FISCO

Enciclopedia Italiana (1932)

FISCO (dal lat. fiscus; fr. fisc; sp. fisco; ted. Fiskus; in inglese mancano voce e concetto corrispondenti: vocaboli più vicini exchequer, crown, treasury)

Luigi RAGGI
Anna Maria RATTI

Pare ormai assodato che in diritto romano la parola fisco abbia cominciato a indicare la sostanza e la cassa dell'imperatore, distinta dapprima dalla cassa del populus (aerarium), e che in seguito, fuse le due casse in una, abbia assunto questo più esteso significato venendo a indicare, in contrapposizione al patrimonio privato del principe, il complesso dei beni propri dell'imperatore come tale, cioè di pubblica provenienza, devoluti a scopi pubblici e sottoposti a un diritto privilegiato. Nel diritto intermedio risorse il concetto di fisco come quello di cassa del principe o della repubblica. Ma, essendosi chiamata fisco la cassa del principe o della repubblica, in quanto vi affluivano entrate patrimoniali straordinarie (successioni, pene), ne conseguì, per contaminazione dei due concetti, che il fisco fu considerato come la persona giuridica che rappresenta il principe (o, meglio, lo stato), in quanto titolare d'un patrimonio non privato, ma sottoposto (eccettuati i privilegi) al diritto privato.

Con lo svolgersi del diritto pubblico moderno, affermatosi lo stato come personalità giuridica vera e propria ed unica, tanto in materia patrimoniale quanto in materia non patrimoniale, subordinata nella sua attività amministrativa all'osservanza della legge, nel diritto pubblico degli stati latini (Francia e Italia) è andato quasi scomparendo il concetto del fisco e si è generalmente e correttamente parlato di stato, quali che fossero i rapporti di cui esso stato è soggetto, e quale che fosse il diritto oggettivo destinato a regolare tali rapporti. Solo in Germania, ove più a lungo si discusse sulla personalità giuridica pubblica dello stato, e ove la limpidità del concetto della personalità unica dello stato si affermò, troviamo nell'ultimo periodo dello stato assoluto (e persisteva ancora nel primo periodo dello stato costituzionale, e non è scomparsa nella pratica neppure ai giorni nostri) una dottrina speciale del fisco, messa particolarmente in luce da Otto Mayer, secondo la quale il fisco è lo stato considerato come società d'interessi pecuniarî o soggetto di diritti patrimoniali nel diritto privato, sottoposto (come i privati) all'impero del diritto privato, e subordinato all'autorità giudiziaria comune. Contrapposto al fisco è lo stato, in quanto sovrano e superiore al diritto, e persona giuridica di diritto pubblico. Il fisco è, come il privato che amministri i suoi beni, sottoposto al diritto civile e alla giurisdizione civile. Lo stato non ha beni, ha il potere pubblico e il diritto di comandare. Lo stato sovrano può ledere gl'interessi dei singoli: il fisco risarcisce i danni arrecati ai singoli dallo stato sovrano. Ma, con il diffondersi di più corrette idee sulla natura e sulla personalità dello stato, la dottrina del fisco è andata attenuandosi e spegnendosi anche in Germania, dove (dandosi alla personalità del fisco, distinta da quella dello stato, un senso più attenuato di capacità) non la troviamo che in qualche reminiscenza di antiche condizioni giuridiche, qua e là sparsa in sentenze o monografie. Stato e fisco costituiscono un'unità, ma il fisco è lo stato sul terreno del diritto privato o (più ampiamente) come soggetto di diritto patrimoniale.

Invece, come si è già accennato, una vera dottrina del fisco non si trova più in Italia né in Francia, dopo che il diritto intermedio cessò di aver vigore e dopo che fu concepita l'unità concettuale della personalità dello stato. In Italia solo in qualche autore (Mantellini, Giorgi) troviamo accenni erronei alla teoria del fisco, che si pretenderebbe essere lo stato in quanto è sottoposto al diritto privato e di tale diritto si vale nei suoi rapporti giuridici.

Del fisco si parla volgarmente ancora, nel foro più che dai pubblicisti, quando si vuole accennare all'attività patrimoniale dello stato, senza annettere a tale parola un significato preciso e concreto, ma usandola quando si allude piuttosto all'attività patrimoniale pubblica (finanziaria) che all'attività patrimoniale privata dello stato. Tanto è vero che tutti i principî di diritto pubblico patrimoniale, che introducono appunto deviazioni nei principî giuridici di diritto privato, si denominano ancora privilegi fiscali; che il reato che viola alcune prescrizioni stabilite in leggi tributarie si chiama reato fiscale (v. sotto); che ancora si usa la parola fiscalismo per indicare un sistema finanziario e una tendenza degli agenti della finanza pubblica eccessiva e antieconomica, intesa a forzare il ritmo delle pubbliche entrate e quindi a renderlo economicamente meno produttivo. Tutti questi usi della parola fisco e dei suoi derivati dimostrano che nella pratica italiana, pur continuandosi a considerare come fisco normalmente il complesso dei rapporti patrimoniali pubblici dello stato, non si collega più a tal parola un significato ben preciso e categorico.

Bibl.: O. Mayer, Droit administratif allemand, 2ª ed. francese curata dall'autore, Parigi 1903; J. Hatschek, Die rechtliche Stellung des Fiskus im bürgerlichen Gesetzbuche, Berlino 1899; P. Vassalli, Concetto e natura giuridica del fisco, estratto dagli Studi senesi, Torino 1908; W. Jellinek, Verwaltungsrecht, Berlino 1929; E. Presutti, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, 3ª ed., Roma 1931, I, p. 502 segg.; Pasetti, Fisco, in Digesto italiano, XI, parte 2ª; M. Hauriou, Précis de droit administratif et de droit public, Parigi 1907, p. 54 e segg.

Reati fiscali.

Si è lungamente discusso nella dottrina giuridica italiana circa la natura delle violazioni delle leggi finanziarie, e alcuni sono giunti ad affermare l'insussistenza del reato tributario negando in ogni caso carattere penale alle sanzioni per esso comminate. L'incertezza è stata determinata in parte dalle discordanze della nostra legislazione precedente la legge del 7 gennaio 1929, n. 4 (legislazione ancora in parte vigente per quanto riguarda le imposte indirette e tasse), che prevede sanzioni pecuniarie di cui non risulta ben chiaro il carattere penale o civile; si ha infatti spesso il caso di multe applicate a trasgressioni che non possono avere carattere di reato e di sopratasse o pene pecuniarie (articoli 2 e 3 legge 1929) sancite, invece, per reati tributarî anche di notevole gravità. Non ci si può quindi basare sulla denominazione della legge per determinare il carattere civile o penale di una sanzione pecuniaria, se sia cioè stabilita allo scopo di risarcire lo stato del danno subito o allo scopo di punire l'autore della trasgressione. Né è d'altra parte opportuno riferirsi alla diversa natura, amministrativa o giudiziaria, dell'autorità chiamata ad applicare la sanzione data anzitutto l'estrinsecità del criterio della competenza e dato inoltre che il criterio stesso è più volte contraddetto dalla nostra legislazione positiva. Nell'incertezza ci si può riferire al criterio della convertibilità della pena pecuniaria in pena restrittiva della libertà personale, che è stato da parecchi anni assunto come criterio distintivo dalla giurisprudenza prevalente, per quanto vi sia anche chi ritiene che la convertibilità delle pene pecuniarie sia una conseguenza della distinzione delle pene stesse in sanzioni penali e civili piuttosto che un criterio per tale distinzione. Ma in ogni modo, per il fatto che in alcuni casi non sia ben chiaro se il legislatore abbia voluto comminare una sanzione a carattere civile o una sanzione penale vera e propria, non è lecito arguire che di sanzioni civilistiche debba sempre parlarsi in caso di trasgressioni alle leggi tributarie. Sulla base della constatata mancanza di una coscienza popolare dell'illecito fiscale, molti hanno negato poi, anche da un punto di vista intrinseco, la qualifica di reato alle trasgressioni stesse, affermando il carattere patrimoniale del diritto dello stato a imporre tributi; sulla natura pubblicistica dei rapporti tra erario e contribuente l'accordo è però ormai raggiunto.

Si può discutere se nel reato stesso debba prevalere il carattere di attentato alla sicurezza finanziaria (e quindi anche politica) dello stato o quello di attentato contro la proprietà, in quanto chi non assolve il proprio obbligo di contribuente fa mancare in parte allo stato i mezzi finanziarî necessarî alla sua esistenza e si arricchisce inoltre indebitamente a carico dei suoi concittadini, ledendone i diritti patrimoniali. La diffusa opinione che il diritto penale tributario debba considerarsi autonomo (in nessun ordinamento giuridico, tranne che in Inghilterra, si è creduto infatti di potere applicare al reato in questione le pene stabilite dal codice penale per il reato di truffa) induce però a ritenere che il reato tributario risenta del duplice carattere di reato politico e di reato di indebito arricchimento e assuma per questo una sua figura speciale.

Riallacciandosi alla lunga disputa svoltasi nel campo del diritto comune si è discusso poi se il reato tributario rivesta i caratteri di delitto o di contravvenzione o se in esso debbano comprendersi entrambe le figure. Allo stato attuale della dottrina e della legislazione la questione può dirsi risolta in quest'ultimo senso e il criterio intrinseco di distinzione comunemente accettato è di doversi ricercare se la trasgressione violi o minacci di violare il diritto soggettivo dello stato all'imposta (delitto), oppure violi semplicemente una disposizione emanata dallo stato per poter controllare lo svolgimento della funzione tributaria (contravvenzione). In pratica si preferisce però da tempo ricercare nella pena stessa quel criterio estrinseco, sia pure empirico, che solo può dare la certezza di non sbagliare. L'art. 2 della legge 7 gennaio 1929 ha stabilito infatti che "costituisce delitto o contravvenzione la violazione di una norma contenuta nelle leggi finanziarie, per la quale è stata stabilita una delle pene prevedute dal codice penale per i delitti o rispettivamente per le contravvenzioni" (cfr. anche art. 43 cod. pen. 1930).

La questione circa il momento consumativo del reato tributario, se esso possa sorgere cioè solo durante l'accertamento o anche durante la riscossione, è stata risolta dalle ultime leggi finanziarie (legge 7 gennaio 1929, integrata dal r. decr. 24 settembre 1931, n. 1473, che detta le norme generali circa i reati tributarî e, più particolarmente, t. u. 17 settembre 1931, n. 1608, in materia d'imposte dirette) in senso estensivo. Se è indubbio infatti che contribuente ed erario vengono a contatto nel momento dell'accertamento è anche vero che i loro rapporti continuano, sia pure attraverso l'esattore, fino a che il debito d'imposta sia completamente soddisfatto.

Alla tripartizione dei tributi dello stato in imposte indirette, imposte dirette e tasse, corrisponde naturalmente analoga tripartizione dei reati fiscali, i quali presentano particolari caratteri e sono soggetti a norme preventive e repressive diverse a seconda della categoria dei tributi cui si riferiscono. Mentre infatti le violazioni delle leggi tributarie in materia di imposte dirette e tasse possono dirsi frodi a titolo di risparmio, caratteristica quasi generale delle frodi nel campo delle imposte indirette è la speculazione, per cui il frodatore, non pago di esimersi dal tributo, per quanto riguarda il suo proprio consumo, si sostituisce allo stato nella riscossione dei dazî e delle imposte gravanti su merci da altri consumate. Nei reati di quest'ultima categoria, che sono comunemente contrassegnati col nome di contrabbando, maggiore è quindi l'attrattiva del lucro, ma si richiedono d'altra parte anche maggiori doti d'astuzia e di audacia per eludere la vigilanza dello stato, che è in genere, per le stesse ragioni, più rigorosa che in altri campi. Ben diversi sono inoltre i perturbamenti etico-giuridici (il contrabbandiere subisce in genere un'inversione del senso morale e finisce spesso con l'entrare nell'orbita della delinquenza comune ricorrendo alla violenza, alla corruzione, alla falsificazione di bolli, registri, ecc., allo spaccio di biglietti falsi, al furto e anche all'omicidio) ed economico-fiscali (il contrabbando, determinando insufficienza delle entrate, induce a inasprire il sistema tributario con dannose ripercussioni sull'economia nazionale e vantaggio per l'erario non adeguato all'inasprimento stesso, dato che il maggior margine di lucro è nuovo incentivo alla frode; il contrabbando, d'altra parte, si traduce in molti casi in concorrenza illecita al commercio legale) che ai reati di contrabbando si accompagnano e si spiega così la maggior gravità delle pene comminate per essi in tutte le legislazioni antiche e moderne.

Contrabbando. - Contrabbando (dal lat. med. contra bannum; fr. contrebande; sp. contrabando; ted. Schmugelei; ingl. smuggling) è sia la violazione delle leggi che vietano o assoggettano a tributo l'entrata, uscita e circolazione delle merci, sia la fabbricazione e lo spaccio fraudolento dei generi di monopolio, sia ancora l'evasione alle imposte di fabbricazione. L'importazione, esportazione e circolazione clandestina di merci sottoposte a dazio è antica quanto l'istituzione di questi tributi indiretti cui ricorsero gli stati fin dalle più remote età (v. dazio e dogana); all'adozione dei divieti all'importazione e all'esportazione e all'istituzione dei monopolî di stato e delle imposte di fabbricazione (v. esportazione e importazione; monopolio; imposte e tasse), avvenute in epoca più recente, risalgono analogamente le prime repressioni per i trasgressori delle norme sancite in materia. A seconda dell'altezza dei tributi imposti e delle generali condizioni economiche e sociali, varia è l'intensità e la frequenza con cui i reati di contrabbando si verificano in epoche diverse, e sono epoche caratterizzate da più alta protezione doganale e da guerre e perturbazioni sociali quelle in cui il contrabbando assume il massimo sviluppo. Si ritiene anche da alcuni, e soprattutto si è ritenuto, che il contrabbando sia intimamente connesso al disagio economico e aumenti quindi con la miseria, il che è certo vero per il piccolo contrabbando nelle regioni povere di confine; ma il grosso contrabbando aumenta invece quando maggiore è la disponibilità di capitali, come il commercio legittimo cui fondamentalmente deve assimilarsi nei suoi intenti, nella sua organizzazione e nelle sue leggi. E così pure sul contrabbando, come sul commercio in genere, agiscono favorevolmente l'aumento della popolazione e il miglioramento del tenore di vita, l'emigrazione e la maggiore facilità dei mezzi di trasporto. Varia anche di periodo in periodo la severità delle pene comminate per il reato di contrabbando. Presso i Romani era sancita la confisca per le merci soggette al portorium, o tributo sull'entrata delle merci, che non fossero state dichiarate (Dig., XXXVIII, 4, de publicanis, 16); secondo Diogene Laerzio sembra poi che i reati di prevaricazione contro i pubblicani fossero puniti con la vendita del reo e della sua famiglia. Molto più gravi sono in ogni modo le pene che troviamo comminate nel Medioevo per i frodatori del fisco: il taglio della mano, il ferro rovente, i tratti di corda, la galera a vita, e perfino la morte. Anche in epoca più moderna, accanto alle multe e alla confisca vediamo ovunque sancite gravi pene corporali, compresa spesso quella capitale, ed è soprattutto nei periodi in cui il fisco versa in tristi condizioni, ed è quindi più esposto all'incidenza del contrabbando, o nei periodi in cui più accanita è la lotta tra gli stati per il primato economico in un determinato ramo della produzione o per la conquista di un mercato, che le repressioni per i reati fiscali si inaspriscono. Solo nel sec. XIX ci si comincia a rendere conto del minimo risultato ottenuto con l'esagerata severità delle pene e a riconoscere in parte l'arbitrarietà di molte proibizioni. Sorge frattanto in Inghilterra, e a poco a poco si estende, il liberismo economico che, riducendo il margine di lucro, determina indirettamente un'effettiva contrazione del contrabbando, ciò che ancor più convince della falsità della strada fino allora battuta. Sia per questo, sia per il nuovo orientamento determinatosi in tutto il diritto penale, la severità delle pene per i reati fiscali viene ovunque notevolmente mitigata e armonizzata con l'intero sistema repressivo. Si giunge anzi in alcuni casi a considerare nel contrabbando il solo elemento del danno all'erario e a sancire quindi misure repressive con mero carattere di risarcimento, che appunto per questa loro eccessiva liberalità vengono ben presto ritenute insufficienti e sostituite da vere e proprie pene. Manca però tuttora una legislazione penale organica razionalmente adattata alla vera essenza del reato fiscale, alla sua gravità nelle diverse forme, alle condizioni sociali ed economiche del frodatore e alla sua pericolosità, ecc., e le pene vigenti non sono graduate in modo da costituire in ogni caso un rischio reale nei confronti del lucro sperato. In questo oscillare della legislazione - e non solo nei periodi in cui il gravame fiscale intollerabile, i privilegi, le ingiustizie, il procedimento esoso di riscossione e l'inumano e illogico sistema punitivo per i contravventori non potevano che acuire la reazione, ma anche ora che nelle legislazioni fiscali nulla sussiste di tutto ciò - permane tuttavia immutabile l'orientamento dell'opinione pubblica, favorevolmente influenzata dall'audacia e dall'ingegno dei contrabbandieri, oltre che dal più basso prezzo cui generalmente sono vendute le merci frodate, e poco sensibile al danno che ne deriva all'erario.

Le varie forme di contrabbando si raggruppano in due tipi fondamentali: il contrabbando che si effettua nei posti dove viene esercitato il controllo speciale (p. es., nelle dogane e uffici daziarî, nelle piantagioni e manifatture dei tabacchi, negli stabilimenti soggetti a vigilanza speciale e destinati alla fabbricazione dell'alcool, ecc.), e il contrabbando che si effettua sfuggendo alla vigilanza generale (sia attraverso la linea di confine nei suoi tratti terrestri, marittimi, fluviali e lacustri e anche per via sotterranea e aerea, sia all'interno, nella produzione e nel commercio in genere). Il primo è occulto, si attua mediante raggiro e corruzione e tende a confondersi col commercio legale; il secondo invece è manifesto e si esercita soprattutto mediante forzamento. Il primo tipo è quello che si verifica più frequentemente, perché meno costoso e quindi più lucroso, oltre che talvolta anche più agevole.

La varietà degli elementi che concorrono a individuare uno specifico reato di contrabbando e la molteplicità delle forme in cui il reato stesso può attuarsi ne rendono particolarmente difficile la prevenzione e l'accertamento, tanto più che l'aumento del traffico e la crescente facilità dei mezzi di trasporto, oltre che alla diffusione del contrabbando, hanno contribuito anche alla trasformazione delle forme violente e palesi di esso in forme occulte e complesse. La difesa tributaria, imperniata nel nostro ordinamento di polizia fiscale sulla vigilanza (l'investigazione non è infatti che un accessorio) e attuata in un sistema di sentinelle, reti metalliche, battelli, perlustrazioni, applicazione di bolli, marche, misuratori, ecc., non è, d'altra parte, che una difesa passiva, facilmente studiabile dai frodatori e insidiabile nei punti di minor resistenza; né si può pensare a intensificarla, ché, oltre ad aggravare le spese già notevoli per essa incontrate, si finirebbe per vincolare troppo la libertà personale e il commercio. Essendo inoltre sterile in questo campo la fonte mediata per l'accertamento del reato e la raccolta delle prove, la denuncia cioè di parte lesa, e mancando l'osservazione metodica dei fenomeni attinenti all'attività contrabbandiera, l'azione investigativa della polizia fiscale è rimessa al caso e alle rivelazioni dei confidenti che, a seconda del movente (dovere civico, amicizia per guardie di finanza e funzionarî di polizia, preoccupazioni personali, invidia, vendetta, bisogno di denaro, desiderio di favorire imprese contrabbandiere, ecc.), sono più o meno attendibili. E sono appunto la mancanza della notitia criminis mediata e la casualità di quella immediata che hanno indotto il legislatore a colpire anche le azioni e le omissioni in cui l'intento doloso è solo presunto (contrabbando formale), quando cioè, pur non essendovi prove dirette del reato, si abbia il concorso di determinate circostanze particolarmente considerate dalla legge. La maggior parte degli accertamenti è quindi costituita da reati formali anziché sostanziali, e si riferisce quasi sempre all'episodio del contrabbando anziché alla vera organizzazione di esso.

Per questo ordinamento prevalentemente preventivo della polizia fiscale e per la sua azione investigativa imperniata sul confidente, per la non cooperazione della polizia generale e per la mancanza di una raccolta e di uno studio degli elementi atti a rilevare e localizzare il contrabbando, oltre che per il non sempre logico sistema di cointeressenza degli agenti e per la difettosa legislazione penale e procedurale (disposizioni caotiche, interferenze dell'autorità giudiziaria e amministrativa, disparità di criterî, irregolarità, sperequazioni, ecc.), la reazione legale risulta nettamente insufficiente e la quasi certezza dell'impunità che ne deriva riduce a ben poca cosa l'elemento del rischio, che solo potrebbe controbilanciare l'attrattiva del lucro, mentre, d'altra parte, di pari passo col perfezionarsi della tecnica si è andato sempre più diffondendo nell'organizzazione contrabbandiera l'uso di misure assicurative implicite o formali per neutralizzare o ripartire i rischi eventuali.

La legislazione italiana in materia di contrabbando è tuttora basata sulla legge doganale (t. u. 26 gennaio 1896, n. 20) e sul relativo regolamento (13 febbraio 1896, n. 65, modificato col r. decr. 2 settembre 1923 n. 1960). Le sanzioni in materia di contrabbando sono in genere pecuniarie a carattere penale. Solo eccezionalmente, o in caso di aggravanti personali (recidiva, qualità di impiegati dello stato e agenti della forza pubblica: articoli 98 e 105) o materiali (partecipazione di due o più persone, associazione contrabbandiera - che è già per sé stessa un reato - corruzione di pubblico ufficiale, furto, falso, uso delle armi: articoli 99 e 100), la pena è quella restrittiva della libertà personale. In ogni caso l'applicazione di tali pene non dispensa dal pagamento dei dazî, diritti e imposte dovuti, nonché delle multe (articoli 97 e 110), ed è sancita inoltre la confisca delle merci per le quali si voleva frodare il tributo e dei mezzi di trasporto adoperati (art. 108). Le multe sono convertibili in pene detentive se non venga assolto l'obbligo del pagamento (art. 112). Le pene restrittive della libertà personale, stabilite in misura diversa a seconda delle circostanze e dell'importanza del fatto, vanno da un minimo di sei giorni a un massimo di cinque anni; a esse si accompagna inoltre in molti casi la vigilanza speciale dell'autorità di pubblica sicurezza per un periodo da uno a tre anni (art. 101). Solo in caso di flagranza e qualora (art. 113) al reato fiscale si accompagni un reato comune punibile con pena restrittiva della libertà personale, si può procedere all'arresto del contrabbandiere.

Infrazioni alle leggi tributarie in materia d'imposte dirette. - La frode fiscale in materia d'imposte dirette, l'insieme cioè dei procedimenti tendenti a eludere l'imposta, è, come il contrabbando, fenomeno che si presenta in forma continua e sistematica in tutti i tempi e in tutti i paesi. Alla severità delle pene comminate per i contrabbandieri ha tuttavia per lungo tempo fatto riscontro la più completa impunità per gli evasori alle imposte dirette, nonostante il grave danno causato all'erario e soprattutto ai contribuenti onesti su cui lo stato generalmente si rivale elevando le aliquote. Solo recentemente infatti la legislazione tributaria si è orientata nel senso di riconoscere la quasi identità dei due reati; cosa che può in parte spiegarsi tenendo conto che le imposte dirette sono state istituite in genere quando le imposte indirette avevano da tempo avuto la loro sistemazione teorica e legislativa. Anche in Italia gli evasori erano protetti, fino all'entrata in vigore della legge 9 dicembre 1928, n. 2834, dall'assoluta impunità, benché il fenomeno dell'evasione avesse assunto nel nostro paese un particolare sviluppo, sia per il concorso di fattori storici e psicologici, sia per il funzionamento del nostro sistema tributario, in cui l'altezza e la varietà delle aliquote, l'insufficienza del reddito minimo imponibile, i metodi di accertamento, e l'istituto stesso del concordato inducevano all'evasione o la facilitavano.

La legge Sella del 23 giugno 1873, n. 1444, diretta a combattere le evasioni all'imposta di ricchezza mobile e a quella sui fabbricati, era caduta infatti ben presto in desuetudine e (prescindendo dalla parentesi delle sanzioni comminate per le infrazioni alle imposte straordinarie di guerra e dell'immediato dopoguerra, che, del resto, non furono mai seriamente applicate) la stessa sorte avevano avuto le sanzioni stabilite (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3162) per l'imposta complementare progressiva sul reddito, né potevano averla diversa quelle per l'imposta sui celibi (introdotta col r. decr. 13 febbraio 1927, n. 124). Il contribuente si trovava quindi in piena e assoluta libertà di denunciare quando e quanto voleva, salvo poi a contrattare un concordato con l'amministrazione finanziaria che disponeva solo d'inadeguati mezzi di controllo, e il sottrarsi all'obbligo d'imposta era considerato comunemente lecito. La legge 9 dicembre 1928 n. 2834 (integrata dal regolamento 28 gennaio 1929, n. 360, e sostituita poi dal t. u. 17 settembre 1931, n. 1608), che regola attualmente la repressione delle evasioni alle imposte dirette, alle imposte cioè di ricchezza mobile, sui fabbricati, complementare progressiva sul reddito e sui celibi (nell'imposta sui terreni, basata sul catasto e non sulla denuncia, l'evasione è impossibile), rappresenta quindi nella nostra legislazione una vera e propria innovazione. Essa ha sostituito infatti sanzioni di carattere penale a quelle civili precedentemente stabilite e mai applicate e, per quanto le sanzioni stesse siano più miti di quelle comminate nelle legislazioni straniere, il concetto informatore è a ogni modo di severa giustizia, e non è ammessa alcuna facoltà discrezionale dell'amministrazione finanziaria nell'applicazione delle penalità prescritte sia per le infrazioni che costituiscono reato, sia per le mere infrazioni amministrative (art. 31 t. u. citato). I reati in materia di imposte dirette devono anzitutto distinguersi in reati in sede di accertamento e reati in sede di riscossione. Tra i primi è considerato delitto: la sottrazione d'imposta (gli atti fraudolenti, cioè diretti a sottrarre un reddito all'imposta come alterazione di registri, omessa iscrizione di attività negl'inventarî, iscrizione in essi di passività inesistenti formazione di scritture e altri documenti fittizî, dichiarata inesistenza totale o parziale di cespiti che si accertano poi sussistenti; atti questi che possono per sé stessi, in qualche caso, dar luogo anche a reati previsti dal codice penale; art. 18); sono contravvenzioni: l'omessa denuncia (art. 15), che è la trasgressione più comune, le contravvenzioni in materia di celibato (art. 19) e le contravvenzioni varie concernenti l'accertamento (gli atti o le omissioni cioè che hanno per effetto di inibire o di ostacolare all'ufficio delle imposte o alle commissioni amministrative la facoltà di accesso o d'ispezione, nonché l'inadempienza dei datori di lavoro all'obbligo di indicare le generalità dei loro dipendenti e dei capi degli uffici pubblici all'obbligo di comunicare gli estremi dei contratti d'appalto e di somministrazioni che concludono; art. 20). Tra i secondi è delitto: la morosità tributaria fraudolenta (art. 30); sono contravvenzioni: la morosità tributaria semplice del contribuente non commerciante (articoli 26 e 27). La morosità semplice del commerciante non costituisce reato né infrazione amministrativa, ma (art. 25) l'intendente di finanza può autorizzare l'esattore a chiedere il fallimento del contribuente moroso. Per morosità semplice, ai termini di questa legge, s'intende il mancato pagamento di sei rate successive d'imposta, qualunque sia l'anno e l'imposta cui si riferiscano, purché non dovuto ad assoluta impossibilità economica. Le infrazioni amministrative, che si riferiscono sempre al momento dell'accertamento, sono: la denuncia inesatta (se il reddito denunciato sia superiore di almeno 1/4 a quello che risulterà dall'accertamento; art. 3), la denuncia tardiva (art. 15), le infrazioni varie commesse da pubblici funzionarî (art. 21), la non adesione all'invito di presentarsi (art. 22).

Varie sono le sanzioni comminate dalla legge per le evasioni alle imposte dirette, sia di carattere civile (sovraimposte uguali al tributo ovvero a una frazione o a un multiplo di esso), sia di carattere penale (ammende e multe convertibili, in caso di mancato pagamento, nella detenzione o nell'arresto ai sensi degli articoli 19 e 24 cod. pen. 1889, 139 e 140 cod. pen. 1930), sia ancora di carattere particolare intimamente connesso all'attività commerciale svolta dal contribuente (dichiarazione di fallimento). In un solo caso è comminata la pena restrittiva della libertà personale (reclusione fino 3 mesi), e cioè quando la morosità tributaria risulti fraudolenta (art. 30). Le sanzioni di carattere civile e penale possono coesistere.

Infrazioni alle leggi tributarie in materia di tasse. - Assai complicata è la legislazione che riguarda le tasse, nonostante il suo recente riordinamento avvenuto nei regi decreti 30 dicembre 1923, nn. 3268, 3269, 3270 (modificato dal r. decr. legge 30 aprile 1930, n. 431), 3271, 3272, 3273 (sostituito dal t. u. approvato con r. decr. 11 luglio 1931, n. 891), 3274, 3275, 3276, 3277, 3278, 3279, 3280, 3281, 3282, 3283. Varie sono le infrazioni previste, a seconda dei diversi sistemi di accertamento e di riscossione stabiliti per ciascuna tassa, e varie sono anche le sanzioni, in genere sopratasse (uguali al tributo dovuto o, per lo più, a un multiplo di esso) e pene pecuniarie (il carattere civile o penale delle quali deve rilevarsi dal contesto delle singole leggi, da cui risulta se le pene stesse siano convertibili nella pena dell'arresto e quindi parificate alle ammende). Solo nel caso di delitti in materia di bollo è prevista la pena detentiva. Per i contravventori alle leggi sulla tassa scambî e sui contratti di borsa sono previste poi la chiusura temporanea dell'esercizio e l'esclusione temporanea dalle borse del regno.

Norme generali e procedimento. - La molteplicità delle fonti vigenti in materia di reati fiscali e di infrazioni amministrative alle leggi tributarie, i diversi stadî della legislazione e della dottrina che in esse si riflettevano e la difficoltà quindi di un sicuro criterio per l'individuazione e la repressione delle frodi hanno indotto a emanare la legge 7 gennaio 1929, n. 4 (entrata in vigore il 1° luglio 1931 insieme col codice penale Rocco) che regola organicamente tutta la materia del diritto penale tributario e, essendo legge generica, si applica ove le leggi speciali non provvedano. Essa è stata integrata poi dal r. decr. 24 settembre 1931, n. 1473, che ha dettato le disposizioni per il suo coordinamento con le singole leggi finanziarie. In essa, oltre alla già ricordata distinzione fondamentale tra delitti e contravvenzioni (art. 2) e all'affermazione del carattere civilistico delle pene pecuniarie, sovrimposte e sopratasse (art. 3), si trovano fissate alcune norme generali di particolare importanza circa i varî casi previsti di responsabilità solidale (articoli 9, 10, 11, 12 e 19), la possibilità di estinguere il reato mediante oblazione (articoli 13, 14, 15), la prescrizione estintiva (articoli 16, 17 e 60; cfr. inoltre 161 cod. pen. 1930), la competenza (articoli 22, 44, 56, 57, 58, 60, cfr. art. 32 segg. t. u. 17 settembre 1931, n. 1608) e l'accertamento (articoli 24, 30, 31, 32, 33 34, 35)

Infrazioni alle leggi in materia di tributi locali. - Analoga a quella delle infrazioni fiscali finora considerate è la natura delle trasgressioni alle norme che riguardano i tributi degli enti locali. La materia è regolata attualmente dal testo unico per le finanze locali, approvato con r. decr. 14 settembre 1931, n. 1175. Per l'omessa e l'infedele denuncia è comminata una sopratassa (sanzione di carattere civile) pari a 1/3 del tributo corrispondente a quanto non si è denunciato. A parte le più gravi sanzioni stabilite, specie per le trasgressioni riguardanti le imposte di consumo, è comminata inoltre un'ammenda (sanzione di carattere penale) per ogni violazione delle norme riguardanti l'applicazione dei tributi.

Bibl.: C. Marzollo, Contrabbando, in Digesto Italiano, VIII, iii, Torino 1898, 1900 e bibliografia ivi citata; G. Carano Donvito, Trattato di diritto penale finanziario, voll. 2, Torino 1904; Ch. Lescoeur, Pourquoi et comment on fraude le Fisc, Parigi 1909; C. Perdrieux, Les fraudes dans l'impôt italien sur les revenus de la richesse mobilière, Parigi 1910; I. Satta, Il dinamismo del contrabbando, voll. 2, Roma 1924; H. Gattien, Reichssteuerstrafrecht und Reichssteuerstrafverfahren, Berlino 1925; G. Fasolis, Brevi note di dir. finanz. pen., Città di Castello 1927; L. Einaudi, L'evasione all'imposta di ricchezza mobile, in Riforma sociale, 1928; P. Haensel, Die Finanz und Steuerverfassung der Union der Sozialistischen Sowjet republiken, Jena 1928; E. Becker, Die Reichsabgabenorxdnung, Berlino 1928; G. Lampis, Le norme per la repres. delle violazioni delle leggi finanz., Padova 1929; G. Tesoro, Le penalità nelle imp. dirette, Milano 1930

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE