DE NOBILI, Flaminio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990)

DE NOBILI, Flaminio

Flavio De Bernardinis

Nacque a Lucca nel 1533 da Fabrizio e Chiara di Filippo.

La famiglia era originaria della Garfagnana, con l'antico nome Della Pieve, ma, ai tempi in cui il D. venne alla luce, essa aveva perso buona parte dell'antico splendore: le fonti ricordano che finì per estinguersi al tramonto del sec. XVII.

Al D. non mancarono comunque studi regolari e puntuali: apprese il greco da Antonio Paleario, illustre erudito che esercitò a Lucca dal 1546 al 1555. Nel 1551 lo troviamo invece a Pisa, matricola della facoltà di medicina e filosofia, evidentemente sulle orme paterne, in quanto sulla pietra tombale del genitore, in S. Maria Forisportam, si trova scritto: "philosophiae artisque medicae studiosus".

Il D. passò all'università di Ferrara, quindi fece ritorno a Pisa, richiesto dal padre, che gli venne a mancare tra il 1557 e il 1560, episodio che inaugurava i crucci del giovane chiamato a curare la numerosa famiglia. Nel 1561 egli era comunque riuscito a conseguire col massimo dei voti il dottorato in teologia, mentre due anni prima, per intervento diretto di Cosimo I, aveva ottenuto la cattedra di logica. Nel 1563, pur in possesso di un incarico annuale straordinario di filosofia, si rivolgeva ancora al duca perché gli venisse conferito il priorato di S. Giovanni di Lucca, per poter pensare finalmente con la dovuta tranquillità al mantenimento dei suoi numerosi fratelli, supplica che questa volta finì a vuoto.

Il D., all'epoca, aveva già ottenuto il suo successo editoriale con un'opera che si inseriva perfettamente nel dibattito filosofico cinquecentesco: il Trattato dell'amore humano, scritto a Ferrara nel 1556, ancora vivo il padre, quindi in completa serenità, e stampato l'anno seguente per i tipi di V. Busdraghi.

Sono in esso evidenti influenze da Marsilio Ficino, colui che aveva inaugurato la filosofia dell'amore in età umanistica, in quanto forza capace di collegare l'umano al divino. Il D. infatti accetta tale premessa con l'intento di far conoscere la natura d'amore per evitare tutti gli eccessi che questo può provocare. Il componimento è scritto in toscano, in quanto lingua ritenuta piacevole e dolce, nobilitata dall'uso che ne fece il'Petrarca. Appunto con l'autorità di questo, dei greci, dei latini, di Dante, del Boccaccio, si afferma che l'intelletto è occhio dell'anima e a questo spetta focalizzare la bellezza squisitamente spirituale. La donna ama l'uomo, avendone conosciuto il valore, avendo Dio ordinato così, mentre l'uomo ricerca la bellezza nella donna. Se l'amore intellettuale è sempre onesto, ovviamente bestiale diventa nel momento in cui è preda dei sensi. Di conseguenza, il perfetto amante è colui che si ingegna di possedere come marito sia l'anima sia il corpo della donna, concentrato in quell'amore buono razionale, il solo adatto, come testimonia Platone, a continuare la specie. Esiste, infine, un amore divino, assai raro nei giovani, che si raggiunge non attraverso la donna, bensì con la contemplazione delle meraviglie della natura e dell'intero universo. L'amore è dunque cosa certamente buona, anche se a volte può allontanare dalla famiglia e da Dio, poiché sua ineliminabile funzione è procurare nobiltà d'animo e soffocare ciò che di ferino e bizzarro risiede nell'uomo.

Il D. sottopose questa sua fatica a C. Gualteruzzi, a B. Varchi e ad Annibal Caro. Quest'ultimo gli inviò una lettera di risposta, in data 25 genn. 1561, dove loda il gusto e l'erudizione del giovane studioso, ma richiama l'attenzione sulla lingua, considerata più vicina alla parlata lucchese che al toscano illustre.

Nel 1566 da straordinario passò ad ordinario con uno stipendio di 200 scudi. L'anno seguente, per autorità e privilegio della Sede apostolica, ottenne un canonicato vacante che nel 1568 si permise di rifiutare per essersi assicurato il rettorato della chiesa parrocchiale di S. Pietro Somaldi in Lucca. Alcune fonti lo segnalano anche lettore di diritto ecclesiastico, ma nessuno scritto di tale argomento è pervenuto sino a noi.

Nonostante la sua situazione economica dovesse risultare notevolmente stabilizzata, nello stesso anno il D. era in partenza per Roma. In una lettera a Bartolomeo Concini, primo segretario del granduca (in data 22 giugno 1571) spiegava il trasferimento con motivi di salute. Ancora titolare di un canonicato in S. Maria Forisportam, nel 1575 era stabilmente a Roma, ammesso nella casa del cardinal G. Ferreri.

Ora più che mai, la sua vita, come è evidente, altro non poteva essere che la storia della sua carriera, in perpetue raccomandazioni divise tra papi e signori, all'interno della rigida struttura che caratterizzava la società tridentina. In quell'epoca, infatti, la distinzione tra chierici e laici si faceva più netta, e il letterato era costretto dall'assetto territoriale imposto dalla dominazione spagnola ad indirizzare in senso esclusivamente cortigiano le proprie velleità.

A Roma il D. iniziò a lavorare sui testi sacri, procurandosi fama di insigne erudito. Il cardinal Ferreri fece parte della congregazione incaricata dal papa di dare alle stampe il Vecchio Testamento, nella traduzione greca: tra gli eruditi chiamati alla fatica troviamo il De Nobili. Sue risultano prefazione ed annotazioni della successiva traduzione latina e il suo nome figura tra i curatori della Vulgata progettata da Sisto V. L'opera uscì non senza qualche imperfezione, tanto che le copie vennero ritirate dopo la morte di questo pontefice. Il D. aveva già fatto parte dello staff per l'edizione promossa da Gregorio XIII, conclusasi poi sotto Clemente VIII.

Il D. si interessò anche della revisione della Gerusalemme liberata. IlTasso si dedicava alla penosa impresa intrecciando fitta corrispondenza con Scipione Gonzaga e con quattro dei maggiori letterati che vivessero allora a Roma: Pier Angelio da Barga, Silvio Antoniano, Sperone Speroni e il De Nobili. Non ci è giunto purtroppo l'epistolario diretto tra i due, che fu fitto e sostanzioso, poiché il poeta sembrava preferire il giudizio del D. a quello degli altri.

Il D. ricevette il manoscritto e lo lesse con cura, annotando con la matita i versi e le parti che non lo convincevano: Torquato, a dir la verità, esaminava liberamente tali appunti, generalmente li accettava, qualche volta restava sulle sue, come al canto XIII, strofe 77, dove scriveva "segni di messer Flaminio; a me piace come sta". Si ha l'impressione che il Tasso gli richiedesse quelle precisazioni di carattere teologico necessarie nella triste revisione che l'ambiente controriformistico reclamava; ai suoi pareri, e a quelli dei Bargeo, si devono l'attenuazione dei passaggi erotici, la volontà di soppressione dell'episodio di Olindo e Sofronia, la ristrutturazione più vicina ai dettami del classicisnio nell'attenuazione del "meraviglioso", fino alla grottesca costruzione dell'allegoria totale dell'intero poema. Si consideri che il Tasso si era servito del Trattato dell'amore humano per prepararsi alla disputa sul tema dell'affezione amorosa, che svolse nelle sale dell'Accademia Ferrarese all'inizio del 1570.

Gli interventi del D. dovevano risultare piuttosto pesanti, poiché il Tasso dichiarava spesso di rimettersi al suo parere lasciando addirittura ampi spazi in bianco nei manoscritti che gli inviava, in modo che il prelato annotasse le sue censure in piena libertà: un motivo in più per tremare al pensiero che la sola Conquistata avesse avuto la fortuna di giungere fino ai giorni nostri.

Nel 1578 il D. fu impiegato in negozi pubblici presso il cardinale F. Alciati, prefetto di congregazione. Nel 1581 rinunciò alla prebenda in favore del fratello G. Battista.

Ormai non gli restava che continuare la carriera cortigiana presso la S. Sede, fino a che le condizioni di salute non lo spinsero a rientrare nella natia Lucca nell'aprile 1590 dove, dopo aver trovato il tempo di scrivere operette morali e spirituali dedicate al granduca e di ottenere il rettorato di S. Giulia, si spegneva l'anno 1591 - Fu seppellito, come il padre, nella chiesa di S. Maria Forisportam.

Opere: pubblicazioni a carattere filosofico, in stretto riferimento alla sua attività didattica a Lucca e Pisa: Quaestiones logicae, Lucac 1562; De hominis felicitate libri tres. De vera et falsa voluptate libri duo. De honore liber unus, ibid. 1563; Trattato dell'amore humano, ibid. 1567, poi Bologna 1580; pubblicazioni romane di argomento teologico: De praedestinatione libri duo, Roma 1581;Ioannes Chrysostomus, Sermones in epistolam divi Pauli ad Philippenses Flaminio Nobilio interprete, ibid. 1578 e infine Trattato dell'amore humano, con le postille autografe di T. Tasso, a cura di P. D. Pasolini, Roma 1895.

Fonti e Bibl.: T. Tasso, Lettere, a cura di C. Guasti, I, Firenze 1852, pp. 157, 168, 181, 183, 185, 195 s., 214, 221; A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, I, Firenze 1961, pp.55, 160; C. Lucchesini, Opere, Lucca 1833, XV, p. 87; XVII, p. 53; M. Rosi, Saggio sui trattati d'amore del Cinquecento, Recanati 1869, pp. 59-63; C. Sardi, Dei mecenati lucchesi nel secolo XVI, in Atti della R. Accad. lucchese di sc., lettere ed arti, XXI (1882), p. 513; P. Paganini, F. D., Torino 1884; A. Solerti, Vita di T. Tasso, Torino 1895, I, pp. 129 s., 155, 206, 211, 233; E. Garin, Storia dei generi letterari. La filosofia, II, Milano 1947, p. 85.

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