STORICO, FILM

Enciclopedia del Cinema (2004)

Storico, film

Luigi Guarnieri

Una prima definizione intuitiva di f. s. è quella di un'opera cinematografica che ricostruisce un'epoca o fatti storicamente avvenuti e datati, in modo riconoscibile per gli spettatori e contenendo una riflessione sulla natura stessa della Storia, che nel film in costume, invece, costituisce un semplice pretesto narrativo, un artificio melodrammatico destinato ad alimentare il piacere del romanzesco. Formalmente, dunque, il requisito base per un f. s. è quello di svolgersi in un periodo ben delineato e dichiarato (caratteristica fondamentale del 'genere'), in modo che lo spettatore possa situare l'azione in un passato non generico; e il f. s. si presenta proprio come una sorta di 'viaggio nel passato', messo in scena con maggiore o minore abilità e precisione, con intenti d'intrattenimento e d'evasione o, a volte, didattici, pedagogici e di critica sociale.

In realtà, il più delle volte la nozione si rivela assai vaga e limitata, per cui 'storico' diventa qualsiasi film che non sia ambientato nel 'presente', ovvero che lo spettatore non possa situare nella dimensione contemporanea dell'attualità; di certo, tale nozione appare inadatta a rappresentare la complessità di questo genere cinematografico trasversale, contaminato, 'aperto' e ostile alle definizioni. Il dibattito, spesso fumoso, sui rapporti fra cinema e Storia si è andato precisando solo negli ultimi decenni, a partire dalle intuizioni di Siegfried Kracauer e Yvette Bíró, grazie alle analisi di storici francesi come Marc Ferro e Pierre Sorlin: ma il f. s. 'di finzione' in quanto categoria, una volta analizzata la struttura e i contenuti narrativi delle opere, continua a sfuggire a una definizione univoca ponendo in discussione la sua stessa ascrivibilità a un genere specifico. Potenzialmente, il suo campo d'azione è così esteso da contenere la maggior parte degli altri generi, anche quelli che si rendono poi autonomi grazie, per così dire, alla loro rilevanza, compattezza, riconoscibilità e sviluppo interno, come nel caso del western, del film di guerra, del gangster film e del film d'avventura. Nei particolari casi del film biografico e del film di derivazione 'letteraria' (v. letteratura e cinema), la contiguità con quello storico appare poi strettissima.

Infatti proprio in quanto costruzione dell'immaginario ‒ e quindi rivisitazione fantastica, 'mitologica', di una storia ricostruita in modo più o meno 'verosimile' ‒ finisce per illustrare allo spettatore (in modo indiretto, obliquo, metaforico appunto) non tanto l'epoca (storica) in cui è ambientato, ma quella (contemporanea) che l'ha prodotto. Il f. s. è sì ‒ a volte ‒ rilettura critica della Storia, ma appare soprattutto parte del discorso critico di una società su sé stessa, la rappresentazione di un'epoca dal punto di vista di un'altra, un'immagine della Storia: con il pretesto del passato, a proposito del quale (per essere verosimile) veicola e manipola o reinventa una certa dose di informazioni e racconta soprattutto il 'suo' presente. Ecco perché il f. s. non può essere pensato e analizzato soltanto come ricostruzione documentaria, fotografica, 'veritiera', di un'epoca trascorsa. D'altra parte, con l'evoluzione della riflessione critica sulla rappresentabilità della Storia, e con la crisi progressiva della sua stessa definizione, questa ambizione e questo scopo ‒ riprodurre accuratamente il passato ‒ si sono rivelati sempre più riduttivi. Un f. s., quando si serve del passato per narrare il presente, o per proiettarne le contraddizioni su uno sfondo paradigmatico o fantastico, ma anche per proporre una visione 'alternativa' della Storia stessa, non può più essere giudicato solo con il metro del rigore, dell'autenticità e della verosimiglianza con il quale racconta gli eventi, ma va anche valutato in qualità di documento più o meno significativo della contemporaneità, di segnale indicativo della cultura (e del background sociale) che esprime. Indicativo, anche, dell'approccio per così dire 'storiografico' di un'epoca, del modo nuovo ‒ o diverso ‒ che una società adotta per reinterpretare e riscrivere il proprio passato, e quindi per modificare l'immagine che ha di sé stessa (basti pensare, per es., al ruolo rivoluzionario dei nativi americani nei cosiddetti 'western revisionisti' dagli anni Settanta in poi).

Il ricorso alla Storia, per un autore, può essere una facilitazione (per il fascino immediato che il genere esercita sul pubblico, e dunque per il suo potenziale commerciale) ma pone anche dei limiti all'inventiva e all'immaginazione. Rappresenta comunque una sfida, perché si tratta di raccontare allo spettatore un mondo in buona parte sconosciuto (quasi sempre riconoscibile per stereotipi), rendendolo 'reale'. A questo scopo, la cura filologica ‒ pur non essendo un fine in sé ‒ resta un mezzo essenziale per creare quell'illusione di realtà che induce lo spettatore ad annullare le distanze con il passato, a identificarsi con i personaggi e partecipare al racconto, abbandonandosi a quel fenomeno illusionistico ‒ valido anche per il romanzo e per il teatro ‒ che va sotto il nome di 'sospensione dell'incredulità'.

Campione di questo approccio 'filologico' e 'narrativo', che presume di riprodurre e raccontare con esattezza il fatto storico (mentre in realtà lo 'romanza' per esigenze spettacolari), fu David W. Griffith, mentre Sergej M. Ejzenštejn può essere considerato l'esponente principale della tendenza contraria, quella della reinvenzione simbolica e 'anti-narrativa' (se non programmatica) degli eventi storici. In ogni caso, i film dei due registi costituiscono i prototipi indiscussi e definitivi del cinema 'storico', in quanto per entrambi è il film a scrivere la Storia, e non la Storia a scrivere il film. Fu W. Wilson a definire storia scritta con il fulmine The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione), e lo stesso Griffith accreditava il suo film come scrittura storica, destinata addirittura a rimpiazzare i libri di testo grazie alla meticolosa capacità mimetica di ricostruzione, iconograficamente rigorosa fino al particolare più minuto, in una pretesa di fedeltà assoluta alla cosiddetta realtà dei fatti. In realtà Griffith non si servì della collaborazione diretta di storici di professione, e trasse la vicenda degli intrecci tra la famiglia nordista degli Stoneman e quella sudista dei Cameron dai romanzi del reverendo Th. Dixon: ma voleva che il suo film fosse ritenuto 'storicamente esatto', intendeva mostrare 'l'evento reale' attraverso la rappresentazione cinematografica. Con questo film, pur oggetto di grandi polemiche (con accuse di razzismo), Griffith fissò alcuni canoni del cinema storico, innanzi tutto la combinazione di eventi 'reali' ('storicizzati', appunto) con episodi immaginari incentrati su personaggi d'invenzione; quindi l'impostazione complessiva che (sulla scia del cinema storico italiano, in particolare del kolossal Cabiria di Giovanni Pastrone, realizzato nel 1914) generalmente concepisce lo storico come un cinema produttivamente 'colossale', epico, fatto di eventi e di prototipi ‒ e quindi 'genere' statico, ripetitivo, con una scarsa evoluzione interna al di là dei fattori tecnici condizionati dai progressi in campi specifici (fotografia, soprattutto), anche se negli ultimi decenni del 20° sec. e nella produzione degli inizi del 21° sec. l'aspetto ideologico ‒ il punto di vista sulla Storia ‒ ha implicato un'effettiva trasformazione, comportando talvolta una vera rivoluzione degli approcci narrativi codificati.

L'enorme successo di The birth of a nation impresse una svolta decisiva all'industria cinematografica statunitense: per la prima volta, un film di lunga durata (due ore) e ad altissimo budget si rivelava un'avventura commerciale riuscita, con incassi astronomici. Inoltre, la sua innovativa impostazione tecnica e il suo sostrato ideologico ‒ grande film patriottico, versione eroica della storia nazionale, appello ai valori e all'unità del popolo americano ‒ gettarono le basi, una volta per sempre, dello standard caratteristico del kolossal hollywoodiano. Non è un caso il fatto che il metodo codificato da Griffith per trattare i fatti 'storici' (nonché il periodo, lo 'sfondo' prescelto: la guerra civile) riapparve senza sostanziali modifiche nell'altro caposaldo ‒ e straordinario successo commerciale ‒ del cinema 'storico' hollywoodiano, Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming, anch'esso basato su una fonte letteraria (il romanzo di M. Mitchell). Il film successivo di Griffith, l'ambiziosissimo Intolerance (1916), che consolidò le innovazioni tecniche e figurative del precedente, ha la Storia come soggetto esplicito: tutta la storia dell'uomo riproposta in una grandiosa sintesi narrativa e temporale, attraverso quattro episodi che spaziano dalla Babilonia del 539 a.C. agli Stati Uniti del 1914. Discusso e discontinuo, fu un colossale fallimento commerciale, ma Griffith tornò a riproporre il suo modello di cinema 'storico' con il grande affresco popolare America (1924), storia d'amore ambientata all'epoca della Rivoluzione americana, nel quale seppe coniugare le esigenze didattiche della divulgazione storica (gran dispiego di indicazioni di date, luoghi e personaggi) con la spettacolarità del racconto epico e melodrammatico.

Opposto il caso di Ejzenštejn, che rende intellegibile la Storia attraverso il potere evocativo e formale del linguaggio cinematografico, ma lo fa accantonando la fiction a favore di un metodo programmatico-didattico di ricostruzione storica, paradossalmente tanto più libera ‒ da un punto di vista strettamente cinematografico ‒ quanto più condizionata dall'ideologia e dalla politica. In Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin), uno dei film basilari del cinema, perfetta sintesi delle riflessioni teoriche di Ejzenštejn, e in Oktjabr′ (1927; Ottobre) la Storia diventa (come in Intolerance) protagonista assoluta della vicenda, ma proprio la forma sperimentale del racconto cinematografico ne sottolinea il carattere di ricostruzione, ribadendo così che la Storia è un farsi continuo, e non costituisce mai una fonte attendibile di per sé. Nell'ultimo capolavoro Ivan Groznyj, la cui prima parte venne presentata al pubblico nel 1945 (Ivan il terribile), mentre la seconda, terminata nel 1946, uscì solo nel 1958 (La congiura dei boiardi), Ejzenštejn recupera la nozione di personaggio come elemento essenziale dell'opera; dato il trasparente parallelismo tra il protagonista ‒ lo zar Ivan IV ‒ e Stalin, il film costituisce inoltre uno dei massimi esempi di uso del genere storico per una riflessione traslata sul presente.

L'altro importante prototipo del kolossal storico-biografico è il Napoléon vu par Aber Gange, noto anche come Napoléon (1927; Napoleone) di Abel Gance, leggendario già per via dell'odissea produttiva e primo capitolo di un gigantesco progetto che il regista non riuscì a completare. Gance concepì il film sulla scorta dell'entusiasmo suscitato in lui dalla visione di The birth of a nation, ma il suo approccio al materiale storico si rivelò molto meno filologico e assai più libero e inventivo di quello di Griffith. L'influenza del Napoléon sul modello in formazione del cinema 'storico' si fece sentire soprattutto a livello di gigantismo produttivo; dal punto di vista del racconto, Gance accentuò l'espediente griffithiano della continua mescolanza di toni. Lo sperimentalismo tecnico-visionario del film, però, ha finito per farne una sorta di unicum nella storia del cinema.

Tra le pietre miliari e le opere epocali, ovvero le più utili a determinare le coordinate del 'genere', vanno incluse La grande illusion (1937; La grande illusione) di Jean Renoir, parabola sulla Prima guerra mondiale e inno al pacifismo, ma con evidenti richiami all'atmosfera di speranze suscitate in Francia dal Fronte Popolare di L. Blum, una visione libertaria della Storia ripresa dal regista in La Marseillaise (1938; La Marsigliese); Henry V (1944; Enrico V) di Laurence Olivier, opera basilare della cinematografia inglese, modello del kolossal d'autore e triplice meditazione sulla Storia ‒ del teatro elisabettiano, della guerra dei Cent'anni e della contemporanea conflagrazione mondiale (durante il montaggio del film ebbe luogo lo sbarco in Normandia); The ten commandments (1956; I dieci comandamenti) di Cecil B. DeMille, classica produzione da kolossal (ventimila comparse e quindicimila animali utilizzati sul set), spettacolare quanto appassionata epopea del popolo ebraico e magniloquente allegoria della lotta per la libertà contro il totalitarismo; il bellico Paths of glory (1957; Orizzonti di gloria) di Stanley Kubrick, massimo esempio di film antimilitarista e, per costruzione narrativa e spettacolarità della messa in scena, di f. s. tout court insieme ai successivi Spartacus (1960) e Barry Lyndon (1975), dove la ricostruzione della Storia passa attraverso un'estrema cura filologica delle atmosfere figurative; i 'biografici' Lawrence of Arabia (1962; Lawrence d'Arabia) di David Lean, classico dell'epica avventurosa nonché riuscita contaminazione di spettacolo esotico e riflessione storica, e Andrej Rublëv (1966) di Andrej A. Tarkovskij, visionario ritratto di un monaco e pittore di icone del tardo medioevo russo, che ‒ risentendo della lezione estetica di Ejzenštejn ‒ mette in scena un affresco complesso, tanto raffinato quanto metaforico.

In Italia, gli esempi più rilevanti di f. s. ‒ che offre sporadicamente opere riuscite, spesso legate ai canoni della commedia nazionale come La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e Una vita difficile (1961) di Dino Risi ‒ sono legati ai nomi di Luchino Visconti e di Roberto Rossellini, anche se per il primo si può forse ancora più ragionevolmente parlare di cinema 'di derivazione letteraria'. In Senso (1954), tratto dal racconto di A. Boito, Visconti trasfigura il materiale melodrammatico ‒ fornito dalla passione autodistruttiva della contessa Serpieri per l'ufficiale austriaco Franz Mahler ‒ in metafora dello scenario storico che le fa da cornice: la terza guerra d'Indipendenza, culminata nella disfatta di Custoza (non a caso, doveva essere questo il titolo del film). Contemporaneamente, tratteggia il suo tema prediletto, che si proietta al di là della vicenda contingente: la crisi irreversibile di una società sull'orlo del crollo, impotente a modificare la Storia, ad agire positivamente sulla realtà. Anche Il Gattopardo (1963), dal romanzo di G. Tomasi di Lampedusa, ennesimo studio viscontiano sui rapporti tra cinema e letteratura, dipinge un vasto affresco di una classe sociale al tramonto; fino a proporre una rilettura del Risorgimento, visto come rivoluzione mancata o tradita.

La prise de pouvoir par Louis XIV (1966; La presa del potere da parte di Luigi XIV) di Rossellini si presenta invece come un vero e proprio saggio rivoluzionario sui rapporti fra cinema e Storia. L'originaria vocazione neorealista si accompagna all'esigenza ideologica di una narrazione didattica per presentare la Storia come un insieme di documenti da raccontare in immagini, inseguendo l'assoluta precisione del dettaglio e sforzandosi di illuminare il significato complessivo dei fatti. E per Rossellini il risultato finale deve situarsi il più lontano possibile dal melodramma e dall'enfasi spettacolare secondo un'ipotesi del rapporto tra Storia e racconto audiovisivo che proseguì fino ad Anno uno (1974) in base alla sua idea di film didattico.

Negli anni Settanta, nell'ambito della produzione italiana, una visione lucida e brechtiana della Storia è emersa in alcuni film di Paolo e Vittorio Taviani, come Allonsanfàn (1974), e un'attenzione alla storia minuta del popolo contrapposta alla Storia ufficiale in tutta l'opera di Luigi Magni. Sempre in quegli anni, tra le migliori espressioni di cinema 'storico' possono essere individuate due opere belliche sulla natura atemporale della guerra come il biografico Patton (1970; Patton, generale d'acciaio) di Franklin J. Schaffner e l'allucinata visione di Apocalypse now (1979) di Francis Ford Coppola. Una tragica riflessione sulla violenza, l'irrazionalità e l'assurdità della Storia scaturisce dalla spedizione dei conquistadores spagnoli di Aguirre, der Zorn des Gottes (1972; Aguirre, furore di Dio) di Werner Herzog, mentre un sentimento epico-lirico della Storia italiana del 20° sec. vista come grande melodramma emerge nelle due parti di Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci. Nel decennio successivo a imporsi è stata la saga fluviale di Heimat (1984), in cui Edgar Reitz racconta un secolo di grande Storia attraverso le vicende della famiglia Simon. Negli anni Novanta è tornata con decisione alla ribalta una forma di cinema storico melodrammatico, coinvolgente e spettacolare, che ha trovato la sua sintesi più efficace in Schindler's list (1993; Schindler's list ‒ La lista di Schindler) di Steven Spielberg, oppure nella ricostruzione sontuosa ed epica di alcuni film cinesi come Jing Ke ci Qin wang (1999; L'imperatore e l'assassino) di Chen Kaige. Sempre nell'ambito del cinema dell'Estremo Oriente registi come Kurosawa Akira (Shichinin no Samurai, 1954, I sette samurai; e Yōjinbō, 1961, La sfida del samurai) o Mizoguchi Kenji (Yōkihi, 1955, L'imperatrice Yang-Kwei-Fei) avevano già intessuto una narrazione storica attenta ai valori formali e a un senso tragico della drammaturgia. Di nuovo fondativo, dopo il prototipo griffithiano, è apparso l'affresco sulla nascita del mito americano della violenza della Storia compiuto da Martin Scorsese in Gangs of New York (2002).

Bibliografia

S. Kracauer, Theory of film. The redemption of physical reality, New York 1960 (trad. it. Milano 1962).

Y. Bíró, Le film historique et ses aspects modernes, in "Bianco e nero", 1963, 1-2.

J.A.S. Grenville, Film as history. The nature of film evidence, Birmingham 1971.

M. Ferro, Cinéma et histoire. Le cinéma agent et source de l'histoire, Paris 1977.

P. Sorlin, Sociologie du cinéma, Paris 1977, passim (trad. it. Milano 1979).

G. MacDonald Fraser, The Hollywood history of the world, London 1988.

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