13 sett. 1598) e la ascesa al trono di Filippo III segnarono un inasprimento dei rapporti con il Granducato. Il nuovo sovrano non solo tornò a rifiutare a F. l'investitura di Siena, ma cercò anche di trarre davanti al foro spagnolo la causa patrimoniale intentata da don Pietro de' Medici contro il fratello, chiusa dal pontefice con una sentenza a favore del secondo, per trasformarla nell'occasione di un attacco, che parve investire allora il carattere stesso del dominio esercitato dai granduchi su Firenze, considerato anch'esso di natura feudale. Dopo le nozze tra Maria de' Medici ed Enrico IV il Granducato fu nuovamente minacciato dall'addensarsi di truppe spagnole alle sue frontiere, sia a Piombino ed Orbetello che in Lunigiana. A poco servirono i buoni uffici esercitati presso Filippo III dal papa e gli sforzi di F. per manifestare la propria militanza nel campo ispano-asburgico: l'invio di truppe all'imperatore, nuovamente attaccato dai Turchi, la concessione di galere a Giovanni Andrea Doria in occasione della spedizione contro Algeri (1601). Nel 1603, all'estinguersi della linea degli Appiani, F. sollecitò così inutilmente l'investitura dell'Elba, pur promessagli dall'imperatore nel 1594: qui, anzi, il viceré di Napoli procedeva alla fortificazione di Porto Longone. Più proficua fu per il granduca la morte dello scomodo fratello Pietro, avvenuta nel 1604 a Madrid. La tutela concessagli da Filippo III sui figli che don Pietro aveva riconosciuto in Spagna fu un primo segno di conciliazione. Ad esso seguì, nel 1605, la sospirata concessione dell'investitura di Siena, cui, negli stessi anni (1604-1608), si aggiungeva il possesso dei feudo di Pitigliano, piccolo ma strategicamente importante, ottenuto mediante permuta con gli Orsini. Da parte sua F. rimetteva a Filippo III ogni scelta matrimoniale per il figlio primogenito Cosimo, del quale, peraltro, la regina di Spagna Margherita d'Austria aveva già auspicato, nel 1603, le nozze con una delle arciduchesse sue sorelle. La conclusione, nel 1607, del matrimonio tra Cosimo e Maria Maddalena d'Austria sancirà, in effetti, il nuovo allineamento di Ferdinando I.

Nella nuova situazione l'intraprendenza politica di F. incontrò limiti inevitabili. Egli evitò di schierarsi nei contrasti più acuti, come la questione dell'interdetto a Venezia. Continuò tuttavia a svolgere una intensa attività marittima nel Mediterraneo, ispirata da un lato dalle logiche della guerra di corsa, dall'altro, non senza contraddizioni, da disegni politici più complessi. Al di là di alcuni momenti di crisi, provocati dalla cattura di vascelli inglesi da parte dei cavalieri di S. Stefano, i rapporti con l'Inghilterra restarono buoni. Al crescente inserimento dei mercanti inglesi nei traffici mediterranei che facevano capo a Livorno si affiancava il vivo interesse di F. ad attirare nei propri domini uomini esperti di navigazione e di scienze del mare, come nel 1604 sir Richard Gifford, mercante e corsaro, e nel 1608 Robert Dudley, cartografo e costruttore di navi. Legami sfuggenti si annodavano anche intorno alle imprese corsare inglesi contro la Spagna, che F. contribuiva ancora a finanziare. Al consolidarsi delle relazioni anglo-toscane - diventate ora ufficiali - contribuirono l'ascesa al trono, dopo la morte di Elisabetta (1603), di Giacomo I Stuart e la pace da lui sottoscritta nel 1604 a Londra con la Spagna. Con lo Stuart F. aveva già avuto rapporti amichevoli quando egli era re di Scozia (Giacomo VI). Nel 1599, allorché questi cercava di crearsi condizioni favorevoli alla successione inglese, il granduca non aveva esitato a dichiarargli la sua disponibilità ad intercedere presso il papa in vista di un suo riavvicinamento alla Chiesa cattolica, e solo il mutato orientamento religioso dello Stuart l'aveva distolto dal farlo. Nel 1601 aveva ottenuto da lui il permesso di reclutare un contingente di quattro o cinquemila fanti in Scozia. Nonostante le difficoltà di ordine religioso, nel 1604 si parlò anche di un matrimonio tra il principe di Galles e una delle principesse toscane: progetto già proposto dalla corte stuardiana di Scozia a quella medicea nel 1601 e destinato a riemergere, benché sempre senza effetti concreti, dopo la morte di Ferdinando, nel 1611-12. Ben più che dalla pubblicazione a Londra, nel 1605, ad opera di Sir Robert Dallington, della relazione di un viaggio in Toscana di ispirazione antimedicea e dalle relative recriminazioni del granduca, il clima dei rapporti instaurati tra i due paesi era rivelato dalla rapida convocazione dell'autore davanti al Consiglio dei re e dalla decisione (in realtà più teorica che reale) di mettere il libro al rogo.

Cambiò invece la politica granducale nel Levante. Pur ostacolati dalle imprese dei cavalieri di S. Stefano, non erano mancati negli anni '90 alcuni tentativi di stabilire accordi con la Grande Porta. Di particolare rilievo - dopo il già ricordato tentativo del 1592 - fu la missione a Costantinopoli nel 1598 dell'inviato mediceo Neri Giraldi, tendente a stabilire, ancora una volta senza frutto, un vero e proprio trattato commerciale e l'introduzione in città di un bailo fiorentino per creare nuovi sbocchi al commercio fiorentino, colpito dal decreto di revoca degli assegnamenti a favore dei mercanti fiorentini in Spagna. Con la fine dell'alleanza francese ed il riallineamento alla Spagna, simili tentativi vennero meno. Sotto lo stimolo per un verso dell'ideologia controriformistica, della crociata, per l'altro della cupidigia delle prede, che costituivano un'entrata cospicua per l'Ordine e per lo stesso F., aumentò invece l'aggressività della flotta stefaniana, guidata da Iacopo Inghirami e Giulio di Montauto. Agli attacchi alle navi dei pirati turchi e barbareschi (memorabile quello del 20 ott. 1608 contro una carovana turca tra capo Celidonio e Rodi, conclusosi con la cattura di nove vascelli , 700 schiavi e prede ammontanti a oltre due milioni di ducati), si accompagnarono imprese contro caposaldi di terra: il tentativo fallito di conquistare Cipro, lo sbarco a Famagosta, l'occupazione temporanea ed il saccheggio di Bona, coronato dalla cattura di 1.500 schiavi (1607). Se vi furono accordi, ispirati in primo luogo dalla preoccupazione di trovare sbocchi alternativi alla produzione laniera fiorentina, essi riguardarono aree periferiche, in disaccordo con la Porta, come il Regno di Fez (1604), dove fu concesso a F. il porto atlantico di Larache, o la Siria. In alcuni casi F. non esitò a fornire il suo appoggio ai ribelli. Così nel 1607. sollecitato dal pontefice, inviò due navi in Siria, dove Ali Pascià Gianbulàd aveva occupato Aleppo; nel 1608 sostenne la ribellione dell'emiro druso Fakhr ad-Din II nel Libano, inviandogli armi e sollecitando l'intervento del papa presso i cristiani maroniti affinché si schierassero in suo favore.

Essenzialmente mediterranea, l'attività marinara di F. non si esaurì, tuttavia, entro questo mare. Fin dai tempi della Tipografia orientale egli aveva dimostrato interesse per paesi più lontani: a Filippo Sassetti aveva allora chiesto informazioni sull'India. Aveva poi stabilito relazioni con la Moscovia, al tempo dello zar Boris Godunov. Nei suoi ultimi anni appariva intento a considerare la possibilità di stabilire rapporti con le Indie, sia orientali che occidentali. Nel 1604 chiedeva all'ambasciatore toscano a Madrid ragguagli sulla Nuova Spagna e sul Perù, illudendosi di ottenervi, con il favore spagnolo, dei feudi per i figli minori. Contemporaneamente faceva di Larache una base per il contrabbando nel Brasile, praticato dai Toscani insieme agli Olandesi. Nel 1606 incaricava Francesco Carletti, allora rientrato a Firenze da un giro del mondo iniziato quindici anni prima, di esaminare se Livorno potesse diventare un centro di traffici con le Indie orientali. Due anni più tardi cercava invece di farsi cedere da Pedro Alvarez Pereira, sempre a beneficio di uno dei figli, la Sierra Leone. Il 30 agosto 1608 affidava infine al capitano inglese R. Thornton, stabilitosi da tre anni a Livorno, la direzione di una piccola spedizione in Brasile, nell'intento di stabilire in quella terra un avamposto commerciale toscano; ma la morte lo avrebbe colto prima del ritorno di Thornton. In larga misura velleitari e per lo più privi di risultati concreti, in primo luogo per la decisa opposizione della Spagna, questi progetti rivelano tuttavia l'attenzione con cui il terzo granduca di Toscana seguì le recenti esperienze delle compagnie commerciali inglesi, che ad esso fornirono spunti e modelli, e l'acuta coscienza che ebbe delle nuove dimensioni mondiali dell'economia.

Anche sul piano della politica interna F. si mostrò da un lato fedele esecutore dell'eredità paterna, dall'altro uomo capace di innovazioni. A lui si dovette la nuova centralità e l'accresciuto prestigio della corte granducale, ora stabilmente insediata a palazzo Pitti, nuovo spazio principesco. Non soltanto ne allargò i ruoli, passati da 233 persone alla morte di Francesco a 359 nel 1609, ma ne avviò l'assoggettamento ad una etichetta più regolata e ne accrebbe il fasto. Fiero, d'altra parte, di essere "prericipe di ellezione", mantenne in vita con cura quelle magistrature di origine cittadina che - scriveva ancora l'ambasciatore veneto Francesco Morosini nel 1608 - conferivano "nell'apparenza" al governo granducale "qualche colorata forma di repubblica". Continuò a riservare ai fiorentini anche le "commissarie delle città e castella" del dominio, rafforzandone semmai i privilegi. Tra le sue prime misure vi fu la provvisione emanata il 5 ott. 1588 "sopra l'abito civile", tendente a riportarne l'uso, mai interamente tralasciato, ma fortemente declinato a Firenze, "al suo antico splendore e dignità", in nome del valore delle tradizioni cittadine. A spirito conservatore erano improntati, su un piano diverso, anche i principi di governo che egli indicava nel testamento, personale e politico, da lui redatto il 19 sett. 1592, affinché fossero applicati in caso di sua morte durante la minorità del figlio Cosimo, e che di fatto furono i suoi, nel non breve lasso di tempo che la sorte ancora gli concesse. F. insisteva in quella sede sull'opportunità, da un lato, di non sopprimere le imposte esistenti, ma di non crearne di nuove, se non per necessità urgenti, in caso di guerre difensive ed a titolo temporaneo; dall'altro, di non fare "senza gran causa nove leggi", né abrogare o mutare quelle esistenti, "et che le città et terre de' nostri Statti siano governate il più che si può conforme a loro consuetudini et statuti". Questa attenzione alle forme tradizionali, che rifletteva una concezione ancora contrattualistica dello Stato, non impedì, tuttavia, a F. di essere un principe forte, capace, secondo l'opinione concorde degli osservatori contemporanei, non solo di assicurare ai sudditi la quiete interna (in modo che, osservava ancora, con contraddizione solo apparente, il Morosini, "scordate ormai dei tutto le antiche forme del governo e della libertà, cadauno vive vita sicurissima"), ma "di governare tutto di sua testa", di assumere personalmente le grandi decisioni politiche e di determinare le scelte locali "nelle cose di momento".

Si servì dell'apparato di funzionari di origine "provinciale", che si era consolidato e radicato sotto Cosimo I e Francesco. Lo riordinò e rafforzò, modificandone in parte la composizione. A soli dodici giorni dalla morte di Francesco riorganizzò con un motu proprio i vertici della Segreteria. Nell'intento di evitare contrasti di competenze e pericolosi cumuli di potere, fissò per la prima volta le mansioni dei singoli segretari, sia pure senza applicare criteri di rigida specializzazione, estranei al suo modo di concepirne le funzioni ed ai rapporti, fortemente personalizzafi, che egli manteneva con ciascuno di loro. Cambiò in parte gli uomini. Segretario in capite diventò Pietro Usimbardi, che aveva già coperto un ruolo analogo presso F. a Roma, e ne aveva conquistato la fiducia. Originario di Colle di Val d'Elsa, Pietro proveniva da una famiglia prima di allora estranea agli uffici granducali, che a lui dovette la propria straordinaria ma breve fortuna. Fungevano in sottordine da segretari "con dipartimento" - con competenze delimitate - Belisario Vinta, di origine volterrana, appartenente invece ad una dinastia di burocrati già affermatasi al tempo di Cosimo I, ed Antonio Serguidi, pure di Volterra, genero di Bartolomeo Concini e cresciuto alla sua scuola, già potente segretario di Francesco I e capo della fazione di corte avversa a F., ora declassato, ma non rimosso.

Con qualche variazione (Pietro Usimbardi lasciò le sue funzioni nel 1591 per il vescovado di Arezzo e fu sostituito dal Vinta; contemporaneamente entrò nella segreteria il fratello di Pietro, Lorenzo, destinato poi a sostituire il Serguidi alla sua morte, nel 1602), fu questo il durevole nucleo centrale di una vasta rete di funzionari subalterni, cui F. affidò compiti non solo di segreteria in senso stretto, ma di carattere diplomatico e di controllo sulle magistrature cittadine. Accanto ad essi continuarono ad operare, con funzioni già definite al tempo di Cosimo I, gli auditori, anch'essi di origine provinciale, quando non esterna al Granducato, giuristi di grido, non di rado provenienti dalle file dei giudici dei tribunali supremi, tra i quali si distinsero un altro Vinta, Paolo, auditore fiscale fino al 1605 e quindi auditore della giurisdizione al posto di Giovan Battista Concini, e Pietro Cavallo da Pontremoli, auditore delle Bande granducali e dell'Ordine di S. Stefano. Giuristi erano anche Carlo Antonio Dal Pozzo di Vercelli, già auditore fiscale di Francesco, diventato nel 1582 arcivescovo di Pisa, e Lorenzo Usimbardi, membri, insieme a Belisario Vinta, dei ristretto Consiglio segreto che affiancò il granduca nelle decisioni più delicate. L'autorevolezza complessiva del corpo dei giuristi al tempo di F. fu tale da legittimarne l'immagine, di cui essi furono il primo tramite, di principe "legibus alligatis", che su di loro fondava il suo trono e da loro riceveva "sempiterne leggi". Un riflesso di questa autorevolezza si può cogliere nella istituzione, nel 1600, della Consulta, ristretto consiglio di grazia e giustizia, costituito dagli auditori più eminenti (all'inizio Paolo Vinta e Pietro Cavallo, oltre a Bastiano Corboli, segretario del massimo tribunale penale cittadino, gli Otto di guardia e balia). Al nuovo organo collegiale, qualificato dalle competenze professionali dei suoi membri, erano sottoposte quelle suppliche e quei memoriali indirizzati al granduca da privati cittadini, che Cosimo I aveva preferito esaminare personalmente e Francesco lasciare alla mediazione dei propri cortigiani, prima di inviarle alla firma del primo segretario.

F. si preoccupò vivamente del mantenimento dell'ordine pubblico: la campagna contro Alfonso Piccolomini nel 1590-91, con i suoi forti connotati politici, non fu che l'episodio più saliente della lotta contro i banditi, diffusi soprattutto nelle aree di frontiera della Romagna e della Maremma. Condotta sia con i mezzi della giustizia straordinaria e dell'intervento militare che con quelli più tradizionali, volti a suscitare la guerra tra bande della legislazione premiale, e aiutata dal miglioramento della situazione annonaria dopo i primi anni '90, questa lotta ebbe un discreto successo: dopo un ultimo scoppio nel 1596 (non a caso altra annata di carestia), il banditismo sembrò declinare. Le "cose di momento" nell'ambito della politica interna furono Però per F. in primo luogo il governo del territorio e dell'economia, nel quale egli manifestò una forte volontà di controllo e di intervento. Mentre, in conformità con i principî espressi nel testamento del 1592, a differenza di Cosimo I non promulgò grandi leggi di carattere penale, numerosi furono sotto il suo principato i bandi di polizia urbana e soprattutto rurale, volti a tutelare la rete idrografica e quella stradale, a regolare l'uso dell'ambiente, boschi, pascoli e Cerbaie, a disciplinare e incrementare le colture. Reiterate, ad esempio, le disposizioni, spesso costrittive, sulla coltura dei gelsi, infine riordinate e raccolte nel 1607. F. intervenne pure sul governo interno delle Comunità del dominio, sulla gestione dei loro beni patrimoniali, sull'uso delle loro entrate: si servì a questo fine delle magistrature centrali destinate a sovrintendere alle amministrazioni comunitarie (i Nove conservatori, istituiti da Cosimo I nel 1559) e dei cancellieri locali che ne erano l'emanazione e che egli scelse talvolta personalmente tra uomini a lui già legati da rapporti di affari. Fu questo il caso di Francesco Taglieschi di Anghiari, altro noto giurista, cancelliere della Comunità di Prato, longa manus al suo interno degli interessi granducali, tanto potente da esserne soprannominato il duca, poi promosso nel 1606 alla carica di commissario e soprintendente generale a tutte le entrate dello Stato e revisore delle Chiane. Ai luoghi pii delle Comunità F. impose di versare i propri residui attivi annuali sul Monte comune di Firenze, accentrandone la gestione, in forte contrasto con le loro autonomie tradizionali; ai Ceppi di Prato - uno dei più ricchi tra questi - ordinò di investire nella costruzione di case a Livorno, operazione rivelatasi, peraltro, assai remunerativa.

Ad interessarsi del governo materiale del territorio F. fu senza dubbio spinto dalla propria qualità di massimo proprietario terriero della Toscana, oltre che di mercante di grani: egli condivise con i suoi contemporanei una visione patrimoniale dello Stato, che nel suo caso poté risultare particolarmente evidente, date l'entità della sua ricchezza e le dimensioni modeste dei suoi domini. Non ebbe remore neppure ad associare agli affari ed ai profitti aperti dai suoi interventi politici i propri ministri, dagli Usimbardi e Carlo Antonio Dal Pozzo a Francesco Taglieschi. Ciò non gli impedì, tuttavia, di farsi interprete di interessi diffusi, in primo luogo agrari e mercantili, e di agire con piena intelligenza dello Stato come concreto ed articolato sistema territoriale, al fine di incrementarne lo sviluppo economico e demografico e di modificarne gli equilibri interni.

F., come e più degli altri proprietari fondiari e mercanti, trasse forti benefici personali dal commercio dei grani. Egli affrontò tuttavia in modo abbastanza organico i problemi del rifornimento annonario interno, mediante il disciplinamento del mercato ad opera della magistratura dell'Abbondanza, particolarmente rigido negli anni di carestia. Memore, ancora una volta, della tradizione familiare e pungolato dalla congiuntura, dedicò uno sforzo imponente alla bonifica ed alla messa a coltura di terre prima palustri, a partire da quelle che, nel corso dei secoli XV e XVI, erano venute a far parte del patrimonio mediceo. Dal 1589 tornò ad occuparsi del prosciugamento della Valdichiana, già progettato nel periodo cardinalizio. L'impresa fu costosa (nel giro di quattro anni, tra il 1589 ed il 1593, furono investiti 25.000 scudi) e tra il 1599 ed il 1606 provocò aspri contrasti con lo Stato pontificio, per questioni di equilibri idrologici e di confini. Ma l'estensione delle terre prosciugate fu notevole: nel 1606 il Taglieschi veniva incaricato di allivellarle per 60.000 scudi. In Valdinievole F. bonificò una lunga fascia di terra sottostante al castello di Montevettolini. Fece eseguire lavori nel Pistoiese e intorno al lago di Fucecchio, fino ad allora usato per la pesca e altri prodotti palustri. Una operazione analoga compì nel lago di Castiglione della Pescaia, dove lo sbarramento che innalzava il livello delle acque fu demolito; si propose di prosciugare le paludi di Massa Marittima (1594-1606). Nel 1606, per evitare le inondazioni ricorrenti nella pianura pisana, fece spostare la foce dell'Arno. Tutto ciò comportò una valorizzazione dei patrimonio mediceo, organizzato intorno alle grandi ville, che F. fece costruire o trasformare da architetti, come Bernardo Buontalenti e Gherardo Mechini (Ambrogiana, 1587-89, Artimino, 1594-97, Montevettolini, 1597) e concepì in modo crescente come fattorie. Alle bonifiche si affiancarono tuttavia provvedimenti più complessi, diretti alla riorganizzazione complessiva ed allo sviluppo di intere aree territoriali, dietro ai quali non è difficile scorgere la presenza degli interessi che il granduca si sforzava di aggregare.

Tra gli interventi istituzionali e legislativi di F. spiccano, in effetti, proprio quelli rivolti al territorio. Non ebbe attuazione il disegno, pur seriamente discusso, di staccare, la Maremma senese da Siena per sottoporla direttamente a Firenze, contrastato da Lorenzo Usimbardi in ragione della fragilità del dominio esercitato dai granduchi sullo "Stato nuovo" ; ma nel 1588, al termine dei lavori di una commissione formata da cittadini senesi e fiorentini, proprietari romani e uomini pratici della Maremma, furono emanati dei Discorsi generali concernenti il benefitio di tutta la Maremma di Siena, tesi a modificare, in vista anche del ripopolamento dell'area, il regime dei pascoli e dell'allevamento, le condizioni dei prestiti del Monte pio senese ai faccendieri, gli obblighi imposti alle Comunità. Ad essi seguirono numerosi provvedimenti specifici di tipo popolazionistico. Nel 1592, per il mantenimento della rete idraulica, fu istituito a Grosseto un Ufficio dei Fossi, decentrato, retto da funzionari, ma aperto ai principali produttori di grano forestieri (di fatto, fiorentini), interessati alla pianura grossetana, che vi avrebbero avuto diritto di voto. Nel 1587 un ufficio analogo era stato creato a Pistoia. Ben più rilevanti le misure per Pisa e per il suo contado. Qui un ufficio dei Fossi, caratterizzato dalla compresenza di rappresentanti pisani e rappresentanti fiorentini, esisteva dal tempo di Cosimo I. Ma uno dei primi atti compiuti da F. dopo la sua assunzione al potere (1587) fu quello di emanare un corpo di Leggi, costituzioni et ordini ad esso diretto: non solo si rivedevano le norme di polizia pubblica sulle strade, i fossi e gli argini, sulla conservazione del patrimonio arboreo e la limitazione del pascolo, ma si modificavano i carichi imposti alla popolazione rurale e si abolivano, salvo esigenze straordinarie, le "comandate" imposte ai contadini, considerate nocive al regolare svolgimento dei lavori agricoli. Nel 1601, al fine di "obligare gli habitatori della città e contado possessori di terreni a voltar l'animo alla cultivatione, procurare aiuto di nuove genti, migliorar l'aria che facilita la moltiplicatione e conservatione loro", F. istituì un nuovo organo, anch'esso fondato sulla collaborazione di Pisani e Fiorentini, il magistrato delle Fabbriche e Coltivazioni. Nel 1603 delegò all'ufficio dei Fossi (ora detto anche, nella sua nuova qualità, ufficio dei Surrogati) il compito di svolgere nel contado pisano quelle funzioni di controllo amministrativo e finanziario che altrove erano affidate all'ufficio dei Nove. Queste misure si sommavano a quelle emanate, all'inizio degli anni '90, a favore del popolamento e dell'incremento economico dei centri urbani di Pisa e Livorno, e sancivano il consolidamento, nel Granducato, di un secondo polo territoriale. Si delineava così una visione dello Stato in cui l'accentramento del potere nelle mani del principe non escludeva il decentramento degli strumenti amministrativi e la moltiplicazione di luoghi differenziati di aggregazione degli interessi.

Anche gli interventi architettonici dispendiosamente attuati da F. riflettono la sua attenzione all'insieme del dominio, e insieme la sua volontà di segnarlo con la presenza. Firenze dovette a lui la propria immagine di capitale e città di corte. Alla piena sistemazione della nuova residenza principesca di palazzo Pitti si aggiunsero la costruzione del teatro Mediceo nel palazzo degli Uffizi ad opera del Buontalenti (1589); l'ampliamento di palazzo Vecchio (1588-92), la costruzione (1590-95) di forte Belvedere a guardia della città; l'impostazione della cappella dei principi a S. Lorenzo. A F. risalgono anche le statue equestri, entrambe del Giambologna, che evocano la presenza dei Medici nella città: quella di Cosimo I in piazza della Signoria (1594), quella dello stesso F. in piazza della Ss. Annunziata (1608). Non meno rilevanti, tuttavia, furono gli interventi compiuti nel territorio. Se Livorno dovette il suo decollo urbano a F. (la cui immagine fu qui raffigurata nel 1607 da Giovanni dell'Opera nella statua, poi completata, con i quattro mori), a Pisa egli, preoccupato della sanità pubblica e memore delle esperienze romane, eresse l'acquedotto e, in funzione del commercio, la loggia di Banchi. Fece costruire il palazzo del Consiglio de' cavalieri ed il collegio Ferdinando. Anche qui affidò la durevole esaltazione della dinastia a due statue collocate con senso scenografico: quella di Cosimo, sotto il palazzo della Carovana (1595), e la propria, già sul Lungamo ed ora in piazza Carrara (1594). Un arredo organico fu anche creato per impulso granducale nel piccolo insediamento di Montevettolini: qui, dopo l'attivazione (nel 1602) di una fiera annuale, fu costruita una loggia per i venditori (1604), una strada di accesso (1607), una grossa cisterna (1608) e, per le esigenze del culto, un oratorio del Corpus Domini (1608). Molto più limitati gli interventi compiuti in Maremma: a Grosseto, tuttavia, fu restaurata la cinta muraria; a Sovana i ripetuti tentativi di ripopolamento furono accompagnati dalla costruzione di case. Diffusa in tutto il territorio - da Firenze a Prato, da Monsummano a Lucignano e a Pieve Santo Stefano, da San Gimignano a Siena - fu anche la fitta rete di chiese costruite o restaurate per volere dei granduca e in diversi casi con il suo intervento finanziario, che dette alla Toscana il suo volto controfiformistico. Se a Firenze F. adibì alla celebrazione della sacralità medicea la chiesa preesistente della Ss. Annunziata e la cappella dei principi in S. Lorenzo, a Pisa completò la facciata di quella dei Cavalieri e a Livorno fece costruire il duomo (1594), seguendo intenti politici affini.

Alla corte F. impresse non solo una nuova fastosità, evidente in occasione delle celebrazioni dinastiche (ingressi, matrimoni, funerali), ma anche grande raffmatezza culturale. Essa fu luogo di spettacoli musicali di avanguardia: vi furono rappresentate nel 1595 la Dafne di Ottavio Rinuccini, musicata da Iacopo Peri e Iacopo Corsi; nel 1600, per le nozze di Maria de' Medici, l'Euridice (Rinuccini - Corsi); nel 1608, per il matrimonio di Cosimo con Maria Maddalena d'Austria, l'Arianna, con testo sempre del Rinuccini e musica di Claudio Monteverdi. A palazzo Pitti F., fedele alla antiche passioni, fece trasportare gran parte delle collezioni antiquarie raccolte a Roma; ma, incline, come già il padre, a curiosità svariate, creò anche una galleria, diretta da Emilio de' Cavalieri, per radunare oggetti di interesse tecnico-artigianale, al fine di incrementare le arti in Toscana. Istituì laboratori artistici, come l'Opificio delle pietre dure a palazzo degli Uffizi. Aperto ad interessi naturalistici, cercò di raccogliere reperti botanici ed animali esotici, incrementò orti botanici e "serragli".

Se Firenze fu inequivocabilmente il nuovo centro della vita e della cultura di corte, Pisa, sede dell'università (cui F. cercò di conferire prestigio accresciuto, privilegiando, in conformità con i suoi interessi prevalenti, i settori scientifici), del collegio Ferdinando (da lui fondato nel 1593, per ospitare, fino al conseguimento del dottorato, 32 giovani bisognosi provenienti dal dominio), di un orto botanico prestigioso (il giardino dei semplici), cui egli diede nel 1593 nuova e più adeguata sede, fu anche su questo piano il secondo polo dello Stato.F. mori a Firenze il 3 febbr. 1609. Ebbe nove figli, di cui otto gli sopravvissero. Gli sopravvisse pure la moglie Cristina di Lorena, sua esperta ed intelligente collaboratrice.

Fonti e Bibl.: Tra le fonti mss. sono di grande interesse i carteggi, registri di lettere e minutari di F. e quelli dei suoi segretari in Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato (cfr. Arch. di Stato di Firenze, Arch. mediceo del principato. Inventario sommario, Roma 1951). Le filze 5085-5096 contengono le lettere inviate da F. a Francesco durante il periodo cardinalizio romano. Per i carteggi diplomatici cfr. gli spogli mss. settecenteschi di corredo e anche i fondi della Miscellanea medicea e delle Carte strozziane (sulle quali cfr. Le carte strozziane del R. Arch. di Stato di Firenze. Inventario della serie I, Firenze 1884-1891); della Depositeria generale (in partic. registro n. 424, per gli investimenti di F. durante il periodo romano), dei Trattati internazionali, dove si trova il testamento del 1592 (XI, ins. 2). Gli atti legislativi di F. sono in buona parte raccolti in Legislaz. toscana raccolta e illustrata, a cura di L. Cantini, XII-XIV, Firenze 1803-1808, da completare con la serie Leggi bandi e motuproprio, in Arch. di Stato di Firenze, R. Consulta. Cfr. anche G. Cascio Pratilli-L. Zangheri, La legislazione medicea sull'ambiente, I, I bandi (1485-1619), Firenze 1994, pp. 305-387. Per la bibliogr. e le fonti a stampa utili i repertori di D. Moreni, Serie d'autori di opere riguardanti la celebre famiglia Medici, Firenze 1826, passim; S. Camerani, Saggiodi bibliogr. medicea, Firenze 1964, pp. 112-15.

Tra le biografie coeve ha solido valore informativo P. Usimbardi, Istoria del gran duca F., a cura di G. E. Saltini, in Arch. stor. ital., s. 4, VI (1880), pp. 365-401. Utili a ricostruire l'immagine di F. elaborata dai contemporanei, più che la sua vita, sono quelle, tuttora inedite, di B. Cancellieri, Breve racconto delle azioni e felicità del serenissimo gran duca F., Pistoia, Bibl. Forteguerri, ms. 131 (copia in Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. Moreni 42); di O. Cavalcani, Encomii del gran duca F. brevemente raccolti, Firenze, Bibl. nazionale, ms. Magliab. XXV, 486; di D. Peroni. Vita del granduca F. principe di Toscana, Arch. di Stato di Firenze, Carte strozziane, 53 (copia in Bibl. Riccardiana, ms. Riccardiano 1940) e soprattutto il testo anonimo Di F. M. 3º gran duca di Toscana, attribuibile forse a O. Della Rena, Parigi, Bibl. nationale, Fonds Italien 189. In questa prospettiva cfr. anche la serie delle sedici incisioni commissionate nel 1614 da Cosimo II a J. Callot, raccolte sotto il titolo La vita di F. o Le battaglie dei Medici, pubbl. in Jacques Callot. Das gesamte Werk-Druckgraphik, a cura di Th. Schöder, München 1971, pp. 914-934, nonché i panegirici e discorsi in morte del granduca: A. Bellaviti, Panegirico a F. gran duca di Toscana, Firenze 1604; C. Minerbetti, Oratio de laudibus serenissimi Ferdinandi Medicis ducis Etruriae III, Florentiae 1609; C. Bocchineri, Orazione funebre da lui recitata adì 9 di aprile nel duomo di Prato nell'essequie di don F. gran duca terzo di Toscana, Siena 1609; G. Giraldi, Delle lode di don F. M. gran duca di Toscana, Firenze 1609. Tra i carteggi, cronache, relazioni contemporanee cfr. C. Tinghi, Diario e cerimoniale della corte medicea dal 22 l'uglio 1600 al 23 novembre 1623, I-II, Firenze, Bibl. nazionale, ms. Capponi 261; A. Lapini, Diario fiorentino dal 252al 1596, a cura di O. Corazzini, Firenze 1900, ad Indicem;G. de' Ricci, Cronaca (1532-1606), a cura di G. Sapori, Napoli 1972, passim. Cfr. inoltre Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, II, 2, Bari 1916 (relaz. di T. Contarini, 1588, F. Contarini, 1589, F. Morosini, 1608, F. Badoer, 1609); Relazioni ined. di ambasciatori lucchesi alle corti di Firenze..., a cura di A. Pellegrini, Lucca 1901 (relaz. di B. Cenami); R. Dallington, A survey of the great dukes State of Tuscany. In the yeare of Our Lord 1596, London 1605 (trad. it.: Descrizione dello Stato del granduca di Toscana. Nell'anno di Nostro Signore 1596, a cura di N. Francovich Onesti-L. Rombai, Firenze 1983); nonché F. Settimanni, Memorie fiorentine dall'anno 1532 che la famiglia de' Medici ottenne l'assoluto principato della città e dominio fiorentino infino all'anno 1737 che la medesima famiglia mancò di successione nel Granducato di Toscana (Arch. di Stato di Firenze, Mss. 134-139).

F. è tuttora figura poco studiata: cfr. tuttavia M. e M. Sanfilippo, Profilobiografico d'un cardinale di Santa Romana Chiesa, poi granduca di Toscana: F., in Roma Europa, la piazza delle culture, Roma 1991, pp. 78-101. Tra le storie del Granducato è tuttora fondamentale R. Galluzzi, Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, Firenze 1781, III, passim. Tra le storie successive cfr. R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d'Italia, Firenze 1912-13, III, pp. 177-210, ed ora soprattutto F. Diaz, IlGranducato di Toscana. I Medici, Torino 1976, pp. 280-363. Cfr. anche G. Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, Firenze 1947, II, pp. 293-316. Sull'infanzia e la prima formazione di F. utile in partic. G. E. Saltini, Tragedie medicee domestiche (1557-1587), Firenze 1898, pp. 135, 292; C. Acerboni, L'infanzia dei principi di casa Medici, in Rass. nazionale, XXVIII (1915), 6, pp. 108-125, 273-288; XXIX (1917), 7, pp. 122-138, 301-307; 8, pp. 202 211; G. Alberigo, Beccadelli, Ludovico, in Diz. biogr. degli Italiani, VII, Roma 1965, p. 412; G. Fragnito, In museo e in villa. Saggi sul Rinascimento perduto, Venezia 1988. Sul periodo del cardinalato: A. Ciacconius, Vitae et res gestae pontificum Romanorum et S. R. E. cardinalium..., III, Romae 1677, coll. 943-945; A. Theiner, Annales ecclesiastici..., II, Romae 1856, pp. 1, 339, 449; Hierarchia catholica, III, a cura di G. vari Gulik-C. Eubel, Monasterii 1910, p. 44; A. Hübner, Sisto Quinto dietro le scorte delle corrispondenze diplomatiche ined. tratte dagli archivi di Stato del Vaticano, di Simancas, di Venezia, di Parigi, di Vienna e di Firenze, I, Roma 1887, pp. 101-196, 487-492 e passim;L. Pastor, Storia dei papi, VIII-X, Roma 1924-1928, ad Indices;P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento, Bologna 1948, pp. 148, 336, 503; Id., Acquedotti e fontane di Roma, Roma 1944, pp. 58 ss.; J. Delumeau, Vie écon. et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, Paris 1957, I, pp. 332-35. Sui lavori per palazzo Firenze: D. Tesoroni, Ilpalazzo di Firenze e l'eredità di Balduino del Monte, fratello di papa Giulio III, Roma 1989. Su villa Medici: G. M. Andres, The villa Medici in Rome, I, New York-London 1976, passim; La ville Médicis, a cura di A. Chastel-F. Morel, Roma 1989-91 (in particolare S. B. Butters, Le cardinal de Médicis, II, pp. 170-198; Ead., Ferdinand et le jardin du Pincio, ibid., pp. 351-410). Sul collezionismo, cfr. anche F. Boyer, Les antiques du cardinal Ferdinand de Médicis, in La Revue de l'art ancien et moderne, LV (1929), pp. 201-214; Id., Nouveaux documents sur les antiques Médicis (1560-1583), Paris 1933; P. Barocchi-G. Gaeta Bertelà, Collezionismo mediceo. Cosimo I, Francesco I e il cardinal F., Modena 1993, passim. Su P. Angeli, in relazione al servizio presso F.: G. Manacorda, Petrus Angelius Bargaeus (Piero Angeli da Barga), in Annali della Regia Scuola normale superiore di Pisa, XVII (1905), pp. 17 ss.

Sui rapporti con Francesco e sulla successione: G. E. Saltini, Della morte di Francesco I de' Medici e di Bianca Cappello, in Arch. storico ital., n. s., XVIII (1863), pp. 19-81; Id., Bianca Cappello e Francesco I de' Medici, Pistoia 1898; R. Cantagalli, Bianca Cappello e una leggenda da sfatare: la questione del figliosupposto, in Nuova Riv. storica, LIX (1965), pp. 637-683; G. Fusai, Belisario Vinta ministro e consigliere di Stato dei granduchi F. e Cosimo II de'Medici, Firenze 1905, pp. 40-53.

Sulla politica estera di F., cfr. G. Spini, Ilprincipato dei Medici e il sistema degli Stati europei del Cinquecento, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del '500. I, Strumenti e veicoli della cultura. Relaz. politiche ed economiche, Firenze 1983, pp. 207-216. Sulle relazioni con la Francia, oltre alle fonti mss. dell'Archivio di Stato di Firenze e a quelle della Bibl. nationale de Paris, Manuscrits français (in partic. Instructions de Henri III et Henri IV au sieur de la Chielle, ibid., ms. 25111): A. d'Ossat, Lettres, avec des notes historiques et politiques de Mr. Amelot de la Houssaye, Amsterdam 1714, passim; Recueil des lettres missives de Henri IV, a cura di M. Berger de Xiviery, III-IX, Paris 1846-1876, ad Ind.; Nègociations diplom. de la France avec la République de Florence, a cura di A. Desjardins, III-V, Paris 1872, ad Ind.; Lettres de Cathérine de Médicis, a cura di H. de La Ferrière-G. Baguenault de Puchesse, IIIX, Paris 1887-1905, ad Ind.; Correspondance du nonce en France Innocenzo del Bufalo, évêque de Camerino, a cura di B. Barbiche, Rome-Paris 1964. Cfr. inoltre B. Zeller, Henri IV et Marie de Médicis d'apris des documents nouveaux tiris des Archives de Florence et de Paris, Paris 1877; G. Badiani, Brevi notizie intorno alle relaz. politiche della Toscana con la città di Marsiglia al tempo di F. granduca di Toscana, Prato 1902; G. Fusai, Belisario Vinta, cit.; G. Fasoli, Sulle ripercussioni ital. della crisi dinastica francese del 1589-1595 e sull'opera mediatrice della Repubblica di Venezia e del granduca di Toscana, Bologna 1949; M-Carmona, Marie de Médicis, Paris 1981, pp. 10-28; W. Kaiser, Marseille au temps des troubles. Morphologie sociale et luttes de factions. 1559-1596, Paris 1991, ad Indicem. Sulle relazioni con la Spagna: Correspondencia entre la nunciatura en España y la Santa Sede. Reinado de Fetipe III (1598-1621), I-II, Roma 1960, ad Indicem. Cfr. anche E. Romero Garcia, Elimperialismo hispanico en la Toscana durante el siglo XVI, Leida 1986, pp. 125-129. Sulle relazioni con l'Impero, cfr. Nuntiaturberichte aus Deutschland: Antonio Puteo in Prag 1587-89, a cura di J. Schweizer, Paderborn 1912; Alfonso Visconte, 1589-1591, Camillo Caetano, 1591-1592, a cura dello stesso, Paderbom 1913; Die Prager Nuntiatur des Giovanni Stefano Ferreri und die Wiener Nuntiatur des Giacomo Serra (1603-1606), a cura di A. O. Meyer, Berlin 1913; La nunziatura di Praga di Cesare Speziano, a cura di N. Mosconi, Brescia 1966; Antonii Caetani nuntii apostolici apud imperatorem Epistolae et Acta 1607-1611, a cura di M. Linhartova, I, Pragae 1932. Cfr. inoltre G. Marri, La partecipazione di don Giovanni de' Medici alla guerra d'Ungheria, in Arch. storico ital., XCIX (1941), 1, pp. 50-58; G. Bascapè, Le relazioni fra l'Italia e la Transilvania nel sec. XVI, Roma 1931. Per le nozze tra l'erede al trono e Maria Maddalena d'Austria: E. Galasso Calderaro, La granduchessa Maria Maddalena d'Austria, Genova 1985, pp. 17-34. Sulle relazioni con gli Svizzeri, e più in generale, sulla rete degli agenti segreti medicei: E. Giddey, Agents et ambassadeurs toscans auprès des Suisses sous le règne du grand-duc Ferdinand Ierde Médicis (1587-1609), Zürich 1953. Sulle relazioni con la corte inglesc Calendar of State papers, Foreign series of the reign of queen Elizabeth, XXI-XXIII, London 1927-1950, ad Ind.; Calendar of State papers and manuscripts... in the archives and collections of Venice..., 1581-1591, I-IV, London 1895, ad Ind.; ..., (1603-1607), I-IV, London 1897-1904, ad Ind.; List and analysis of State papers. Foreign series. Elizabeth I, I-IV, London 1964-1984, ad Ind.;L. Pearsall Smith, The life and letters of sir Henry Wotton, Oxford 1907, ad Ind.; Correspondance d'Ottavio Mirto Frangipani, premier nonce de Flandre (1596-1606), a cura di L. Van der Essen, Roma 1924, pp. 278-282; E. M. Tenison, Elizabethan England being the history of this country in relations to all foreign princes from onkinal manuscripts, London 1933, VIII, pp. 241-242; A. M. Crinò, Trenta lettere ined. di sir Henry Wotton nell'Arch. di Stato di Firenze, in Riv. di letterature moderne e comparate, n. s., VI (1955), pp. 106-125. Cfr. inoltre J. D. Mackie, Negotiations between king James VI and I and Ferdinand I grand-duke of Tuscany, Oxford 1927; G. Ungerer, A Spaniard in Elizabethan England. The correspondence of Antonio Perez's exile, London 1974, I-II, ad Indicem. Sulle imprese marittime: G. B. Uzielli, Cenni stor. sulle imprese marittime e coloniali di F. granduca di Toscana, Firenze 1901; P. P. Carali, Fakhr ad-din principe del Libano e la corte di Toscana - 1605-1635, I, Roma 1936, pp. 121-22 e passim;G. Guarnieri, Un'audace impresa marittima di F., granduca di Toscana, Firenze 1901; Id., L'ultima impresa coloniale di F. e la cartografia dell'Amazzonia nei secoli XVI e XVII, Pisa 1919; Id., Icavalieri di S. Stefano, Contributo alla storia della Marina ital. (1562-1859), Pisa 1928, passim;Id., Storia della marina stefaniana (1562-1859), Chiavari 1935, ad Ind.;A. Tamborra, Gli Stati ital., l'Europa e il problema turco dopo Lepanto, Firenze 1961, pp. 69-71; V. Bramanti, Cent'anni dopo: l'America a Firenze, in Espaciò geografico - espacio imaginario, Cacères 1993, pp. 215-225.

Il sistema di potere posto in atto da F., nei suoi aspetti di continuità con quello del padre e nei suoi tratti innovativi, non è stato oggetto di studi specifici; cfr. tuttavia S. Berner, Florentine political thought in the late Cinquecento, in IlPensiero politico, III (1970), pp. 177-199; Id., Florentine society in the late sixteenth century and early seventeenth century, in Studies in the Renaissance, XVIII (1971), pp. 203-246; R. B. Litchfield, Emergence of a bureaucracy. The Florentine patricians 1530-1790, Princeton 1986, ad Indicem. Sulle segreterie: G. Pansini, Le segreterie nel principato mediceo, in Parteggio universale di Cosimo I de' Medici, a cura di A. Bellinazzi-C. Lamioni, I, Firenze 1982, pp. XXVIII-XXXIV; F. Angiolini, Dai segretari alle "segreterie". Uomini e apparati di governo nella Toscana medicea (metà sec. XVI-metà XVII sec.), in Società e storia, XV (1992), pp. 701-720; Id., Principe, uomini di governo e direzione politica nella Toscana seicentesca, in Ricerche di storia moderna in onore di M. Mirri, Pisa 1995, pp. 462-65. Sul nuovo ruolo dei giuristi, cfr. E. Fasano Guarini, Igiuristi e lo Stato nella Toscana medicea cinque-seicentesca, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento, I, Strumenti e veicoli della cultura. Relaz. politiche ed economiche, Firenze 1983, pp. 229-247, e, sul diverso modo di intendere le funzioni legislative del principe di F. rispetto a Cosimo I, Ead., Produzione di leggi e disciplinamento nella Toscana granducale tra Cinque e Seicento. Spunti di ricerca, in Disciplina dell'anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna 1994, pp. 659-690. Sulla corte: M. Fantoni, La corte del granduca. Forma e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Roma 1994, passim. Sulla politica religiosa ed ecclesiastica di F., cfr. A. Panella, La censura della stampa e una questione giurisdizionale fra Stato e Chiesa in Firenze alla fine del sec. XVI, in Arch. storico ital., s. 5, XLIII (1909), pp. 140-151; A. De Rubertis, Episodi dei rapporti della Toscana con Roma sotto il granduca F., ibid., XCII (1934), pp. 209-224; Id., F. e la contesa fra Paolo V e la Repubblica veneta, Venezia 1933; A. D'Addario, Aspetti della Controriforma a Firenze, Roma 1972, ad Indicem.

Sulla lotta al banditismo, cfr. L. Grottanelli, Alfonso Piccolomini: storia del sec. XVI, Firenze 1892, passim;A. Vanzulli, Ilbanditismo, in Architettura e politica da Cosimo I a F., I, a cura di G. Spini, Firenze 1976, pp. 420-460; P. Benadusi, A. Piccolomini, duca e bandito del XVI secolo, in Ricerche storiche, VII (1977), pp. 93-118; I. Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, ad Indicem. Sul governo del territorio, le misure annonarie, i lavori pubblici e le bonifiche, cfr. Architettura e politica, cit. (in particolare: G. Spini, Introduz. generale, pp. 9-78, passim;A. M. Gallerani-B. Guidi, Relazioni e rapporti all'ufficio dei Capitani di Parte guelfa, II, Principato di F., pp. 259-332; B. Licata, Ilproblema del grano e delle carestie, pp. 333-420); E. Fasano Guarini, Città soggette e contadi nel dominio fiorentino tra Quattro e Cinquecento: il caso pisano, in Ricerche di storia moderna, I, a cura di M. Mirri, Pisa 1976, pp. 76-94; Prato. Storia di una città, II, Un microcosmo in movimento, a cura di E. Fasano Guarini, Firenze 1986, ad Indicem;M. Fabretti-A. Guidarelli, Ricerche sulle iniziative dei Medici nel campo minerario da Cosimo I a F., in Potere centrale e strutture periferiche nella Toscana del '500, Firenze 1980, passim;D. Barsanti-L. Rombai, La "guerra delle acque" in Toscana. Storia delle bonifiche dai Medici alla riforma agraria, Firenze 1986, ad Ind.;A. M. Pult Quaglia, "Perprovvedere ai popoli". Il sistema annonario nella Toscana dei Medici, Firenze 1990, ad Indicem;R. Mazzei, Pisa medicea. L'economia cittadina da F. a Cosimo III, Firenze 1991, ad Indicem. Sulla fondazione di Livorno, G. Guarnieri, Origine e sviluppo del porto di Livorno durante il governo di F., Livorno 1911; M. Baruchello, Livorno e il suo porto, Livorno 1932, pp. 157-239; F. Braudel-R. Romano, Navires et marchandises à l'entrée du port de Livourne (1547-1611), Paris 1951, passim;E. Fasano Guarini, Esenzioni e immigrazioni a Livorno tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, in Atti del Convegno "Livorno e il Mediterraneo nell'età medicea", Livorno 1978, pp. 56-76; D. Matteoni, Livorno, Bari 1985, pp. 23-51; L. Frattarelli Fischer-P. Castignoli, Le "livornine", Livorno 1987; L. Frattarelli Fischer, Livorno città nuova, 1574-1609, in Società e storia, XI (1989), pp. 873-893; G. Pagano de Divitiis, Mercanti inglesi nell'Italia del Seicento. Navi, traffici, egemome, Padova 1990, pp. 40-44, 65 e passim.

Sulla politica culturale e il mecenatismo, cfr. G. Bianchini, Dei granduchi di Toscana della R. Casa Medici protettori delle lettere e delle arti, ragionamenti istorici, Venezia 1741, pp. 48-72; A. Solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea dal 1600 al 1637, Firenze 1905, ad Ind.;E. Cochrane, Florence in the forgotten centuries, Chicago 1973, pp. 119-126; Architettura e politica, cit., Idee, istituzioni, scienza ed arti nella Firenze dei Medici, a cura di C. Vasoli, Firenze 1980; M. Fantoni, La corte, cit. Cfr. inoltre, i diversi volumi: Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento, Firenze 1980. Sulla politica universitaria, cfr. D. Marrara, Lo Studio di Siena nelle riforme del granduca F. (1589 e 1591), Milano 1973; Storia dell'Università di Pisa, Pisa 1993, ad Indicem.

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