Filosofia analitica

Dizionario di filosofia (2009)

filosofia analitica


In senso lato, ogni impostazione metodologica basata su tecniche concettuali che, pur differenziandosi a seconda dei vari campi di applicazione, s’imperniano tutte sull’analisi, concepita come strumento essenziale dell’indagine. In questo senso si può parlare di f. a. a proposito del Saggio sull’intelletto umano lockiano, delle ricerche di Hume, di certe analisi kantiane, herbartiane e husserliane. In senso specifico, l’espressione indica un orientamento di pensiero sviluppatosi soprattutto in Inghilterra dagli inizi del sec. 20°, e volto prevalentemente allo studio del linguaggio nei suoi vari aspetti (logici, scientifici, quotidiani, etici, ecc.), privilegiando l’analisi di problemi specifici rispetto all’elaborazione di sistemi ampi e comprensivi.

La scuola di Moore

Portando fino alle ultime conseguenze le premesse dell’empirismo inglese tradizionale, G.E. Moore fondò a Cambridge, dove con un insegnamento trentennale (1911-39) influenzò profondamente tutta la filosofia inglese, una scuola destinata a svilupparsi fino ai giorni nostri. L’accettazione di un consapevole realismo conduce Moore ad assumere come compito essenziale della filosofia la chiarificazione delle assunzioni implicite, sul piano linguistico, del senso comune, nell’intento specifico di garantire più rigorosamente i presupposti realistici.

La teoria delle descrizioni di Russell

Per altra via, partendo da indagini di tipo logico-matematico e riprendendo spunti dall’opera di Frege, senza tuttavia trascurare teorie come quelle di Meinong sugli «oggetti», Russell perveniva a un’indagine logica e linguistica delle proposizioni matematiche, che sfociava da un lato nella teoria delle «descrizioni definite», dall’altro nella teoria dei tipi, tentativo di risolvere le difficoltà connesse alla scoperta dei paradossi relativi alla fondazione logistica della matematica di Frege. La teoria delle descrizioni evitava le difficoltà della concezione ontologica del linguaggio espressa particolarmente da Meinong – secondo la quale è necessario attribuire qualche forma di esistenza a qualsiasi entità nominata nel discorso –, eliminando l’apparente riferimento ontologico delle espressioni descrittive prive di denotazione (descrizioni improprie quali ‘l’attuale re di Francia’) attraverso parafrasi formali delle asserzioni in cui le descrizioni occorrono. Il Tractatus logico-philosophicus (1922; trad. it.) di Wittgenstein, in cui confluiscono i risultati e i problemi delle ricerche sia di Frege sia di Russell, oltre all’introduzione di tecniche logiche originali (calcolo proposizionale con metodo delle matrici), pone l’esigenza di giungere a formulare una filosofia generale del linguaggio in cui vengano a riassorbirsi i tradizionali problemi gnoseologici e metafisici.

Il positivismo logico

Alla f. a. si è soliti ricondurre il positivismo logico () che, traendo spunto da alcune tesi del Tractatus, con Schlick elabora (Positivismus und Realismus, 1932) il cosiddetto principio di verificazione («Il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica»), introducendo l’esigenza di un radicale riduzionismo antimetafisico. Caratteristico in questo contesto è il saggio di Carnap Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache (1931), in cui si tenta di invalidare sul piano stesso della formulazione linguistica le tesi metafisiche (in partic. quelle di Heidegger). Le posizioni neopositivistiche sono mediate in Inghilterra da Waismann, già membro del Circolo di Vienna, e A.J. Ayer, la cui opera Language, truth and logic (1936; trad. it. Linguaggio, verità e logica) costituisce una brillante esposizione della nuova filosofia neopositivistica. Waismann, con la Einführung in das mathematische Denken (1936; trad. it. Introduzione al pensiero matematico), si riallaccia più direttamente a Wittgenstein, mostrando inoltre una particolare attenzione per i diversi livelli e le diverse stratificazioni linguistiche, al di là di una sistemazione strettamente logico-formale del linguaggio. Sempre più chiaramente si fa luce quest’esigenza nell’ambito della filosofia inglese dopo il 1930, specie attraverso l’opera di Wisdom e Ryle, in cui il significato dell’analisi viene a mutare radicalmente. Ne fa fede lo slogan «Non badate al significato [di una proposizione], ma all’uso». L’incontro fra il positivismo logico e le correnti pragmatistiche statunitensi, in seguito al trasferimento negli USA di gran parte degli esponenti del movimento neopositivista (come Carnap, Reichenbach, Hempel), determina una confluenza di interessi e crea uno stimolo reciproco. I prodotti più significativi si possono ritenere i saggi di Quine sui problemi ontologici, logici e semantici (From a logical point of view, 1953, trad. it. Da un punto di vista logico; Word and object, 1960, trad. it. Parola e oggetto), le ricerche di Goodman sui linguaggi fenomenisti e sull’inferenza induttiva (The structure of appearance, 1951, trad. it. La struttura dell’apparenza; Fact, fiction and forecast, 1954, trad. it. Fatti, ipotesi e previsioni) e, successivamente, gli studi di Putnam sui problemi del significato, della verità e del realismo (Philosophical papers, 3 voll., 1975-83, trad. it. del I vol. Mente, linguaggio e realtà; Reason, truth and history, 1981, trad. it. Ragione, verità e storia), nonché quelli di Kripke sulla logica modale e il riferimento dei termini linguistici (Naming and necessity, 1972; trad. it. Nome e necessità).

Il secondo Wittgenstein

Frattanto, nella seconda fase del suo pensiero, Wittgenstein (Philosophische Untersuchungen, post., 1953; trad. it. Ricerche filosofiche), abbandonata la concezione strettamente referenzialista e raffigurativa del linguaggio sostenuta nel Tractatus e implicante una corrispondenza speculare tra linguaggio e realtà, rivolge la sua attenzione quasi esclusivamente alla molteplicità e alla varietà degli usi del linguaggio e al suo funzionamento, proponendo la teoria dei giochi linguistici e svolgendo un’analisi approfondita del linguaggio comune. Cadono così i presupposti per la costruzione di un linguaggio ideale rigorosamente formalizzato e l’indagine si sposta sul problema dei diversi livelli linguistici, sui diversi ruoli delle varie parti grammaticali del discorso nei vari contesti, sulla possibilità di individuare sintassi varie.

La scuola oxoniense

A queste tesi si ricollegano gli esponenti della scuola analitica oxoniense, i cui rappresentanti più significativi, oltre a Wisdom, sono Ryle, che lega a spunti comportamentistici le sue analisi sul significato dei termini mentalisti (The concept of mind, 1949; trad. it. Il concetto di mente), Austin, Strawson, Dummett, che riformula la disputa ontologica tra realismo e idealismo in termini di teorie del significato rivali, e Toulmin, Hare e P.H. Nowell-Smith per i problemi etici, preceduti su questo terreno dall’importante studio dello statunitense Stevenson (Ethics and language, 1944; trad. it Etica e linguaggio). A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta è sempre più diffusa nella f. a. la prospettiva di analisi inaugurata da Austin con il postumo How to do things with words (1962; trad. it. Come fare cose con le parole), dove il discorso viene concepito come un insieme di atti linguistici caratterizzati da una loro particolare «forza»; grande interesse e influenza avrebbe suscitato, in tale contesto, la proposta da parte di Austin del concetto di enunciati performativi, ossia di enunciati che non descrivono un atto ma servono a compierlo. Un analogo approccio «pragmatico» al linguaggio è presente nell’opera di Grice, al quale si deve una definizione del significato nei termini delle «intenzioni» del parlante di produrre effetti sull’uditorio. Una sistematica presentazione della concezione del linguaggio e dei problemi filosofici iniziata da Austin si trova poi nell’opera di J.R. Searle Speech acts (1969; trad. it. Atti linguistici), dove il parlare viene concepito come una forma di comportamento e ci si impegna nel descriverne compiutamente le regole.

Le indagini sull’azione

Altri sviluppi della f. a. hanno riguardato l’analisi del linguaggio relativo all’azione e alla sua spiegazione, spesso in stretta connessione con le problematiche raggruppate sotto l’espressione «filosofia della mente». Le indagini sull’azione, risalenti originariamente a osservazioni di Wittgenstein e Ryle, hanno avuto tra i loro maggiori esponenti Anscombe (Intention, 1957; trad. it. Intenzione), P. Winch (The idea of a social science and its relation to philosophy, 1958; trad. it. Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia), von Wright (Explanation and understanding, 1971; trad. it. Spiegazione e comprensione) e D. Davidson (Essays on actions and events, 1980; trad. it. Azioni ed eventi).

La filosofia post-analitica

A circa un secolo dalla sua nascita la f. a. ha subito trasformazioni che la differenziano dalla forma di indagine filosofica incentrata sullo studio del linguaggio con cui si presentava agli esordi. L’evoluzione interna della f. a. ha dato luogo a vari lavori storiografici (M. Dummett, Ursprünge der analytischen Philosophie, 1988, trad. it. Alle origini della filosofia analitica; F. Restaino, Filosofia e post-filosofia in America, 1990; F. D’Agostini, Filosofia analitica, 1997) e, talvolta, all’utilizzazione della qualifica di filosofia post-analitica (Post-analytic philosophy, a cura di J. Rajchman, C. West, 1985) per indicare un tipo di riflessione che, pur traendo alimento dai problemi della f. a., appare per rilevanti aspetti critica nei confronti dei suoi principi ispiratori tradizionali. Infatti, se è vero che vi sono tuttora autori che continuano a considerare la f. a. come studio dei problemi filosofici tradizionali (metafisici, conoscitivi, etici, estetici) attraverso l’analisi del linguaggio (secondo quella che è stata definita la «svolta linguistica»), è anche vero che una porzione non esigua della f. a. si è aperta a nuovi tipi d’indagine, conservando naturalmente l’attenzione per i dettagli e per l’«analisi» propriamente detta, ma ampliando la sua metodologia in un modo che potrebbe definirsi non ortodosso. In tale prospettiva va ricordato soprattutto Rorty (Philosophy and the mirror of nature, 1979; trad. it. La filosofia e lo specchio della natura), che, nel tentativo di differenziarsi dalla tradizione analitica ancora dominata dalle concezioni «rappresentazionaliste» della conoscenza di origine moderna, ha guardato con favore al pragmatismo di Dewey, al relativismo e allo storicismo post-positivista (Kuhn) e all’ermeneutica di Heidegger e Gadamer.

L’incontro con l’ermeneutica

Mediato dalle dottrine dell’ultimo Wittgenstein, un’altra caratteristica della f. a. degli ultimi decenni del sec. 20° è l’incontro con l’ermeneutica (basti qui ricordare autori come Taylor, S. Cavell, H. Dreyfus, J. Margolis). L’analisi del significato ha naturalmente continuato a essere al centro dell’interesse di molti autori, ma in modo più articolato che in passato: se in Dummett essa è, in linea con le tesi di Frege e con una visione tradizionale della f. a., soprattutto analisi del pensiero attraverso lo studio delle competenze linguistiche che ciascun parlante deve avere per essere in grado di comunicare e pensare in modo sensato, in Putnam è essenzialmente lo studio del rapporto tra linguaggio (o mente) e realtà mediato dalle pratiche acquisite in una comunità socio-culturale, mentre per altri autori (tra cui si è segnalato soprattutto Searle), l’indagine sul linguaggio non può essere separata da quella più ampia che riguarda l’azione e il comportamento in una comunità. In Davidson, forse l’autore che ha goduto di maggiore fortuna tra gli anni Ottanta e Novanta del sec. 20°, lo studio del significato, coerentemente con le posizioni del suo maestro Quine (di cui rifiuta tuttavia lo stretto comportamentismo), equivale soprattutto a un’indagine empirica sugli enunciati ritenuti veri dai parlanti e sulle connessioni intercorrenti tra tali enunciati e il più ampio sfondo di credenze dei parlanti stessi, configurandosi come una più generale teoria dell’interpretazione ().

La filosofia della mente

Forse la novità di maggiore rilievo, alla fine del Novecento, è stata l’attenzione per le questioni di tipo psicologico e «mentale». L’interesse per la filosofia della mente (o psicologia filosofica) non è naturalmente nuovo nella f. a.: esso risale almeno a Ryle e Wittgenstein, i quali erano comunque interessati a privare di qualsiasi fondamento, sulla base delle loro analisi linguistiche, il tradizionale dualismo mente-corpo di origine cartesiana. Nel corso degli anni, benché non sia venuto meno l’orientamento monistico della maggioranza dei filosofi analitici, si è comunque dato sempre più spazio agli aspetti tipicamente mentali e psicologici che sovraintendono alle principali attività umane, come parlare in modo semanticamente corretto e agire in modo razionalmente appropriato. Lo studio degli aspetti mentali legati al significato ha finito per rendere spesso sovrapponibili le indagini di filosofia del linguaggio in senso stretto con quelle di filosofia della mente, e un rilievo particolare ha acquisito, in questo ambito di intersezione tra le due sottoaree della f. a., la problematica dell’intenzionalità (), cioè la caratteristica (teorizzata nel Medioevo, ma riscoperta da Brentano) delle asserzioni linguistiche e degli stati mentali di essere tipicamente rivolti a oggetti extralinguistici o extramentali, cioè di avere un intrinseco contenuto. Analizzata originariamente in termini linguistici, l’intenzionalità già dalla fine degli anni Cinquanta del sec. 20°, con le fondamentali ricerche di Chisholm, si avviava a costituire un nucleo tematico con cui la f. a. sentiva di dover fare i conti; in seguito l’intenzionalità (in partic. quella rivelata dai cosiddetti atteggiamenti proposizionali, espressi da locuzioni quali «crede che …», «desidera che …», ecc.) è stata al centro dell’attenzione di numerosi filosofi analitici, da Searle e Dennett a Fodor, e costituisce probabilmente l’argomento che più di ogni altro rivela l’ampliamento dell’interesse della f. a. verso quel tipo di questioni psicologiche e mentali un tempo ritenute analizzabili in termini esclusivamente linguistici (e, significativamente, The rediscovery of the mind, 1992; trad. it. La riscoperta della mente, è il titolo di uno dei lavori di Searle). Tra la fine del sec. 20° e l’inizio del 21° si è assistito anche a un proficuo interscambio tra f. a. e scienza cognitiva sia riguardo ai problemi del significato e della conoscenza sia riguardo alla spiegazione del comportamento umano ( empatia).

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