Filippo Argenti

Enciclopedia Dantesca (1970)

Filippo Argenti

Fiorenzo Forti

Fiorentino (If VIII 62) della consorteria degli Adimari (Iacopo, Pietro), detto A. perché " equum ferris argenti ferrari fecit " (Chiose Cassinesi). " Cavaliere di grande vita e di grande burbanza e di molta spesa e di poca virtude e valore ", lo dice l'Ottimo. Secondo le Chiose Selmi (XLII 14) " una volta, avendo questione con Dante, diede uno schiaffo a Dante perché erano di diverse e contrarie parti. E sempre fu inimicizia massima tra loro due ". Tale notizia e certi tratti della famosa novella del Decameron (IX 8), in cui F. è introdotto come protagonista, e di quella del Sacchetti (CXIV), dove compare un " cavaliere " degli Adimari in cui sembra si debba riconoscere l'A., potrebbero essere soltanto amplificazioni dell'episodio dantesco. Nelle Esposizioni, però, il Boccaccio asserisce di appoggiarsi a una testimonianza orale: " Fu questo Filippo Argenti - secondo che ragionar solea Coppo di Borghese Domenichi - de' Cavicciuoli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d'ariento, e da questo trasse il soprannome. Fu uomo di persona grande e nerboruto e di maravigliosa forza e più che alcun altro iracundo, eziandio per qualunque menoma cagione ". F. appartenne, dunque, al ramo dei Cavicciuoli Adimari, che aderirono a Parte nera; a questo motivo generico di contrasto se ne aggiunsero altri.personali. Boccaccino Adimari de' Cavicciuoli, fratello di Filippo (v.Adimari, Boccaccino), in lite col poeta, si rivalse di presunte offese, chiedendo e ottenendo dal comune la cessione dei beni confiscati a D. e, al dire di Benvenuto, " semper fuit sibi [a D.] infestus et totis viribus semper obstitit cum consortibus et amicis ne auctor reverteretur ad patriam ".

Questo complesso di notizie e la violenta invettiva contro gli Adimari in Pd XVI 115 ss. hanno indotto gl'interpreti a spiegare la singolare durezza di D. verso l'A. come riflesso di un odio personale. Però, anche ammesso che le radici della scena immaginata dal poeta affondino in un sentimento ostile, molto resta da chiarire intorno al peccato di F., allo sdegno di D. e alla solenne approvazione di Virgilio.

L'episodio (If VIII 31-63) si articola in tre tempi. Primo, il dialogo, chiuso nel giro di appena sette versi (vv. 33-39), fra D. e il dannato levatosi dal fango dello Stige a chiedergli: Chi se' tu che vieni anzi ora?. La risposta del poeta consta di una doppia ritorsione: S'i' vegno, non rimango; / ma tu chi se'... ? (vv. 34-35), che, dopo il rifiuto a palesarsi dell'A. (Vedi che son un che piango, v. 36), è ribadita con fermezza dalla maledizione e dall'agnizione: Con piangere e con lutto, / spirito maladetto, ti rimani, / ch 'i ' ti conosco... (vv. 37-39); la nuda concitazione delle battute, rilevata da didascalie secche e neutre, sfocia in un gesto minaccioso del dannato e in un'accorta mossa di Virgilio che lo respinge con li altri cani (vv. 40-42). Con la drammatica rapidità di questa scena contrasta il secondo tempo, riflessivo e solenne: l'abbraccio e il bacio di Virgilio all'allievo elogiato come alma sdegnosa (v. 44), il vituperio dell'A., persona orgogliosa (v. 46), che si allarga a ‛ moralità ' universale con la sentenza sui molti che si tengono gran regi e finiranno nello Stige come porci in brago (vv. 49-50). Segue un epilogo, di nuovo rapido e violento: il desiderio di D. di vedere quel furioso attuffato nella melma (vv. 52-54), l'assicurazione di Virgilio che così avverrà (vv. 55-57), e infine lo strazio che le fangose genti fanno di F. A. gridandone il nome, mentre il fiorentino spirito bizzarro si ‛ volve ' in sé stesso co' denti (vv. 58-63).

Le difficoltà cominciano proprio con la chiosa all'improvvisa domanda dell'A., sentita come ostile dagli antichi senza che essi pensino a motivare l'impressione con ragioni obiettive: l'Ottimo spiega che il dannato " arrogante " si rivolge a D. soltanto perché " lieto di vederlo venir vivo all'Inferno " e soddisfatto di " aver compagnia nella pena ", onde il suo astioso rifiuto di palesarsi quando la risposta di D. lo delude. Il Castelvetro dichiara ingiuriosa l'apostrofe dell'A. perché, secondo lui, essa viene a dire: " tu dee esser un grande scelerato, poi che in corpo e anima e vivo sei mandato all'Inferno ". Fra i moderni, il Pietrobono pensa che l'A. abbia riconosciuto in D. " una delle anime più nere, di quelle che cadono in Cocito subito commesso il tradimento ", ma l'ipotesi, pur accolta da alcuni, non s'accorda col riconoscimento del vivo che va col corpo, perché gli spiriti volti alla Tolomea prima della morte lasciano in terra le loro membra governate da un demonio (cfr. If XXXIII 124-132). Il culmine della sottigliezza si tocca, con E. Bianchi, il quale pensa a una perfidia crudele dell'A.: il dannato è consapevole che D. si salverà, ma finge di saperlo destinato all'Inferno e di sorprendersi per il suo arrivo anticipato, come, tra i simoniaci, Nicolò III supporrà inopinatamente sopraggiunto Bonifacio VIII (XIX 51-54). I più dei moderni trovano offensivi soprattutto il tono e il modo della domanda dell'A.: per alcuni si tratta d'insolenza (D'Ovidio, Steiner, Chimenz), o burbanza (Szombathely), per altri di scherno (Zingarelli), beffa (Montano), malignità (Grabher), aggressività (Mattalia), insulto (Montanari), ingiuria (Momigliano, Fallani): tutti, comunque, ritengono implicita nella domanda una provocazione. Un tentativo (Nicosia) di spogliare le parole dell'A. di qualunque insolenza, anzi, di qualunque consapevolezza, riducendole a una mera interrogazione in tutto simile a quella di Brunetto (XV 46-47), urta contro la non lieve diversità dell'apostrofe (Qual fortuna o destino / ... ti mena?) del maestro e contro la replica di D. stesso che sottolinea l'ambiguità del vieni anzi ora coll'opposizione s'i' vegno non rimango.

Controversie altrettanto vive ha suscitato la seconda battuta dell'A., per il significato di son un che piango: in passato si accolse ‛ piangere ' nel senso più usuale di " lacrimare ", " dolersi " (il Boccaccio v'indugiò a lungo con raffronti al latino) e per conseguenza ci si studiò di dare un senso a tali lacrime: " non potendosi altramente vendicare, piagne ", spiegò il Buti. Il Castelvetro, però, scorgeva in quell'accenno alle proprie lacrime qualcosa di sconveniente all'A., al quale " conveniano parole quali usò Capaneo o altro simile ". Fra quei moderni che intendono ‛ piango ' in senso proprio (Casini, Steiner, Rossi, ecc.), il Romagnoli e il Pietrobono pensano a viltà ipocrita, diretta a " disarmare l'avversario ", e non mancò chi, come il Sannia, cui replicò incredulo il Parodi, suppose il poeta inteso a sortire effetti comici dallo " sbigottimento " dell'A., che si rannicchierebbe fino a scomparire, timido e vergognoso.

Un'ipotesi singolare avanzò il Porena, per il quale ‛ piango ' sta qui per il latino plango, " percuoto ": " l'Argenti percuote lì come soleva fare in terra quando era adirato "; nella replica, però, D. giocherebbe sulla parola dandole invece il valore di " lacrimare ". Sennonché, dato a ‛ piangere ' il senso di " percuotere " (e basterebbe per ciò riferirsi alla pena comune agl'iracondi: cfr. If VII 112-114), la replica del poeta dovrebbe piuttosto ribadire il concetto: rimani col tuo battere e il tuo penare. Ma oggi prevale l'interpretazione di ‛ piangere ' come " espiare " (Bosco, Sapegno, Chimenz, Fallani), appoggiata a numerosi altri luoghi della Commedia (cfr. If XVIII 58, XXIX 20, Pg XVII 125, XXII 53), interpretazione che conferisce alle parole dell'A. il tono dispettoso che già il Boccaccio riconosceva loro, pur accogliendo il verbo nel senso più comune: " risposta veramente d'uomo stizoso ed iracundo, del quale è costume mai non rispondere se non per rintronico ". Superflue le complicazioni suggerite già dall'Ottimo: " non vuole palesarsi per nome, e dare ad intendere ch'ei stima che ciascuno il conosca per le sue burbanze e però ogni uomo ha, a vile "; e le sottigliezze del Gelli, che invitò a scorgere nelle parole dell'A. " quella fallacia che i loici dicono che si fa dichiarando il medesimo per il medesimo " così che al poeta pare " esser con tal modo di favellare sbeffato e deriso ". I più colgono come nota caratteristica delle parole del Fiorentino bizzarro la vergogna e il " dispetto " (Tommaseo, Valli, Rossi, Szombathely, Sapegno).

Il secondo tempo dell'episodio con la singolare lode di Virgilio, la benedizione della madre di colui che mostra un animo così sdegnoso (vv. 43-45) e la connessa dichiarazione della personalità morale dell'A. (Quei fu al mondo persona orgogliosa) ha calamitato l'attenzione degl'interpreti. A molti quel ‛ persona orgogliosa ' non sembra solo una colorazione particolare dello spirito iracondo, ma il suo vero ‛ peccato ', quello che egli è chiamato a espiare nella palude Stigia: la superbia. Già gli antichi, salvo Guido da Pisa che ne fa addirittura un campionario di colpe, definendolo " totus accidiosus, iracundus, invidus et superbus ", inclinarono a ritenere l'A. un dannato " cuius detestanda superbia in isto circulo cruciatur ", come dice Graziolo, cui si affiancano il Lana (" fu superbo e arrogante "), l 'Ottimo (" famoso in questo vizio di arroganza "), le Chiose Vernon (" arrogante e superbo "), Benvenuto (" superbissimus iracundissimus "). Ma la questione si era già allargata a generale con Pietro, il quale non solo collocò esplicitamente l 'A. " inter superbos ", ma propose una sistemazione dei dannati dello Stige che compisse, rispetto ai cerchi precedenti, il quadro dei sette vizi capitali, collocando nella palude irosi e accidiosi, invidiosi e superbi. L'interpretazione trovò consenso, in età rinascimentale, presso illustri lettori come il Manetti, il Landino, il Varchi, e fu modernamente (1873) riproposta, su alcuni spunti del Tommaseo, dal Del Lungo, per il quale nello Stige vi sono due circuizioni: nella prima gl'irosi si battono al di sopra degli accidiosi sommersi, nella seconda gli invidiosi, sottoposti, assalgono i superbi emergenti: l'A., dunque, sarebbe un superbo e i suoi assalitori gl'invidiosi, opinione seguita dal Casini e in parte accolta, dopo un primo rifiuto, dal D'Ovidio. Della lezione congetturale invidioso fummo ha fatto giustizia l'edizione critica del Petrocchi, ma già il Daniello aveva escluso che nello Stige vi fossero altri dannati oltre gl'irosi, giacché, secondo lui, accidioso fummo (If VII 123) vuol dire solo " lenta ira ", indica, cioè, l'opposto dell'ira acuta. Gli studi sulla cultura filosofica di D. hanno condotto poi gl'interpreti ad addentrarsi nelle sottili distinzioni scolastiche intorno all'ira, specialmente sulla scorta delle pagine dell'Etica nicomachea e del relativo commento tomistico. Quelle fonti, però, consentono più agganci: così l'immaginazione di D. viene ricollegata ora alla distinzione additata nell'Etica (IV 5) fra iracondi acuti e amari (e l'A. sarebbe coi primi che emergono dalla palude, mentre i secondi rimangono sommersi), ora all'opposizione fra eccesso e difetto nell'irascibile (II 7) per la quale l'A. e i suoi assalitori avrebbero peccato per eccesso, i fitti nel limo per difetto. Ma Aristotele offre appigli anche a coloro che vedono rappresentato nell'A. il peccato d'orgoglio: infatti se fuori di Dite, per dichiarazione di Virgilio (If XI 86-87), stanno gli incontinenti, fra questi, secondo il filosofo, oltre i lussuriosi, golosi, avari, iracondi, sono i troppo filotimi (VII 4; cfr. Cv IV XVII 5), cioè coloro che hanno un eccessivo desiderio di onore: persone orgogliose, dunque, come l'A. è definito da Virgilio stesso, con la correlativa giustificazione dell'alma sdegnosa che lo condanna (cfr. Eth. nic. IV 4). A questo punto, 'poi, si apre la questione della rispondenza totale o parziale dell'orgoglio alla superbia (cfr. M. Baldini). Conviene ammettere che nessuna di queste ipotesi ha la forza di respingere definitivamente le altre, anche se l'indicazione di If VII 116 color cui vinse l'ira, e il mordersi di F., tipico, secondo D., di quei cui l'ira dentro fiacca (If XII 15), consigliano di non varcare i limiti di questo peccato.

Nella selva delle interpretazioni moderne ci pare di poter distinguere tre linee principali: la prima è quella che variamente sviluppa il motivo psicologico personale, senza fondarsi sull'infida aneddotica degli antichi, ma ricollegandosi idealmente alla sentenza di Benvenuto: " auctor fecit altam vindictam cum penna, quam non potuit facere cum spata ". In questa linea si pongono le letture del Novara, dello Steiner, del Romagnoli, del Bosco, che accenna al bruciore di un'umiliazione patita, del Toffanin, che parla di umana passione, e del Borgese che insiste sull'ira come nuova musa di D. nella Commedia, temperando appena l'espressione del Croce, " fantasia dell'odio ". A questa corrente appartengono anche coloro che, pur leggendo il canto come ‛ vendetta ' di D., tendono a giustificare il poeta attraverso il costume (Bartoli, Parodi, Nicosia), oppure, con sottili paralleli ai canti di Farinata e di Ugolino, vedono nella durezza di D. l'unica risposta possibile del poeta contro chi vilmente infieriva sui suoi, rimasti indifesi in Firenze (Ferretti). La punta estrema di questa tendenza è paradossalmente rappresentata dal Filomusi-Guelfi, che vede nella spietatezza contro l'A. e nell'episodio di Geri del Bello la condanna dantesca della vendetta. Un'opposta schiera d'interpreti si sforza, invece, di dare significato universale all'atteggiamento di D.: ricollegandosi alla già ricordata contrapposizione del Boccaccio fra ira buona e ira mala, il Tommaseo vide nello scontro fra il poeta e l'A. un dittico d'ira mala e di santo sdegno. E così pure il Flamini, il Torraca e specialmente il Porena, il quale suppone che D. voglia rappresentare in sé stesso il giusto mezzo fra l'iracondia e la troppa pazienza (Cv IV XVII 5). Su quest'ultima, che qualcuno vorrebbe condannata qui per paradigma (M.M. Rossi), già aveva attirato l'attenzione lo Scherillo, supponendo che D. avesse voluto trasformare l'inirascibilità aristotelica in accidia. A tale osmosi tra filosofia pagana e teologia cristiana applicò tutto il suo acume il Pascoli, per il quale " la mira del poeta... è di mostrare oltre l'incontinenza dell'irascibile e oltre il suo difetto, il giusto temperamento di essa "; il poeta mostrerebbe cioè, in termini aristotelici, la propria fortezza come medio virtuoso fra timidità e audacia, eccessi che verrebbero a combaciare coi peccati cristiani di accidia e di vanagloria, vera colpa dell'Argenti. A distinzioni ancora più sfumate accenna H. Gmelin (Kommentar, I 159). Divaria da questa una terza linea interpretativa, che tende anch'essa a spersonalizzare l'atteggiamento del poeta, attribuendogli, però, un significato politico; e può ricollegarsi alla notazione degli antichi sui Cavicciuoli di Parte nera, ma con svolgimenti che fanno, dell'episodio dell'A. una parte della grande scena culminante nell'arrivo del messo del cielo. La tesi è svolta principalmente dal Pietrobono, il quale cerca nel canto di Brunetto (If XV 61-78) la chiave della lode di Virgilio al gesto di D.: al letame fiorentino corrisponde il brago della palude, alle bestie fiesolane l'Adimari e gli altri cani, alla pianta in cui rivive la semenza santa D., al divieto di toccarla la ripulsa di Virgilio, che cinge il poeta benedicendo colei che idealmente s'incinse in D., cioè Lucia, la giustizia. Dunque, nel furioso dello Stige " sono raffigurati i fiorentini avversi all'idea imperiale e in Dante il fiorentino serbatosi fedele alla madre Roma ". E Roma stessa, invece di Lucia, preferisce intendere benedetta da Virgilio il Valli, che aderisce alla stessa interpretazione. Non sono mancate letture estravaganti: contenutistiche, come quella di F. Laurenzi, convinto che l'A. " nasconde un'altra persona, Filippo il Bello "; formalistiche, come quella di E. Sanguineti, per il quale l'episodio " è una paradossale attardante amplificazione " che interrompe la tensione narrativa del racconto; paraboliche, come quella dell'Apollonio che qui vede rappresentata " l'illusione funesta della ragione ", che si dissiperà nello scontro coi diavoli; ma esse lasciano intatti i problemi accennati. Notò felicemente il Vossler che nell'atteggiamento di D. verso l'A. c'è una " mescolanza di odio personale e di sdegno etico ": è forse erroneo, dunque, voler sopprimere i riflessi dell'uno come dell'altro sentimento e parlare tanto di mero odio, di episodio " ripugnante ", come fece il Papini, quanto di assenza di ogni idea di vendetta, come il Poletto, il Federzoni e tanti altri. Giova piuttosto cogliere, col Momigliano, il dilagare del motivo dell'ira e il diverso rifrangersi di esso in tutti gli attori del dramma da Flegiàs all'A., da D. a Virgilio, al coro dei dannati; osservare il primo proporsi, con incisività potente, di un modulo stilistico ricorrente nella prima cantica, la schermaglia di parole fra il poeta e il dannato e riconoscere nell'A., oltre il ‛ tipo ' di un peccato, l'individualità del peccatore, così fortemente segnata e nel contempo così evidentemente allusiva alla faziosa rabbia fiorentina, di cui lo spirito bizzarro resta una delle immagini proverbiali.

Bibl. - Per le note del Manetti, v. H. Benivieni, Dialogo di Ant. Manetti circa il sito, forme e misure dell'Inferno di D. Alighieri, Città di Castello 1897, 90; G. B. Gelli, Letture edite e inedite sopra la Commedia di D., Firenze 1887, I 492; B. Varchi, Lezioni, a c. di L. M. Rezzi, Roma 1953, 70. Per i peccatori puniti nello Stige v. gli studi sull'ordinamento dell'Inferno elencati nelle note bibliografiche del saggio di A. Santi, L'ordinamento morale e l'allegoria della D. C., Palermo 1923, I 51-67 (particolarm. M. Baldini, La costruzione morale dell'" Inferno " di D., Città di Castello 1914, 130 ss.) e gli studi particolari di I. Del Lungo, Diporto dantesco, in " Nuova Antol. " aprile 1873, 77 ss. (poi in Pagine letterarie e ricordi, Firenze 1893, 76 ss.); F. Savini, I superbi, gl'invidiosi, gli accidiosi nell'Inferno dantesco, in " Giorn. d. " II (1895) 343 ss.; A. Dobelli, Superbi ed invidi nella prima cantica della D. C., ibid II (1895) 409 ss.; G. Del Noce, Lo Stige dantesco e i peccati dell'antilimbo, ibid III (1896) 487 ss.; M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di D., Torino 1896, 396 ss.; R. Mondolfi, I vili, gli accidiosi e gli ignavi nei due regni della pena, in " Giorn. d. " VI (1899) 82 ss.; A. Borsi, Lo strazio di Filippo A., ibid XIII (1905) 92 ss.; F. Marino, L'inanis gloria di Filippo A., ibid XVI (1908) 215; le rassegne di G. Fraccaroli e di I. Sanesi, in " Giorn. stor. " XXXVI (1900), XLI (1903); di E. G. Parodi, in " Bull. " XXIV (1917), e la nota di A. Camilli, in " Lettere Ital. " IV (1952). Saggi e letture sull'episodio: F. Colagrosso, Esposizione del c. VIII dell'Inferno, Palermo 1902; A. Novara, in Lect. Genovese, Firenze 1904, 299 ss.; L. Filomusiguelfi, Studi su D., Città di Castello 1908, 63 ss.; E. Sannia, Il comico, l'umorismo e la satira nella D. C., Milano 1909, I 82 ss.; E. Romagnoli, in Lect. fiorentina, Firenze 1915, 1-38; F. D'Ovidio, Filippo A. e gli altri cani, in Nuovo volume di studi dant., Caserta-Roma 1926, 229; E. Bianchi, Chiose dantesche, in " Nuovo Giorn. d. " IV (1920) 3, 98 ss.; B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 77; K. Vossler, La D. C. studiata nella sua genesi e interpretata, II, ibid 19272, 60; G. Papini, D. vivo, Firenze 1933, 224 ss.; G. Federzoni, Filippo A., Bologna 1894, ora in Studi e diporti danteschi, ibid 1935, 216 ss.; L. Valli, Il canto VIII dell'Inferno, in La struttura morale dell'universo dantesco, Roma 1935, 358 ss.; G. Ferretti, Filippo A. e la vendetta di D., in I due tempi della composizione della D.C., Bari 1935, 403 ss.; G.A. Borghese, The Wrath of D., in " Speculum " XIII, 2 (1938) 183-193; U. Bosco, in Nuova lettura Dantis, Roma 1950 (poi in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 213 ss.); M. Szombathely, Torino 1957; R. Montano, I modi della narrazione in D., in " Convivium " XXVI (1958) 546 ss.; G. Toffanin, Il c. VIII dell'Inferno (1960), in Lect. Scaligera I 251-270; M.M. Rossi, Il c. VIII dell'Inferno e la sua problematica, in " Le parole e le idee " III (1961) 109-132; E. Sanguineti, Inferno VIII, in " Il Verri " 14 (1964) 22-40; M. Apollonio, Il c. VIII dell'Inferno, in Nuove letture I 217-224; P. Nicosia, Il più calunniato dei personaggi danteschi, in Alla ricerca della coerenza, Messina-Firenze 1967, 135 ss.

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