FILOSOFIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)

FILOSOFIA

Giovanni Filoramo

(XV, p. 354; App. IV, I, p. 796)

Filosofie orientali in Occidente. − Un'analisi della fortuna delle f. e delle religioni orientali nel dopoguerra in Occidente (Europa e Stati Uniti) non può prescindere da un dato di fatto: gli Stati Uniti sono diventati il luogo privilegiato dell'incontro con l'Oriente, relegando nella parte di comparse quei paesi europei come la Francia, l'Inghilterra, la Germania, che nel corso del Settecento e dell'Ottocento si erano imposti come le sedi principali di questo incontro. Molteplici e di natura differente sono i fattori che hanno causato questo esito più recente nel processo secolare dei rapporti tra Occidente e Oriente, in questa sede assunto nelle sue tradizioni filosofico-religiose e nella parte che esse hanno recitato nell'Occidente industrializzato. Il primo dei quali, anche in ordine d'importanza, va individuato nello spostarsi del baricentro della politica estera di un paese egemone come gli Stati Uniti verso il Pacifico: spostamento che, iniziatosi già verso la fine del secolo scorso, doveva, prima negli eventi della seconda guerra mondiale, poi nella guerra di Corea e del Vietnam, trovare un suo, sia pur tragico, suggello. A tale politica espansionistica verso i paesi dell'Estremo Oriente ha fatto da contraltare un interscambio culturale sempre più fitto e gravido di conseguenze, che ha mutato profondamente il quadro tradizionale dei rapporti tra f. orientali e Occidente.

Nel 1965 il presidente degli USA, L. Johnson, aboliva l'atto che per un cinquantennio aveva rigidamente regolato l'immigrazione di Orientali negli Stati Uniti. Alle esperienze in Oriente che molti militari avevano fatto durante le guerre; ai viaggi verso l'Oriente favoriti dal turismo di massa e dalla ricerca di esotismo; alla presenza significativa di comunità di immigrati asiatici negli Stati Uniti, si aggiungeva ora un'ondata immigratoria di quantità e qualità nuove. L'Estremo Oriente e le sue millenarie tradizioni filosofico-religiose non erano più un oggetto d'interesse o di venerazione da parte di élites intellettuali, ma un mondo e una cultura con cui ci si poteva e ci si doveva incontrare direttamente, conoscendone i maestri spirituali, seguendone gli insegnamenti, sperimentando di persona la forza e il fascino di queste tradizioni.

Se si assume come osservatorio privilegiato − e in certo senso obbligato − delle vicende postbelliche la situazione statunitense, è anche perché nei paesi europei la presenza delle f. orientali, se si eccettua il campo degli studi specialistici, che esula dagli scopi di questa trattazione, ha costituito un fattore culturalmente e socialmente irrilevante e, comunque, d'importazione statunitense, nel senso che il fenomeno del nuovo ''orientalismo'' nel suo complesso è stato conosciuto in Europa grazie e in conseguenza della sua mediazione, quando non origine, statunitense. Ciò è in parte legato al fatto che la politica di decolonizzazione ha progressivamente allentato, fino a scioglierli, i legami che nazioni colonialiste come la Francia e l'Inghilterra conservavano verso l'India (che diventa indipendente nel 1948) e altri paesi dell'Estremo Oriente; in parte è conseguente alle stesse vicende interne alla storia della f. europea nel Novecento. Nei suoi rappresentanti e nelle sue correnti più significative, da E. Husserl a L. Heidegger, dalla fenomenologia all'esistenzialismo, essa non ha fatto che confermare la separazione hegeliana tra religione e f. e, dunque, il primato della f. (occidentale) nei confronti delle tradizioni orientali ritenute di matrice religiosa (e per questo escluse in genere dalle trattazioni manualistiche di storia della filosofia). Le eccezioni a questo giudizio di esclusione vanno in genere ricercate nelle fortune dello schopenhauerismo, tenendo a mente che, per un verso, la stessa posizione eccentrica di A. Schopenhauer nei confronti del mondo accademico comportò sovente l'ostracismo di questo mondo verso le aperture all'Oriente care al filosofo tedesco e ai suoi epigoni; e che, per l'altro, la tradizione schopenhaueriana, conservatasi soprattutto nella Schopenhauer Gesellschaft e nel suo Jahrbuch, se ha contribuito a tener desto in ambito filosofico un certo interesse verso la f. orientale (favorendo talora, come insegna in particolare il caso tedesco, non soltanto gli studi sul buddhismo attraverso la formazione di società di studi buddhisti, ma anche vere e proprie conversioni al buddhismo da parte di singoli studiosi), non ha sostanzialmente recitato alcuna parte di rilievo nel dibattito culturale e filosofico del Novecento (lo stesso si può affermare anche a proposito di quei filosofi come M. Scheler, le cui aperture occasionali verso le f. orientali, per il loro carattere incidentale, si sono dimostrate prive di effetti rilevanti; o di quei pensatori come il nostro P. Martinetti, nel cui pensiero lo studio dei sistemi orientali di f. occupa un posto significativo, ma la cui posizione isolata nel dibattito filosofico ha impedito una reale circolazione di questo momento importante della sua riflessione).

La particolare fortuna delle tradizioni filosofico-religiose negli Stati Uniti nel periodo postbellico è dovuta al convergere di fattori esterni (di cui il più significativo è la nuova dimensione missionaria da esse assunta) con fattori interni, di cui il più significativo in prospettiva storica è costituito dal terreno particolarmente fertile che, nel corso dell'Ottocento, si era venuto preparando per una loro recezione. Il Parlamento delle religioni di Chicago del 1893 costituisce, in questo senso, un evento d'importanza fondamentale. Per la prima volta questi due fattori s'incontrano, dando luogo a un esito che prefigura quel che avverrà, in modo più massiccio, nel periodo postbellico. La presenza attiva al Parlamento di rappresentanti significativi di queste tradizioni si tradusse, al di là del loro successo personale presso il grande pubblico, nella fondazione di società destinate a promuovere, attraverso traduzioni ad opera degli stessi Orientali e l'insegnamento di swami e guru, non solo la conoscenza diretta di queste tradizioni, ma anche una vera e propria conversione.

Fu così che lo swami Vivekananda (Narendranath Datta, 1863-1902) fondò i primi centri statunitensi della Ramakrishna Mission, e precisamente la Vedanta Society, destinati a durare nel tempo, preparando il terreno per le fortune più recenti del neoinduismo americano; e che il monaco giapponese zen Soyen Shaku incominciò a far conoscere la f. zen negli Stati Uniti, fondando nel 1905 il primo di una serie di centri. Né va dimenticata l'azione di quegli scrittori, come D. T. Suzuki (allievo di Soyen Shaku), che con le loro numerose traduzioni hanno contribuito alla conoscenza delle f. orientali (nella fattispecie, del buddhismo) presso il grande pubblico.

Questa situazione non mutò nel periodo tra le due guerre, in cui si moltiplicò il numero dei gruppi di origine orientale, induista e buddhista, che svolgevano la loro opera di proselitismo innestando il loro insegnamento su di un terreno che le fortune della teosofia in USA avevano reso sensibile ai misteri dell'Oriente e alla sua sapienza nascosta, anche perché tutta una tradizione di pensiero ottocentesco, da R. Emerson a W. James, aveva dimostrato apertura e sensibilità verso queste problematiche. Mentre, però, alcune di queste società cercavano di presentare al pubblico occidentale un insegnamento tradizionale che comportasse un grado minimo di adattamento delle dottrine e di mutamento dello stile di vita, altri gruppi si spinsero molto più in là nel processo di mediazione culturale, abbandonando quegli elementi tradizionali che parevano urtare la sensibilità dell'ascoltatore occidentale e sottolineando gli elementi di tipo psicologico, che queste tradizioni posseggono e che potevano prestarsi meglio a una diffusione più penetrante del loro messaggio: intreccio, questo, tra f. orientali e psicologia, che prefigura uno degli esiti più caratteristici delle vicende postbelliche.

Nel periodo tra le due guerre una serie di leggi portò a una progressiva restrizione delle possibilità d'immigrazione dall'Asia negli Stati Uniti: immigrazione che le vicende belliche dovevano contribuire a frenare ulteriormente. Questo fatto non favorì, evidentemente, la diffusione delle società e dei gruppi orientali presenti negli Stati Uniti, precipitandoli invece in una crisi che soltanto la fine della seconda guerra mondiale doveva avviare verso una soluzione positiva. Dal punto di vista storico meritano, a questo proposito, di essere sottolineati i tre elementi che seguono.

In Giappone, l'abolizione (1945) da parte statunitense dello shintoismo di stato e l'instaurazione della libertà di culto provocò il sorgere e facilitò la diffusione di un numero rilevante di ''nuove religioni'', che nel volgere di pochi anni, in seguito alla loro spinta missionaria e all'aprirsi delle frontiere americane, si diffusero anche negli Stati Uniti, contribuendo per la loro parte alla conoscenza e alla diffusione delle tradizioni buddhiste.

In India, il conseguimento dell'indipendenza (1948) significò il conseguimento di libertà nuove, tra cui la libertà di movimento per molti swami e guru, che erano pronti a viaggiare, molto più che in passato, per far conoscere le proprie ataviche tradizioni filosofico-religiose in Occidente. Quello che fino ad allora era stato un fenomeno che aveva coinvolto pochi e privilegiati leaders come Vivekananda, si accingeva a diventare un fenomeno molto più capillare di proselitismo e diffusione. Si tratta, in realtà, di un processo che ha radici ben più antiche, e precisamente nel neoinduismo e nei movimenti riformatori sorti in India nel corso dell'Ottocento sotto l'influsso della cultura inglese e delle missioni cristiane e che ha nella Brahma-Samaj, la ''società dei cercatori di Brahma'', fondata da Ram Mohan Roy (1772-1833), il capostipite più noto e fortunato. Proprio sotto l'influsso del cristianesimo questi movimenti riformatori assunsero un aspetto generalmente ignoto alla tradizione induista ortodossa: la missionarietà. Come insegna il caso, già ricordato, della Ramakrishna Mission, si trattava ora di far conoscere all'Occidente in modo diretto e vitale, e non più mediato e puramente intellettuale, le tradizioni filosofico-religiose induiste, che i differenti movimenti riformatori rileggevano purificandole da quegli aspetti − come il sistema castale, il ritualismo pervasivo, il politeismo − che ai loro occhi impedivano un autentico dialogo con la cultura, anche religiosa, dell'Occidente, in vista del superamento di barriere e divisioni culturali e di fede.

In Cina, la rivoluzione cinese costrinse molti intellettuali, che rifiutavano il nuovo regime, a rifugiarsi nelle colonie inglesi di Hong Kong e Singapore; tra di essi vi erano leaders religiosi, che contribuirono a far conoscere nei paesi in cui emigrarono le proprie tradizioni filosofico-religiose.

Se questa è la situazione storica di fondo, quel che ora preme sottolineare, prima di prendere in esame alcuni casi specifici, è il fatto che nella situazione postbellica ciò che, in primo luogo, è mutato, nei confronti delle situazioni precedentemente descritte, è il tipo di conoscenze relative alle f. orientali. Gli interscambi politico-culturali; la presenza di comunità di immigrati, che tendono a conservare stili di vita e tradizioni d'origine; la diffusione nel mondo universitario di insegnamenti specialistici sovente affidati a docenti provenienti dai paesi di cui insegnano la lingua e la storia, hanno giovato a sconfiggere il mito di un Oriente unitario e hanno insegnato a distinguere sempre meglio tra le differenti tradizioni filosofico-religiose, favorendo nel contempo, proprio in virtù di queste conoscenze, una messa in luce di elementi e denominatori comuni, che stanno in genere alla base del successo di queste tradizioni in Occidente nel periodo postbellico.

In secondo luogo sono mutate le modalità dell'incontro. Fino alla grande guerra, e ancora nel periodo tra le due guerre, questo incontro era un fatto in genere individuale, che induceva cioè singole persone a coltivare una determinata f. orientale in modi spesso speculativi; e anche là dove comportava gradi maggiori di adesione, ciò avveniva promuovendo la formazione di una fede unitaria, che, fondendo cristianesimo e Oriente negli aspetti ritenuti più puri, mirava al superamento di barriere religiose ataviche (anche se questo processo si risolveva spesso in un sincretismo vago, che solo raramente originava scelte radicali di rifiuto della propria tradizione culturale e della propria identità religiosa per dar luogo a una vera e propria conversione). Quando poi, come insegna il caso della Vedanta Society, questo incontro aveva luogo in forme più dirette, rimaneva pur sempre il fatto che esso toccava piccoli gruppi, secondo modalità di aggregazione che queste società avevano desunto dalle coeve denominazioni protestanti e che comportavano, di conseguenza, un servizio domenicale, letture di libri, conferenze e così via.

Nel periodo postbellico i luoghi d'incontro si moltiplicarono, adattandosi alle esigenze di una società di massa, urbana e tecnologica. I mass-media, dalle prediche televisive all'uso sistematico degli audiovisivi, per non portare che due esempi, diventarono strumento e luogo privilegiato dell'incontro tra i guru e i loro discepoli. L'istituzionalizzazione del processo passò anche attraverso la fondazione di centri, se non talora di vere e proprie scuole, finanziate e dirette da rappresentanti delle differenti tradizioni. Mutò, di conseguenza, anche lo stile e il modo della presentazione del messaggio proprio di queste tradizioni, che furono costrette ad adattamenti più o meno radicali nei confronti dell'ambiente circostante. Mutarono, infine, anche gli effetti del processo. Sovente la storia dell'incontro della cultura occidentale con le f. orientali ha dato luogo a processi di rigetto culturale radicali, privi cioè delle necessarie mediazioni, sia attraverso un rifiuto aprioristico di sapore etnocentrico, sia attraverso un'adesione acritica. Una caratteristica rilevante della situazione postbellica, dipendente dai fattori sopra ricordati, è l'emergere nel panorama americano di una terza posizione. Essa non prescinde dalla propria identità culturale e cerca il confronto, recepisce o rigetta le tradizioni filosoficoreligiose orientali alla luce di un orientamento più critico e di una problematica dell'identità culturale più articolata, che cerca di essere al passo con le esigenze di una società caratterizzata dal pluralismo etnico, religioso e culturale.

Sullo sfondo di queste considerazioni generali possiamo ora prendere in esame alcuni momenti di questo incontro. In questa rapida rassegna non si potrà, naturalmente, dar conto delle specifiche dottrine dei singoli gruppi, né si aspirerà alla completezza, del resto impossibile in una situazione in continuo divenire, ma si cercherà di cogliere alcune tra le tappe principali di questo processo di penetrazione e diffusione allo scopo di ricavarne alcune linee di tendenza.

Se guardiamo alle date in cui i leaders di alcuni tra i più significativi movimenti neoorientali sono sbarcati negli Stati Uniti per iniziare la loro opera (1965: Swami Bhaktivedanta di ISKON, l'Associazione internazionale dei seguaci della Coscienza di Krishna, più noti come Hare Krishna; Sant Keshavadas, del Tempio della Sapienza cosmica; Thera Bode Vinika, della Società buddhista Vihara; 1968: lo jogin Bhajan del Dharma Sikh; 1969: Tarthang Tulku del Nyingmapa tibetano; 1970: Swami Rapa dell'Istituto Himalajano; 1971: Swami Satchidananda dell'Istituto di yoga integrale; Gurudev Chitrabhanu del Centro internazionale di meditazione; il Guru Maharaj Jr., della Missione della Luce divina), troviamo confermata l'ipotesi che il 1965 è stato veramente un anno spartiacque, da assumere come terminus a quo per la storia delle fortune delle differenti tradizioni filosoficoreligiose orientali negli USA nel periodo postbellico.

Per iniziare con i gruppi e movimenti neoinduisti, il loro elenco, oltre a quelli già ricordati, comprende la Società per la autorealizzazione di Paramahansa Yogananda (1893-1952), che s'impiantò e diffuse negli Stati Uniti già tra le due guerre, ma che ha conosciuto una rinnovata fortuna negli anni Settanta. La sua importanza consiste nel fatto che essa ha contribuito in modo decisivo a introdurre la tradizione yogica sul suolo americano, collegandola con idee che sottolineavano la responsabilità del praticante verso il mondo. Lo scopo dello yoga qui insegnato è quello di permettere un migliore inserimento nel contesto socioculturale in cui il praticante si trova ad agire, grazie alla scoperta delle proprie potenzialità interiori, che favoriscono la realizzazione del Sé. L'elemento psicologico, centrale in molte tradizioni filosoficoreligiose induiste, viene in questo modo privilegiato e inserito in un contesto culturale particolarmente adatto. Su questa via si muoverà anche un altro movimento, che ha goduto di un grande successo, la Meditazione trascendentale del Maharishi Mahesh Yogi, che si presenta come una pura tecnica psicologica a prima vista sradicata dal contesto filosofico-religioso d'origine.

In realtà, come insegna anche il caso della Meditazione trascendentale, la maggior parte dei movimenti neoinduisti diffusisi a partire dagli anni Sessanta provengono, parlando in generale, dalla tradizione vedanta non dualista, da una tradizione, cioè, che attribuisce particolare importanza alla realizzazione interiore mediante tecniche di meditazione come lo yoga. Scopo comune di queste tecniche è quello di coltivare l'elemento divino presente in ciascun uomo o Atman, perché esso possa ricongiungersi col Brahman, l'Essere impersonale che, come Energia, agisce nel cosmo. La centralità del guru, in questa tradizione, si spiega col fatto che egli, avendo già realizzato questo compito, essendo cioè già ''dio in terra'', indica col suo esempio la via al discepolo. Rientrano in questa tradizione anche i centri dello Yoga Sivananda, l'Istituto dello Yoga integrale, la Missione della Luce divina, Ananda Marga e, per certi aspetti, il movimento di Rajneesh. Gli Hare Krishna, di contro, rappresentano la ripresa della tradizione devozionale induista.

L'origine differente di queste dottrine non è stata priva di conseguenze sulla configurazione sociologica di questi movimenti. Mentre quelli che si richiamano alla tradizione dell'Advaita Vedanta si sono sposati meglio con le esigenze individualistiche e psicologiche della società statunitense, gli Hare Krishna hanno rinnovato negli USA la tradizione della Vedanta Society: forte grado di tensione verso il mondo circostante, sistema di vita comunitario rigido, allo scopo di preservare l'identità della presunta tradizione d'origine.

Con poche e trascurabili eccezioni, durante la prima fase della sua presenza statunitense, iniziatasi alla fine del 19° secolo, il buddhismo fu rappresentato da due sette del buddhismo giapponese: la tradizione Zen, già ricordata, e la tradizione dello Jodo Shinshu. A lungo si trattò di curiosità di intellettuali sensibili all'esotismo e che vedevano in questi gruppi (che conservavano vive le tradizioni d'origine) una via d'accesso privilegiata verso il lontano Giappone. La situazione non era destinata a mutare tra le due guerre: l'Oriente, in questo caso buddhista, rimaneva la realtà misteriosa propria di certa letteratura di cui spesso si è nutrito in Occidente il mito dell'Oriente.

I tragici eventi della seconda guerra mondiale, da Pearl Harbour alla resa del Giappone, mutarono questo quadro. Anche se gli anni della guerra rappresentarono per i buddhisti americani un periodo duro e difficile, gli eventi bellici contribuirono comunque a far conoscere il buddhismo giapponese e aprirono indirettamente la via anche alla diffusione di altre forme di buddhismo.

In generale, si può osservare che il buddhismo Theravada o del Piccolo Veicolo è quello che ha destato minor interesse. Più diffuso è il buddhismo tibetano, anche per la maggior opera di proselitismo svolta. Anche se il numero attuale dei suoi seguaci è piccolo, colpisce l'interesse che questa tradizione, così complessa e difficile, è riuscita a suscitare, anche grazie all'attività dei suoi centri, di cui il più famoso è forse il centro Nyingmapa di Berkeley.

Tra tutte le forme di buddhismo lo Zen è indubbiamente quello che ha esercitato negli Stati Uniti il maggior influsso, lasciando il segno in molti aspetti della sua vita culturale: da poeti e prosatori della Beat generation come J. Kerouac, G. Snyder e A. Watts, alla musica di J. Cage. Lo Zen americano si divide in due rami interdipendenti: lo Zen formale dei centri Zen dove, sotto la guida di un maestro formatosi in Giappone, s'insegna e si pratica il regolare zazen e la meditazione zen seduta; e ciò che è stato definito, secondo la terminologia beat degli anni Cinquanta, lo Zen informale, e cioè lo Zen visto come fonte d'ispirazione artistica e guida per una vita libera e anticonformistica. Il primo tipo, come abbiamo visto, penetrò negli Stati Uniti alla fine del 19° secolo, anche se s'istituzionalizzò soltanto nel 1930, quando a New York fu fondato il primo Istituto zen d'America (altri centri sono stati istituiti soprattutto nel corso degli anni Sessanta). Il secondo tipo è legato ai movimenti della controcultura che a più riprese, nel periodo postbellico, hanno scosso la società americana, originando tra l'altro la ricerca di forme alternative di vita spesso ispirate alle tradizioni filosofico-religiose orientali, che in questo modo sono diventate per la prima volta, comunque si valuti il fenomeno, da fattore di ricerca individuale e intellettuale, fattore di trasformazione sociale. Si tratta di un fenomeno complesso, che in questa sede non può essere adeguatamente approfondito. Ci si può limitare a osservare, per rimanere al caso emblematico dello Zen, che il suo successo non effimero si spiega con il convergere di almeno tre ordini di fattori. Come i movimenti neoinduisti della tradizione vedantica, anche lo Zen è un tipo di f. religiosa che, di per sé, non rifiuta il mondo, ma mira essenzialmente (per quanto ciò possa sembrare contraddittorio rispetto a certe istanze del buddhismo antico) a potenziare l'io, o meglio la mente umana: in questo senso, l'adesione o la conversione allo Zen non comporta né il rifiuto della società né radicali mutamenti nello stile di vita. Accanto a questo elemento psicologico deve essere tenuta presente la situazione degli anni Sessanta, dominata, almeno negli Stati Uniti, dalla problematica della secolarizzazione e dalle teologie della morte di Dio e della città secolare. Forme come il buddhismo zen, con il suo ateismo dichiarato, parvero una via d'uscita a coloro che, pur senza voler rinunciare alla ricerca del sacro e di un fondamento trascendente della realtà, agivano ormai all'interno del paradigma di una società non cristiana e, dunque, non teistica. Un ultimo elemento, di cui è necessario tener conto, è il fatto che lo Zen fu vissuto da molti di coloro che vi aderirono come una variante orientale e una conferma indiretta dell'antica tradizione americana legata a un modo di vivere che divinizza la natura e che ha trovato la sua bibbia in Walden del trascendentalista H.D. Thoreau.

Che, in questi ultimi anni, queste aspirazioni siano riemerse in modo prepotente in determinati aspetti del movimento ambientalista ed ecologico e in particolare nella cosiddetta New Age, è sviluppo troppo recente per poter essere adeguatamente approfondito. Esso conferma, comunque, quel particolare intreccio avvenuto negli Stati Uniti tra diverse tradizioni indigene (dal trascendentalismo al New Thought, dalla teosofia a New Age appunto, d'ispirazione occulta e in senso lato gnostica) portate a una concezione non teistica della divinità concepita come Energia cosmica che permea la Natura e che ha lasciato scintille di sé nell'uomo, un potenziale che egli deve sviluppare; e tradizioni filosofico-religiose orientali, induiste e buddhiste, dotate, come abbiam visto, di dottrine analoghe, che hanno dimostrato di sapersi fecondare reciprocamente, senza perdita della propria identità.

Quanto precede dovrebbe aiutare a collocare nella sua giusta luce l'importanza del nesso tra f. orientali e psicologia.

A prima vista, le tradizioni filosofico-religiose orientali e la psicologia occidentale sembrerebbero essere agli antipodi, soprattutto per ciò che concerne la questione dell'io. Mentre la psicologia dinamica occidentale, anche nella sua variante psicoanalitica, pare proporsi come uno dei suoi scopi primari il rafforzamento dell'io, le f. orientali paiono insistere, con accentuazioni differenziate, sul proposito di smantellare l'io, fino a trascenderlo completamente. In realtà, a una considerazione più approfondita, ci si accorge che, mentre tutta una fase del percorso buddhistico, vedantico, yogico, mira con i suoi esercizi a un rafforzamento della mente e della volontà, in questi ultimi due decenni si è sempre più affermato in Occidente un indirizzo psicologico detto transpersonale, che persegue appunto lo scopo di trascendere i limiti dell'io determinati socio-culturalmente. A ciò si aggiunge il fatto che entrambi questi indirizzi mirano a reinserire il singolo nel flusso degli avvenimenti superando il dualismo corpo-anima grazie all'attivazione del suo potenziale mentale, concepito come una forma essenzialmente intuitiva di pensiero, in contrapposizione al carattere razionalistico, visto come tipico della tradizione filosofica e della cultura scientifica occidentali.

Di fatto, questi due indirizzi e stili di pensiero e di vita (già compresenti in qualche modo in psicologi come Jung) sono all'opera nel movimento cosiddetto del Potenziale umano. Si tratta di una designazione coniata all'inizio degli anni Settanta allo scopo di abbracciare una serie composita e, a prima vista, eterogenea di scuole e di indirizzi psicologici, che in realtà avevano in comune, attraverso il potenziamento del Sé, l'obbiettivo di una ''trasformazione della coscienza''. Lo scopo di questi gruppi (ispirati in particolare dalla psicologia di A. Maslow) era quello di fornire al singolo gli strumenti per realizzare le potenzialità nascoste della propria psiche. Se in certi casi i metodi cui fare ricorso per conseguire questi scopi sono puramente psicologici, in altri (come insegna in particolare il caso di Esalen, il centro più famoso) l'incontro con le tradizioni filosofico-religiose orientali si è dimostrato decisivo per gettare le basi di un programma di ''trasformazione della coscienza'' alla cui base sta l'incontro (difficile dire fino a che punto riuscito) tra la dimensione psicologica caratteristica delle f. orientali e la dimensione psicologica, di matrice occulta e latamente gnostica, che molti dei fondatori dei gruppi del Potenziale umano dovevano alla loro familiarità con le tradizioni esoteriche caratteristiche della storia religiosa e intellettuale statunitense. Che negli anni Ottanta questa esigenza continui ad agire in New Age (che può essere considerata l'erede di tutte le correnti precedentemente esaminate) appare un'ulteriore conferma della profondità di questo influsso e delle capacità di adattamento e di metamorfosi, ma anche di continuità e di fedeltà, dimostrate da determinate tradizioni filosofico-religiose orientali nella patria della civiltà tecnologica e nel tempio del consumismo di massa.

Bibl.: Per i motivi sopra ricordati, in buona parte la fortuna delle varie f. orientali in Occidente coincide con la fortuna dei nuovi movimenti religiosi di matrice induistica. Sul fenomeno nel suo complesso cfr. G. Filoramo, I nuovi movimenti religiosi, Roma-Bari 1986; ulteriori spunti nella bibliografia ragionata a cura di D. Choquette, New religious movements in the United States and Canada. A critical assessment and annotated bibliography, Westport (Conn.)-Londra 1985. Manca, comunque, un lavoro che tenti d'inquadrare il fenomeno nel suo complesso.

Per le fortune dei movimenti neoinduisti in particolare, cfr. R. Hummel, Indische Mission und neue Frömmigkeit im Westen, Stoccarda 1980; per quanto riguarda il buddhismo, cfr. i resoconti descrittivi di E. McLloy, Buddhism in America, Chicago 1976, e Ch. Prebish, American Buddhism, North Scituate (Mass.) 1979; per lo Zen, R. S. Ellwood Jr., Alternative altars; unconventional and eastern spirituality in America, Chicago 1979, cap. 6.

Sui rapporti tra psicologia orientale e occidentale, cfr. A. Watts, Psychotherapy East and West, New York 1961, un lavoro che ha aperto la strada a questo tipo di confronti; e le considerazioni di C. Pensa, L'incontro tra Oriente e Occidente oggi: problemi e significati con particolare riguardo al Buddhismo e all'Induismo, in Sviluppi recenti e tendenze modernistiche nelle religioni asiatiche (Atti del convegno del 7-8 aprile 1983), suppl. n. 2 agli Annali dell'Istituto Orientale di Napoli, 35 (1975), fasc. 1, pp. 25-53.

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