DECIO, Filippo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DECIO, Filippo

Aldo Mazzacane

Nacque nel 1454 a Milano, dove il padre Tristano, patrizio del piccolo centro di Desio, del quale portava il nome, conduceva vita di gentiluomo, frequentando la corte e gli ambienti umanistici che vi gravitavano intorno (è documentata la sua amicizia con Pier Candido Decembrio: Milano, Bibliot. Ambrosiana, ms. J.235 inf., nn. 42, 43). Il D. venne perciò avviato con ogni cura alle "litterae politiores", ma nel 1471, riparato a Pavia - per sfuggire a una pestilenza - presso il fratello Lancellotto che vi teneva autorevolmente una cattedra civilistica, abbracciò sotto la sua guida la giurisprudenza.

Nell'università si pose in luce precocemente soprattutto per l'arditezza e l'abilità con cui sosteneva pubbliche dispute. Fu questo un tratto spiccato della sua personalità, una attitudine e un'inclinazione ricorrente negli anni a venire, apprezzata dal suo biografo Francisco Boeza, che ne elogiava la prontezza, l'acume e il vigore polemico, ma che, favorita dalle tradizioni accademiche tardoscolastiche ed esasperata dal clima spesso rissoso delle università italiane, doveva procurargli anche numerose e inestinguibili inimicizie con i maggiori maestri del tempo suo.

Ancora studente, il D. svolse incarichi per il fratello sia a Pavia (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 834, c. 233rv), sia a Pisa (Verde, II, p. 414), dove lo seguì nel novembre 1473. Si distinse anche qui con pubbliche "disputationes", che gli guadagnarono la considerazione dei professori ed un forte ascendente sugli scolari, sicché, non ancora laureato, venne proposto insistentemente da Lancellotto per un incarico d'insegnamento.

Questi infatti si rivolgeva a Lorenzo il Magnifico già il 9 marzo 1474 per "ricordare el facto di mio fratello, cioè la lectura della quale lui ve ne parlò a Firenze e io ve ne scripsi. Hora per questa provisione l'abbiatte per ricommandato, che farete beneficio a vostri servitori, quali ve siamo e saremo sempre tuti dua" (Forlì, Bibl. comunale, Autografi Piancastelli, 548). Sullo stesso tema ritornava pochi giorni dopo (Verde, III, 1, p. 830), e le pressioni verosimilmente ebbero effetto: dal racconto del Boeza sembra dedursi che gli fu alfidato un corso istituzionale per i principianti.

Nel 1475 il D. consegui il dottorato (il 28 novembre in diritto canonico: Ibid., p. 831) e l'anno dopo la cattedra di istituzioni, dalla quale passò nel 1478 a quella straordinaria di diritto civile, che aveva già tenuto per qualche mese come supplente di Antonio Pucci. I suoi avanzamenti nello Studio pisano furono da allora costanti e vennero sottolineati dagli aumenti di stipendio correlativi. Furono però anche accompagnati da vicende agitate, dipendenti sia dalle difficoltà in cui l'università si trovò via via per i rivolgimenti politici della repubblica e per i trasferimenti che dovette subire a causa di pestilenze o di guerre, sia dai violenti contrasti con i colleghi suoi "concorrenti" o da lui provocati in dibattiti pubblici.

Già nel 1479 vi furono screzi col civilista Francesco Accolti. Nel 1480, a Pistoia, dove lo Studio si era spostato temporaneamente e dove egli ricevette la cittadinanza con altri maestri, fu costretto ad intervenire il rettore, minacciandogli la carcerazione, per impedire che disputasse contro il primo civilista, Bartolomeo Sozzini che gli diventò poi ostilissimo, cercò ripetutamente di farlo allontanare e comunque rifiutò sempre di averlo come concorrente.

I rapporti nella facoltà si fecero tesi: nel 1483 fu necessario trasferirlo a una cattedra canonistica, in concorrenza con Felino Sandeo, ma trovò subito il modo di suscitame l'indignazione, sicché nel 1484, quando il fratello aveva già abbandonato Pisa. prese contatto con lo Studio senese. Lorenzo ne fu contrariato, tanto che si offrirono al D. condizioni vantaggiose, pur di trattenerlo. Ma frattanto il Sozzini minacciava da Siena di non riprendere le lezioni a Pisa, se avesse dovuto incontrarvi il D. come civilista, e così, nel novembre, questi fu liberato dal contratto quadriennale appena sottoscritto e autorizzato a partire. Si recò a Siena, dove ottenne prima una cattedra di diritto canonico, poi di diritto civile, col più alto stipendio di quella università.

La nuova sede tuttavia non poteva promettergli il successo cui ambiva. Compì perciò un viaggio a Roma nel 1485, fidando sulle influenti amicizie che contava in Curia insieme al fratello. Grazie ad esse, ricevette con motu proprio di Innocenzo VIII la nomina di auditore di Rota, ma restio ad intraprendere la carriera ecclesiastica vi rinunciò e fece ritomo a Siena.

Qui l'ostilità dei colleghi, che mal sopportavano di vedersi posposti ad un forestiero più giovane, le insistenze dei Pisani, che si preoccupavano di sostituire Felino Sandeo, in procinto di abbandonare la città; infine, il mutamento di governo lo indussero ad accettare, nel settembre 1487, una condotta a Pisa.

Il suo rientro non fu pacifico: "in eius regressu ad studium Pisanum - scrive il Boeza - maxima altercatio fuit, quia omnes Doctores, tam de iure civili quam canonico, eius concurrentiam recusabant". Il suo insegnamento, protrattosi fino al 1501 in posizioni di crescente rilievo - raggiunse la prima cattedra civilistica ed il cospicuo salario di 700 fiorini - fu infatti assai tormentato. Agli eventi pubblici di quel decennio cruciale nella storia fiorentina, si aggiunsero gli spostamenti dell'università - sempre più declinante per difficoltà finanziarie - prima a Prato, poi a Firenze, e le continue liti con gli altri professori (nel 1489 si urtò persino col suo antico maestro pavese Giason del Maino), che costrinsero gli Ufficiali, in uno sforzo faticosissimo di mediazione, a mutarlo più volte di cattedra tra il diritto civile e il canonico.

Fu questo il motivo principale delle sue doglianze fin dall'arrivo. Scriveva infatti il 20 ott. 1487 (Fabroni, II, pp. 197 s. n.): "Voi me confortate a fare cuin effecto il fructo che voi aspectate dell'opera mia, e parmi me abbiate tagliato la via a deputarmi in ragion canonica, maximamente la sera, dove son pochi scholari, e la maggior parte preti, e son certo che se havesti vera informatione della volontà de' scholari, che sono la maggior parte in civile, haresti di me preso altro partito ... Nell'ultima parte del vostro scrivere me dite ve siete riservato l'autorità di potermi ogni volta mutare, come a voi parrà expediente. Voi forse non sapete di quanta noja sia il trasmutarsi di una facultà ad un altra. Io non vi sono, né per alcun modo intendo esservi obligato a questo. Saria troppo peso el mio, che per acconciare gli altrì, a me sempre toccaria portare il basto". Ribadiva ancora il suo disappunto il 23 maggio 1490 ("questa ultima mutatione m'è suta molto gravee Ibid., pp. 198 s. n.), il 22 nov. 1493 e il 20 ott. 1495 (Ibid., pp. 200 s. n.); infine il 12 nov. 1496, nel quadro di un'ampia e indignata protesta: "il caso mio è di chiarirmi e sapere quello che con effecto ne posso ritrarre. Egli è ora 21 anno che cominciai a leggere, e sempre sono stato tractato a volontà di chi non mi ci voleva, et ora che il stato dello Studio era rinuovato, sperava di essere ristorato, ma mi pare vedermi smarrita la via, perché ho a piatire il salario guadagnato. Voi sapete quanto gli Officiali da otto anni in qua si sono valuti di me, e quante noje ho tollerato di mutazioni di lezione di concorrenzie, che ci era chi mi voleva straccare ... Ho avuto patienza, perché gli era chi mi puntava addosso, dico del Sotino. Per chiarirla, se ora gli officiali con effecto non facciano dimostrazione di volermi, non starò più a speranza loro" (Ibid., pp. 199 s. n.).Insoddisfatto dunque dei suo insegnamento, il D. dové compiere vari passi per trovare una nuova sistemazione. Ne investì certamente il fratello, che scrisse alle autorità milanesi il 12 febbr. 1494 (Arch. di Stato di Milano, Autografi. Letterati, cart. 125, fasc. 19) e nel 1498 gli procurò un incarico dai deputati alla Sanità (ibid.). Infine, proseguendo inarrestabilmente la crisi dello Studio a Firenze, che si avviava ormai alla chiusura, ottenne la licenza il 28 febbr. 1502 e partì pochi giorni dopo per Padova.

Il periodo pisano però non fu segnato soltanto dai contrasti accademici e dalle pubbliche dispute (una in particolare rimase impressa nella memoria dei contemporanei, quando parlò per tre ore continue in un dibattito prolungatosi fino a notte inoltrata). Seguito da scolaresche sempre numerose, il D. vi ebbe molti allievi di rango, tra i quali Giovanni de' Medici e Cesare Borgia, guadagnandosi grande fama come "uno de' più eccellenti jurisconsulti di quell'età". Così lo ricordò Francesco Guicciardini, che fu suo studente a Firenze nel 1500 e lo raggiunse poi a Padova, abitando nella sua casa per oltre un anno, dal 1502 al 1503. Cominciarono allora a vedere la luce anche le sue opere: la prima, Super rubrica de probationibus, usci a Pescia presso B. e R. Orlandi nel 1490 e fu ristampata poco dopo a Pisa insieme con l'altro commentario alle Decretali Super rubrica de iudiciis (per U. de Rugeriis, 1494). Ma soprattutto egli svolse in quegli anni un'intensa attività consulente, mai più abbandonata, che lo colloca tra i maggiori rappresentati della "età dei consiliatores".

I suoi Consilia si conservano in diverse biblioteche italiane (le collezioni più ampie sono a Pisa, Bibl. universitaria, ms. 684, e a Bologna, Bibl. del Collegio di Spagna, ms. 236). Di essi, centocinquanta vennero pubblicati nel 1508a Venezia, presso Bern. Benalio. Seguì una stampa a Pavia per Iacopo da Borgofranco nel 1512, cui si aggiunse nel 1520 una Secunda pars consiliorum... hactenus non impressa, Papie, per B. de Haraldis; quindi un'imponente raccolta che ne riunì settecento in quattro volumi a Venezia, presso tipografie diverse: il primo e il secondo dal Pincio nel 1526; il terzo ed il quarto dal Torti nel 1531. Studiati da intere generazioni di giuristi, ebbero poi numerose edizioni nel corso del secolo XVI ad opera di personalità di spicco, tra cui Ch. Du Moulin (Lugduni, exc. J. Servanius, 1565).A Padova il D. ebbe il Primo luogo tra i canonisti e vi raggiunse il salario altissimo di 600 ducati in oro. Tuttavia non vi restò a lungo: risulta tra i promotori la prima volta, benché ancora assente, il 23 apr. 1502 e l'ultima il 25 nov. 1505. La sua celebrità era ormai al culmine e con essa crescevano le sue pretese e i tratti altezzosi del suo carattere, presenti del resto in tutti i maggiori giuristi del tempo. Le sue lezioni attiravano grande seguito di scolari, mentre le pubbliche dispute con colleghi altrettanto famosi richiamavano l'interesse delle autorità: a quelle con Giovanni Campeggi e Carlo Ruini assistettero spesso anche il podestà ed il capitano del Popolo. Si moltiplicarono così i tentativi di assicurarsene i servigi da parte di università e di sovrani.

Nel gennaio 1504 il legato pontificio a Venezia reclamò il suo ritorno a Roma come auditore di Rota, ma il Maggior Consiglio fu fermo nel trattenerlo (al legato "fo risposto era acordato con nui", annotò lapidariamente il Sanuto, V, col. 639) e gli concesse anzi un aumento di stipendio. L'anno dopo da Milano il re di Francia Luigi XII, nuovo signore del ducato, gli scrisse pressantemente per chiamarlo a Pavia, nel quadro di un'opera di riordinamento e rilancio di quella università. Ne segui uno scambio di note diplomatiche tra il sovrano e la Repubblica, che rifiutava di lasciarlo partire, dal quale l'ambasciatore fiorentino a Venezia, Gian Bernardo Oricellari, rimase fortemente impressionato: "Potero, inquit, Florentiae referre vidisse me per unico Philippo Decio maximam exortam altercationem inter potentissimuni Francorum Regem et Illustrissimum dominium Venetum" (Boeza).

Risolte in qualche modo le difficoltà con la Serenissima, il D. raggiunse Pavia alla fine del 1505, dove tenne con grande prestigio e condizioni assai vantaggiose una cattedra canonistica (nel 1511 ebbe addirittura 2.000 fiorini), ma dove rinnovò anche i vecchi contrasti iniziati a Pisa con Giason del Maino. Del resto, né i costumi universitari né la situazione politica dell'Italia erano tali da indurre gli studiosi alla riflessione appartata. E difatti, quando il complesso gioco tra gli alleati della lega di Cambrai sfociò nella rottura aperta tra Luigi XII e Giulio II, con la guerra e la promozione di un concilio generale contro il papa da parte del re di Francia, il D. si trovò coinvolto nella lotta in posizioni di primo piano. Educato sin dall'infanzia in una temperie umanistica, verosimilmente a contatto con i maggiori esponenti di quella cultura per avere a lungo insegnato nei suoi principali centri, egli non dovett'essere neppure insensibile ai temi di riforma della Chiesa che i sostenitori del concilio agitavano. Adottò numerose cautele, riaffermando di continuo la propria ortodossia e mostrando di offrire la propria collaborazione solo dopo ripetuti ed espliciti ordini del sovrano - cose tutte che ribadì in una lettera al cardinale Del Monte del settembre 1512 (cfr. Boeza) con la quale giustificava minuziosamente il proprio operato per ottenere il perdono pontificio - ma contribuì comunque in modo consistente alla preparazione e allo svolgimento dell'assemblea.

Nel settembre 1511, dopo molte sollecitazioni, raggiunse i padri convenuti in Borgo San Donnino ed intervenne, il 1° novembre, alla seduta inaugurale del concilio a Pisa, argomentando con dovizia di dottrina sulla sua legittimità e i suoi poteri. Ne davano notizia ai Dieci il giorno seguente i messi fiorentini Rosso Ridolfi e Antonio Pandolfini, i quali segnalavano com'egli fosse considerato, e fosse nei fatti, "fondamento" e "columna di questa opera" (Renaudet, p. 451). Poco prima infatti aveva scritto un Consilium (1 ed. Pavia, Jacopo da Borgofranco, 1511) che, sebbene non originale nella sostanza, costituì il principale sostegno giuridico del consesso, imponendosi a lungo come riferimento essenziale delle tesi conciliariste.

In esso il D. affrontava alcune questioni nodali e dibattutissime in tutta la storia della Chiesa cattolica: "Prima erit an Papa accusari possit si incorregibilis sit in crimine pro quo religio Christiana scandalum patiatur. Secunda, an Papa efficaciter obligetur ad illud quod cum voto et iuramento promisit, ita quod seipsum absolvere non possit. Tertia quaestio erit si in dictis et similibus casibus Concilium generale sit iudex contra Papam. Quarta erit de modo et forma congregandi Concilium in dictis casibus" (Acta primi concilii, p. 72). Alle prime tre rispondeva in senso affermativo, mantenendosi tuttavia strettamente sul terreno de iure. "In rebus ad mores et politiam Ecclesiae spectantibus credendum est potius Canonistis quam Theologis ... quia hic non agitur de articulis fidei, sed de moribus et integritate vitae" (p. 82), scriveva infatti, e la scelta di limitare l'intervento ai profili giuridici, oltre ad assicurare al parere una presunzione di ortodossia, costituì il principale titolo, se non della sua novità, certo della sua efficacia. Sull'ultimo punto, di più immediato rilievo giacché al concilio pisano avevano aderito solo pochissimi cardinali, il D. svolse un'abile argomentazione, fondata sul ricorso all'analogia e sull'esame delle regole valide per i collegia, in base alla quale sostenne la legittimità della convocazione operata dai padri uti singuli, e di conseguenza i pieni poteri del consesso.

Al D. rispose il vallombrosano Angelo Leonora con un Apologeticum pro Iulio II contra consilium Decii (s.n.t. 1511), ma il papa non poteva affidare soltanto alla schermaglia dottrinale del frate il peso di una polemica di così vaste conseguenze politiche e religiose. Egli annunciò pertanto la convocazione di un concilio in Laterano per la Pasqua del 1512 e preparò altri gravi provvedimenti. Il D. venne indotto ad intervenire di nuovo con un Sermo in favore della validità del concilio pisano (Acta primi concilii, pp. 108-29); tentò tuttavia di sottrarsi a ulteriori coinvolgimenti ritirandosi a Pavia mentre i vescovi gallicani si trasferivano da Pisa a Milano, dove più sicura era la protezione francese. Seguì nel gennaio 1512 la scomunica del pontefice contro i padri ed i loro consulenti, ma non per questo cessarono le pressioni sul D. perché partecipasse ai lavori dell'assemblea. Nel marzo respinse con forza un'ennesima convocazione, adducendo la tarda età e la salute malferma. Dovette però presto recedere dai suoi dinieghi: la sua sorte del resto era ormai strettamente legata alle vicende conciliari, nonostante gli sforzi per proteggersi dai pericoli chiedendo appoggi e consigli al cardinale Giovanni de' Medici.

Nell'aprile 1512 i Francesi, pur vittoriosi a Ravenna, decisero di abbandonare Milano. Vi entrarono poco dopo le truppe svizzere, che a Pavia saccheggiarono la casa del D., disperdendo irreparabilmente la sua biblioteca ed i manoscritti. I suoi beni furono confiscati e venne anche perseguitata l'unica figlia, di dieci anni, riparatasi nel monastero di S. Andrea. Egli frattanto era fuggito ad Asti seguendo i padri conciliari, ma rinunciando ad unirsi con loro, si nascose ad Alba per quindici giorni nella speranza di un perdono pontificio che implorò per lettera. Il suo comportamento incerto, attraversato da mille dubbi e paure, gli costò poi la diffidenza dei vescovi, che raggiunse in giugno a Lione dopo un viaggio angoscioso e difficile: essi infatti gli negarono per l'immediato qualsiasi aiuto e persino i compensi già pattuiti. Tuttavia si risollevò presto dalle angustie e dalle pressanti strettezze economiche di quei mesi, grazie all'attività consulente e al favore del re, che lo nominò nel Parlamento del Delfinato e alla fine dell'anno gli procurò una cattedra nell'università di Valence.

Il conflitto politico -militare in Italia si era intanto concluso col congresso di Mantova dell'agosto 1512. Restava ancora aperta la questione del concilio, conferendo nuovo alimento e risalto alle polemiche giuridiche e dottrinali. Il D. fu perciò nuovamente richiesto perché fornisse la sua consulenza a Lione. Anche Giulio II si rivolse a lui, nel quadro di un'abile azione rivolta a togliere ogni efficacia alla pubblicistica avversa, attirando a sé gli autori più in vista. Gli fece infatti recapitare a Dôle una lettera del 6 settembre con la quale lo convocava a Roma assieme a Gerolamo Botticella, con un salvacondotto e la promessa del perdono, per interrogarli e conoscere in particolare "quae fundpmenta pro conciliabuli antedicti sustentatione iniecistis" (Boeza). Il D. respinse l'offerta con una lunga lettera al cardinale Del Monte (Ibid.) che aveva intercesso per lui, nella quale ripercorreva i fatti protestando la propria innocenza, enumerava i vantaggi della posizione conseguita in Francia e lasciava intendere che, per un eventuale rientro in Italia, attendeva comunque la preventiva assoluzione del papa: "certa pro incerta relinqui non debent", precisava, né lo allettava la prospettiva di ritrovare invidie e contrasti con i colleghi, di cui non si curava, "semper tamen contendere cum Pigmeis molestum. est".

Agli inizi del 1513 lavorò ancora per il concilio lionese, parlando in un'adunanza contro l'importante trattato del cardinale T. De Vio, al quale si riservò di rispondere per iscritto (il Boeza precisava in proposito di possedere due repliche inedite ed incompiute al De Vio e al Del Monte). Ma nel marzo la morte di Giulio II condusse al rapido scioglimento del concilio, sicché il D. poté dedicarsi, con grande successo, all'insegnamento a Valence. Inoltre l'ascesa al pontificato di Giovanni de' Medici aveva modificato profondamente i suoi rapporti con Roma: con breve del 7 maggio ottenne l'assoluzione e il 24 ottobre gli venne addirittura offerta una cattedra canonistica nell'università. Declinò allora l'invito e se ne pentì presto: la scomparsa di Luigi XII e la successione al trono di Francesco I resero infatti più fragile la sua posizione in Francia. Accettò quindi, delle varie proposte che gli venivano dall'Italia, la condotta a Pisa alla riapertura dello Studio nel 1515. Non raggiunse però la Toscana, prima perché trattenuto a Valence, poi perché chiamato da Francesco I a Pavia il 9 settembre "à fin de donner ordre à nostre Université, que aussi pour estre conseil et Senat de Milan" (Boeza). Si prodigò infatti con Agostino Panigarola per riorganizzare l'università, ma le sorti della guerra, con la partenza da Milano dei Francesi, lo esposero ancora una volta al pericolo di rappresaglie svizzere.

Dopo una precipitosa fuga a Reggio, si portò infine a Pisa, dove risulta nel luglio 1516. Continuarono le pressioni del re di Francia per riaverlo a Pavia o ad Avignone. Anche da Padova gli giungevano allettanti inviti, ma preferì restare a Pisa, dove compare promotore alle lauree ancora alla fine del 1529. Nel 1530, alla morte di Carlo Ruini, si pensò a lui a Bologna, ma si preferì poi l'Alciato. Il suo stato fisico era del resto assai compromesso: soffriva di sifilide almeno dal 1495, quando gli prescrisse una terapia il celebre medico fiorentino Tomi, e nel 1523 l'Alciato addirittura giudicava verosimile la notizia della sua morte. In una lettera a Francesco Calvo del 3 sett. 1530 (Barni, p. 108) lo stesso Alciato tracciava ancora un ritratto sconfortante della sua salute. Comunque il D. trascorse gli ultimi anni di vita a Siena, dove venne nominato professore nel 1528. Secondo Mariano Sozzini ir. morì a Siena il 13 ott. 1535, ma il Corasio ricordava di avervi ricevuto la laurea da lui, benché incapace ormai di sorreggersi e di parlare, ancora nel 1536.

Nel corso del secolo XVI ebbero numerose edizioni due opere sue: un Commentarium in Dig. veteris et Cod. partes e un Commentarium in tit. de regulis iuris. Quest'ultima era stata iniziata a Valence e completata poi a Pavia e a Pisa. Composta secondo i canoni correnti dei commentatori, s'inserì tuttavia con autorevolezza nell'ambito della prima letteratura culta, che attraverso lo studio di quella parte del Corpus si proponeva d'individuare i principi e i criteri metodologici per una riorganizzazione sistematica del sapere giuridico.

Fonti e Bibl.: Fonte principale è la Vita Philippi Decii dell'allievo F. Boeza, che giunge fino al 1523 e riporta integralmente lettere e documenti. Essa fu stampata in diverse edizioni dei Commentaria in Digesti veteris et Codicis partes del D. (quella consultata è: Venetiis, apud Iuntas, 1608, pp. n.n.). Carteggi del fratello, che riguardano il D. indirettamente, si conservano a Milano, Bibl. Ambrosiana, ms. J. 235 inf., nn. 42, 43; Arch. di Stato di Milano, Autografi. Letterati, cart. 125, fasc. 19; Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 834, c. 233; Forlì, Bibl. comunale, Autografi Piancastelli, 548. Alcune sue lettere sono ad Arezzo, Bibl. consortile, Bibl. della Fraternita dei laici, ms. 313, c. 19; in Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, E.XXVIII-3,bb. 1109-1111. Altre sono pubblicate in nota da A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, Pisis 1791, II, pp. 195-204. I documenti relativi all'insegnamento nello Studio fiorentino sono citati e a volte riassunti da A. F. Verde, Lo Studio fiorentino 1473-1503. Ricerche e documenti, I-II,Firenze 1973; III, 1, Pistoia 1977, ad Indicem; Id., Dottorati a Firenze e a Pisa 1505-1528, in Xenia Medii Aevi historiam illustrantia. Oblata Th. Kaeppeli, Romae 1978, II, pp. 656-731. Per i rapporti con altre università cfr. J. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Patavii 1757, II, pp. 61, 68; G. De Angelis, Biografia degli scrittori sanesi Siena 1824, 1, p. 266; Memorie e docum. per la storia dell'università di Pavia, I,Pavia 1877, p. 73; G. Zaccagnini, Storia dello Studio di Bologna durante il Rinascimento, Genève 1930, p. 205; Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini, III, 1, a cura di E. Martellozzo Forin, Padova 1969, ad Indicem (Padova 1981); G. Minnucci, Le lauree dello Studio senese alla fine del sec. XV, Milano 1981, pp. 9, 26. Gli scritti per il concilio si leggono negli Acta primi concilii Pisani, Lutetiae Parisiorum 1612, pp. 69-129; altri documenti sul medesimo avvenimento sono stati pubblicati da A. Renaudet, Le concile gallican de Pise-Milan. Documents fiorentins (1510-1512), Paris 1922, ad Indicem. Per le testimonianze di contemporanei cfr. F. Guicciardini, Ricordanze, in Scritti autobiogr. e rari, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1936, pp. 54 s.; M. Sanuto, Diarii, V, Venezia 1881, coll. 175 s., 639, 651, 653; G. L. Barni, Le lett. di A. Alciato..., Firenze 1953, pp. 49, 108; M. Sozzini ir., Consilia, lib. I, cons. 128, n. 20 (nell'ediz. Venetiis 1565, f. 103ra); F. Coras, Arrestum Tolosanum, n. 35 (nell'ediz. degli Opera, per P. Wechelum, Francofurti 1576, II, p. 781). Cfr. inoltre: Ph. Argelati Bibliotheca script. Mediolanensium, Mediolani 1787, I, 2, coll. 549-54, F. C. von Savigny, Geschichte des Römischen Rechts im Mittelalter, VI,Heidelberg 1850, pp. 372-96; F. Gabotto, Un giureconsulto milanese del Quattrocento: F. D., in Conversaz. della domenica, II (1887), 3, pp. 21 s.; E. Maignen, Le jurisconsulte Decius, son séjour en Deiphiné, in Perite Revue des bibliophiles dauphinois, XII (1910), pp. 92-103; J. F. Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des canon. Rechts von Gratian bis auf die Gegenwart, II, Leipzig 1931, pp. 361 ss.; M. P. Gylmore, Humanists and Jurists, Cambridge, Mass., 1963, pp. 65 ss., 73-79, 82 s.; V. Piano Mortari, Diritto logica metodo nel secolo XVI, Napoli 1978, ad Indicem; M. G. di Renzo Villata, Scienza giuridica e legislazione nell'età sforzesca, in Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani ed europei (1450-1530), Milano 1983, pp. 98 ss.

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