FILOLOGIA

Enciclopedia Italiana (1932)

FILOLOGIA (gr. Φιλολογία)

Vittorio SANTOLI
Gino FUNAIOLI
Salvatore BATTAGLIA
Giovanni MAVER

A seconda del punto di vista dal quale la consideriamo, la filologia è e insieme non è una disciplina speciale. È una disciplina speciale in quanto lavora intorno a problemi considerati in sé circoscritti in mezzo a molti altri: per es., alla storia del testo per es. dell'Apologetico di Tertulliano, all'autenticità e alla vera lezione delle liriche di Dante, all'interpretazione di kenningar della poesia scaldica, intesi come problemi particolari. Contemporaneamente, la filologia non è una disciplina speciale in quanto questi problemi (e in generale tutti quelli che può presentare la tradizione del passato) costituiscono elementi di un sistema che è, appunto, il passato: quel passato che vogliamo intendere e intendiamo, e che è in relazione col presente e lo condiziona e ne è condizionato. Per questo, a una data concezione del passato corrisponde una determinata filologia.

Gli antichi ritennero il passato privo di verità, intesero la storia come conoscenza dell'individuale: e la filologia dell'antichità fu grammatica e polistoria, studio della lettera, riconoscimento dei particolari. Il Rinascimento non rinnovò sostanzialmente questo concetto del passato; e la filologia continuò ad essere, fino alla fine del sec. XVIII, studio delle parole (explanatio) e studio delle cose (hermeneutica), con tendenza ora prevalentemente formale ora prevalentemente polistorica, non senza qualche tentativo (come nel Pico) di superare l'opposizione di verba e di res.

Dopo il Rinascimento, l'epoca razionalista è dominata dal pensiero di Cartesio, per il quale la storia era come un viaggio nel passato che rischia però di farci ignorantissimi del presente, e che, in ogni caso, ci riflette questo passato in maniera infedele. Questa concezione di Cartesio è sostanzialmente una critica della polistoria: le conquiste e i risultati della critica formale, nella quale rifulsero uno Scaligero e un Bentley, sono tuttavia, nonostante l'erudizione immensa d'ingegni come il Sigonio e il Leibniz, il meglio dell'attività filologica tra il Quattrocento e il Settecento. Ma il Rinascimento aveva cercato anche di superare il distacco fra il passato e il presente tentando di rivivere immediatamente il mondo della Grecia e di Roma: un ideale o un sogno che visse per più secoli, e si rinnovò nell'epoca romantica, né si può dire che sia ancora interamente morto.

Il nuovo avviamento della filologia è segnato da G. B. Vico il quale, in antitesi al pensiero cartesiano, fondò la certezza della conoscenza storica: "quando avviene che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere più certa la storia". "Elevava così le conoscenze dapprima meramente indiziarie e probabili sulle cose dell'uomo al grado di scienza perfetta", poneva il "certo" in relazione col "vero". La sua unità di filologia e filosofia non ebbe un'influenza immediata sugli studî, ma quel suo concetto ricorse nella rivendicazione della storia contro lo scetticismo e l'intellettualismo del sec. XVIII, figlio del cartesianismo; nella sintesi a priori kantiana, che riconciliò ideale e reale, categoria ed esperienza, e nella filosofia storica del Hegel, in cui lo storicismo del sec. XIX toccò il più alto punto. Quell'unione di filosofia e filologia, che fu talvolta unione violenta e commistione di metodi, ricorse anche in questa sua forma errata nella scuola hegeliana, talché siffatto indirizzo potrebbe prendere a giusto titolo il nome di "vichismo" (B. Croce). Nell'epoca romantica lo Schelling assegnava al filologo "la costruzione storica delle opere dell'arte e della scienza, la cui storia egli deve comprendere ed esporre in una vivente intuizione"; il Hegel concepiva il pensiero come dialettica, come divenire, ossia come storia.

Parallelamente, ma non senza l'influenza di questi filosofi e di altri geniali filologi e pensatori quali F. Schlegel, D. F. Schleiermacher, W. von Humboldt, si svolgeva in Germania la filologia storica a capo della quale sta F. A. Wolf. Il maestro del Wolf, il Heyne, aveva già dissolto il vago concetto di humaniora e aveva posto l'esigenza di una scienza dell'antichità; ma chi questa esigenza fece valere e tradusse in effetto, determinando il corso della filologia moderna, fu il Wolf, e dietro il Wolf, A. Boeckh (il quale sentì anche l'influenza dello Schelling e dello Schleiermacher) e il suo geniale scolaro K. O. Müller. Nella filologia germanica impersonava la stessa tendenza J. Grimm. Il Wolf e il Boeckh intesero la filologia come "scienza dell'antichità" (Altertumswissenschaft), come conoscenza del mondo antico nella sua totalità. Il Boeckh, che di questa concezione fornì la sistemazione speculativamente più profonda, dopo aver negato che la filologia sia antiquaria o polistoria o che si esaurisca nello studio della lingua, andò anche oltre il concetto della filologia come esclusivamente critica, come attività meramente formale, e anche come pura ermeneutica, come storia della letteratura e come Humanitätsstudium. "Il compito vero della filologia - scriveva - pare dunque che sia la conoscenza di ciò che è stato prodotto dallo spirito umano, vale a dire del conosciuto... Il concetto della filologia coincide dunque con quello della storia nel significato più ampio": "tutta la storiografia procede filologicamente, innanzi tutto in quanto riposa su fonti, ma poi anche in quanto i fatti storici stessi sono un conoscere, vale a dire contengono idee". Il fine supremo della filologia sta "nella costruzione storica dell'intero conoscere e delle sue parti, e nella conoscenza delle idee che in esso sono contenute": "anche nella filologia la capacità produttiva è l'essenziale, perché senza di essa non si può veramente riprodurre nulla".

Questo concetto della filologia come "ricostruzione della costruzione dello spirito umano nella sua totalità" è quello che sta a fondamento dell'indirizzo storico preso dalla filologia moderna. Ciò che non significa, naturalmente, un abbandono o una negazione della critica formale, la quale anzi - metodicamente affinata per l'opera di filologi fra i quali emerge K. Lachmann, al quale, fra l'altro, spetta il merito di aver posto definitivamente in luce l'importanza della recensione - ha fatto negli ultimi cento anni un lavoro gigantesco, restaurando, si può dire, tutto il patrimonio dell'antichità (e non solo della classica, ma dell'orientale e medievale e dei popoli extraeuropei) che il tempo o la tradizione stessa aveva corrotto o comunque alterato (v. edizione). Il momento formale, che consiste essenzialmente nella lettura (a cui nelle arti figurative corrisponde la contemplazione, nella musica l'audizione) è quel che in filosofia si chiama anche percezione, che è la fonte del contenuto dell'esperienza. Come tale, esso abbraccia tutta la materia della nostra conoscenza storica: è uno dei due momenti costitutivi e originarî in cui analiticamente possiamo distinguere il giudizio. Ora, questo atto della lettura se è relativamente semplice quando si tratti di leggere una lettera o una lirica scritte al tempo e nella lingua di chi legge, diventa molto difficile e complicato quando si tratti di farci spiritualmente contemporanei, per es., ai Greci del tempo delle guerre persiane o agl'Islandesi del sec. XII.

Accanto a quell'ermeneutica che è connessa a ogni lettura, ecco che qui, per rendere possibile nella sua purezza quest'atto elementare del leggere, deve intervenire la critica intesa a ricostruire la tradizione di un testo, a liberarlo da interpolazioni, a integrarlo dove è lacunoso. E già in questo intervento della critica si mostra assurda la pretesa oggettivistica per la quale il passato, o l'oggetto, sono fantasticati come distaccati dall'atto del pensiero.

Se a una mente volgare può parere forte ammettere che le Odi Barbare del Carducci sono quelle che volta a volta ricostruiscono lettori e critici, molto più facile è persuadersi di questa verità leggendo, per es., Eschilo. Qui la personalità del critico o dell'editore è intrinsecamente connessa all'opera dello scrittore antico. Questo momento della percezione dell'oggetto è dunque tutt'altro che semplice: esso implica la personalità del lettore e del critico, in particolare tutta la sua sensibilità stilistica, linguistica ed estetica, fino a quel punto supremo in cui, come disse il Boeckh, "l'artista critico, interamente penetrato dallo spirito dello scrittore, conoscendone perfettamente la maniera e il fine, provvisto della conoscenza delle circostanze storiche, produce in un istante il vero". La metodica e la fenomenologia di questo momento della percezione, della costituzione dell'oggetto, della lettura, sono di volta in volta più o meno complesse e - come s'è detto - si sono straordinariamente arricchite nel corso degli ultimi cento anni, dal Lachmann in poi; ma il loro significato essenziale si riduce a questo: a rendere possibile e sicuro l'atto del leggere, a rivivere l'originale con lo stesso animo del suo autore.

Leggere è intendere, ma non si può intendere senza criticare, non solo nel senso di critica testuale, ma in quello più vasto di "tendere a un'intelligenza assoluta" (F. Schlegel). Qui sorge quel che diciamo la storia: storia della lingua, della letteratura e dell'arte; della filosofia e del pensiero scientifico; dell'economia, delle istituzioni, dell'etica, della religione. Alla base di ogni giudizio storico sta l'atto della percezione o della lettura, in cui si esaurisce la filologia formale: ma esso è poi qualcosa di più complesso, in quanto che quel contenuto che nella lettura pareva immediato in esso diviene mediato. Ora non si legge più una tragedia di Eschilo con perfetto abbandono, ma si pensa quella tragedia nella storia della letteratura e della lingua, delle credenze etiche e religiose, dell'ambiente sociale e politico della Grecia e di Atene. E qui sul critico formale, sull'intenditore della bellezza, nasce il lettore che vuol rendersi conto del significato dell'arte di quel poeta nella storia del pensiero e della civiltà, e per rendersene conto deve elaborare dei concetti intorno a quel che è lingua, arte, scienza, religione, costume, morale: essere o farsi, insomma, filosofo. In questo atto del giudicare, dell'intendere criticamente, consiste infatti quell'unione della filologia con la filosofia che, affermata dal Vico, è una conquista non più andata perduta nel mondo moderno.

L'affermazione dei diritti del momento della filologia formale, della critica in senso stretto; l'altra che filologia è storia, comprensione totale e assoluta del passato; che non c'è filosofia che non sia storia e non c'è storia che non sia giudizio, vale a dire pensiero, sono i momenti fondamentali della storia della filologia moderna, a fissare i quali hanno variamente contribuito, facendo ognuno valere per la sua parte esigenze legittime, Vico e Wolf, J. Grimm e Lachmann, Hermann e Boeckh, Hegel e Ranke, Schleiermachei e F. Schlegel, Humboldt e Croce. La credenza romantica nello "spirito dei popoli" è superata, e superata egualmente è la forma polistorica, nonché il pregiudizio positivistico della separazione delle discipline. Gli studiosi moderni sanno che non esiste il genere, ma, sempre, l'individuo (l'individuo visto non atomisticamente, ma come microcosmo che ha in sé, per chi sa vederlo, il cosmo); che non ci sono discipline, ma problemi; che infine non c'è altro mondo al di fuori del mondo storico, alla cui comprensione tende la filologia.

Bibl.: Oltre agli scritti degli autori ricordati, la letteratura a loro relativa, gli studî metodici - fra i quali merita di essere particolarmente ricordato quello di H. Paul nel suo Grundriss der germanischen Philologie, I (Strasburgo 1891), pp. 1-8, 152-237 - e le storie dei varî rami della filologia citate più sotto, v.: C. Dentice di Accadia, Filologia e storia della filologia nel pensiero di A. Bernardini, in Critica, XX (1922), pp. 308-20; 259-78; B. Croce, La filosofia di G. B. Vico, Bari 1911; K. Borries, Die Romantik und die Geschichte, Berlino 1925; V. Santoli, Filologia, storia e filosofia nel pensiero di F. Schlegel, in Civiltà Moderna, II (1930), pp. 117-39; J. Wach, Das Verstehen. Grundzüge einer Geschichte der hermen. theorie im 19. Jahrhundert, I: Die grossen Systeme, Tubinga 1926 ( precursori dello Schleiermachr, e poi l'Ast, il Wolf, lo Schleiermacher, il Boeckh, il Humboldt); E. Rothacker, Einleitung in die Geisteswissenschaften, 2ª ediz., Tubinga 1930; G. Pasquali, Filologia e storia, Firenze 1920; B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 3ª ed., Bari 1927; id., Nuovi saggi di estetica, 2ª ed., Bari 1926.

Filologia classica.

Col nome di filologia si designa generalmente in antico la varia e molteplice dottrina: così da Isocrate e da Aristotele fino a Marziano Capella; in tal senso si dissero filologi ad Alessandria Eratostene di Cirene (sec. III a. C.), a Roma Ateio Pretestato (sec. I a. C.). Quale determinazione di disciplina speciale, "filologia" non sembra esistere già fra Greci e Romani, che parlano invece di γραμματική e di grammatica o più raramente di κριτική e di critici. Avviamenti a essa si trovano già nelle antiche scuole di Grecia: si collegano con l'interpretazione dei poeti, massime di Omero, e hanno per lo più carattere glossografico; esegesi dunque di parole oscure. Ma presto con i filosofi all'esegesi linguistica si aggiunge l'allegorica e quella etica, e si pone anche il problema del linguaggio, se questo sia un prodotto "di natura", ϕύσει (Eraclito) o "di convenzione", νόμω, ϑέσει, συνϑήκη (Eleatici e Atomisti). L'etimologia antica ha qui i suoi principî; Eraclito e gli altri pensatori la mettono a servizio della filosofia, come già Ecateo della storia. Più ancora importano i sofisti. Nella codificazione di regole linguistiche l'iniziatore è Protagora, il quale distingue i tre generi del nome; segnala varî modi del dire, fra cui il comando, la preghiera, la domanda, la risposta, dove in rudimento è la determinazione grammaticale della proposizione imperativa, ottativa, interrogativa e affermativa; medita sull'anomalia di certe flessioni verbali. Con Prodico di Ceo sono i primordî della sinonimica, con Ippia della fonetica nella valutazione delle lettere e delle sillabe, e questi poi partecipa alla critica letteraria, oramai in voga nel dramma attico. In Erodoto si riflettono ampiamente gli svariati interessi, che porteranno alla "grammatica", esistenti nella Grecia del sec. V, e particolarmente i dialettologici, gli etimologici, gli storico-letterarî, gli omerici (H. Diels, in Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, 1910, p. 1 segg.). Platone poi approfondisce lo sguardo nella natura della poesia; tratta di critica estetica; tocca l'esegesi; conosce i termini di due parti del discorso, ὄνομα (nomen) e ῥῆμα (verbum), se pure in lui termini dialettici, non grammaticali; affronta questioni basilari per il linguaggio nel Cratilo. Con Aristotele è una svolta definitiva: l'analisi, fondamento d'ogni scienza, nasce per opera sua e della sua scuola. Tutti i germi della "grammatica" qua e là inorganicamente sbocciati vengono qui a fiorire: con alti intendimenti filosofici, non ancora filologici e grammaticali, egli, superando le vecchie posizioni (v. critica), riprende il problema della poesia e la definisce una "imitazione drammatica della vita", scorge cioè nel dramma la sua forma più completa, e per la ricostruzione storica del dramma ateniese raccoglie nelle Didascalie materiali d'archivio di sostanziale importanza; discute dell'elemento "arte" nell'eloquenza e nella prosa; addita ai suoi allievi per oggetto di studio la storia della cultura; appunta lo sguardo nella lingua, e rileva come parti dell'elocuzione in genere la lettera, la sillaba, il collegamento (σύνδεσμος), il nome, il verbo, la flessione, la proposizione (λόγος), dove sono già tre "parti del discorso", se pur tutte di lata comprensione, e cioè nome e verbo, i due elementi del dire ch'egli chiama "significativi", rispettivamente senza e con l'idea di tempo, e αυνδεσμοι o elementi "senza significato" quelli che non sono né nome né verbo; l'ulteriore suddistinzione fra συνδεσμοι e ἄρϑρα sembra doversi ai peripatetici. Con Aristotele si esaurisce l'alta creazione dei Greci; i suoi successori sono più letterati e grammatici che filosofi; più che di speculazioni teoretiche, si occupano di fenomeni letterarî e linguistici, o di poeti: un sapere nutrito di erudizione a tinta filosofica, un sapere filosofico e scientifico insieme. Siamo alle soglie dell'età ellenistica o alessandrina: un passo più innanzi, e filosofia e scienza prenderanno forma autonoma, e nascerà la "grammatica". Intanto però con i peripatetici si fissa il concetto di "genere letterario", e insieme quello dello "stile" che di ciascun genere è proprio; si stabilisce per la poesia drammatica e, in rettorica, per la prosa, la dottrina dei "tre stili", il nobile, il medio, il tenue; la poetica dalla ricerca filosofica dell'idea di poesia passa a essere un manuale di precettistica distinto in classifiche e in categorie (contenuto ed elocuzione, ecc.); si fanno indagini di storia letteraria e su singoli scrittori, con special riguardo all'elemento personale, donde la ricca letteratura peripatetica περὶ δεῖνος (de aliquo); si scrivono vite (v. biografia); per reazione contro la cultura ateniese si tornano a studiare forme d'arte e di poesia preattiche, il che porta a necessità di analisi filologiche e quindi verso la filologia. La quale, mentre muove dunque da Aristotele e dai peripatetici, come disciplina a sé stante non sorge che nel sec. III a. C., quando, illanguidendo il genio creativo, la produzione letteraria sta dinnanzi e apparisce come qualcosa di compiuto, e si sente il bisogno di riguadagnarla alla scienza e alla piena intelligenza. Culla della filologia greca è Alessandria; altro centro, Pergamo: condizione indispensabile al suo nascere la fondazione sistematica di vaste biblioteche, quali appunto l'alessandrina dei Tolomei e la pergamena degli Attalidi. Titolo di γραμματικός, non più naturalmente nel semplice senso classico di chi sa leggere γράμματα, ma di letterato, si appropriò già Prassifane di Rodi, allievo di Teofrasto, e, pare, anche Ermocrate Iasio, entrambi maestri a Callimaco e già studiosi di tipo alessandrino. I grandi nomi però della nuova scienza sono quelli dei bibliotecarî d'Alessandria, da Zenodoto di Efeso ad Aristarco, che vanno dal principio del sec. III alla metà circa del II a. C. Si trattava innanzi tutto di ricostituire i testi letterarî nella maggior possibile sincerità, togliendo via le numerose alterazioni dei secoli; ciò importava di mettere a fondamento il materiale manoscritto che si aveva a disposizione, e di addentrarsi poi nei caratteri linguistici e stilistici, e nel contenuto dei testi stessi. Insomma: critica ed esegesi. Zenodoto di Efeso, filologo e poeta, come il suo maestro Fileta e come i primissimi bibliotecari di Alessandria, inaugura codesto lavoro d'incalcolabile portata storica, per Omero e l'epica, forse anche per Pindaro e Anacreonte. Callimaco (v.), il poeta e filologo per eccellenza, imbevuto di spiriti peripatetici, in vasti Quadri (Πίνακες) passa in rassegna poeti e prosatori con le loro opere: primo grande repertorio letterario, che poté sorgere solo a catalogo fatto delle biblioteche d'Alessandria. E mitologia, arte, storia, geografia sono oggetto di sue investigazioni in distinte monografie; la glossografia nelle Εϑικαί ὀνομασίαι. Dopo Callimaco, e poi Apollonio Rodio (v.) ed Eratostene (v.), la filologia culmina in Aristofane (v.), discepolo di Zenodoto, e nel suo allievo Aristarca (v.), coi quali fioriscono su larga scala e si perfezionano metodicamente le edizioni critiche dei poeti e ad esse van di pari passo lavori esegetici o commenti di accurata illustrazione verbale - non più soltanto glossografica - e prosodica, ortografica, metrica, reale, storica, mitologica, biografica, didascalico-pinacografica, estetica: in margine a codesta attività nascono la lessicografia e il canone degli scrittori più eminenti nei varî generi letterarî (v. aristofane), nonché il principio linguistico dell'analogia, o regolarità di flessione, e la determinazione definitiva delle otto "parti del discorso" (v. aristarco), quella che i Romani accoglieranno per intero sostituendo all'articolo l'interiezione. Ma sul terreno della lingua e terminologia grammaticale molto si deve, prima che ad Aristarco, agli stoici, con alla testa Crisippo (sec. III a. C.), onde ai filologi non restò che prendere o, in qualche punto, sviluppare; né mancò tuttavia il contraddire, per es. sulla norma del parlare (v. grammatica), o sul sistema etimologico, costruito per la prima volta da Crisippo e seguaci, e, pare dai grammatici d'Alessandria, combattuto come "non arte e inutile" (Varrone, De lingua latina, VII, 109); ed era in realtà una serie di leggi capricciose, dove il valore fonetico della parola non entrava per nulla. L'efficacia degli stoici fu notevolissima sulla scuola filologica di Pergamo, massime sul suo principale rappresentante, Cratete di Mallo, il quale ebbe di là una visione filosoficamente e storicamente più vasta degli alessandrini, che varcava di assai l'esegesi degli scrittori - egli si diceva "critico" e, non "grammatico" - ma ne ebbe altresì inficiata la sua concezione critica da deviazioni quali il moralismo e l'allegorismo (v. cratete). Già con gli allievi migliori di Aristarco la scuola alessandrina e la pergamena si vanno conciliando; e Apollodoro di Atene compone opere etimologiche e una geografia della Grecia antica, che sorpassa l'interesse della parola omerica nel canto del Catalogo delle navi, con punti di riallaccio alla Periegesi della Troade del pergameno Demetrio di Scepsi. E sotto l'influsso dello stoicismo un altro scolaro di Aristarco, Dionisio Trace (v.), crea il primo sistema grammaticale e la prima grammatica greca per la scuola, dove però meno sull'orientazione generale che su elementi particolari della scienza si tradisce l'opera stoica e pergamena. La grammatim è definita come "conoscenza" di ciò che si dice ὡς ἐπὶ πολύ (ex parte maiore, Varrone; v. Sext. Emp., Adv. gramm., 76 segg.) da poeti e prosatori, cioè critica ed esegesi letteraria, e tale definizione, che è l'alessandrina, continua poi a valere, nonostante le molteplici variazioni, per tutta l'antichità. Le parti di essa sono sei, di cui solo i nn. 1 (arte del leggere), 4 (etimologia) e 5 (analogia) significano grammatica nel senso moderno; le altre, dall'esegesi dei testi nelle immagini poetiche (2), nelle glosse e nel contenuto (3), assurgono alla "più bella", l'altra critica (6), l'iudicium dei Latini. Poco dopo, nel sec. I a. C., Asclepiade di Mirlea, un filologo stoicizzante, partendo da una definizione della disciplina simile a quella di Dionisio, ne riduce a tre le parti e sintetizza nella 1. la tecnica del linguaggio, colloca al n. 2 la parie storica, al n. 3 la critica e l'esegesi, e a questa subordina le altre. Una terza, quadruplice divisione della "grammatica", che torna spesso nella tarda letteratura greca, si deve forse a Tirannione il Vecchio (sec. I a. C.), e allora precederà nel tempo quella di Asclepiade, e comunque è già nota a Varrone; per essa la "grammatica" consta nell'attività di queste operazioni, lectio, emendatio (critica del testo), enarratio (esegesi) e iudicium (estetica), ed esige cognizioni glossematiche o del tesoro linguistico, storiche o di tutto quanto concerne la ἰστορία, metriche, tecniche o di stretta grammatica. L'unione delle quattro funzioni con i quattro organi del sapere abbraccia il contenuto intero della grammatica antica. La quarta partizione a noi conosciuta, quella usuale tra i Romani, apparisce in Quintiliano (I, 4, 2; 9, 1), ed è duplice: ratio loquendi o recte loquendi scientia (methodice, più tardi anche horistice) e poetarum enarratio (historice, più tardi exegetice). Quale che sia la sua origine, Varrone di sicuro non la ignorò. Al principio del Medioevo (Isidoro, Etymologiae, I, 2, 1; II, 1, 2; Anecdota Helvetica, XXXIII) "grammatica" si restringerà in ultimo al significato poi sempre rimasto.

In Roma gl'impulsi alla filologia furono portati nel sec. II a. C. dai Greci: anche dallo stoico Panezio, ma specialmente da Cratete di Mallo e dai numerosi dotti che con l'eclissarsi di Alessandria là affluirono. L'impronta stoico-pergamena predomina da principio sull'alessandrina (Lucilio, Accio, uditori di Cratete). Il primo filologo d'importanza, L. Elio Stilone (sec. II-I a. C.), mostra chiare tendenze stoiche nel campo linguistico, dove il pensiero stoico resta più visibile che in altri rami anche nella Roma posteriore, per es. in quella grammatica scolastica che variamente redatta si trasmise di generazione in generazione, e che faceva capo senza dubbio all'Ars grammatica varroniana. Stilone edifica in ogni campo della filologia: è linguista, esegeta della parola e della cosa, indagatore di elementi personali-stilistici, di autenticità delle opere letterarie (Plauto); è uno schietto romano che lavora con spiriti nazionali servendosi di metodi greci. Varrone, allievo di Stilone, porta negli studî la sua anima di patriotta e, abbracciando nell'indagine l'interezza di Roma antica, rompe l'unilateralità formale e letteraria che pur c'era stata nella filologia: grandi biblioteche private ci sono a Roma al suo tempo, e sorge anche la prima biblioteca pubblica, che si adorna - fatto significativo - dell'immagine di lui, unico fra i viventi. Tra i due indirizzi opposti, lo stoico-pergameno e l'alessandrino, egli mira a sciogliere la controversia per transazione. Contemporanea va una fioritura di studiosi (Ateio Pretestato, Cesare, Nigidio Figulo, Santra, ecc., e poi Verrio Flacco, Giulio Igino, ecc.): anche greci (i citati Tirannione e Asclepiade; Filosseno, che afferrando il concetto della radice monosillabica delle parole mette l'etimologia su fondamenta nuove; il poligrafo Didimo Calcentero, Trifone, che primo si segnala nella sintassi). Costruttore sistematico e in grande di un'Ars grammatica romana è nel sec. I d. C. Remmio Palemone, il maestro di Quintiliano; quindi segue l'era, per eccellenza, della critica del testo con Valerio Probo e dell'esegesi con Asconio Pediano, ecc.; anche l'indagine erudita, per es. di Svetonio, merita menzione. Intanto, il classicismo vittorioso, mentre dà vita in Grecia al vero saggio critico, d'altro canto assottiglia il compito del grammatico riducendolo all'insegnamento pratico della lingua scritta e letteraria; donde il pullulare di lessici classicistici e di grammatiche basate su sempre più limitati modelli, le quali perciò cominciano a ripetersi tra loro. In breve volgere di tempo la pura compilazione trionfa. Belle eccezioni, Apollonio Discolo (sec. II d. C.) e suo figlio Erodiano; pur questi, severo classicista. Di lì a poco la comunanza fra mondo greco e latino si dissolve, e ogni spirito creatore vien meno. Siano ancora rammentati Cassio Longino e Porfirio di Tiro del sec. III, ed Elio Donato (sec. IV), Servio (secolo IV-V), Macrobio e Capella (sec. V), Prisciano (secolo V-VI). Sotto il riguardo filologico merito precipuo di tal periodo, che sbocca nel bizantinismo e nel Medioevo, è di averci trasmesso o per trascrizioni dirette o per via di estratti o di rifacimenti o di enciclopedie i prodotti antichi. Dei raccoglitori e studiosi bizantini siano ricordati Esichio (sec. VI), Fozio (sec. IX), Areta (sec. X), Costantino VII Porfirogenito (sec. X), Suida (sec. X-XI), Tzetze (sec. XI), Eustazio (sec. XII), Massimo Planude (sec. XIII), Manuele Mascopulo (sec. XIV), Demetrio Triclinio (sec. XIV). In Occidente la via maestra di codesta operosità parte dalla fine del sec. IV, allorché si fissano in corrette edizioni pergamenacee i testi letterarî, e il papiro scompare dal commercio. Con Cassiodoro (sec. VI), l'eredità del passato si tramanda ai conventi; ed ecco le scuole iriche (sec. VI-VII), le anglosassoni (sec. VII-VIII), le carolingie (sec. IX-X), la cassinese (sec. XI): S. Colombano, S. Gallo, Aldelmo, Beda, Alcuino, Rabano Mauro, Servato Lupo, Desiderio Abate. Dai monasteri medievali andranno gli umanisti a tirar fuori i codici classici.

In Europa, a contrasto con la tradizione di continuità culturale mantenutasi nel Medioevo a Bisanzio, e appunto perciò con anche maggior freschezza e consapevolezza, col sec. XIV-XV è un ridestarsi di energie latenti nell'arte, nel pensiero (dominio di Aristotele, tradotto in latino per lo più da versioni arabe), nella creazione di un dotto strumento linguistico di sapore suo, il latino scolastico. All'antico si torna direttamente, da principio, col diritto a Bologna e con la medicina a Salerno; poi, in Italia, si fa strada altresì una reintegrata intelligenza artistica dei classici, che immette nell'Umanesimo e nella filologia, per quanto per molto tempo (anche nel sec. XV) si debba parlare, più che di filologia, di cultura classica. Fra il sec. XIII e il XIV si allargano a Verona le conoscenze dei Latini coi primi scopritori di codici. Il Petrarca rintraccia testi, legge ampiamente e con senso del bello, rivede gli scrittori non più come ombre o figure ravvolte in veli allegorici, ma come esseri viventi, eleva Cicerone accanto a Virgilio, l'eloquenza accanto alla poesia, rifà di spiriti e di forme la poesia e la prosa latina, intravede attraverso i Latini Platone, s'appassiona per Omero e per il greco. A Firenze la generazione immediatamente più giovane del Petrarca e del Boccaccio è tutta sulle loro orme: si raccolgono manoscritti, si trascrive, si emenda, si studia, si guarda all'antico per costruire un mondo nuovo. Dal 1360 al 1363 aveva insegnato greco allo Studio fiorentino Leonzio Pilato, ma alla fine del sec. XIV v'insegna un maestro ben altrimenti dotto, Manuele Crisolora. Con lui, il greco è riguadagnato all'Italia: suoi allievi sono, fra gli altri, Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini e probabilmente Ambrogio Traversari, che per via di ampie versioni dischiudono all'Umanesimo molto della poesia e della prosa greca. Più innanzi andrà di lì a poco Guarino, che apprende il greco a Costantinopoli, maestro pur là il Crisolora, e insegna a Firenze, a Verona, a Ferrara. A Ferrara e a Firenze sarà professore di greco anche Giorgio Gemisto Pletone. Così gli amatori dell'antico si mettono a rintracciare sistematicamente i testi di entrambe le letterature classiche: della greca in oriente, prima che avvenga la rovina con i Turchi, della latina nei monasteri più importanti d'Europa. Ricercatore e rintracciatore per eccellenza, Poggio Bracciolini; accanto a lui, Giovanni Aurispa e Francesco Filelfo segnatamente per i testi greci, e poi Ambrogio Traversari, Niccolò Cusano, Enoch d'Ascoli, A. Poliziano, G. Merula, G. Galbiate, A.G. Parrasio; grandi raccoglitori, Niccolò Niccoli, il Bessarione, papa Nicolò V, Lorenzo il Magnifico. Né molto s'è aggiunto dipoi di primaria importanza (Fedro nel 1596, la Cena di Trimalcione di Petronio nel 1650), se si eccettuano i palimpsesti quasi solo latini (De republica di Cicerone, Historiae di Sallustio, Gaio, ecc.) e i papiri greci dell'Egitto. Centro capitale di diffusione delle scoperte umanistiche, l'officina di Vespasiano da Bisticci a Firenze; ma trascrizioni si fecero largamente in Italia, finché la stampa ci diede le editiones principes a Venezia, a Firenze, a Roma - celebri le aldine e le giuntine -, basate spesso su codici autorevolissimi, in qualche caso perdutisi in seguito, e contenenti emendazioni, non di rado vere divinazioni dovute al fine intuito degli umanisti. Anche Basilea, Strasburgo, Lione occupano il loro posto in quest'epoca di divulgazione, che va dal 1465 alla metà del sec. XVI. Giannozzo Manetti arriva ad essere anche orientalista e a farsi benemerito degli studî biblici.

Dopo tentativi meritorî del Petrarca, di C. Salutati, di L. Bruni e di altri, la critica s'inizia risolutamente con Lorenzo Valla: ed è critica storica, letteraria, linguistica, filosofica. Con l'Accademia Platonica Fiorentina, sotto l'influsso di Gemisto Pletone, duce Marsilio Ficino, risplende il pensiero di Platone e del neoplatonismo. Filologo vero e insigne è A. Poliziano: sicuro conoscitore e celebrato maestro di greco e di latino, tratta con dottrina pari alla sagacia e alla finezza i problemi letterarî, delinea una specie di storia della letteratura nelle Silvae, dove esalta Omero accanto a Virgilio, indica il metodo dell'esegesi e della critica testuale nella Miscellanea e nell'edizione italiana delle Pandette. I frutti più maturi della filologia italiana si hanno nel sec. XVI con Pier Vettori, autentico maestro di critica di testi, e più greci che latini, esegeta di vaglia, con Paolo Manuzio, con altri. E con la scoperta della Poetica di Aristotele ferve la critica letteraria. Idee direttrici ed esempî sono dati in tal guisa alla filologia: la quale dall'Italia si allarga nell'Europa, e si evolve e acquista via via maggior coscienza di sé e dei proprî metodi. Erasmo di Rotterdam (secolo XV-XVI) è il primo nome europeo dell'Umanesimo nordico: contemporaneamente a lui, si segnalano G. Budé in Francia, G. Reuchlin, F. Melantone, G. Camerario in Germania. Per forza di tradizioni proprie e per contatti più intimi con l'Italia, la Francia precede le altre nazioni nell'accogliere su vasta scala e spiriti classici e metodo filologico. Un Italiano d'origine, di Riva del Garda, Giulio Cesare Scaligero, trapiantato in Francia, codifica per secoli la poetica sulla base dei modelli latini, a cui in genere, come più sentiti, salvo casi particolari, l'Umanesimo italiano aveva dato di gran lunga la preferenza sui greci. Il figlio di Giulio Cesare, Giuseppe Giusto, è il più forte filologo francese, uno dei maggiori che siano esistiti: uomo dallo sguardo ampio e profondo, esperto orientalista, valido grecista, primo a concepire storicamente il latino, egli è un lanciatore d'idee e un organizzatore, crea la scienza cronologica ed epigrafica: meno insigne l'opera sua di editore e d'interprete della poesia. Nella lessicografia producono opere fondamentali, in questa età, Roberto ed Enrico Estienne coi due Thesauri, il latino e il greco; nel diritto romano G. Cuiacio; nella critica e nell'interpretazione degli autori A. Turnebo, D. Lambino, M. A. Mureto e innanzi a tutti I. Casaubono, che svolge magistralmente anche un capitolo di storia letteraria sulla satira. C. Salmasio continua nel sec. XVII il doppio interesse, critico ed erudito, dell'indirizzo francese; S. Le Nain de Tillemont inizia la storia scientifica dell'impero romano e della Chiesa; Ch. Du Cange ci dà i due glossarî sulla media e infima latinità e grecità. In Italia R. Fabretti va perfezionando dopo lo Scaligero una tradizione già nata con l'Umanesimo (Poggio e Ciriaco d'Ancona): l'epigrafica.

Fuggiti di Francia a causa delle lotte politiche e religiose lo Scaligero, il Casaubono e il Salmasio, la fiaccola degli studî passa prima in Olanda e poi in Inghilterra. In Francia, come in Italia, va diminuendo la conoscenza del greco; restano tuttavia fini estimatori di cose latine fra i letterati. Da ricordarsi i gesuiti del Collegio Romano che fino dalla sua fondazione (1551) con le opere grammaticali di A. Frusio e di O. Torsellini, poi con altri libri, promuovono in Italia e fuori lo studio del latino. Nella penisola iberica poi i gesuiti E. Álvarez e J. L. de la Cerda, acquistano fama l'uno con la grammatica, l'altro col dizionario del Calepino corretto e aumentato, e col commento delle opere virgiliane. L'Olanda, la patria di Erasmo e di Giusto Lipsio, nel secolo XVII tiene il campo con due allievi dello Scaligero, con Daniele Heinsius e più con Ugo Grozio, spirito multanime, sebbene prevalentemente giurista: con Gerardo Giov. Vossio, il raccoglitore dei manoscritti di Leida, poliistore, indagatore specialmente della storiografia antica; coi due Gronovi, padre e figlio, essi di origine tedesca; con Nicola Heinsius, figlio di Daniele, col Grevio, ancora tedesco: i quali tutti si resero benemeriti per i singoli classici, quasi sempre latini, o per ricche raccolte di materiali. G. Perizonio va ricordato a sé, come iniziatore della critica sulla storia romana antica. Perché, per il resto, la filologia olandese di questo secolo si segnala più assai per quantità che per qualità di lavoro.

L'anima dello Scaligero e della migliore tradizione italiana e francese rinasce solo nell'Inghilterra pacificata nel sec. XVIII, un paese che già da tempo aveva assorbito le correnti umanistiche: rinasce a Cambridge, con Riccardo Bentley, direttore dal 1700 del Trinity College. Egli è un critico per eccellenza, della grecità come della romanità, alla Scaligero, né gli faremo carico se, prodigo di scoperte (falsificazioni letterarie, digamma omerico, metrica) e di visioni nuove in molti campi della storia delle lingue, delle letterature e delle antichità classiche, sia incorso, sotto l'influsso del pensiero critico e filosofico del suo tempo, in errori che si perpetuarono lungamente, come nell'applicazione di un severo rigorismo logico alla poesia (Orazio). Il Bentley ha ridato agli studî filologici una vita interiore, alla quale con l'Inghilterra (R. Porson, R. Wood) partecipa specialmente l'Olanda del sec. XVIII (T. Hemsterhusius, L. M. Valckenaer, D. Ruhnken, D. A. Wyttenbach). La Francia in questo periodo crea la paleografia con G.Mabillon e B. Montfaucon, l'archeologia col Montfaucon. L'Italia dà un forte impulso alla lessicografia con I. Facciolati, G. Lagomarsini ed E. Forcellini, alla storiografia con L. A. Muratori, alla paleografia con Scipione Maffei, alla topografia romana o italica con F. Bianchini, con G. B. Piranesi, con A. Gori, con gli antiquarî napoletani. Solitario sta G. B. Vico, sulle altezze del suo pensiero, che rompe îl distacco tra filologia e filosofia, rendendo così possibile l'intelligenza dei fatti umani e la concezione storica. Questa è una delle linfe più native, che non direttamente dal Vico, ma da Giov. G. Herder e insieme dal movimento, che tra il sec. XVIII e XIX fa capo in Germania a G. G. Winckelmann, a G. E. Lessing, al Goethe, allo Schiller, al Humboldt, agli Schlegel, al romanticismo, al pensiero kantiano e hegeliano, viene alla filologia: la quale abbraccia ormai l'interezza della vita antica, dal fatto individuale all'anonimo d'un popolo, e ha di essa una comprensione critica, organica e storica.

La Germania dal Publicio, da Enea Silvio Piccolomini, da Antonio Campano, da R. Agricola in poi si era venuta evolvendo, aveva accolto a sé e fornito ad altri paesi maestri di cose antiche; e nel sec. XVIII vantava uomini di scienza quali G. A. Fabricius, l'autore della Bibliotheca greca e latina, G. M. Gesner, il riformatore dell'insegnamento classico, il grecista G. G. Reiske, il numismatico G. Eckhel, il multiforme animatore di giovani Cristiano G. Heyne, maestro in Gottinga già secondo le vedute del Winckelmann, fino a G. E. Voss, a F. A. Wolf, ai Humboldt, agli Schlegel. Lo Sturm und Drang, il Romanticismo, la critica storica, compenetrano dei loro spiriti la nuova filologia intesa come scienza dell'antichità, di cui già dal 1783 a Halle si era fatto araldo dalla cattedra il Wolf; ed ecco sorgere, o risorgere con altra vitalità, la storia letteraria, la scienza linguistica e metrica, la critica del testo, la paleografia e diplomatica, l'esegesi, la grammatica comparata, la storia della cultura, la storiografia, l'epigrafia, l'archeologia, la mitologia, la storia del pensiero filosofico, la romanistica, ecc. Maestri principali, dopo i ricordati, G. Hermann, A. Boeckh, F. Schleiermacher, B. G. Niebuhr, F. Bopp, F. C. Savigny, F. G. Welcker, I. Bekker, E. Gerhard, K. O. Müller, K. Lachmann, e poi una legione, F. Nietzsche, F. Ritschl e la sua scuola, i due Curtius, Th. Mommsen, E. Zeller, E. Rohde fino a U. v. Wilamowitz-Moellendorf.

Di questa universalizzata visione dell'antico, che costituisce una netta reazione contro il vecchio classicismo prevalentemente basato sulla latinità, di questa filologia a largo respiro storico anziché a carattere umanistico, indirizzi e metodo furono naturalmente diversi, e non così rapido lo sviluppo, né senza contrasti di scuole. Al fondo di essa emerge l'entusiasmo per i prodotti del genio greco, e più per Omero e gli Attici, ma nella considerazione scientifica entra tutta quanta la vita ellenica, e l'antica in genere, dalle origini fino al Medioevo, con una fresca energia d'indagine costruttiva, da cui son venute fuori ricche e squisite conoscenze. A togliere dal loro isolamento e Greci e Romani, a ricollocarli nella vastità dello svolgimento storico, fu F. Bopp col metodo comparato, un metodo che a cominciare dalla scienza linguistica a poco a poco trovò sempre maggiore applicazione, pur attraverso gli urti di due correnti delineatesi fin da principio in siffatto rinnovarsi di cose. Giacché, da una parte G. Hermann si riallaccia alla miglior filologia del passato, e collocando la letteratura innanzi a ogni altra manifestazione dello spirito vede gli scopi veri della scienza filologica nella retta interpretazione degli scrittori; dall'altra A. Boeckh rompe qualsiasi unilateralità, edifica e organizza nel multiforme campo della vita ellenica, filosofia e religione, cronologia, metrologia, economia, epigrafia, arte, anche naturalmente letteratura (Pindaro e Platone). Salutari entrambe le scuole: donde derivavano e l'estrema vigilanza critica fino alla consapevolezza che "vi è pur un'arte e una scienza del non sapere", e la vastità degli orizzonti nella ricostruzione degli elementi che determinarono la vita antica e le sue espressioni artistiche. Il contrasto fra i due indirizzi doveva presto attenuarsi, e poi quasi sparire nel silenzio, data la sanità sostanziale dei loro principî e dei loro metodi, salvo, s'intende, a esplicare ciascuno studioso la propria attività più in questo o in quel senso a seconda delle particolari attitudini. Lipsia e Berlino sono, con Hermann e Boeckh, i centri d'irradiazione del movimento; a fianco del Boeckh a Berlino insegna più d'uno dei corifei già nominati, i quali con lui aprirono le vie. A Bonn gl'iniziatori sono F. G. Welcker e G. B. Niebuhr; a Gottinga di nuovo il Welcker e K. O. Mueller: con che si dice tragedia ed epopea greca, storia romana, archeologia, mitologia, poesia greca, etruscologia. K. Lachmann, restauratore per eccellenza di testi, sorpassa in questo campo per sicurezza di metodo I. Bekker, il primo editore di lena, e si rivolge anche, finalmente, e di preferenza, al latino; accanto, tratta importanti problemi storico-letterarî (questione omerica, Nibelunghi). Attraverso il Lachmann gli spiriti di Hermann si trasmettono specialmente a F. Ritschl, suo allievo, e a F. Bücheler, allievo del Ritschl, che illustrano il latino arcaico: il Bücheler, con Th. Mommsen, con l'indianista T. Aufrecht e con A.Kirchhoff anche i dialetti italici. Intermediario in prima linea fra gl'indirizzi di Hermann e Boeckh è O. Jahn, di entrambi discepolo, che addita definitivamente la norma per interpretare i monumenti figurati coi letterarî e nella filologia di tipo hermanniano dà il suo peso a ciò che davvero importa, sbarazzandosi dell'accessorio o inutile. Storia e scavi archeologici greci si riconnettono col nome di E. Curtius, un allievo del Boeckh, del Welcker e del Mueller; e G. Curtius associa la linguistica alla filologia, e di quella si vale per l'etimologia e la morfologia greca. Al di fuori d'ogni restrizione di scuola sta Th. Mommsen, un giurista di educazione, che con l'universalità del suo ingegno domina in piccolo e in grande la romanità tutta quanta, né è estraneo alla grecità, e giganteggia dal 1850 in poi; benché lontano e indipendente da lui, maestro delle seguenti generazioni per la storia greca è Giulio Beloch, e per la storia tutta dell'antichità, Eduardo Meyer. Manchevolezze, lacune, deviazioni ci furono, naturalmente, in questo movimento. Angusto criterio logico a valutare opere d'arte o il problema del linguaggio, onde le deformazioni per es. dei testi letterarî o l'incomprensione di varî fenomeni linguistici; criterio in assoluta preponderanza grammaticale e materiale nell'esegesi dei poeti e prosatori; frequente sopravvalutazione dei problemi esteriori a scapito degl'interiori, per cui solo pochi mirarono e riuscirono ad afferrare nel mondo antico, insieme alle idee, vive fisionomie di personaggi. E soprattutto: romanticamente idoleggiata la grecità, e la latinità, se non come scienza, come poesia e arte in seconda linea; quindi eccessi ed eccentricità di giudizî, frutto di preconcetti, che preclusero l'intelligenza dei migliori ingegni di Roma, primissimi Cicerone e Virgilio, anzi, in molti, della sua stessa cultura e civiltà; e la critica, in genere, si acuì spesso in ipercritica: correnti che si riverberarono in tutta l'Europa civile, del pari che nella sopraggiunta America. Belle figure di studiosi ebbero, accanto alla Germania, nel secolo scorso anche i paesi principali d'Europa. L'Italia conta dotti e critici, quali G. Garatoni, A. Mai, S. Centofanti, G. Leopardi, e al Leopardi si devono tra l'altro finissime intuizioni e osservazioni sulle lingue e le letterature dassiche con le loro individuali caratteristiche; la tradizione archeologica si perpetua e rifiorisce con E. Q. Visconti, C. Fea, L. Canina, ecc.; l'epigrafia vanta G. L. Marini e culmina in B. Borghesi, una salda tempra d'indagatore, maestro a Th. Mommsen. Francia e Inghilterra coltivano con singolare passione l'archeologia e gli scavi, che ci ridanno anche i papiri; la Francia pone poi le fondamenta dell'egittologia con G. F. Champollion, e ha letterati di vaglia (H. Weil, E. Littré, E. Egger, ecc.); l'Inghilterra a critici autorevoli (P. Elmsley, T. Gaisford, H. A. Munro, R. Jebb) aggiunge uno storico eminente della Grecia, G. Grote. La Danimarca dopo G. Zoëga, anima di ricercatore e di artista, in spirito e di fatto divenuto romano, appartenente esso però più al'700 che all'800, ha un latinista insigne in G. N. Madvig; l'Olanda uno stilista e critico, o piuttosto ipercritico, acuto in P. Hofmann-Peerlkamp e un valido ellenista in C. G. Cobet. Oggi è dovunque un fervore di rinnovamento. Il molto che di sano, e quello che pur di meno buono ci fu nella filologia, duce la Germania, diviene ogni giorno più chiaro alla coscienza critica nata dalle nuove condizioni spirituali, massime dopo la guerra mondiale. In Italia, riaffiatatasi la tradizione filologica con la straniera, dopo la riconseguita unità politica, parecchi rami della filologia ebbero subito, o quasi, i loro campioni: G. Ascoli, G. Flechia, I. Pezzi, G. F. Fumi la glottologia; D. Comparetti, G. Vitelli, E. Piccolomini, G. Fraccaroli, C. Giussani G. B. Gandino, ecc. la storia letteraria e la papirologia; A. Vannucci ed E. Pais la storiografia; C. Paoli la paleografia; G. Marchi, R. Garrucci, G. B. De Rossi, G. Fiorelli, L. Pigorini, P. Rosa, E. Brizio, E. De Ruggiero, F. Halbherr, R. Lanciani, L. A. Milani, ecc. l'archeologia, l'epigrafia le antichità - notevoli gli scavi in Italia e fuori (Creta) -; G. Marinelli la geografia antica, E. Schiaparelli l'egittologia, V. Scialoja, F. Serafini, C. Ferrini la romanistica, per tacere di altri. Equilibrio mentale, acutezza di ricerca storica, finezza di gusto caratterizzano codesta scuola italiana. Col sec. XX l'Italia primeggia nella storiografia e nella romanistica, si afferma gagliardamente altrove; in letteratura e arte, più curiosa com'è di uomini e di cose che di astrattezze, portata alla concretezza dell'osservazione personale, a ragionare più sui fatti che per categorie, molto ha contribuito, con la sua umana intelligenza, con l'aiuto del rigoglioso suo pensiero filosofico e critico, a ficcare lo sguardo più addentro nelle individualità stesse degli scrittori, a eliminare certe aberrazioni, a discoprire il valore intimo, originale, che ha la civiltà latina. La pura critica razionalistica e la storicistica, in cui era andata a finire parecchia della filologia europea del secolo scorso, va sempre più cedendo il terreno, in Italia e oltr'Alpe, ai diritti che spettano alla storia e all'arte.

Bibl.: J. E. Sandys, History of classical scholarship, Cambridge 1906-1908; U. v. Wilamowitz-Moellendorf, Geschichte der Philologie, Lipsia 1921; id., Reden und Vorträge, Berlino 1926, II, p. 111 segg.; O. Immisch, Wie studiert man klassische Philologie?, Stoccarda 1909, p. 18 segg.; W. Kroll, Geschichte der klassischen Philologie, Lipsia 1919, con la bibl. ivi citata; E. Drerup, Perioden der klass. Philol., Nimega-Utrecht 1931. Importanti anche H. Usener, Kleine Schriften, Lipsia 1913, II, p. 265 segg.; K. Barwick, Remmius Palaemon und die römische Ars grammatica, Lipsia 1922, p. 215 e passim. Per la poetica antica, A. Rostagni, Arte Poetica di Orazio, Torino 1930, p. IX segg. Per i nuovi indirizzi, id., in Rivista di filol. classica, n. s., V (1927), p. 1 segg.; VII (1929), p. 305 segg.; G. Funaioli, in Annuario Univ. Cattol., 1927-28, p. 27 segg.; C. Cessi, in Aevum, VI (1932), p. 32 segg.; A. Bernardini, in Riv. di fil. class., n. s., III (1925), p. 305 segg. Per la storia delle scoperte dei classici, fondamentale R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci nei secoli XIV, XV, Firenze 1905-1914; Storia e critica dei testi latini, Catania 1914.

Filologia germanica.

Come la civiltà germanica in generale, così anche la filologia germanica non ha avuto uno svolgimento coerente che a partire dall'Umanesimo e dalla Riforma, e, come la filologia in generale, essa non si è sollevata a studio rigorosamente scientifico, cioè storico, se non col sec. XIX, con J. Grimm e con K. Lachmann, vale a dire col sorgere della grammatica comparata, con la scoperta della regolarità dei mutamenti fonetici, con la critica testuale che muove innanzitutto dalla recensione, col senso della storia che fu una conquista del Romanticismo e della filosofia del secolo scorso.

La filologia comincia dovunque col muovere i suoi primi passi costituendo alfabeti, norme ortografiche e grammaticali, affidando alla scrittura testi, e poi raccogliendo testimonianze e documenti sulle antichità patrie. Norme ortografiche si cercò di stabilire alla corte di Carlomagno, un adattamento dell'alfabeto latino alla fonetica islandese si compì in Islanda nel sec. XII; nella stessa Islanda furono fissate, fra il sec. XII e il XIV, norme grammaticali, e, effetto della poesia scaldica, ebbe inizio una poetica; tracce di una critica letteraria si possono osservare presso lirici medio-tedeschi.

Nei secoli immediatamente successivi la consapevole tradizione del passato, non spenta in Islanda e in Inghilterra, s'interruppe quasi completamente in Germania. Per qualche secolo, la grande civiltà poetica medio-tedesca fu come se non fosse mai esistita; nessuno lesse più un verso dei Nibelunghi o una strofa di Walther; il Parzival di Wolfram - ristampato ancora il 1477 - cadde anch'esso in oblio. Bisognò così attendere il Cinquecento perché si prendesse a ricercare la vecchia storia patria. Tacito, scoperto nel Quattrocento, fu fonte di patrio orgoglio agli umanisti, che congiunsero lo studio dei classici all'amore per l'antichità germanica: Celtis, Peutinger, Pirkheimer; a indagini storico-antiquarie legarono il loro nome J. Turmair (Aventinus), Beato Rhenano, W. Lazius. La Riforma si volse al passato per udirne le voci che suonassero conforto alla sua fede (Mattia Flacio Illirico). Essendo ancora diritto vigente, i giuristi, aiutati dalla stampa e dal generale risveglio della cultura, si diedero a pubblicare largamente le cosiddette Leges Barbarorum e testi giuridici del tardo Medioevo, ed estesero le loro ricerche, così da divenire, fino ai grandi filologi olandesi e inglesi del Seicento, i maggiori esponenti dello studio dell'antichità: giuristi furono, fra altri, M. Freher, M. Goldast, il maggior grammatico del Seicento, Schottelius.

Gli studî grammaticali si limitarono ad applicare gli schemi derivati dagli antichi, mirando sostanzialmente a fini normativi (grammatiche tedesche dell'Oelinger, 1574, nella quale già si comincia a non chiamar più regolari i verbi deboli e irregolari i forti; di L. Albertus, 1573; di J. Clajus, 1578; dello Schottelius, 1663). Insieme ai grammatici iniziano intanto la loro opera per la normalizzazione e il buon uso della lingua società linguistiche fondate in Germania sull'esempio della Crusca italiana, delle quali la più nota è la "fruchtbringende" (I617).

Anche per l'attività lessicale si può risalire al Medioevo e alle sue glosse. L'introduzione della stampa favorì la messa insieme di lessici, destinati, come già quelle glosse, a fare intendere il latino. Il primo dizionario che si occupasse del lessico tedesco fu quello di Josua Maler (1561) sulle cui orme si mise poi il Henisch col Thesaurus linguae et sapientiae Germaniae, 1616, I (fino alla lettera G). Nella prefazione al Dictionarium del Maler, e già nel Mithridates (1555), C. Gessner delineò abbastanza chiaramente l'area delle lingue germaniche e cercò di caratterizzare i dialetti tedeschi: solo più tardi conobbe alcuni frammenti di gotico.

Le conseguenze della guerra dei Trent'anni si fecero sentire dolorosamente in Germania anche negli studî. In Olanda, paese che nella prima metà del sec. XVII era forse il più progredito nelle discipline storiche, gli studi delle antichità germaniche andarono di pari passo con quelli classici e orientali: un'unione che la famiglia di Gerardo Vossio parve simboleggiare materialmente. Fu in Olanda che Giusto Lipsio e altri, comparando vocaboli olandesi e persiani, ebbero un primo barlume dell'affinità delle lingue europee con le ariane; e fu a Leida che il 1597, nel De literis et lingua Getarum sive Gothorum, B. Vulcanius pubblicò i primi saggi della versione gotica della Bibbia; in Olanda passò la sua giovinezza e quasi tutta l'operosa vecchiaia F. Junius. Voltosi all'anglosassone già in Inghilterra, il Junius, tornato in Olanda, estese i suoi studî a tutto il campo germanico antico e a lui doveva toccare in sorte di pubblicare integralmente, di sul codex argenteus, la Bibbia di Wulfila. Morendo, lasciava inedita la maggior parte dei suoi studî: preziosi, fra essi, i dizionarî delle varie lingue germaniche che s'era venuto costituendo con intenti etimologici, trascrizioni e note di fonti anglosassoni, alto- e basso tedesche, frisoni. In questi lavori, e soprattutto nell'aver fatto per primo veramente conoscere il gotico (nel quale credette di scorgere la forma originaria delle lingue germaniche), consiste la grandezza del Junius: che arbitrarie siano le sue etimologie, che a una grammatica comparata non sia giunto, nessuno che conosca lo svolgimento della linguistica vorrà meravigliarsi. Grammatico fu invece l'inglese G. Hickes, a cui si devono grammatiche del gotico, dell'anglosassone e dell'antico tedesco: lingue di cui non gli sfuggì la stretta parentela, che fu provata più ampiamente dall'olandese L. ten Kate, il quale s'avvide che i verbi cosiddetti irregolari alternavano in modo non arbitrario la vocale radicale, e pose il principio che nella ricerca etimologica non si dovesse mutare o sostituire neppure una lettera. Nel Settecento la filologia decadde sia in Olanda sia in Inghilterra, dove già prima del Hickes viva operosità era stata rivolta ai documenti anglosassoni.

In questa fioritura di studî secentesca cominciava ad aprirsi agli occhi degli studiosi anche il Settentrione scandinavo che conservava un'insospettata ricchezza di tradizioni e di documenti della più antica civiltà germanica. Il danese O. Worm iniziava lo studio delle iscrizioni runiche; M. Ólafsson costituiva gl'incunaboli della lessicografia antico-nordica, dava alle stampe la prima esposizione della poesia islandese e traduceva in latino una parte dell'Edda seriore; G. Andreae compilava il primo dizionario islandese, R. Jónsson (Jonas) la prima grammatica (1651). Intanto nel 1665 venivano alla luce notevoli parti dell'Edda, accompagnate da una traduzione latina. Gli Svedesi si diedero anch'essi a pubblicare fonti per la storia nazionale e saghe antiche, fra cui la Völsungasaga. Vanno citati a questo proposito i nomi di O. Verelius, di E. J. Björner, di J. Peringskjöld.

In Germania, nella seconda metà del Seicento, il Morhof fece il tentativo di disegnare la storia della poesia moderna europea, e per l'etimologia avvertì che si dovesse badare non all'eguaglianza dei suoni, ma alle loro trasformazioni, il Leibniz intanto non trascurava, nella sua svariatissima attività, la filologia e negli studî linguistici additava il fondamento per la ricostruzione delle fasi primitive, nella comparazione la prova più sicura della parentela storica dei popoli. Nella prima metà del sec. XVIII si continuò generalmente a occuparsi di antico tedesco da un punto di vista lessicale (da notare il Glossarium germanicum Medii Aevi dello Scherz, 1781, e il Glossarium germanicum, 1737 segg., di J. G. Wachter), da quello della pubblicazione di testi (Thesaurus antiquitatum teutonicarum di J. Schilter, 1726-28), giuridico e antiquario. Sebbene Diederich von Stade, con i suoi studî sulla lingua di Otfrid, 1710, richiamasse l'attenzione sulla grammatica degli scrittori antichi e dei varî dialetti, gli editori e i cultori di antichità settecenteschi come non si sollevano dall'antiquaria a una valutazione estetica dei monumenti antichi, così sono anche all'oscuro della grammatica dei testi che pubblicano.

Ma se la grammatica delle fasi antiche vien trascurata (citeremo come eccezioni il lessicografo C. E. S. Steinbach e poi F. K. Fulda), si susseguono invece e s'intensificano, dal Gottsched all'Adelung, gli sforzi rivolti a normalizzare sempre più la lingua scritta, in corrispondenza al vivace risveglio della vita spirituale tedesca nel Settecento e al formarsi di un'opinione pubblica. La sintassi dell'Adelung fece sentire la sua influenza fino assai addentro al secolo scorso: sia lui sia il Gottsched considerano hochdeutsch la lingua delle classi colte della Sassonia superiore.

Di pari passo col fissarsi e col diffondersi della lingua scritta vanno gli studî dialettali, possibili appunto in quanto esiste ed è diffusa una lingua scritta comune. L'ultima Bibbia basso-tedesca era stata stampata il 1621; nel Settecento cominciarono a pubblicarsi sempre più fitti i dizionarî dialettali, soprattutto basso-tedeschi.

A una visione più larga che non quella del classicismo razionalistíco di un Gottsched s'innalzarono J. J. Bodmer e J. J. Breitinger (v.) col concetto del meraviglioso, sebbene poco capissero della poesia medio-tedesca, che pure moltissimo contribuirono a rendere nota. Ma non tanto a essi e al Klopstock, che pur lesse Otfrid e si sentì attratto dal Heliand e dalla mitologia nordica, quanto al Hamann e al Herder è dovuto il nuovo avviamento dell'estetica e del gusto che, rompendo decisamente col classicismo d'importazione francese e col gusto alessandrino, si volse al primitivo in cui vide l'origine della vera poesia, fra la poesia d'arte e quella naturale, che il Herder distinse, preferì la naturale, e si piegò col Herder e col Bürger ad ascoltare le voci dei popoli nei loro canti, e costruì il mito romantico della popolarità e ingenuità di ogni schietta poesia. Erano queste nuove idee e questo nuovo gusto, insieme al nascente storicismo, il presupposto necessario perché sorgesse una nuova filologia (che nasce sempre da idee e decade e langue quando queste s'impoveriscono e infiacchiscono), la quale infatti non tardava ad annunciare il suo programma con F. A. Wolf. Il Wolf era un filologo classico, ma come già nel Rinascimento e nel Seicento olandese dagli studî classici avevano tratto l'impulso quelli germanici, così ora dal rinnovamento di quelli dovevano trarre il loro punto di partenza le nuove filologie: la germanica non meno della romanza e della slava.

Non si può parlare di Romanticismo, neppure di protoromanticismo tedesco, in un senso univoco. Per quel che riguarda il nostro argomento, in un senso più ristretto si chiama romantico il contributo per es. di un Arnim, di un Brentano, di un Görres, dei giovani Grimm; ma in un senso più lato romantica può dirsi anche tutta l'attività di J. Grimm, se per Romanticismo intendiamo - come pure è legittimo - la predilezione per il popolare, per le epoche barbariche e aurorali, per le manifestazioni non letterarie, per i dialetti e la lingua dell'uso più che per quella delle grandi personalità. E ancora, mentre in quel senso più ristretto il Romanticismo non va, in Germania, oltre gl'inizî del secolo, il Romanticismo nel senso più vasto che abbiamo chiarito, domina, più o meno, tutto il secolo, nettamente la prima metà; e mentre il primo è, per quanto riguarda la filologia germanica, una tendenza del gusto, un'espressione di amore e di dilettantismo, il secondo è connesso intimamente alle origini vere e proprie della filologia moderna, alla filologia di un J. Grimm e di un K. Müllenhoff non meno che a quella di un A. Boeckh e di un K. O. Müller. Impersonarono in Germania quel Romanticismo in senso ristretto, che venne via via restringendo l'iniziale cosmopolitismo letterario all'amore dei vecchi modi e delle vecchie costumanze patrie, il Wackenroder e il Tieck, e poi A. v. Arnim, C. Brentano, J. Görres, i giovani Grimm. Un immenso successo ebbero l'Armin e il Brentano col Des Knaben Wunderhorn (1806-8): un avvenimento nel campo letterario, seppure un'opera filologica nulla, perché la materia, attinta sia a stampe sia alla tradizione orale, era stata dai due poeti in parte fraintesa, in parte arbitrariamente rimaneggiata; il Görres si occupò dei Teutsche Volksbücher della collezione Brentano, si provò infelicissimamente come editore e si diede poi, nella maniera più fantasiosa, a combinare miti. Risultati storicamente più apprezzabili furono invece raggiunti da A. W. Schlegel, che diede una visione in gran parte nuova della poesia medievale, che affrontò felicemente questioni di attribuzione e recensendo il 1° volume degli Altdeutsche Wälder dei Grimm, criticò nettamente la nebulosità mistica della loro idea d'una poesia popolare autogenerantesi, l'arbitrarietà del loro etimologizzare, il voler trovare nel Märchen troppi resti d'antica mitologia, e propugnò il diritto delle personalità poetiche, l'esigenza di rafforzare l'esegesi e la critica, nonché la conoscenza grammaticale. Contemporaneamente il fratello Federico, formatosi alla scuola dei Greci e di F. A. Wolf, mentre si volgeva sempre più al Medioevo, col famoso scritto Über die Sprache und Weisheit der Indier, 1808, faceva entrare il sanscrito nel cerchio degli studî germanici e parlava per primo di una grammatica comparata. Otto anni dopo, il 1816, la grammatica comparata diveniva una realtà coi lavoro del Bopp sul sistema delle coniugazioni, che costituiva l'inizio della linguistica indoeuropea. In quegli stessi anni il Savigny e l'Eichhorn - continuando l'impulso ricevuto dal Hugo - fondavano la scuola storica del diritto; nel 1826 furono cominciati a pubblicare i Monumenta Germaniae Historica.

Fuori di Germania, intanto, Rasmus Rask, movendo dall'antico islandese, estese via via l'indagine grammaticale a quasi tutte le lingue germaniche e poi anche alle ariane fondandosi sulla comparazione ma tenendo d'occhio soprattutto lo svolgimento storico delle singole lingue. Nel campo germanico il Rask affidò il suo nome soprattutto agli studî grammaticali di anglosassone e, ancor più, di antico nordico: nessuno prima di lui fece tanta luce in una regione che fino allora, si può dire, da questo lato nessuno aveva esplorato. Nella Undersøgelse (1818) mostrò come l'etimologia dovesse fondarsi sulla comparazione e sullo svolgimento dei suoni, come la comparazione delle forme grammaticali fosse anche più importante di quella lessicale: in essa - andando assai oltre i precorrimenti di ten Kate - venivano osservati quei fenomeni che poi prenderanno il nome di legge di Grimm.

Nella prima fase della sua attività, J. Grimm (e per riflesso il fratello Wilhelm) fu un romantico nel senso più limitato che abbiamo detto. Solo un'opera della loro giovinezza ha fatto giustamente epoca: i Kinderund Hausmärchen che facevano riscontro al Wunderhorn, con la differenza però che qui i raccoglitori dei Märchen (attinti soprattutto alla tradizione orale) si guardarono bene dall'introdurvi mutamenti arbitrarî e, mentre con grande cautela curavano la redazione stilistica, con lo studio delle varianti e con la comparazione davano il primo esempio d'una edizione critica e comparata di testi di letteratura popolare.

Saga e Mänrchen, letteratura tedesca media e soprattutto antica, prospettive sull'intero mondo germanico: questi erano gli elementi della personalità di J. Grimm quando il 1819 usciva il 1° volume della Deutsche Grammatik, che nella sua 2ª ed. gettava i fondamenti della fonetica delle lingue germaniche. In essa tutti i fenomeni fonetici e grammaticali (fino alla sintassi della proposizione semplice: ché qui si arrestò l'opera) venivano perseguiti sistematicamente e rigorosamente attraverso la comparazione di tutte le lingue germaniche viste nel loro svolgimento naturale e organico: in essa moltissimi fenomeni furono per la prima volta posti nella loro vera luce (oltre a quelli della famosa prima Lautverschiebung, quelli di Anlaut, Auslaut, Umlaut, le classi dei verbi forti, ecc.). Questo metodo, e la predilezione per le frasi più arcaiche, al margine della preistoria, fu quello che regolò anche tutto il poderoso lavoro successivo del Grimm, i Deutsche Rechtsalterthümer, 1828, la Deutsche Mythologie, 1835 - la quale insieme alle ricerche del Welcker e di K. O. Müller fondava la scienza della mitologia - e gli studî minori, sia pure notevolissimi, come il Reinhart Fuchs, 1834. Più tardi, legato al duro impegno del Deutsches Wörterbuch, la fantasiosità romantica della giovinezza parve ritornare qua e là nella Geschichte der deutschen Sprache, 1848. J. Grimm non tracciò un programma: pari ad essi nel senso storico, non ebbe una mentalità sistematica come un F. A. Wolf, uno Schleiermacher, un A. Boeckh; ma tutta la sua opera, che sorge grandiosa sul limitare della filologia moderna, sta lì a testimoniare che egli della filologia ebbe la stessa concezione storica di quell'indirizzo che, nello studio del mondo greco-romano, porta i nomi d'un Wolf, d'un Boeckh, d'un Welcker, di un K. O. Müller, di un Wilamowitz. Più linguista di questi, egli non fu un eccellente editore di testi; i sensi aperti alla poesia, preferì cercarla nelle forme del Märchen, della favola, del mito, delle antichità giuridiche stesse; ma la sua passione fu, come quella di un K. O. Müller, rivolta a far rivivere la vita antica nella sua totalità; al pari del Müller predilesse il costume, il mito e la religione: scrivere storia fu anche per lui penetrare in tutta la sua ampiezza e profondità nella vita dei popoli, nelle loro fasi primitive e fantastiche. Conoscitore sovrano di tutto il mondo germanico, ignorò la separazione dell'antico dal moderno: ebbe - com'è umano - i suoi limiti, ma il frammentarismo, l'angusto specialismo non possono certo richiamarsi al suo esempio.

Allato al fratello, del quale divideva le idee e le predilezioni, Wilhelm Grimm ebbe interessi più propriamente letterarî: dietro l'esempio del Lachmann pubblicò testi medio-tedeschi, e fornì, oltre ai Märchen, il suo più cospicuo lavoro con la Deutsche Heldensage, 1829.

Dotato di non comune senso per la forma e per lo stile, ingegno eminentemente metodico, fu K. Lachmann, l'altro maestro, accanto a J. Grimm, della filologia germanica. A differenza del Grimm, il Lachmann veniva dalla filologia classica, come insegnante e studioso le rimase sempre fedele: anzi, alla sua attività in questo campo, alle sue edizioni di Lucrezio e di Catullo, alla sua critica del textus receptus del Nuovo Testamento egli deve forse la fama maggiore. Leggere poeti fu la sua grande passione; ma per leggerli bisognava comprenderne la lingua e la tecnica, bisognava restituire criticamente i loro testi corrotti. Qui sta la gloria del Lachmann: di avere per primo dato l'esempio di edizioni veramente critiche, a base delle quali egli pose come primo fondamento la recensione (v. edizione). Ma, pubblicando, un editore deve anche capire i testi che pubblica: di qui le sue ricerche, ugualmente fondamentali, sulla metrica della poesia medievale e, movendo dalla rima, quelle sulla lingua dei poeti del Duecento, che "tranne poche peculiarità dialettali parlavano un loro determinato preciso alto-tedesco, mentre scribi ignoranti si permettevano altre forme della lingua comune, sia più antiche sia corrotte". Aiutato dal suo talento formale, dalla sua facoltà di risentire la poesia più elaborata e dotta, di penetrare gli originali (le sue note al Hildebrandslied, la sua introduzione al Parzival sono rimaste classiche), il Lachmann segnò come editore un'era nuova nella filologia, e non solo nella germanica. Che le sue leggi metriche siano spesso troppo rigorose, e la sua concezione della lingua poetica medio-tedesca troppo rigida; che, preoccupato di restaurare l'originale, abbia trascurato l'importanza che, per la storia del gusto e della cultura, può avere la tradizione; che, nel processo della recensione, abbia inclinato a una visione un poco meccanica; che nella dibattutissima questione della composizione e del testo dei Nibelunghi abbia proceduto in maniera estremamente violenta e radicale, questi sono riconoscimenti della posteriore filologia che nulla tolgono alla sua grandezza.

D'ora innanzi la storia della filologia germanica muove da questo rinnovamento della linguistica, dall'opera di J. Grimm e del Lachmann, dall'eredità della scuola storica, del neoumanesimo e della filosofia romantica. Dell'immenso lavoro fatto da cent'anni a questa parte ci contenteremo di segnare solo alcune linee direttrici.

La linguistica svolse sempre più il concetto, di derivazione grimmiana (non senza influenze più o meno consapevoli romantiche e hegeliane), della lingua come organismo naturale: concetto che trovò l'espressione più netta nello Schleicher, che rassomigliò la linguistica comparata all'anatomia comparata, e per conseguenza volle includere la linguistica fra le scienze naturali; che riprese il paragone di J. Grimm fra storia linguistica e storia geologica, con la conseguenza di eliminare la posizione di privilegio delle fasi più antiche rispetto alle più recenti. T. Jacobi volle far penetrare nella grammatica storica la fisiologia e la filosofia per spiegare ciò che appare esternamente con l'attività dello spirito e con la costituzione degli organi umani: una via su cui si metterà poi originalmente W. Scherer; J. Schmidt sostituì al paragone statico di lingue e dialetti come diramazioni di un albero, quello delle onde; affermò che non ci sono unità linguistiche nettamente determinate, ma processi linguistici storicamente e geograficamente condizionati, simili a fasci di parallele variamente intersecantisi. La concezione del linguaggio come organismo naturale portò poi, se non nello Schleicher, presso quei linguisti che furon detti e si dissero neogrammatici, a sostenere che, laddove non intervenga l'analogia, la lingua si svolge secondo leggi ineccepibili: ciò che condusse - in un periodo dominato da concezioni nettamente naturalistiche - a una visione alquanto meccanica, a trascurare la lingua degli scrittori, a dare troppa importanza ai problemi glottogonici. Per profondità di vedute, sui linguisti venuti dopo lo Schleicher domina W. Scherer, il quale mirò a un'interpretazione causale dei processi linguistici, eseguendo con criterî più moderni il programma di W. von Humboldt: spiegare la lingua in relazione allo spirito della nazione. Il tentativo grandioso fallì, lo stesso Scherer l'abbandonò, e per un pezzo l'attenzione si restrinse all'illustrazione e descrizione di condizioni fonetiche. Nel campo della comparazione indo-europea avvenivano intanto alcune scoperte fondamentali: ci si accorgeva che il vocalismo indoeuropeo non poteva essere ricostruito movendo dalle lingue arie, come aveva fatto lo Schleicher; l'Ablaut, scoperto da J. Grimm, si rivelava pregermanico; la legge di Verner, 1877, spiegava le presunte eccezioni alla legge di Grimm e forniva un primo dato sicuro per una relativa cronologia della fonetica germanica. Fra gl'indoeuropeisti che rimasero più vicini agli studî filologici, notiamo il già ricordato J. Schmidt, H. Osthoff, B. Delbrück, fondatore, si può dire, delle ricerche di sintassi comparativa nel campo indoeuropeo, alle quali ha portato recentemente notevolissimi contributi J. Wackernagel; W. Streitberg, soprattutto per il gotico; H. Paul, che ha lasciato vasta orma nel campo della filologia tedesca, dalla collaborazione e dall'organizzazione del Grundriss der germanischen Philologie alla Deutsche Grammatik (5 voll., 1916-20) e al Deutsches Wörterbuch; H. Hirt; P. Kretschmer, W. Schultze. La grammatica storica delle singole lingue fu coltivata fruttuosamente da E. Sievers, autore di un manuale fondamentale per l'anglosassone (1882), e da W. Braune, studioso di antico-alto-tedesco, ai quali si riattaccano F. Kluge, ricercatore di gotico, di anglosassone e di medio-inglese, autore del noto Etymologisches Worterbuch der deutschen Sprache e di studî sulle lingue speciali come la Seemannssprache, O. Behaghel, al quale si deve un'ampia Deutsche Syntax; R. Kögel e poi O. Bremer, F. Kauffmann; l'insigne nordista e metrico A. Heusler; il fonetico e dialettologo T. Siebs; F. Holthausen; il grammatico W. Wilmanns. Un'ottima Geschichte der neuhochdeutschen Grammatik von den Anfängen bis auf Adelung (1913-14) ha composto M. H. Jellineck. Nel campo nordico fu particolarmente forte l'influenza del Rask, che si fece sentire presto e beneficamente (N. M. Petersen). La prima cattedra di filologia nordica fu fondata a Copenaghen il 1863; dall'ultimo quarto del secolo scorso in poi gli studî linguistici sono stati coltivati nei paesi scandinavi con particolare fervore: basti citare i nomi di S. Bugge, di L. F. A. Wimmer, di V. Thomsen, di K. A. L. Kock, di A. G. Noreen. Particolare svolgimento hanno avuto in Scandinavia gli studî toponomastici. Ma l'indirizzo rigorosamente neogrammatico fu ben lungi dall'esaurire in sé lo svolgimento della linguistica. Anche prima che risultasse chiaro che la legge fonetica è un'ipotesi di lavoro, o, come ha detto il Roethe, un precetto morale rigoristico, non mancò chi, letterariamente e storicamente più dotato, si volgesse a studiare la lingua come formazione consapevole. F. Zarncke cominciò col constatare le diverse forme linguistiche che compaiono nelle stampe del sec. XV e la loro tendenza a un conguagliamento: il Müllenhoff, nei Denkmäler, determinò le tendenze dell'epoca antico-alto-tedesca; K. Burdach, in una vasta opera che è insieme linguistica e di storia della cultura, affrontava il grande problema del formarsi della lingua comune nuovo-alto-tedesca. A questo allargamento della visuale della lingua come processo cosciente e da studiarsi presso gli scrittori e non solo nell'uso e presso le plebi, sono connessi gli studî sulla sintassi (O. Erdmann, O. Behaghel, H. Paul, W. Braune, H. Wunderlich, J. Ries); l'idea del Lachmann di una lingua speciale, aulica, dei poeti medio-alto-tedeschi, tornò in onore (Behaghel, Steinmeyer, Kauffmann, Roethe, Kraus, Zwicrzina, E. Schröder); si cercò di spiegare le cosiddette leggi fonetiche come fenomeni di storia della cultura e addirittura (F. Kauffmann) come leggi stilistiche.

Lo studio dei dialetti, che è anch'esso una conquista romantica, e che fu vigorosamente iniziato in Germania da J. A. Schmeller (1785-1852), ha avuto, comprensibilmente, un grande sviluppo nei paesi scandinavi, in Svezia (J. A. Lundell, K. A. Kock, A. G. Noreen), in Norvegia (I. Aasen, J. Storm, H.M.E. Ross), in Danimarca (K. J. Lyngby, H. F. Feilberg, P. K. Thorsen); e ad esso si dedicano oggi in Germania molte energie giovanili. Centri dialettologi hanno creato O. Bremer a Halle, il Seemüller a Innsbruck e Vienna, T. Siebs a Breslavia, A. Bachmann a Zurigo, e per tutta la Germania si va ora completando, con l'aiuto della Notgemeinschaft, la serie dei vocabolarî dialettali, nei quali si tende a unire Wörter und Sachen, a dare nella lingua una rappresentazione della cultura. Fra essi per grandiosità emergono lo Schweizerisches Idiotikon (1881 segg.) e lo Schwäbisches Worterbuch, ormai prossimi al termine; abbreviato esce un ricchissimo dizionario renano; su base larghissima è impostato il Siebenbürgisch Sachsisches Wörterbuch di A. Schullerus. Al metodo geografico, il quale - insieme al riconoscimento della lingua come arte, come creazione individuale e come identica alla storia della cultura - è venuto a rompere gli schemi della linguistica come scienza naturale, si deve anche il Deutscher Sprachatlas di G. Wenker (il quale concepì il suo lavoro più come Lautgeographie che come Wortgeographie) che dal 1926 il Wrede - in collaborazione con B. Martin e K. Wagner - ha cominciato a pubblicare in forma semplificata. In questo stesso campo un'eccellente Wortgeographie der hochdeutschen Umgangssprache (1918) è dovuta al Kretschmer.

Più trascurata che non la dialettale, è stata in Germania nell'ultimo mezzo secolo la lessicografia della lingua comune: lentamente ha proseguito la pubblicazione del Deutsches Wörterbuch iniziato dai Grimm, mentre il Mittelhochdeutsches Wörterbuch di M. Lexer, l'Althochdeutsches Wörterbuch di O. Schade non sono stati rinnovati e l'Althochdeutsches Nörterbuch di E. Steinmeyer è rimasto nelle sue carte. Negli altri paesi germanici sovrasta nel campo lessicale il New English Dictionary; ottimi dizionarî si hanno, o sono in corso di pubblicazione, per l'Olanda, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia.

La critica del testo si è svolta sotto l'influenza del Lachmann, sia che rimanesse - come accadde alla cosiddetta scuola berlinese - strettamente attaccata non solo ai principî ma anche alle soluzioni del maestro, sia che parzialmente ne dissentisse o anche apertamente ne combattesse i risultati. Vicini al Lachmann e suoi fervidi seguaci, sono da porsi innanzi a tutti M. Haupt, filologo anch'egli classico e germanico insieme, anche egli datosi all'edizione di testi medio-tedeschi, specialmente corrotti, dove potevano esplicarsi le sue facoltà congetturali, e K. Müllenhoff, un dotto di enorme capacità di lavoro, che si volse a ricostruire la cultura germanica antichissima. Come editore, il Müllenhoff pubblicò insieme allo Scherer i Denkmäler deutscher Poesie und Prosa aus dem VIII.-XII. Jahrhundert (1864; 2ª ed., 1873): un lavoro che fu poi ripreso dallo Steinmeyer per i Kleinere Denkmäler (1892-1916), il quale inoltre, prima col Sievers, poi da solo, ha curato la monumentale edizione delle Althochdeutsche Glossen (1879-1922).

Vie alquanto diverse da quelle del Lachmann batterono F. Pfeiffer e K. Bartsch, che si resero benemeriti per aver rivolto l'attenzione a testi di contenuto religioso e prosastici, il primo procurando di restare fedele alla tradizione manoscritta, il secondo ardito congetturatore. Argomento di studî numerosi e di polemiche anche aspre furono i Nibelunghi (v.).

Come filologo formale non c'è stato nessuno dopo di loro che possa venire al paragone con un Lachmann, con un Haupt, o anche con un Bartsch: il Wolfram e l'Iwein del Lachmann, col commento del Benecke restano insuperati; né si può dire che il Minnesangs Frühling (1857) di Lachmann e Haupt abbia guadanato nei successivi rimaneggiamenti. Ma non sono mancati studî ed edizioni buoni e ottimi, dal Reinmar von Zweter del Roethe (1887) ai lavori del Kraus su Heinrich von Morungen (1926), tramandato in cattivi manoscritti, e su Reinmar der Alte (1919), il cui testo presenta colorazioni dialettali ed è costituito con un'arte raffinata e ricercata; all'Ackermann aus Böhmen di A. Berndt (1917) e ad altri che qui non è il caso d'indicare. Studî su rime, forme, ortografia in servizio dell'emendazione e dell'identifieazione di carmi anonimi conduce da decine di anni E. Schröder. Testi in massima parte medio-tedeschi comprende l'Altdeutsche Bibliothek fondata da H. Paul, ora diretta dal Baesecke (Halle 1882 segg., finora 27 voll.); molti testi sono apparsi nella serie dello Stuttgarter Literarischer Verein, e a queste collezioni va aggiunta quella dei Deutsche Texte des Mittelalters, dal 1200 al 1500 (finora 33 voll.), che dal 1904, sotto la direzione di G. Roethe, va pubblicando l'Accademia Prussiana. Data la difficoltà di trovare editori veramente capaci, il Roethe, rinunciando ad avere un testo critico, si è attenuto al partito di fornire una riproduzione esatta dell'unico o dei migliori codici facendo seguire al testo un glossario. Allato a queste raccolte, citiamo ancora i Lateinische Litteraturdenkmäler, diretti da M. Hermann (19 voll., 1891-1912), le Deutsche Chroniken und andere Geschichtsbücher des Mittelalters, le Chroniken deutscher Städte, ecc. Amplissima è la serie dei Neudrucke deutscher Literaturwerke des XVI. und XVII. Jahrhunderts di W. Braune, continuata da E. Beutler. La prima edizione critica di uno scrittore moderno è stata in Germania quella che il Lachmann, anche in questo campo iniziatore, fece di Lessing (1838-40). Non mancano anche qui edizioni ottime e buone, da quelle di Kant e W. v. Humboldt fatte sotto gli auspici dell'Accademia prussiana a quella, in corso di pubblicazione, di Jean Paul per E. Berend: ma le weimariane di Lutero, e, ancor più, di Goethe soffrono d'incertezza di criterî, e l'ultima era già invecchiata prima di essere condotta a termine.

Di materiale letterario nuovo, quasi nulla è venuto alla luce nell'ultimo mezzo secolo: e l'inventario dei manoscritti antichi fatto dalla Deutsche Commission dell'Accademia berlinese ha portato solo a risultati secondari. La lirica prewaltheriana non si è arricchita di una strofe: solo Walther ha avuto la fortuna di qualche ritrovamento. Più curati invece che non presso la generazione del Lachmann sono stati gli studi sulla prosa, i quali hanno anche provato che il cursus latino è parzialmente passato nella prosa tedesca medievale.

Fra le pubblicazioni d'iscrizioni runiche, l'edizione di L. F. A. Wimmer di quelle danesi resta insuperata. Nella runologia fece epoca il suo Runeskriftens Oprindelse og Udvikling i Norden, 1874, anche se l'indagine posteriore (S. Bugge, O. v. Friesen) ha messo in luce che le rune vengono dalla regione intorno al Mar Nero, che nacquero primamente presso i Goti sotto un'influenza prevalentemente greca.

Le moderne ricerche sulla metrica portano principalmente i nomi di E. Sievers, di F. Saran e di A. Heusler.

Degli argomenti prediletti dai Grimm trascureremo qui lo svolgimento degli studî di antichità germaniche, per i quali una somma di risultati si ha nel Reallexikon der germanischen Altertumskunde di J. Hoops, 1911-19, e una visione complessiva nella Deutsche Altertumskunde di F. Kauffmann, 1913-23: ci. limitiamo a indicare i nomi di O. Schrader, di S. Feist, di T. E. Karsten; per la valutazione delle fonti classiche, il libro sulla Germania di Tacito di E. Norden. Per la mitologia e la storia della religione primitiva, i nomi di E. Mogk, W. Golther, R. M. Meyer, S. Bugge (Studier over de nordiske Gude- og Heltesagns Oprindelse, 1881-96, in relazione ai quali sta la sua idea che la più antica poesia norvegese e islandese abbia molte relazioni con la poesia e cultura antico-irlandese), Chantepie de la Saussaye, M. Olsen, F. R. Schröder. Le ricerche sul folklore e la poesia popolare sono fiorite soprattutto fra gli Scandinavi e i Finni.

Gli studî sullo svolgimento dell'epica germanica hanno finito col segnare il tramonto della concezione romantica. L'Olrik e il Heusler hanno sostituito al concetto di Heldensage quello di Heldendichtung, a quelle di Volksepos quello di Heldenepos, al quale si contrappone non più l'epica di "corte" o "d'arte", ma l'epica e il romanzo cavalleresco. La distinzione herderiana di una poesia popolare e di una poesia d'arte è ormai; anche nel campo germanico, abbandonata. Nella sfera più specifica di quel che comunemente si dice la storia della letteratura, basti ricordare che essa - al pari della filologia e dell'estetica - ha le sue origini nel sec. XVIII, e che fiorì rapidamente, al pari degli altri rami della storiografia, col Herder e con gli Schlegel, col Goethe e con W. von Humboldt, con lo Schiller e col Hegel, con W. Grimm e con l'Uhland. Le prime grandi storie della letteratura tedesca sono quelle di A. K. Koberstein (che considerò con grande ampiezza e sicurezza d'informazione soprattutto lo svolgimento delle forme letterarie) e, principalmente, di G. G. Gervinus, 1835-42, il quale perseguì lo svolgimento della letteratura in relazione alla storia sociale e politica. Dopo di esse, l'unica storia letteraria di grande originalità, nell'insieme la più ricca d'idee fra quelle uscite dal cerchio ideale del romanticismo, è la Geschichte der deutschen Literatur dello Scherer, la quale segna l'apogeo e il tramonto di quella storiografia. Vi si ritrova ancora il concetto di un Volksepos, a cui apparterrebbero i Nibelunghi, per i quali lo Scherer si attenne rigidamente alla teoria lachmanniana; vi si ritrovano schemi violenti e arbitrarî, e sia pure grandiosi, come l'idea di successive arsi e tesi storiche a distanze regolari di sei secoli, ma nessuno storico della letteratura tedesca prima dello Scherer ebbe una visione così larga e profonda della poesia, nessuno sentì tanto l'importanza della personalità geniale e le diede tanto rilievo. Non è infatti senza significato che dalla sua scuola siano usciti così numerosi biografi. Dopo lo Scherer non c'è stato più nessuno in Germania che abbia dominato tutto il campo della letteratura antica e moderna con tanta profondità filologica, con tanta sicurezza di gusto. In Danimarca e fuori G. Brandes (v.), con un'insigne opera critica animata dagl'ideali di libero pensiero e di democrazia, ha esercitato un'influenza larghissima. In Germania si nota dopo l'80 il disgregarsi della grande storiografia romantica, la tendenza a separare l'antico dal moderno, ad allentare i legami fra linguistica e storia della letteratura, l'invasione del campo moderno da parte di tendenze giornalistiche e dilettantistiche, la minore sicurezza e familiarità nel leggere i testi, un intersecarsi infine di correnti che, se da un lato rivelano l'abito di porsi problemi, da un altro mostrano spesso anche un certo disorientamento e una certa mancanza di sicure basi storiche e speculative. Lo Scherer fece scuola (E. Schmidt, J. Minor, A. Sauer, G. Roethe, e i loro scolari Petersen, Maync, Köster, Petsch, ecc.) ma non si può in essa parlare di unità rigorosa di tendenze e di metodi. Ottimi contributi portarono filosofi fortemente dotati di senso storico e della personalità come R. Haym, K. Fischer, W. Dilthey (il quale ammonì anche a non fare di grandi poeti mediocri filosofi, a non rendere sistematici i frammentarî), G. Simmel; l'indagine biografica ha prodotto opere di alto pregio (C. Justi, E. Schmidt, F. Muncker, R. Haym); si sono avute storie nettamente sociologiche, altre d'ispirazione sentimentale-romantica, per generi letterarî, per argomenti, ecc. Più recenti sono i tentativi, sulle orme di H. Wölfflin, di una stilistica (F. Strich) e quelli in cui prevalgono motivi di una confusa dialettica, nella cosiddetta "scienza della letteratura". Il culto delle personalità eroiche, generante un nuovo tipo di biografia, è il motivo dominante dei critici (F. Gundolf, E. Bertram) del circolo di S. George. Interessi speculativi e metodici sono soprattutto vivi in O. Walzel e in R. Unger. Un'idea del Sauer, anzi dello Scherer (e al di là dello Scherer, di K. O. Müller, dello Schleiermacher e di F. Schlegel) ha ripreso J. Nadler nella sua Litteraturgeschichte der deutschen Stämme und Landschaften, 1912-28, imponente per larghezza di letture e per l'energia, sia pure spesso arbitraria, con la quale l'autore ha dominato e costretto nel suo piano tutto il periodo dall'800 al 1914.

Bibl.: R. v. Raumer, Geschichte der germanischen Philologie, vorzugsweise in Deutschland, Monaco 1870; H. Paul, Geschichte der germanischen Philologie, nel suo Grundriss, I, Strasburgo 1891, pp. 9-151; W. Scherer, J. Grimm, 2ª ed., Berlino 1885, rist. Berlino 1921; G. Roethe, Wege der deutschen Philologie, Berlino 1923; Festschrift für W. Streitberg, Heidelberg 1924 (articoli di C. Karstien, V. Michels, W. Horn); K. Burdach, Introduzione al Briefwechsel der Brüder J. und. W. Grimm mit K. Lachmann, Jena 1925-27, I, pp. XI-XCII; E. Schröder, Deutsche Philologie, nel vol. Aus fünfzig Jahren deutscher Wissenschaft, ed. da G. Abb, Berlino 1930, pp. 198-215.

Filologia romanza.

Una vera e propria filologia rivolta allo studio delle lingue e letterature dette romanze o neolatine, non poteva sorgere se non in un'epoca che non solo richiamasse a vita la civiltà medievale e ne facesse oggetto d'indagine storico-critica, ma avesse anche coscienza della comune genesi di quelle nazioni uscite dal mondo latino: l'Italia, la Francia, la Provenza, la Catalogna, la Spagna, il Portogallo e - distaccata e isolata nel mondo orientale - la Romania. Soltanto con il Romanticismo, che si rifaceva alle più lontane origini nazionali, e soltanto con la grammatica comparata che da quel movimento fu promossa, si poteva risalire di là dall'età umanistica e cogliere e ristabilire l'unità di lingua, di cultura e di storia che lega i popoli latini.

Dacché l'umanesimo, per misurare i suoi ideali di vita e d'arte alla stregua delle civiltà classiche, aveva respinto da sé quei secoli che lo avevano immediatamente preceduto, s'era venuta a perdere quasi bruscamente la conoscenza del più recente passato; nettamente in Francia, con l'affermarsi della Pléiade, mentre già da più di un secolo era stata assorbita e travolta la civiltà provenzale; parallelamente, se non con lo stesso distacco, nella penisola iberica; ma meno in Italia, se si pensa che Dante e il Trecento rimasero sempre vivi nella tradizione letteraria. I tentativi - fatti dal Cinquecento in poi - d'intendere o riprendere qualche frammento del mondo romanzo, rimasero di solito circoscritti.

Già nella grammatica medievale - di contro alla più forte tradizione classicista - comincia a farsi valere la considerazione per le nuove forme volgari e per le nuove esigenze ortografiche, sintattiche, etimologiche della lingua parlata - dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (secoli VI-VII) al Dottrinale di Alessandro di Villedieu (secoli XII-XIII) e ai lessici di Giovanni da Genova, d'Uguccione e di Papia. Ed è anche naturale che l'assurgere degl'idiomi volgari a lingua letteraria e a vita intellettuale portasse con sé i primi tentativi di chiarificazione empirica e di trattati normativi: dalle glosse di Reichenau (sec. VIII) e di Kassel (sec. IX), che correggono l'uso corrente, alle prime grammatiche provenzali, sorte soprattutto per il bisogno di disciplinare la lingua e la lirica occitanica nella sua feconda espansione per la Catalogna, la Galizia, l'Italia, la Francia: le Razos de trobar di R. Vidal (secoli XII-XIII); il Donatz proensals di Ugo Faidit, verso il 1246; la Doctrina de Cort di Terramagnino da Pisa, 1280; le Regles de Trobar di J. de Foixà, 1286; fino alle Leys d'Amor di G. Molinier (v. gai saber).

Ma, con il progressivo avanzarsi del pensiero umanistico, assieme ai monumenti letterarî dei secoli XI-XIV, s'interruppe questa prima tradizione grammaticale, e non ebbe adeguata risonanza quella geniale impostazione che delle lingue e della poesia romanze aveva intravisto Dante nel De vulgari eloquentia. Già nella Raccolta aragonese di Lorenzo il Magnifico i più antichi poeti siciliani e toscani hanno poco posto: comunque nel prologo se ne traccia l'ultima storia, per opera di un poeta che ancora ne avvertiva l'ininterrotta tradizione. Il petrarchismo - durante il Cinquecento - riportava ancora una volta ai trovatori, e per mezzo di questo risorto provenzalismo meglio s'imparavano a conoscere la struttura del volgare italiano e i suoi rapporti con le altre favelle romanze, e le laboriose origini di queste attraverso la commistione dei popoli e delle civiltà medievali. E provenzalisti furono P. Bembo, G. M. Barbieri - soprattutto - e altri ancora (e qualcuno anche studioso dell'antico francese, I. Corbinelli, e dell'antico portoghese, A. Colocci), raccoglitori di manoscritti, traduttori, chiosatori, e imitatori - quando erano poeti - discettatori - quando erano grammatici -. Contribuì fra gli altri fortemente a trasportare lo studio della lingua su un terreno storico e a formare la tradizione grammaticale italiana, Celso Cittadini che verso il 1580 occupava a Siena una cattedra di "lingua toscana", traduceva il De vulgari eloquentia, divinava l'origine degl'idiomi romanzi dal latino volgare, tracciava una prima descrizione in senso storico della grammatica italiana. Ad agevolare lo studio degli autori del Trecento miravano i primi lessici, sorpassati ben presto da quello della Crusca (v.) che, con i suoi rigorosi metodi diventava modello per la Francia, la Germania, la Spagna. E proprio durante un lungo soggiorno a Roma e a Firenze e con le minute ricerche filologiche condotte in quelle biblioteche - si erudiva il catalano A. Bastero (1675-1737), esperto della lingua d'oc, dell'antico catalano, dell'italiano e delle sue varietà dialettali. Soltanto nel Settecento, con la concezione, cioè, che della lingua e della filologia ha G. B. Vico; con la prima grande esplorazione della civiltà medievale condotta da L. A. Muratori; con la prima grande compilazione storico-letteraria di G. Tiraboschi l'Italia riprende le sue grandi tradizioni storiografiche.

Sulla dottrina umanistica e sulla questione linguistica quali si venivano sviluppando in Italia, si orientava il primo pensiero critico della Francia; nel Cinquecento e nel Seicento domina, variamente configurato, il criterio dell'uso, finché si arriva alla Grammaire générale et raisonnée di Port-Royal (1660), dove il linguaggio è considerato con schemi logici e razionalistici, che si manterranno negli studî posteriori fino al Romanticismo. E analogamente, dai lessici di R. Stefano (1539) di J. Nicot (1606) dell'Oudin (Recherches italiennes et françoises, 1640-43), ai più veri e proprî vocabolarî del Richelet (1680), del Furetière (1690), si giunge a quelli dell'Académie française: dapprima incerta col disporre le parole secondo la base radicale (1694), poi più sicura adottando l'ordine alfabetico (1718) e via via più larga nel raccogliere il materiale lessicale, nel disciplinare le locuzioni, nell'ospitare i neologismi (1740; 1762; 1878, 8ª ed. in corso di pubblicazione).

Nella Spagna la conoscenza della poesia primitiva sopravvive nell'Arte de trobar (1433) del marchese di Villena, e nella Carta del marchese di Santillana (1398-1458), il primo abbozzo - concepito con larga conoscenza e con sensibilità poetica - dell'antica lirica, proprio quando l'umanesimo si prepara a metterla in oblio. Ed è per influsso italiano che A. de Nebrija o Lebrija (1441-1522) studia razionalmente l'idioma spagnolo, trasportandovi i moduli della grammatica classica, con il suo vocabolario latino-spagnolo e con l'Arte de la lengua castellana. Più geniale e più ricco di osservazioni è il Dialogo di J. de Valdés (verso il 1540). Poi la tradizione grammaticale ristagna; ma è del 1611 il Tesoro de la lengua española di S. Covarrubias Horozco, vocabolario fondamentale, non sostituito dal Diccionario de autoridades (1726-39) dell'Accademia spagnola (1714), a cui si deve anche la prima sistemazione dell'Ortografía y gramática dello spagnolo (1771).

E anche nel Portogallo i tentativi di dottrina grammaticale sono suggeriti dalla precettistica italiana: è del 1536 la Grammatica da lingua portugueza di F. de Oliveira; del 1540 il Dialogo em louvor da nossa linguagem di J. de Barros; del Seicento le grammatiche di D. Nunez de Leam, di B. Pereira, di F. Pereira, ecc., con valore normativo. I primi dizionarî appaiono per uso umanistico: quello di J. Cardoso (1570), di A. Barbosa (1611), fino ai 10 voll. di R. Bluteau (Vocabulario portuguez e latino, 1712-28), e al tentativo, soltanto iniziale, dell'Accademia della lingua, intorno al 1793: ha valore di documento il ricco frasario di J. de Santa Rosa (1798).

Ma solo nel volgere del sec. XVIII e nell'affacciarsi del sec. XIX si doveva pienamente conseguire la consapevolezza della continuità storica delle lingue romanze, colte e rintracciate nel loro secolare sviluppo e immerse nell'operosa realtà della vita sociale, politica, geografica, letteraria di tutto il Medioevo: l'impulso venne - questa volta - dalla Germania romantica (v. qui sopra: Filologia germanica).

I primi investigatori del Medioevo si formano o si rivelano nella redazione dell'Histoire littérale de la France, ideata dai benedettini di Saint-Maur (1733) e continuata dall'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres (dal 1807). Per lo più seguono la tradizione erudita del Settecento, ma ne rinsaldano i metodi con una più viva coscienza storica: qualcuno di educazione umanistica, come J.-V. Le Clerc, che vi porta gli schemi classici, specie nello studio della poesia e della metrica latina medievale, dell'agiografia, della produzione dottrinale; altri invece, come B. Hauréau, di spiriti conservatori e archivisti di professione, diventano romantici via via che si adeguano al pensiero medievale. E bibliotecarî, bibliofili e paleografi furono È. Littré (v.), P. Paris (v.), L. Delisle (v.), N. de Wailly (v.). Ma su tutti domina la figura di Claudio Fauriel (v.) per il fervore delle sue idee e per l'ampia portata delle sue sintesi, nelle quali si dispiega sempre una teoria che trascende le conclusioni particolari per abbracciare letterature e civiltà più vaste. Nella sua sensibilità, l'interesse per le origini e il metodo comparativo, essenzialmente romantici e tedeschi, trovano la più limpida e la più "francese" rispondenza: per suo tramite le teorie sull'epoca primitiva e sulla poesia popolare (intuite già dal Vico e formulate e applicate in Germania da J. G. Herder, da L. Uhland, da F. A. Wolf, da W. Grimm) entrano nel dominio romanzo e ispirano per decennî la letteratura critica successiva. Così a metà dell'Ottocento la vita letteraria dei secoli XI-XIV è virtualmente rivelata e gran parte è già edita; e sebbene l'attività editoriale di Leroux de Lincy, A. Jubinal, F. Guessard, Francisque Michel, ecc. si riveli spesso difettosa, tuttavia alcuni testi non sono stati ancora sostituiti e a molte raccolte si ricorre anche oggi. Seguendo altre vie si maturava l'opera di Fr. Raynouard, che dava la prima e la più ricca antologia trovadorica (voll. 6, 1816-21) e nello studio sistematico di quell'antico lessico si affermava come il primo filologo della poesia e della lingua provenzale (Lexique roman, 1838-44, voll. 6), nonostante la sua teoria che pretendeva identificare una primitiva lingua, comune a tutti gl'idiomi romanzi, con quella occitanica.

Ma la vera e propria filologia, quale s'era venuta costituendo in Germania, penetra nel campo delle lingue e letterature romanze e tonifica gli studî verso un più rigoroso metodo scientifico, soltanto con F. Diez (v.): i suoi studî sui trovatori, e la Grammatica e il Dizionario delle lingue romanze, gettano le più solide basi per l'intelligenza letteraria e linguistica della civiltà romanza. Dalla sua scuola, ma con l'eco ancora vivissima dei primi romantici francesi, deriva G. Paris (v.): la sua Histoire poétique de Charlemagne (1865) proietta luce storica nel mondo dell'epica, della vita, della cultura, dell'intera compagine medievale, e non soltanto francese. Tutta la letteratura d'oïl, dalle sue fonti latine e orientali, classiche e volgari, in rapporto con le altre civiltà romanze e germaniche, si dispiega sotto l'acuto suo sguardo.

Accanto a lui P. Meyer (v.), più erudito ma altrettanto infaticabile e pronto a passare da una questione di testo a una discussione storica, da una controversia linguistica a una ricostruzione di fonti, di origini, di evoluzioni letterarie: la storiografia francese medievale, la letteratura provenzale, la produzione enciclopedica, religiosa, agiografica, allegorica, dottrinale sono esplorate, sistemate, edite.

La loro scuola, assieme a quella degl'Italiani - A. D'Ancona, P. Rajna, ecc. - si disse storica, come quella che era dominata dall'ideale d'intendere l'opera letteraria soprattutto quale documento storico; e la loro critica è anzitutto erudizione, compiutezza di cognizioni, pieno possesso della lingua, della storia, della civiltà di un popolo: conquiste tutte che non sono andate perdute. Ma complessivamente la seconda metà del sec. XIX, mentre sembra reagire al Romanticismo, di questo attua gl'ideali storiografici: soltanto, al fervore sentimentale delle prime ricostruzioni sostituisce un'indagine più rigorosa, che, anche per l'esempio delle scienze positive, si disse allora scientifica.

Il Paris e il Meyer - insieme - fondano la Revue critique d'histoire et de littérature (dal 1866), la Romania (dal 1872), che resterà fondamentale per gli studî romanzi (preceduta soltanto dal Jahrbuch für romanische und englische Literatur di A. Ebert, dal 1859); e insieme dànno il più valido incremento al Journal des Savants (1866), specie dopo il 1884, alla Société des anciens textes français e al relativo Bulletin (dal 1875), alla redazione della classica Histoire littéraire de la France, alla Bibliothèque de l'École des Chartes (già fondata dal 1839) e all'altra dell'École des Hautes Études (dal 1868). Il loro insegnamento si dirama dovunque e nei loro scritti si ritrovano investiti, risolti, accennati o in germe, la maggior parte dei problemi a cui si rivolge la filologia romanza. Alla loro scuola si forma A. Thomas, provenzalista (editore di Bertran de Born, 1888), italianista (v. il suo Francesco da Barberino, in cui segue La diffusione della letteratura francese in Italia, 1883), primo direttore delle Annales du Midi (dal 1889); e si formano molti altri, di diverso valore: divulgatori, come L. Gautier con la sua ponderosa descrizione dell'epopea; editori, linguisti, critici, fino ai più giovani - J. Bédier. A. Jeanroy, F. Earal, ecc. - che hanno introdotto nuovi metodi e nuove rivalutazioni.

La Germania ha sempre più intensificato lo studio del provenzale e del francese, sia nell'aspetto letterario, sia in quello grammaticale e lessicale. G. Gröber, di attività complessa, fondava nel 1877 la Zeitschrift für romanische Philologie, modellata sulla Romania e che fino a oggi rimane il migliore esponente della romanistica tedesca; mentre adunava le migliori sintesi sulle lingue e letterature neolatine, ed egli stesso dava la prima storia della filologia romanza (Grundriss der roman. Philologie, Strasburgo 1889-98, 2ª ed. 1904), includeva testi francesi, spagnoli, italiani e portoghesi nella Bibliotheca Romanica (dal 1907). Nel 1880 era fondato da O. Behaghel e da F. Neumann il Literaturblatt fur germ. und roman. Philologie, dedicato alle analisi critiche delle opere più importanti della filologia germanica e romanza. Al francese si sono dedicati specialmente: W. Förster, editore di Chrétien de Troyes, dell'Atfranz. Bibliothek (dal 1879), della Romanische Bibliotheck (dal 1888); H. Suchier, storico della lingua e della letteratura, editore - tra l'altro - di Aucassin et Nicolette e direttore della Bibliotheca Normannica (dal 1879); E. Koschwitz illustrava i più antichi monumenti, e assieme a G. Körting redigeva la Zeitschrift für franz. Sprache u. Literatur (dal 1880) e i Französische Studien (1881-1893); A. Tobler indagava la versificazione, la sintassi, la tradizione manoscritta; E. Stengel studiava l'epica, la metrica, la grammatica; Ph. A. Becker formulava la teoria delle vie di pellegrinaggio e dei santuarî, ripresa poi dal Bédier; K. Voretzsch dava i manuali più aggiornati sull'antica lingua e letteratura d'oïl (Einführung in das Studium der altfr. Sprache, 1901, 5ª ed. 1918; Einf. in das St. der altfr. Literaturgeschichte, 1905, 3ª ed. 1925); K. Vollmöller con le sue Romanische Forschungen (dal 1882) e Gesellschaft für rom. Literatur (dal 1902), fino ai più giovani: A. Hilka, che continua la Zeitschrift del Gröber, R. Zenker che prosegue le Forschungen del Vollmöller, E. Lommatzsch che dirige i Romanische Texte (dal 1920), ecc., tutti educati alla più schietta tradizione filologica.

I più hanno considerato la poesia trovadorica, di cui il Diez aveva posto le migliori fondamenta: dalla raccolta di C. A. F. Mahn (Die Werke, 1846-53; Gedichte, 1856-73) di K. Bartsch (Provenzalisches Lesebuch, 1855; Denkmäler, 1856; Grundriss zur Geschichte der prov. Liter., con l'Alphabetisches Verzeichnis, 1872), all'esplorazione delle raccolte manoscritte di G. Gröber (Die Liedersammlungen der Troubadours, 1877) ai Denkmäler di H. Suchier (1883), alle Provenz. Dichterinnen di O. Schultz-Gora (1888), alle varie raccolte di K. Appel (1892-98), ai varî glossarî, fino al Provenzalisches Supplement-Wörterbuch di E. Levy (dal 1892) e ai contributi particolari di molti altri. Sono notevolissime alcune edizioni, come quella di K. Appel (Bernart von Ventadorn, 1915), di A. Stimming (Bertran de Born, 1879 e 1892), A. Kolsen (Giraut de Bornelh, 1910), R. Zenker (Peire von Auvergne, 1900), ecc.

Fervida si manifestò subito in Germania la simpatia per la poesia spagnola: già il teatro del Cinquecento e il patrimonio leggendario che ad esso si ricollega erano entrati nel gusto europeo fin dal Seicento: ora la critica romantica rivalorizzava storicamente quella stessa produzione e il fascinoso lirismo dei romances: attraverso la storia drammatica dello Schlegel, la critica filologica di F. Diez (Altspanische Romanzen, 1821), le edizioni divulgative di J. N. Böhl de Faber (Floresta de rimas antiguas castellanas, 1822-25; Teatro español anterior a Lope de Vega, 1832), la minuta analisi di F. Schack sulla letteratura drammatica (voll. 6, 1845-46) l'antologia di F. J. Wolf e C. Hofmann (Primavera y Flor de romances, 1856), gli studî di F. Wolf (Studien zur Gesch. der span. u. port. Nationalliteratur, 1859), ecc.

E da questi inizî si avvia la filologia nella penisola iberica: il primo maestro è catalano, M. Milá y Fontanals, il quale con la sua larga preparazione - che spaziava dalle letterature classiche alle moderne - gettò le basi per la ricostruzione del passato iberico; i suoi studî sui trovatori in Spagna (1861), sulla Poesía heroico-popular castellana (1874), sui Cancioneros, su Bastero (1856), sulle influenze delle letterature italiana e francese in Castiglia e in Catalogna, ecc., sono rimasti classici (v. le sue Obras Completas, voll. 8, 1888-96). Suo discepolo e continuatore è A. Rubió i Lluch, il migliore illustratore della Catalogna medievale, con lavori eruditi (Documents per l'historia de la cultura catalana mitjeval, I908-1921), con singole monografie, con opere divulgative, formando una schiera di studiosi attorno all'Institut de estudis catalans, promovendo edizioni, rivalutazioni e rivendicazioni del pensiero, della poesia, della civiltà catalana in seno alla più generale vita iberica e romanza. Dal Milá y Fontanals si dirama la scuola storico-filologica più propriamente spagnola: è soltanto grazie all'opera vastissima di M. Menéndez y Pelayo che la vita intellettuale della Spagna e, in genere, di tutta la penisola, è elevata al livello delle altre maggiori letterature, vagliata e illuminata attraverso quei metodi che la storiografia europea veniva allora perfezionando: notevole precedente per una grande esplorazione dell'età medievale è quello di J. Amador de Los Ríos (Historia crítica de la liter. española, voll. 7, 1861-65), ma ormai invecchiato. Le opere invece del Menéndez y Pelayo - come, tanto per citare quelle in cui è preponderante l'interesse per i primi secoli, la Historia de la poesía castellana en la edad media (voll. 3, 1911-1916), l'Antología de los poetas líricos castellanos (voll. 14, 1890-1908) con i loro prologhi informatissimi ed esaurienti, le origini della novella (1905-1910), la Historia de las ideas estéticas en España (voll. 9, 1883-I891), la grande Bibliografía hispano-latina (1902), che tenta una storia della cultura classica e medievale in Spagna e della sua influenza nella letteratura volgare, gli Estudios de crítica literaria (voll. 5, 1893-1908) - rimangono tuttora, sebbene qua e là rettificate, integrate, sviluppate, le più comprensive sintesi della civiltà iberica nel suo secolare svolgimento. Egli stesso continuava con la Nueva bìblioteca (voll. 25, 1907-1918) la grande Biblioteca de autores españoles di M. Rivadeneyra (voll. 71, 1846-80), la fonte più ricca per i testi antichi, accanto alle varie collezioni del Baudry (Parigi 1840-72, voll. 40), del Brockhaus (Lipsia 1863-87, voll. 48) e la grande Colección de escritores castellanos (1880-1915, voll. 160). Da lui prende le mosse R. Menéndez Pidal, che però si è affinato al metodo più strettamente filologico, circoscrivendo il campo delle indagini alla Spagna romanza: la grande edizione del Cid (1908-1911, e v. La España del Cid, 1929), gli studî sulla leggenda degli Infantes de Lara, sulle origini della poesia lirica spagnola, l'edizione dei romances, la storia della poesia giullaresca, la grammatica storica del castigliano, gli studî sul primo affiorare del volgare nella penisola, la direzione della Revista de filología española (dal 1914) e di tutta quella fiorente scuola che fa capo al Centro de estudios históricos.

E al mondo iberico si son rivolti studiosi di altri paesi, alcuni dedicandovisi interamente, come R. Foulché-Delbosc con la direzione della Revue hispanique (dal 1894, a cura della Hispanic Society of America), A. Morel-Fatio con i suoi Études sur l'Espagne (1888-1904), con la direzione del Bulletin hispanique (dal 1899), J. Fitzmaurice-Kelly, con la sua storia letteraria, L. Pfandl, J. P. Chrawford, ecc., e altri ancora, portandovi diverse e più mature esperienze, come A. Farinelli, B. Croce, M. Casella, E. Levi, ecc.

Nel Portogallo T. Braga (v.) esplorava, riassumeva, divulgava la letteratura della sua nazione. E sebbene non possedesse appieno gli strumenti della filologia romanza e a volte gli facesse difetto il senso storico e non sempre lo aiutasse la sua mentalità positivistica e la sua sensibilità più discorsiva che penetrante, egli infuse un vivo lievito nella critica letteraria: la Poesia popular portugueza (1867), i Trovadores Galecio-Portuguezes (1871), le sue svariate storie letterarie - dai primi tentativi del 1870 alle più ampie trattazioni (Historia da litteratura portugueza, specie il vol. I: Edade Media, 1909) - illustrano il Medioevo. F. de Figueiredo è il rappresentante più garbato della moderna critica portoghese, con le sue particolareggiate storie letterarie e con i suoi saggi critici, filosofici, biografici e bibliografici (utile A Critica litteraria como sciencia, 3ª ed., Lisbona 1920).

Rigorosa nel metodo e profonda nella conoscenza del periodo arcaico è l'opera di C. Michaëlis de Vasconcellos, con le ricerche sui più antichi canzonieri, sul portoghese antico, sulle romanze popolari, con l'edizione dei Romances Velhos (1907), del Cancioneiro da Ajuda (1904), con la collaborazione al Grundriss del Gröber, ecc.; l'attività di J. Leite de Vasconcellos, con i suoi studî folkloristici, filologici, linguistici, con la sua Revista lusitana (dal 1887); quella di A. Fr. Coelho, più grammaticale e lessicografica; fino a J. J. Nunes, editore di testi antichi e conoscitore della lingua arcaica. Del resto, il Portogallo medievale ha una produzione letteraria assai scarsa, se si fa eccezione per la lirica in lingua gallega.

E così - per ragioni più ovvie - la Romania, che ha avuto una civiltà medievale del tutto diversa e al di fuori dalla tradizione latina, non rientra nella sfera della filologia romanza, se non per la linguistica (v.).

In questa feconda attività europea s'inseriva la filologia italiana, articolata da una pluralità d'interessi, adottando e affinando i metodi delle altre filologie, nel cogliere soprattutto il trapasso dalle vicine civiltà romanze a quella più propriamente italiana, nel seguire le varie forme poetiche, nel discriminare una tradizione colta da un prodotto popolare, nel ricostituire la storia di un testo e la diffusione di un motivo poetico. La scuola di A. D'Ancona, di P. Rajna, di D. Comparetti, di A. Bartoli, di F. D'Ovidio, di E. Monaci, fu fertilissima nel raggiungere nuovi risultati e nuove sintesi, e nell'aprire più ampie vie all'indagine critico-storica. Battendo soprattutto sull'epica, P. Rajna si ricollegava alla migliore tradizione romantica: nel risalire dalla materia cavalleresca del Morgante (1869), attraverso la catena intermedia e ininterrotta della tarda fioritura francese e dei poemi franco-veneti (1870-73), egli ristabilì con una perfetta documentazione la continuità e i trapassi delle leggende carolinge dalla Francia in Italia, dal periodo eroico all'età lirica, dall'inerte imitazione al successivo imborghesimento, finché divennero oggetto di spasso e alimento alle visioni della pura fantasia ariostesca (Fonti dell'Orlando Furioso, 1876). Conclusione magistrale di questa lenta, paziente e sicura costruzione sono Le origini dell'epopea francese (1884). È, questo, il coronamento delle teorie del Herder, del Fauriel, del Paris; ma con la viva esperienza della letteratura italiana - che sembrava offrirgli, senza soluzione di continuità, lo svolgimento dalla prima, originaria ed embrionale poesia popolare all'arte riflessa, razionale e formale del Rinascimento - e con il suffragio di continue prove, attinte alla storia, al costume, alle istituzioni, alla cronachistica, al patrimonio leggendario, alla toponomastica, alle condizioni sociali e geografiche, al multiforme articolarsi della vita barbarica e civile del Medioevo. Per più di un cinquantennio il Rajna consolida la filologia romanza: perfeziona la recensione del testo con il De vulgari eloquentia (1895), dove, tra l'altro, sono presentati moltissimi problemi di fonetica, di ortografia, di grammatica, di diplomatica medievali; illumina le origini della lingua italiana (1891), mostra l'inesistenza delle Corti d'amore provenzali (1890), pone in termini più congrui la storia delle romanze spagnole (1915), analizza il dualismo spirituale che sta a base della lirica di Guglielmo IX di Poitiers (1928), ritorna con giovanile fervore al testo di Saint Alexis (1929), passando dall'uno all'altro campo del dominio romanzo. Egli professa per primo in Italia letterature neolatine (a Milano, 1874); e un anno dopo altre cattedre s'istituiscono, con F. D'Ovidio a Napoli, con E. Monaci a Roma, con N. Caix a Firenze, con U. A. Canello a Padova. Quest'ultimo - mancato assai precocemente - segnò con l'edizione del difficilissimo Arnaldo Daniello (1883) una data nella storia della critica dei testi provenzali; il Caix con i suoi lavori sul toscano (1874), con Le origini della lingua poetica italiana (1880) diede il primo fondamento scientifico a intendere la formazione del linguaggio letterario. F. D'Ovidio, di preparazione classica e comparatista al pari del Rajna, affrontava delicati problemi di versificazione, analizzava testi frammentarî, lacunosi, linguisticamente ibridi, chiariva l'annosa questione della lingua italiana, interpretando con profondo senso storico il De vulgari eloquentia di Dante e le polemiche manzoniane. Sulla stessa linea si moveva E. Monaci, con un più spiccato interesse per l'inedito, per la tradizione diplomatica, per i più antichi documenti letterarî, con una larga e pronta sensibilità filologica che gli consentiva di spiegare testi portoghesi, spagnoli, provenzali, bassolatini, di portare alla luce e individuare nella veste poetica e in quella linguistica il dramma religioso dell'Umbria o le prime manifesiazioni letterarie delle regioni italiane (Crestomazia italiana dei primi secoli, 1889-1897), dando alla sua disciplina un impulso più celere e formando discepoli e divulgandone le ricerche con la Rivista di filologia romanza (1872-74), che diventava Giornale di fil. rom. (1878-83), poi Studi di fil. rom. (1885-1903) e ancora Studi romanzi (dal 1904).

A presupposti romantici s'ispirava anche A. D'Ancona: per la poesia popolare italiana (1878), per le origini del teatro italiano (1877), per le tradizioni carolinge in Italia (1880-89), per le fonti del Novellino: la sua attività doveva superare difficoltà innumerevoli, in quel primo affermarsi della filologia, disciplinando cognizioni biografiche, storiche, critiche, bibliografiche (v. il Manuale della lett. italiana, 1892-95, assieme al Bacci), tracciando numerosi saggi su questo tema letterario o quel motivo popolare, rendendo accessibile molta parte della prima lirica italiana con la pubblicazione della raccolta Vaticana 3793 (1875, assieme a D. Comparetti), portando ordine e chiarezza in ogni campo della critica (v. la sua Rassegna bibliografica della letteratura italiana, 1893-1900). La novellistica popolare, con metodi analoghi, era investigata da D. Comparetti, fornito d'una sua particolare educazione, classica ma insofferente del particolare e lontana dalla mentalità formale. Egli investiva la cultura medievale con una poderosa visione storicistica (Virgilio nel Medioevo, 1872), tesorizzando quella sua solida conoscenza del mondo antico, bizantino, germanico. A parte la romantica e stilizzata distinzione di cultura libresca e tradizione popolare, nella sua sintesi è genialmente tentata - per la prima volta e a linee lucidissime - un'integrale interpretazione della civiltà occidentale e delle prime e profonde differenziazioni spirituali che si disegnano in seno alle diverse nazionalità romanze - con una fertilità d'idee che riaffiorano tuttora per molti atteggiamenti intellettuali, morali e artistici dell'Occidente e specialmente per molti aspetti del secolo di Dante. Il Giornale storico della letter. italiana, sotto la direzione di A. Graf, R. Renier, F. Novati (1883 segg.), raccoglieva e seguiva il meglio di questa produzione storico-filologica, tenendosi all'altezza della scienza europea. E mentre A. Gral rintracciava filoni dell'eredità classica attraverso la vita intellettuale e leggendaria del latino medievale fino al loro dissolversi e trasfigurarsi nel mondo romanzo, il Novati promoveva con maggiore esigenza scientifica lo studio della cultura italiana nel più sonnolento Medioevo, e discuteva con perizia di dati e con esperienza di condizioni politiche e di pensiero il problema delle origini neolatine e il tardo iniziarsi della vita letteraria italiana (Le Origini, continuate da A. Monteverdi, 1900-1925).

Altri nomi e altri interessi, rivolti sempre alla civiltà medievale e romanza, si affermano e collaborano altrove: dal Bullettino della Società dantesca italiana (1899-1921, con M. Barbi e E. G. Parodi) agli Studi di filologia italiana (dal 1927, a cura dell'Accademia della Crusca), dagli Studi medievali (1904-1913, con F. Novati e R. Renier) ai Nuovi Studi (1923-1927) e alla nuova serie degli Studi medievali.

È un lavorio di ricerche particolari e di sintesi generali che trova ampia risonanza e degni continuatori. Mentre G. A. Cesareo trasportava il problema linguistico e critico della poesia siciliana su un terreno più storico, in rapporto alla sensibilità umana dei singoli rimatori e all'ambiente letterario e politico in cui vivevano, F. Torraca, V. Crescini, N. Zingarelli, C. De Lollis si rivolgevano alla lirica provenzale, alla sua espansione in Italia e alla varia influenza esercitata nel campo letterario, morale, linguistico. V. Crescini con il suo Manuale provenzale (1893, 1926) faceva opera di fine cesellatore: in lui la critica del testo e la descrizione della grammatica acquistano un gusto storico e una chiarezza intellettuale che ne fanno un modello di filologia; N. Zingarelli con l'individuare l'ispirazione amorosa di Rambaldo di Vaqueiras o di Chrétien de Troyes, con l'accertare l'esistenza storica e la fisionomia spirituale di Folchetto di Marsiglia, col seguire le tradizioni medievali che s'immettono nella cultura italiana o sono rielaborate nel genio dantesco; E. G. Parodi con l'edizione del Tristano italiano, con gli studî sulla lingua di Dante, sui dialetti toscani, sul cursus latino nella più antica prosa; G. Bertoni risolvendo una questione linguistica o esplorando una raccolta manoscritta, investendo nel suo complesso la poesia dei trovatori italiani (Modena 1915), adeguandosi con viva ansia teoretica ai maggiori problemi della metodologia filologica e glottologica, con la fondazione dell'Archivum Romanicum (dal 1917), tentando con larghezza d'informazione la sintesi del Duecento italiano (Milano 1911, 2ª ed., ivi 1930), dopo quelle di A. Bartoli, di A. Gaspary, di F. De Sanctis, e accanto all'altra di K. Vossler, che in funzione della genesi della Divina Commedia penetrava il pensiero e l'arte dei secoli anteriori; M. Casella delineando il primo formarsi di una cultura catalana, sia alle origini sia nel Romanticismo; A. Monteverdi riesaminando, dietro la traccia del Novati, la ricca e fermentata cultura dei secoli XII-XIII e il progressivo differenziarsi della realtà e dell'anima italiane: tutti, illuminati a mano a mano da una metodologia più idealistica - e però più storica - son venuti perfezionando gli strumenti filologici.

Or più or meno stretto con lo sviluppo della filologia procede quello della linguistica: per un verso, i più grandi filologi, orientandosi sull'esempio del Diez, hanno alternato la ricerca letteraria con l'indagine glottologica, quando - come spesso accadeva a G. Paris, P. Meyer, P. Rajna, G. Gröber, A. Mussafia, E. G. Parodi, R. Menéndez Pidal - non convergessero entrambe in una stessa ricostruzione storica; ma altri - d'altro canto - si sono attenuti agli studî più propriamente grammaticali, fino a che specie per l'autorevole esempio di G. I. Ascoli la linguistica s'è venuta rendendo sempre più autonoma e differenziata dalla vera e propria filologia. Studiare, infatti, per es., il vocalismo tonico o quello atono, specificare il trattamento di un gruppo consonantico, delimitare i dialetti franco-provenzali o quelli ladini, ricostruire il processo storico geografico della forma abeille, intendere il fenomeno della metafonesi nei dialetti centro-meridionali dell'Italia, e così via, è fare della pura glottologia, anche se esperta - come è necessario - del fenomeno letterario. E G. I. Ascoli, H. Schuchardt, W. Meyer-Lübke, C. Salvioni, J. Gilliéron, M. Bartoli, cioè linguisti di diverse scuole, hanno accentuato questa posizione. Certo però, con il prevalere della concezione idealistica che ha indicato sempre più distintamente la natura spirituale e individuale del linguaggio, specie tra coloro che la intendono in senso più largamente estetico (K. Vossler, L. Spitzer, G. Bertoni) l'opera di poesia, in cui meglio si celebra la libera creatività individuale, è venuta a offrire all'indagine linguistica un campo di esperienze concreto, attuale, vivente. Ma per questi e altri problemi si veda la voce linguistica.

Importa qui seguire la svolta a cui pervenne la filologia allo scorcio dell'Ottocento e al principio del secolo presente. Poiché, mentre nelle mani dei primi maestri la ricerca delle origini e l'indagine tematica si animavano di un'interna molteplicità d'interessi (rapporti fra tradizione dotta e folklore, interferenze culturali di nazioni e civiltà diverse, scambî letterarî e spirituali tra differenti classi sociali, arte individuale e poesia popolare, continuità latina e innovazioni romanze, ecc.), una folla di epigoni le intendeva astrattamente o per difetto di preparazione o per pigrizia mentale, onde il vano moltiplicarsi di lavori al di fuori della realtà storica e privi di concretezza critica, che finivano col gettare il discredito quasi su tutta la filologia: anche su quella che non invecchia per i suoi sicuri risultati e il suo alto valore pedagogico, e senza la quale la ricostruzione del passato non sarebbe oggi possibile. Da questo decadimento del metodo - che si chiamò positivismo, naturalismo, scientismo, e così via - e dalla conseguente reazione, la filologia usciva rinnovata, a contatto e di pari passo con la nuova linguistica e la nuova storiografia. Intesi con maggiore adesione storica i concetti di poesia popolare e di folklore, di origini e di fonti, e intendendo che laddove c'è poesia c'è cultura e dove c'è letteratura c'è tradizione, e che alla base d'ogni manifestazione d'arte si ritrova sempre un movimento di pensiero e si rispecchiano le forme e i graduali sviluppi d'una determinata civiltà, è apparso via via meno forte il distacco tra mondo latino e mondo romanzo e in questo si sono riconosciuti schemi letterarî, ideali artistici, concezioni umane e dottrinarie che in buona parte si rifanno al primo. Ne ha così tratto vantaggio la filologia del Medioevo in generale, soprattutto quella latina che si ricostituiva su nuove basi, mentre gli studî hanno guadagnato d'unità e di concretezza. E la successiva critica, seppure rivolta a nuovi interessi - prevalentemente stilistici, estetici, culturali, non ha disconosciuto l'opera dei maestri, i migliori dei quali, anzi, dotati di quella perenne giovinezza che è propria degli spiriti superiori, hanno ritemprato il proprio metodo, di pari passo con i giovani: in Francia, G. Paris, P. Meyer, A. Thomas, C. Chabaneau, e, tra le nuove generazioni: J. Bédier, A. Jeanroy, E. Faral, i quali hanno operato un vero rinnovamento nella critica; M. Wilmotte, G. Cohen, F. Lot, E. Langlois, Ch.-V. Langlois, J. Anglade, E. Hoepffner, ecc.; in Germania, E. Stengel, K. Appel, W. Foerster, H. Suchier, O. Schültz-Gora, A. Stīmming, Ph. A. Becker, K. Voretzsch, L. Jordan, A. Hilka, ecc.; per il mondo iberico: R. Menéndez Pidal, A. Castro e il loro Centro de estudios históricos; J. Leite de Vasconcellos, F. de Figueiredo; A. Rubió i Lluch, J. Massó i Torrents, M. de Montoliu, L. Nicolau d'Olwer, R. d'Alòs e il loro Institut d'Estudis Catalans; in Italia, accanto a P. Rajna, E. G. Parodi, M. Casella, G. Bertoni, L. F. Benedetto, ecc.; dovunque si afferma una matura coscienza critica, che osserva i fatti letterarî nella loro sostanza individuale e perciò nella più vera concretezza storica. Ancora una volta s'è ritornati all'epica nazionale e cavalleresca (Ph. A. Becker e J. Bédier soprattutto) per immergerla nell'ambiente monastico, clericale, giullaresco e passionale del suo secolo, rintracciarla nelle sue fonti immediate, contemporanee, sentimentali, seguirla nel suo sviluppo di paese in paese, nel graduale arricchirsi di varî elementi culturali, leggendarî, fantastici, legati a un'azione libresca o folkloristica, storica o lirica: ma soprattutto per discriminare, in seno alle canzoni di gesta, la poesia dallo schema, il sentimento attuale e originale dal generico, la fisionomia individuale dall'impersonale, fino a strappare dall'uniformità del "genere" l'opera di poesia nella sua irrepetibile unità, come la Chanson de Roland, la Chanson de Guillaume d'Orange, il Poema de mio Cid, e così via. I romanzi cortesi, la poesia lirica, la materia di Bretagna, il ciclo del Graal, il teatro religioso, la poesia mistica, i favolelli, l'attività poetica e sociale dei giullari, dei chierici, dei laici, dei borghesi, tutta la vita letteraria latina e romanza che s'accende e s'irradia dal Medioevo è sempre più individuata nelle sue fonti scritte e prossime, nel particolare clima culturale, sociale, politico, nella inconfondibile diversità di stili e di autori, di temperamenti lirici e di aspirazioni letterarie. Al sincretismo dei generi, degli schemi e della materia per sé considerata, alla concezione evoluzionistica delle forme e dei cicli poetici, s'è sostituita una più congrua visione delle singole letterature nel loro conformarsi e svolgersi entro una particolare fisionomia nazionale; e al romantico livellamento di quella poesia, intesa come prodotto popolare, collettivo, anonimo, sorta per improvvisa e astratta gemmazione, s'è via via introdotta la valutazione della forma individuale, lirica, elaborata, con i segni di una cultura, di una poetica di una tradizione. I Lais, p. es., di Maria di Francia non sono più dissolti nel folklore celtico, ma s'intendono in funzione del momento lirico che li anima e li crea, un favolello è visto nella sua entità fantastica, anziché disperso nella storia esterna del suo tema; la poesia di Arnaldo Daniello, di Alfonso X, di Chrétien de Troyes, dell'Arcipreste de Hita è riassorbita nell'accento sentimentale che la determina e la differenzia. Ecco perché, poco per volta, gli studî di filologia romanza si avviano verso una più netta specializzazione di questa o quella letteratura, pur serbandosi nei migliori critici la coscienza dell'unità del mondo neolatino-medievale.

Anzi la filologia del Medioevo latino, per impulso soprattutto dei Tedeschi, ha sempre più esteso il proprio campo d'indagine, costituendosi come disciplina autonoma, da L. Traube, a W. Meyer, P. v. Winterfeld, P. Lehmann, K. Strecker, M. Manitius, ecc., per i quali lo studio del Medioevo è inteso a complemento di una più vasta "latinità", classica e romanza; ma nello stesso tempo sono individuati i modi e le vie attraverso cui si viene configurando iì pensiero medievale nelle sue nuove e originali forme, studiate, seguite e localizzate nei varî paesi, nei diversi ambienti, nel continuo processo stilistico (v. per questi metodi la voce medioevo).

In Italia, l'eredità di un Carducci, di un D'Ancona, di un Rajna - accettata e rinvigorita da altri, anch'essi maestri di filologia (F. D'Ovidio, F. Novati, E. Monaci, F. Torraca, V. Crescini, M. Barbi, ecc.) - si veniva consertando con la tradizione estetica del De Sanctis, continuata dal Croce con un maggiore approf0ndimento dei criterî metodologici e con una più vasta risonanza nella cultura generale della nazione. Critici, più amni per educazione o per mentalità alla scuola storica, non rimanevano estranei ai successivi orientamenti: qualcuno, come E. G. Parodi - filologo e linguista - si evolveva con geniale prontezza; altri - C. De Lollis, F. Torraca, V. Rossi - accentuavano questa o quella tendenza, stilistica, erudita o artistica; alcuni hanno risentito delle nuove correnti, E. Gorra, A. Restori, P. Savj-Lopez; o si tengono più sicuri nella critica dei testi, L. Biadene, V. De Bartholomaeis, S. Debenedetti; altri invece si muovono più risolutamente nella nuova critica, che risolve e identifica, volta per volta, la ricerca filologica e linguistica con l'indagine più propriamente storico-estetica: G. Bertoni, M. Casella, L. F. Benedetto, A. Monteverdi, L. Sorrento. Così il contributo della filologia italiana, nel campo romanzo, è molteplice, non inferiore a quello delle altre nazioni, e anzi, specie di recente, assai vitale per una maggiore consapevolezza teorica e una più salda concretezza storica. A ciascuna delle letterature romanze, per sé stessa o in rapporto a quella italiana, si sono rivolti specialisti di lunga preparazione: al provenzale, N. Zingarelli, V. Crescini, G. Bertoni, V. De Bartholomaeis; al francese antico, F. Neri e L. F. Benedetto; allo spagnolo e al catalano, B. Croce, A. Farinelli, M. Casella, E. Levi; al latino medievale A. Monteverdi e A. Schiaffini: esperti nell'accertare la giusta lezione di un testo e nel penetrare la personalità di un poeta, nell'individuare la storia di un fenomeno linguistico e nel ricostruire l'ambiente culturale di un'età o di un'opera. L'operosità critica di questi anni tende a cogliere, pur entro alla più vasta civiltà medievale e romanza, le caratteristiche di una tradizione più particolarmente italiana, tenendo vivi e presenti i legami con la realtà politica, con la vita del pensiero, con le speciali condizioni delle singole regioni, con l'individualità differenziata di ciascun poeta.

Se mai, è ancora da farsi, almeno nella maggior parte, la ricostruzione critica dei testi, che pare anzi trascurata e disdegnata dalle più giovani generazioni, alle quali non mancano certamente modelli italiani del miglior metodo filologico: il De vulgari eloquentia di P. Rajna, la Vita nuova e le indagini sul testo del Decamerone di M. Barbi, le ricerche di V. Rossi sulle raccolte epistolari del Petrarca, il Milione di L.F. Benedetto, il Principe di M. Casella, l'Orlando furioso di S. Debenedetti, ecc., nelle quali opere la critica testuale è sorretta dalla conoscenza linguistica, letteraria e spirituale del tempo e risale alla personalità poetica che vi si è tradotta.

Bibl.: F. Neumann, Die romanische Philologie, Lipsia 1886 (trad. ital., Città di Castello 1893); G. Gröber, Grundriss der romanischen Philologie, Strasburgo 1889-1898, 2ª ed. 1904; E. Gorra, Lingue neolatine, Milano 1894; P. Savj-Lopez, Le origini neolatine, Milano 1920; G. Bertoni, Programma di filologia romanza, Ginevra 1923; S. Debenedetti, Gli studî provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911, e dallo stesso una sintesi aggiornata nel vol. I di Italia e Provenza, Firenze 1930. Cfr. A. Monteverdi, Neolatine, in La Cultura, X (1931), pp. 761-774 con la relativa bibliografia; e la voce linguistica.

Filologia slava.

Delle varie branche della filologia, quella slava è una delle più giovani. Non già che manchino, sin dal Rinascimento, saggi documentati sui diversi aspetti delle singole civiltà slave, e poi anche tentativi di abbracciare, in scorci sintetici, tutto il mondo slavo (p. es. l'attività letteraria del croato J. Križanić e l'opera il Regno degli Slavi, 1601, di Mauro Orbini); ma perché, nel campo strettamente filologico, si tratta piuttosto di raccolte di materiali, anziché della loro interpretazione critica.

Soltanto verso la fine del sec. XVIII e il principio del sec. XIX, grazie soprattutto al diffondersi presso gli Slavi delle correnti razionalistiche si avvertono, prima presso i Cèchi poi presso i Polacchi e i Russi, i primi avviamenti a un'interpretazione più metodica dei documenti del passato; nello stesso tempo l'interesse filologico, partendo da ricerche regionali, si estende a tutti i popoli slavi e ha per fulcro il momento decisivo per la storia delle loro lingue e della loro civiltà: l'origine del paleoslavo. Al cèco J. Dobrovský spetta di diritto il titolo di "padre della filologia slava": per le sue opere sulla lingua e letteratura cèca e per le sue fondamentali Institutiones linguae slavicae veteris dialecti (1822) e per il grande numero di seguaci che il suo esempio trovò presso gli altri Slavi. Quasi negli stessi anni S.B. Linde in Polonia (autore del grande dizionario polacco, con riferimenti a tutte le lingue slave, 1807-1814), A. Ch. Vostokov in Russia (ediz. critica del Vangelo di Ostromir, 1820) e J. Kopitar a Vienna completano l'opera del Dobrovský. Allo sloveno Kopitar spetta inoltre il merito di aver promosso e sorretto l'attività grammaticale, lessicale e folkloristica del serbo Vuk Karadžić (1787-1864) che trovò in Gi. Daničić (1825-1882) un intelligente continuatore della sua opera fecondissima. Non soltanto per le sue indagini sulle antichità slave, ma anche per i suoi studî sulla letteratura serba e sul paleoslavo si è distinto lo slovacco P. J. Šafařík (1814-1846), mentre il cèco J. Jungmann (1775-1854) si è acquistato grandi meriti per lo studio della letteratura cèca e del lessico cèco. L'opera di quest'ultimo risente già dell'influsso del romanticismo, che però, a differenza di quanto avvenne nella filologia germanica, non ha, in alcun tempo, determinato completamente l'indirizzo della filologia slava. Il Corso di letterature slave tenuto a Parigi dal poeta polacco A. Mickiewicz occupa, e non soltanto da questo punto di vista, un posto a parte nella storia della filologia slava.

Tutti superò, per la vastità e compiutezza dei suoi studî, lo sloveno F. Miklosich (1813-1891) che da solo, in quasi cinquant'anni di attività, indagò tutte le lingue slave (Vergleichende Grammatik der slavischen Sprachen, 1852-1875) e il loro rapporto lessicale con parecchie lingue confinanti. Il suo successore alla cattedra di Vienna, il croato V. Jagić (1838-1923) concentrò i suoi studî soprattutto sul paleoslavo, e in questo campo egli è rimasto tuttora insuperato. È inoltre merito suo di aver fondato nel 1876, l'Archiv für slavische Philologie, di aver sostenuto coi suoi studî e col suo ascendente personale l'unità della filologia slava, e infine di aver indotto a collaborarvi, accanto agli studiosi slavi, anche parecchi tedeschi, tra i quali A. Leskien, autore, fra altro, del fondamentale Handbuch der altbulgariscen Sprache (1870).

Negli ultimi decennî del secolo scorso pochi slavisti hanno continuato a fare oggetto delle loro ricerche più di una lingua o letteratura slava (J. Baudouin de Courtenay, V. Vondrák, A. Brückner, J. Máchal, M. Murko, E. Berneker, R. Nahtigal, ecc.); la maggior parte ha preferito, data la sempre crescente mole dei materiali da elaborare, limitarsi allo studio di singole lingue o di singole letterature slave; e anche fra questi, per l'indole stessa delle loro indagini, sono piuttosto i linguisti (F. F. Fortunatov, A. A. Gachmatov, E. F. Karskij - fra i russi, J. Łoś, J. Rozwadowski, K. Nitsch - fra i polacchi; J. Zubatý, O. Hujer - fra i cèchi; M. Resetar, A. Belić - fra i serbi e croati; Ly. Miletič, K. Mladenov - fra i bulgari) che hanno fornito utili contributi alla filologia slava. Nello studio delle antichità slave il cèco L. Niederle si è affermato degno successore dello Šafarík.

Nello stesso tempo anche negli altri paesi non slavi oltre che in Germania, è andato intensificandosi l'interesse per il mondo slavo: in Francia (L. Leger, A. Meillet, A. Mazon), in Inghilterra (W. R. Morfill), in Olanda (N. van Wijk); nei paesi scandinavi (O. Broch), in Finlandia (J. J. Mikkola) e altrove. In Italia l'interesse per la filologia slava è stato, prima della guerra mondiale, piuttosto casuale; subito dopo, nel 1920 è stata fondata a Padova la prima cattedra di filologia slava, e quasi contemporaneamente sono sorte alcune riviste (Europa Orientale, Russia, Rivolta di letterature slave) dedicate in parte o completamente al mondo slavo.

Bibl.: V. Jarić, Istorija slavjanskoj filologij, Pietroburgo 1910; A. Brückner, Slavisch-Litauisch, in Geschichte der indogermanischen Sprachwissenschaft, edita da W. Streitberg, Strasburgo 1917.

Altre filologie.

Con parziale limitazione pratica del concetto teoretico di filologia come conoscenza integrale di determinate civiltà, le varie filologie di cui fin qui si è delineata la storia hanno soprattutto mirato all'interpretazione dei documenti letterarî volta a volta dell'antichità classica, del mondo germanico e romanzo e così via. In questi territorî le altre discipline, archeologia ed epigrafia, etnografia e storia politica, religiosa, giuridica, ecc., hanno praticamente assunto propria autonomia, e seguito proprie vie. Per la conoscenza di altre civiltà, invece, quale ad es. le americane precolombiane (v. americanistica) e il gruppo complesso ed eterogeneo delle civiltà orientali, la conoscenza ancor meno progredita e il meno esplorato campo di ricerca rendono difficile o addirittura impossibile il separare la filologia in quanto ermeneutica più propriamente letteraria dalle altre scienze suaccennate che tuttora strettamente collaborano con essa nello studio di quelle civiltà. Per quanto riguarda quindi l'Oriente in senso lato (Antico Oriente, India, Estremo Oriente, Islām, ecc.) i principali rappresentanti, indirizzi e metodi dell'indagine europea sulle sue varie civiltà sono esposti in un unico articolo sistematico sotto la voce orientalismo. Cenni sull'attività filologica indigena secondo i metodi tradizionali nei singoli paesi, sono in particolari casi inseriti nella storia delle rispettive letterature (v. p. es., arabi, III, p. 860).

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