SPIONAGGIO, FILM DI

Enciclopedia del Cinema (2004)

Spionaggio, film di

Mario Sesti

Genere cinematografico di grande popolarità la cui derivazione dall'omonimo letterario ‒ contemporaneo alla formazione della letteratura di massa ‒ è stata progressivamente elaborata dal grande schermo fino a raggiungere standard di spettacolarità, spesso legati a ingenti investimenti finanziari, all'uso di effetti speciali e alla promozione dello star system, che ne hanno fatto un prodotto caratterizzato da tratti specifici e originali.

La prima apparizione di una spia come protagonista di un film si fa risalire a un'opera di David W. Griffith (The great love, 1918), ma l'affermazione mondiale della sua versione cinematografica più celebre e diffusa va datata all'inizio degli anni Sessanta. Nel 1962 Dr. No (Agente 007 ‒ Licenza di uccidere) di Terence Young, interpretato da Sean Connery, fu il primo film che affermò questo personaggio, la cui fortuna è testimoniata dai numerosi tentativi di imitazione (tra cui: Our man Flint, 1966, Il nostro agente Flint, di Daniel Mann, con James Coburn; The silencers, 1966, Matt Helm il silenziatore, di Phil Karlson, con Dean Martin); dall'influenza che esercitò sulla tipologia dei personaggi interpretati da celebri attori in alcuni film del periodo (Cary Grant in Charade, 1963, Sciarada, e Gregory Peck in Arabesque, 1966, entrambi di Stanley Donen; Yul Brynner in The double man, 1967, Doppio bersaglio, di Franklin J. Schaffner); dal passaggio di testimone di altri quattro interpreti protagonisti nello stesso ruolo (George Lazenby, Roger Moore, Timothy Dalton, Pierce Brosnan), ma soprattutto dalla sua eccezionale longevità, che ha visto la produzione di venti episodi (tra i quali si segnalano Goldfinger, 1964, Agente 007 ‒ Missione Goldfinger, di Guy Hamilton; Thunderball, 1965, Agente 007, Thunderball ‒ Operazione tuono, di Young; The spy who loved me, 1977, Agente 007 ‒ La spia che mi amava, di Lewis Gilbert; Never say never again, 1983, Mai dire mai, di Irving Kershner; Goldeneye, 1995, di Martin Campbell; Tomorrow never dies, 1997, 007 ‒ Il domani non muore mai, di Roger Spottis-woode; Die another day, 2002, La morte può attendere, di Lee Tamahori). In realtà, se il personaggio di James Bond, creato dallo scrittore I. Fleming, è protagonista della più popolare serie di lungometraggi della storia del cinema, non è stato il cinema a fondare il genere legato al mondo delle spie di professione: il mito moderno della spia si sviluppò nella letteratura tra il 18° e il 19° sec. (nelle opere di J.F. Cooper, R. Kipling, J. Conrad). Ma se non è stato il cinema a inventarlo, è stato sicuramente il cinema a trasformare il suo protagonista, l'agente segreto, in un'icona dell'immaginario collettivo dai caratteri inconfondibili: prestazioni atletiche eccezionali, perfetta conoscenza delle tecniche di combattimento come di quelle della seduzione, vasta cultura, eleganza aristocratica, innata dimestichezza con le nuove tecnologie. Se il successo di una creazione della fantasia si può misurare anche dal seguito delle sue parodie, ne è un ulteriore conferma il successo di un film come Austin Powers: international man of mystery (1997; Austin Powers ‒ Il controspione) di Jay Roach, e della serie che ha iniziato, interamente basata sulla caricatura di stereotipi e ambientazioni dei primi film di Bond.In realtà, dietro la silhouette sagomata di 007, protagonista sin dagli elaborati titoli di testa che sono un marchio di fabbrica della serie, c'è una genealogia di antesignani e una consistente evoluzione del genere dello spionaggio. Fu Fritz Lang (Spione, 1928, L'inafferrabile) il primo a servirsi della spettacolarità delle nuove tecnologie, a introdurre la figura chiave di un antagonista a capo di società segrete con un campo d'azione internazionale, oltre che a tratteggiare una dinamica parossistica dell'azione: tutti elementi che sarebbero divenuti tratti caratteristici della narrativa cinematografica legata a tale figura. È, invece, ad Alfred Hitchcock, soprattutto con North by Northwest (1959; Intrigo internazionale) che si deve la prima messa a punto di humour, romance e guerra invisibile e spietata poi tipici dei film di 007. Va sottolineato che il grosso della produzione cinematografica che ha come protagonista il ruolo del soldato che agisce sotto un'identità fittizia coincide con i periodi di intensa emergenza bellica contro il nazismo durante la Seconda guerra mondiale (Confessions of a nazi spy, 1939, di Anatole Litvak; Espionage agent, 1939, di Lloyd Bacon; Night train to Munich, noto anche come Gestapo, 1940, di Carol Reed; Berlin correspondent, 1942, di Eugene Forde; Escape to danger, 1943, di Lance Comfort e Max Greene; Watch on the Rhine, 1943, Quando il giorno verrà, di Herman Shumlin; Hotel Reserve, 1944, di Victor Hanbury, L. Comfort, M. Greene; Confidential agent, 1945, Agente confidenziale, di Shumlin; The house on 92nd street, 1945, La casa della 92a strada, di Henry Hathaway; O.S.S., 1946, Eroi nell'ombra, di Irving Pichel; I see a dark stranger, noto anche come The adventuress, 1946, Agente nemico, di Frank Launder; Decision before dawn, 1951, I dannati, di Litvak; The man who never was, 1955, L'uomo che non è mai esistito, di Ronald Neame; Orders to kill, 1958, Ordine di uccidere, di Anthony Asquith; The two-headed spy, 1958, I due volti del generale ombra, di André De Toth): è una produzione in cui prevalgono i temi della propaganda, della militanza, del dibattito ideologico, spogliata dei quali è stata riproposta da Eye of the needle (1981; La cruna dell'ago) di Richard Marquand, da K. Follett. L'avvento della guerra fredda non cambiò la dinamica di esasperata vigilanza, pericolose missioni individuali, mosse e contromosse segrete (13 Rue Madeleine, 1946, Il 13 non risponde e Diplomatic courier, 1952, Corriere diplomatico, di Hathaway; Walk East on Beacon, 1952, Il delitto del secolo, di Alfred Werker; Torn curtain, 1966, Il sipario strappato, di Hitchcock; The counterfeit traitor, 1962, Il falso traditore, di George Seaton) ma accentuò e nevrotizzò la contrapposizione politica, facendo della spia spesso un individuo posseduto da un'ideologia come da una patologia psichica, il cui contagio si estende a qualsiasi individuo e non solo ai professionisti. È una fobia diffusa in film come I was a communist for the F.B.I., 1951, di Gordon Douglas e My son, John (1952; L'amore più grande) di Leo McCarey. La sua più tarda ed esplicita elaborazione è nel notevole The Manchurian candidate (1962; Va' e uccidi) di John Frankenheimer: nel film, lo spettacolo del corpo privo di coscienza ‒ che è una vera ossessione del cinema (si pensi al Das Cabinet des Dr. Caligari, 1920, Dott. Calligari, noto anche come Il gabinetto del dottor Caligari, di Robert Wiene, o, di nuovo, al Mabuse dei film di Lang) come delle teorie sviluppatesi nel secondo Novecento sul controllo delle masse da parte dei regimi dittatoriali ‒ getta scompiglio in tutte le rappresentazioni rassicuranti della realtà domestica statunitense. L'ossessione anticomunista si proietta in una fissità psichica, in un set di luce fredda e clinica che rende il film più ricco di tensione e di inquietudine di quanto le critiche che subì, da destra come da sinistra, abbiano testimoniato. Non è solo un caso se anche il più riuscito esempio di agente segreto scettico e autoironico, la risposta anticonformista a James Bond (l'agente Harry Palmer, creato da Len Deighton e interpretato da Michael Caine), affronti anch'egli in The Ipcress file (1965; Ipcress) di Sidney J. Furie l'insidia mortale, la minaccia planetaria del condizionamento psichico e del brainwashing. Si tratta di una scena archetipica che, al di là delle tipologie produttive o di intreccio, rappresenta, spesso sotterraneamente, un tema che il cinema sull'argomento condivide con la cultura letteraria di analoga vocazione: raccontare l'agente segreto significa esplorare le immense energie che plasmano, manipolano, deformano l'identità psichica di un soggetto devoto a una lealtà politica dogmatica come alle più sofisticate tecniche di simulazione. Prima che narrare le vicende di una guerra invisibile che si gioca su uno scacchiere internazionale, questo cinema incontra lo spettacolo di una coscienza sottoposta a tensioni avverse da cui nessuno può uscire indenne. Più genericamente, si tratta spesso di film legati in modo implicito a pressioni storiche o a cronache di politica internazionale, come prova il numero di film, più alto di quanto si immagini, tratto da casi individuali (Dishonored, 1931, Disonorata, di Josef von Sternberg; Mata Hari, 1931, di George Fitzmaurice; I was a spy, 1933, Ero una spia, di Victor Saville; Odette, 1950, Odette ‒ L'agente S/23, di Herbert Wilcox; I was an American spy, 1951, Ero una spia americana, di Lesley Selander; Carve her name with pride, 1958, Scuola di spie, di L. Gilbert; Ring of spies, 1963, 003 contro Intelligence Service, di Robert Tronson).

Ancor più interessante è notare come la figura dell'agente segreto riguadagni alcuni dei tratti tradizionali dell'eroe d'avventura tipici degli anni Trenta (The Scarlet Pimpernel, 1935, La Primula Rossa, di Harold Young; British agent, 1934, di Michael Curtiz; Lancer spy, 1937, La spia dei lanceri, di Gregory Ratoff; The spy in black, 1939, La spia in nero, di Michael Powell) solo alla fine degli anni Ottanta, con l'autentica fine dell'equilibrio internazionale fondato su blocchi contrapposti. The hunt for Red October, (1990; Caccia a Ottobre Rosso) di John McTiernan, primo di una serie tratta dai libri di T. Clancy che hanno come protagonista l'agente Jack Ryan (Patriot games, 1992, Giochi di potere, e Clear and present danger, 1994, Sotto il segno del pericolo, entrambi diretti da Philip Noyce, The sum of all fears, 2002, Al vertice della tensione, di Phil Alden Robinson) non solo presenta una sensibile riforma del genere spionistico legato a James Bond (a cominciare dal suo protagonista, che possiede solida preparazione accademica e profondi legami familiari), ma ripropone quei caratteri tipici dell'avventura ‒ come la valenza drammatica dell'ambiente fisico e il valore dell'esplorazione psicologica del nemico ‒ che invece tendono a essere neutralizzati o stereotipati dalla formula dei kolossal di meraviglia tecnologica ed effetti speciali dei film di 007. Fu, del resto, proprio il controllo o l'uso innovativo di questi elementi che qualificò l'intervento di una regia personale nel genere anche negli anni della Seconda guerra mondiale: a Michael Powell ed Emeric Pressburger si deve la più avventurosa delle variazioni nei film di spionaggio (49th parallel, noto anche come The invaders, 1941, Gli invasori ‒ 49° parallelo); Billy Wilder firmò una cristallina pièce spionistica di duello psicologico e sfondi esotici con Five graves to Cairo (1943; I cinque segreti del deserto) e fu ancora F. Lang con Cloak and dagger (1946; Maschere e pugnali) ad approfondire lo spirito della lotta per la libertà, tipico degli anni della guerra, rivelando in esso le tracce della futura paura del conflitto atomico che sarebbe stato lo scenario privilegiato del genere spionistico (il film fu censurato dal FBI proprio perché nelle battute finali si faceva esplicito riferimento all'avvento collettivo di tale paura).Ma l'autore che più di altri ha saputo lavorare con il cinema sulla figura dell'agente segreto tracciando una consistente autonomia dal legame con la letteratura (l'influenza sul cinema di maestri anglosassoni del genere come E. Ambler e G. Greene, è, in fondo, piuttosto occasionale) è stato senza dubbio Hitchcock. Fu il grande maestro del thriller a modellare e a consolidare con una cospicua serie di film (The man who knew too much, 1934, L'uomo che sapeva troppo, di cui lo stesso regista fece un remake nel 1956; The 39 steps, 1935, Il club dei trentanove; The lady vanishes, 1938, La signora scompare; Foreign correspondent, 1940, Il prigioniero di Amsterdam; Notorious, 1946, Notorius ‒ L'amante perduta; North by Northwest) una drammaturgia per lo più inedita nella letteratura, in cui una persona qualunque è costretta a fronteggiare o, in alcuni casi a impersonare, l'agente segreto, perché coinvolta accidentalmente in un pericoloso gioco spionistico internazionale. Lang propone di questo schema una versione più cupa e allucinatoria (Ministry of fear, 1945, Prigioniero del terrore), Sidney Gilliat, collaboratore dei film inglesi di Hitchcock, ne accentuò la latente comicità (State secret, 1950, Segreto di stato), Roman Polański realizzò con Frantic (1988) un omaggio citazionista, colto e a tratti palpitante, di questo tipo di cinema.

L'equilibrio classico su cui esso si basa, tra rappresentazione della guerra invisibile, tensione e azione, venne poi messo in crisi dall'ingresso sullo scenario internazionale, come nel panorama letterario, della figura di una spia professionista corrosa dal dubbio e dalla fede nell'identità e nel significato del proprio ruolo. Non a caso il film che meglio di altri apre e testimonia questo passaggio è tratto dall'opera di J. Le Carré, lo scrittore maggiormente responsabile della versione autunnale e amletica dell'agente segreto. Nell'immaginario cinematografico legato all'agente segreto, The spy who came in from the cold (1965; La spia che venne dal freddo) di Martin Ritt è agli antipodi dei film di James Bond: l'azione è inesistente e l'inquadratura grigia e dimessa, ma l'ingegnosa narrazione, che culmina in un sorprendente colpo di scena finale, illumina con amarezza e penetrazione il gorgo fisiologico di alienazione psichica nell'uomo che vive sotto copertura. Il risultato finale vede sulla scena individui sordidi, angosciati, disillusi che popolano i libri di questo scrittore e che raramente sono stati resi con altrettanta fedeltà dal cinema (per es. in The deadly affair, 1967, Chiamata per il morto, di Sidney Lumet; The little drummer girl, 1984, La tamburina, di George Roy Hill; The Russia house, 1990, La casa Russia, di Fred Schepisi; mentre più convincente è Smiley's people, 1982, elegante serie televisiva con Alec Guinness). È un'impostazione critica e disincantata che si ritrova alimentata dalla cultura anticonformista e libertaria del cinema statunitense degli anni Settanta in film come Three days of the Condor (1975; I tre giorni del Condor) di Sydney Pollack o The killer elite (1975; Killer elite) di Sam Peckinpah, in cui l'indagine sul mondo degli agenti segreti è indissolubile da una riflessione nichilista e severa degli apparati di difesa e controllo degli Stati contemporanei e della loro profonda natura antidemocratica. Pollack adotta per certi versi lo schema hitchcockiano (anche se il protagonista del film è collegato ai servizi segreti) per fare dello sguardo di un individuo ordinario il giudice più spietato di un mondo dominato dall'uso indiscriminato della violenza e del potere; Peck-inpah si serve della resa di conti interna al mondo dei servizi segreti per mettere in scena un rituale di massacro e sospetto il cui stile inconfondibile persuade ancor più lo spettatore della natura di una società dove ogni lealtà e ogni forma di patriottismo sono stati da tempo sostituiti da una logica territoriale di annientamento e dominio. È una prospettiva di inarrestabile deriva ideologica, nella cui scia si collocano anche film come Marathon man (1976; Il maratoneta) e The falcon and the snowman (1985; Il gioco del falco), entrambi di John Schlesinger, o Last embrace (1979; Il segno degli Hannan) di Jonathan Demme. È stato ancora Frankenheimer, a completare questa prospettiva con Ronin (1998), un film di virtuosistico spettacolo nell'azione, ma intriso di un rammarico profondo e decadente, ben più convincente della convenzionale riproposizione del genere nelle sue vecchie formule, apparentemente rimesse a nuovo da una patina di contemporaneità, in film come Spy game (2001) di Tony Scott e The recruit (2003; La regola del sospetto) di Roger Donaldson. Così come John Boorman con Tailor of Panama (2001; Il sarto di Panama) ha provato a tradurre il clima dei romanzi di Le Carré in una prospettiva di disincanto e romanticismo ma insieme di acre e funambolica ironia.

Si può, in conclusione, affermare che il genere spionistico, la cui tempestiva dipendenza dal contesto storico-politico è una condizione più che un'opzione, raramente supera i propri schemi per approfondimenti, sperimentazioni inedite o costruzioni romanzesche complesse, e quando ciò accade si deve alla sensibilità e alla personalità di alcuni autori. The thief (1952; La spia), di Russel Rouse, affronta un'inedita sfida tecnica e narrativa: raccontare una storia senza mai ricorrere alle parole o ai dialoghi. Alla sapienza di un regista di fine scrittura e cultura non convenzionale come Joseph L. Mankiewicz si deve invece Five fingers (1952; Operazione Cicero): tratto dal romanzo di uno dei protagonisti, il tedesco L.C. Moyzisch, racconta fatti controversi ma realmente accaduti ed è forse l'unico film del genere che possieda dialoghi da commedia ("Il controspionaggio è la più alta forma di pettegolezzo"), ma soprattutto una sorprendente drammaturgia dell'amoralità, in cui il personaggio più abile e privo di scrupoli nell'impostura finisce vittima di un raggiro sentimentale ancor più spietato e cinico del proprio. James Mason, il protagonista, un maggiordomo colto e malinconico, autorevole come un senatore romano e vulnerabile come molti provenienti da basse classi sociali, dà vita a un personaggio letterario che ha una sua inimitabile nicchia nel cinema degli agenti segreti. In due film di C. Reed come The third man (1949; Il terzo uomo) e Our man in Havana (1959; Il nostro agente all'Avana) le variazioni d'autore sulle atmosfere del genere sono spinte nel primo caso verso una dimensione kafkiana ed espressionista, e nel secondo stemperate in un'ironia amara, sulla scorta della matrice letteraria di G. Greene. Modesty Blaise (1966; Modesty Blaise, la bellissima che uccide) di Joseph Losey è una versione femminista che precorre la cultura postmoderna. A Fred Zinnemann si deve l'appassionante e minuziosa descrizione del controspionaggio di The day of the jackal (1973; Il giorno dello sciacallo), la cui orchestrazione è condotta con il rigore di una competizione enigmistica o di una partita a scacchi di cui vengono mostrate le mosse e le contromosse dei due giocatori, mentre ancor più originale è la rappresentazione della rete di ufficiali e funzionari coinvolti nella controffensiva antiterrorismo come impiegati della pubblica amministrazione in un lavoro di routine. Les patriotes (1994; Storie di spie) di Eric Rochant è invece la variazione più originale di tali storie che il cinema di fine Novecento abbia proposto. Raccontata come un romanzo di formazione o un diario sentimentale ed esistenziale, è ambientata nel Mossad, il servizio segreto israerliano, forse il più misterioso. La tensione della guerra segreta, spietata e interminabile, è filtrata da una sensualità avvolgente e da un romanticismo generazionale che non ha mai scelto uno sfondo del genere per esprimersi.

Bibliografia

Il caso Bond, a cura di O. Del Buono, U. Eco, Milano 1965.

L. Rubenstein, The great spy films, Secaucus (NJ) 1979.

D. Skene Melvin, Crime, detective, espionage, mystery, and thriller fiction and film: a comprehensive bibliography of critical writing through 1979, Westport (CT) 1980.

D. Ebner, L. Langman, Encyclopedia of American spy films, New York 1990.

Special issue on spy fiction, spy films and real intelligence, ed. W.K. Wark, in "Intelligence and national security", October 1990, 4.

G. Gosetti, C'era una volta la spia, in M. Sebastiani, M. Sesti, Delitto per delitto: 500 film polizieschi, Torino 1998, pp. 279-82.

CATEGORIE
TAG

The manchurian candidate

Seconda guerra mondiale

Immaginario collettivo

John frankenheimer

Emeric pressburger