Fonti internazionali. Prevalenza [dir. proc. pen.]

Diritto on line (2015)

Stefania Negri

Abstract

Nell’enunciare il principio di prevalenza del diritto internazionale nella disciplina dei rapporti con le autorità giudiziarie straniere, l’art. 696 c.p.p. detta la gerarchia delle fonti che regolano gli istituti tradizionali e le nuove forme di cooperazione giudiziaria in materia penale. Difatti, la primacy delle fonti internazionali ed europee opera sia in ambito di cooperazione interstatuale “orizzontale” (tradizionale o rafforzata nel quadro dello Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia) sia in ambito di cooperazione “verticale” con i tribunali penali internazionali. La disciplina del codice di rito risulta quindi applicabile in via sussidiaria e con funzione integrativa della normativa internazionale qualora fornisca il supporto necessario alla concreta attuazione degli obblighi di cooperazione.

La disciplina dei rapporti con le autorità giudiziarie straniere

Finalità ed ambito di applicazione dell’art. 696 c.p.p.

In apertura del libro XI del codice di procedura penale, dedicato ai Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, l’art. 696 enuncia il principio di prevalenza del diritto internazionale generale e pattizio sulla disciplina codicistica, che è chiamata ad operare in via sussidiaria ed eventualmente in funzione integrativa della pertinente normativa internazionale. Non si tratta di una disposizione meramente ricognitiva delle fonti applicabili, ma l’esplicitazione di un principio fondamentale che nel nostro ordinamento è alla base dei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno. La finalità della norma è dunque quella di indicare con chiarezza agli operatori giuridici interni la gerarchia delle fonti che disciplinano gli istituti della cooperazione giudiziaria in materia penale, assolvendo una importantissima funzione di «risoluzione preventiva delle possibili antinomie» (Gaito, A.,Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, in Conso, G.-Grevi, V., Compendio di procedura penale, III ed., Padova, 2006, 964).

Per quanto concerne l’ambito di applicazione dell’art. 696 c.p.p., dalla formulazione del primo comma si evince che il principio di prevalenza del diritto internazionale opera in primis rispettoalla disciplina degli istituti di cooperazione tradizionali ivi menzionati: le estradizioni, le rogatorie internazionali, il riconoscimento degli effetti delle sentenze penali straniere, l’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane. La locuzione «altri rapporti con le autorità straniere, relativi alla amministrazione della giustizia in materia penale» costituisce un’importante “clausola aperta”, che lascia spazio ad un’interpretazione evolutiva della norma ed alla sua conseguente applicazione alle nuove forme di cooperazione giudiziaria che si sono sviluppate per rispondere alle pressanti esigenze di sicurezza e giustizia espresse dalla comunità internazionale e per fronteggiare le sfide poste dalla criminalità organizzata transnazionale. Il quadro complessivo della cooperazione in materia penale risulta infatti profondamente mutato e lo scenario attuale richiede un’interpretazione attualizzata dell’art. 696, in linea con l’evoluzione del diritto internazionale ed europeo e con la progressiva trasformazione dei rapporti tradizionali di cooperazione. L’interpretazione estensiva della generica formula «altri rapporti» consente quindi di ricondurre alla norma in parola tanto le nuove forme di cooperazione giudiziaria “orizzontale” rafforzata, che si vanno realizzando tra i Paesi membri dell’UE nel quadro dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, quanto i rapporti di cooperazione “verticale” con autorità giudiziarie non statali, tertium genus di cooperazione generata dalla istituzione dei Tribunali penali internazionali.

Prevalenza del diritto internazionale ed integrazione tra ordinamenti

Nell’esprimere il principio della preminenza del diritto internazionale sul diritto interno, l’art. 696 c.p.p. codifica una regola generale che trova oggi espressa previsione costituzionale (almeno per quanto riguarda i rapporti tra il diritto pattizio e dell’UE e la legislazione ordinaria e regionale) nel novellato art. 117, co. 1, Cost. In questa ottica la norma non appare affatto inutile (come considerata da Quadri, R., Estradizione (diritto internazionale), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 16), avendo invece il pregio di aver risolto in radice, e con largo anticipo rispetto alla riforma costituzionale del 2001 (l. 18.10.2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ogni possibile ipotesi di conflitto tra le norme interne e quelle internazionali applicabili agli istituti della cooperazione giudiziaria penale, ivi comprese quelle poste a tutela dei diritti fondamentali, che in ragione della loro riconosciuta primazia sono in grado di incidere sulle attività di cooperazione che si ripercuotono direttamente sugli individui. Pertanto, nonostante l’art. 696 c.p.p. correttamente anteponga le convenzioni al diritto generale – atteso che le prime prevalgono in quanto diritto speciale ed in virtù della caratteristica “flessibilità” della consuetudine internazionale – è indispensabile che l’operatore giuridico interno sia consapevole della primacy assoluta delle norme sui diritti umani cd. imperative o di jus cogens (inderogabili mediante accordo ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969) nella sua attività di rilevazione ed interpretazione delle fonti internazionali applicabili alla fattispecie concreta. La corretta applicazione dell’art. 696 richiede quindi un’adeguata conoscenza tanto della gerarchia delle fonti internazionali quanto della gerarchia delle fonti interne, nonché delle modalità attraverso le quali tali fonti si coordinano quando il diritto internazionale sia stato “introdotto” nell’ordinamento italiano attraverso i necessari procedimenti di adattamento.

A tal proposito è opportuno ricordare che alle fonti richiamate dall’art. 696 c.p.p. l’ordinamento italiano si conforma mediante procedimento di adattamento “speciale” o di rinvio, ossia attraverso l’adozione di una norma interna che si limita ad operare un rinvio alla norma internazionale come vigente sul piano internazionale, e ad ordinarne l’osservanza (a meno che non si tratti di norme non self-executing), e che da tale procedimento (rectius,dalla forza formale della norma che provvede all’adattamento) dipende il rango che acquistano le norme internazionali nella gerarchia delle fonti italiane. Quest’ultimo elemento, di particolare complessità nella dinamica dei rapporti tra norme ed ordinamenti, è stato determinante nella definizione delle regole di coordinamento attraverso le quali ha operato il principio di preminenza del diritto internazionale (v. per tutti Conforti, B., Diritto internazionale, IX ed., Napoli, 2013, 325 ss.). Tuttavia, ai fini dell’art. 696 c.p.p., è sufficiente richiamare in via di semplificazione gli artt. 10 e 117 Cost. L’art. 10, co. 1, dispone l’automatico adeguamento dell’ordinamento italiano alle «norme di diritto internazionale generalmente riconosciute»; esso provvede quindi al recepimento a livello costituzionale di consuetudini e principi di diritto internazionale e ne assicura la prevalenza su ogni altra fonte interna (che in caso di antinomia sarebbe viziata da illegittimità costituzionale), fatta eccezione per i principi costituzionali fondamentali, dotati di maggiore forza di resistenza. L’art. 117, co. 1, invece, assicura oggi la prevalenza dei trattati sulla legislazione ordinaria, superando definitivamente le criticità connesse all’applicazione della regola accolta in precedenza (in base alla quale il conflitto tra diritto convenzionale e legislazione statale veniva risolto applicando i principi che regolano i rapporti fra norme di pari rango, in ragione del fatto che l’“ordine di esecuzione” è generalmente dato con legge ordinaria). Secondo la Consulta il primo comma dell’art. 117 «mira ad eliminare una lacuna del nostro ordinamento, determinata dal contenuto dell’art. 10 Cost., stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore statale» (C. cost., 24.10.2007, n. 349, § 2.4), ma non conferisce rango costituzionale alle norme convenzionali; esso funge da parametro di costituzionalità nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi, realizzando «un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata ‘norma interposta’» (C. cost., n. 349/2007, § 6.2; 26.11.2009, n. 311; 4.12.2009, n. 317; 12.3.2010, n. 93; 5.1.2011, n. 1). A sua volta la norma interposta richiamata, che si colloca a livello sub-costituzionale, è idonea a fungere da parametro indiretto di costituzionalità solo se è essa stessa conforme alle norme costituzionali; tale necessaria verifica di compatibilità realizza «un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa» (C. cost., n. 349/2007, § 6.2; cfr. anche 24.10.2007, n. 348, § 4.7; 22.7.2011, n. 236, § 1). In sintesi, dalla lettura sistematica dell’art. 696 c.p.p. alla luce delle disposizioni costituzionali richiamate si evince che le norme internazionali che disciplinano gli istituti della cooperazione giudiziaria penale non solo si applicano in via prioritaria rispetto alle norme del codice di rito, ma fungono al contempo da parametri di legittimità costituzionale delle stesse purché risultino compatibili con i principi fondanti della Costituzione italiana.

Il ruolo residuale delle disposizioni del Libro XI è chiarito dal comma secondo dell’art. 696 c.p.p., che prevede l’applicazione della disciplina codicistica solo nell’ipotesi in cui le norme internazionali manchino o non dispongano diversamente. Sicché, mentre è evidente che il codice è chiamato ad assolvere una funzione integrativa del diritto internazionale vigente laddove occorra colmare il vuoto normativo lasciato dalle norme convenzionali e generali, l’inciso «che non dispongono diversamente» sottintende che esso possa altresì trovare applicazione in via sussidiaria in ordine ai profili non espressamente regolamentati dal diritto internazionale (e.g. competenze, procedure, garanzie; v. in tal senso Rel. prog. prel. c.p.p., 152, in Carulli, N.-Dalia, A.A., Le nuove norme sul processo penale, Napoli, 1989, 780). Analoga funzione di integrazione viene svolta dal codice quando provvede a fornire le norme di esecuzione per tutte le disposizioni internazionali non self-executing, fornendo il «supporto normativo necessario all’attuazione della cooperazione internazionale in materia penale», in particolare quando «le convenzioni … abbisognano, per essere in concreto operanti, di disposizioni di “collegamento” che le rendano applicabili» (Marchetti, M.R., Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, in Conso, G.-Grevi, V.-Bargis, M., a cura di, Compendio di procedura penale, VI ed., Padova, 2012, 1100).

In via interpretativa la Corte costituzionale ha ritenuto che la disciplina codicistica sia applicabile anche in presenza di norme convenzionali che non impongano obblighi specifici agli Stati ma conferiscano loro delle facoltà, restando rimessa all’ordinamento interno delle Parti contraenti la libertà di disciplinare precisamente la fattispecie, trasformando eventualmente tale facoltà in obbligo (C. cost., 3.3.1997, n. 58, sul rapporto tra l’art. 705, co. 1, c.p.p., che pone il divieto di estradizione in pendenza di procedimento penale per il medesimo fatto, e l’art. 8 della Convenzione europea di estradizione, che in tal caso prevede la facoltà di concedere o meno l’estradizione sulla base delle valutazioni discrezionali del Ministro).

Occorre infine segnalare che sulla prevalenza delle fonti internazionali e la funzione integrativa del codice di procedura penale anche la giurisprudenza di legittimità è costante: v., ex multis, Cass. pen., 27.6.1996, n. 205504; 12.7.2004, n. 35859; 22.6.2010, n. 24326; 25.2.2013, n. 9092; in particolare sulla prevalenza della prassi internazionale in materia di rogatorie v. e.g. Cass. pen., 15.10.2002, n. 34576; 8.11.2002, n. 37774; 4.5.2006, n. 38764.

Le fonti che disciplinano la cooperazione giudiziaria “orizzontale"

Il diritto internazionale generale

Il comma primo dell’art. 696 c.p.p. richiama le fonti primarie del diritto internazionale rappresentate dalle «norme di diritto internazionale generale», locuzione cui la dottrina riconduce tre categorie di norme non scritte che vincolano tutti i soggetti della Comunità internazionale: le consuetudini, i principi di diritto internazionale ed i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili (rientrando i principi tra le «altre possibili fonti di norme generali» previste dalla Rel. prog. prel. c.p.p., 152, in Carulli, N.-Dalia, A.A., Le nuove norme,cit.).

Le consuetudini internazionali sono norme consolidatesi nel tempo in via di prassi, cioè attraverso la reiterazione diffusa di comportamenti costanti ed uniformi tenuti dagli Stati, sorretti dal convincimento della loro obbligatorietà e necessità; esse risultano pertanto costituite dai due elementi essenziali della diuturnitas e dell’opinio juris sive necessitatis (Conforti, B., Diritto,cit., 37 ss.). Alla categoria dei principi di diritto internazionale, primo fra tutti il principio di sovranità, sono invece ricondotte tanto le norme primarie «espressione immediata, diretta, della volontà del corpo sociale» che si affermano in quanto «determinazione delle forze prevalenti della Comunità internazionale» (Quadri, R., Diritto internazionale pubblico, V ed., Napoli, 1989, 119 ss.; Sinagra, A.-Bargiacchi, P., Lezioni di diritto internazionale pubblico, Milano, 2009, 114 ss.), quanto i «canoni di comportamento sui quali vi è un accordo sostanziale di tutti i membri» della comunità, che «si collocano al “vertice” dell’intero sistema normativo internazionale, costituendo gli insopprimibili parametri giuridici di questo sistema, al punto da poter essere considerati i principi costituzionali della comunità internazionale» (Cassese, A., Diritto internazionale. I. I lineamenti, a cura di P. Gaeta, Bologna, 2003, 63). Tali principi non vanno confusi con i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, di cui all’art. 38, co. 1 lett. c), dello Statuto della Corte internazionale di Giustizia, che s’identificano con i principi generali di diritto applicati in foro domestico,perlopiù principi di giustizia e di logica giuridica che risultano essere comuni agli ordinamenti interni della gran parte degli Stati. Detti principi – siano essi classificati come consuetudini sui generis (Conforti, B., op. cit., 49) ovvero come fonte autonoma di diritto internazionale (Focarelli, C., Diritto internazionale. Il sistema degli Stati e i valori comuni dell’umanità, II ed., Padova, 2012, 140-144) – sono applicabili in via sussidiaria, in mancanza di altre norme pattizie o consuetudinarie, nella misura in cui siano trasponibili nel diritto internazionale, ossia se risultino «compatibili con i caratteri essenziali e strutturali dell’ordinamento giuridico internazionale» (Cassese, A., Diritto, cit., 228).

Nell’ambito specifico della cooperazione giudiziaria penale si considerano ormai affermati quali norme generali alcuni principi in materia di rogatorie internazionali ed estradizione. Nel primo caso si ritiene appartenga al diritto internazionale generale la regola che prevede che l’atto probatorio assunto all’estero sia espletato nel rispetto della lex loci, risultando inapplicabili nello Stato richiesto le regole processuali dello Stato richiedente in virtù del principio di sovranità, e rimanendo invece rimesse alla valutazione dello Stato richiedente le questioni attinenti alla utilizzabilità delle prove medesime, secondo le regole del proprio ordinamento ed alla luce dei suoi principi fondamentali (C. cost., 14.6.1995, n. 379; Cass. pen., 13.7.1999, n. 11109).

Quanto invece all’estradizione, non sembra esservi un orientamento dottrinale univoco sulla esistenza di una regola di diritto internazionale generale che imponga allo Stato richiesto di procedere all’estradizione extra-convenzionale (ossia di dover in ogni caso concedere l’estradizione anche in assenza di obbligo pattizio), mentre si ritengono consolidati in via consuetudinaria il divieto di estradizione per reati politici ed i principi di specialità e della doppia incriminazione (i due principi menzionati da ultimo non sono tuttavia inderogabili mediante accordo, come testimonia la prassi più recente; in generale, v. per tutti Del Tufo, V., Estradizione, III) Diritto internazionale, in Enc. giur. Treccani,Roma, 1989). Si discute inoltre se costituiscano norme di diritto internazionale generale, già affermatesi nella prassi o quanto meno emergenti, il principio del ne bis in idem internazionale ed il principio aut dedere aut judicare.

Per quanto concerne il primo, si segnalano in particolare due pronunce della Corte costituzionale relative ai giudizi di costituzionalità dell’art. 11, co. 1, c.p. alla luce dell’art. 10. co. 1, Cost., nelle quali la Consulta ha concluso a favore dell’inesistenza di una prassi sufficiente ad affermare la natura generale del principio del ne bis in idem internazionale (C. cost., 18.4.1967, n. 48 e 8.4.1976, n. 69). Degna di nota è la più recente pronuncia relativa alla questione di costituzionalità del primo comma dell’art. 705 c.p.p., ove la Consulta afferma che il «principio ne bis in idem,… pur non essendo ancora assurto a regola di diritto internazionale generale … né essendo accolto senza riserve nelle convenzioni internazionali che ad esso si riferiscono (cfr. gli artt. 1 e 2 della convenzione fra gli Stati membri delle Comunità europee relativa all’applicazione del principio “ne bis in idem”, firmata a Bruxelles il 25 maggio 1987 e resa esecutiva in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 350), è tuttavia principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale, e risponde del resto a evidenti ragioni di garanzia del singolo di fronte alle concorrenti potestà punitive degli Stati» (C. cost. 3.3.1997, n. 58).

Per quanto attiene invece al principio aut dedere aut judicare,rilevano in particolare i lavori della Commissione del diritto internazionale dell’ONU, durati dal 2004 al 2014, finalizzati alla codificazione della disciplina internazionale in materia ed alla valutazione dell’eventuale natura generale del principio. Sul punto, si segnala che nel Rapporto finale, approvato nel mese di agosto 2014, la Commissione si è limitata a registrare la mancata adesione di molti Stati alla tesi formulata nel 2011 dal Relatore speciale, relativa alla possibilità di desumere l’esistenza di un obbligo consuetudinario di estradare o giudicare dall’esistenza delle norme consuetudinarie che vietano i crimina juris gentium (International Law Commission, The obbligation to extradite or prosecute (aut dedere aut judicare), Final Report of the International Law Commission 2014, in Year Book of the International Law Commission, 2014, II, part. 2).

Non va infine sottaciuta l’importanza delle norme internazionali sui diritti umani che hanno natura cogente, quali il divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti (Human Rights Committee, General Comment No. 24: Issues relating to reservations made upon ratification or accession to the Covenant or the Optional Protocol thereto, or in relation to declarations under Article 41 of the Covenant, 4.11.1994, § 10; International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, Prosecutor v. Anto Furundzija, Judgement, Trial Chamber, 10.121998, § 153; International Court of Justice, Questions relating to the obligation to prosecute or extradite (Belgium v. Senegal), Judgment, 20.7.2012, § 99), il divieto di discriminazione (Human Rights Committee, General Comment No. 18: Non-discrimination, 10.11.1989, § 1), il divieto di violare i principi fondamentali dell’equo processo (inclusa la presunzione di innocenza) ed il divieto di detenzione arbitraria (Human Rights Committee, General Comment No. 29. States of Emergency (article 4), 31.8.2001, § 11, 16; General Comment No. 32. Article 14: Right to equality before courts and tribunals and to a fair trial, 23.8.2007, § 6). Si tratta di norme poste a tutela di taluni diritti fondamentali inderogabili, suscettibili di venire in rilievo in sede di cooperazione internazionale in materia penale e di condizionare l’esecuzione delle relative attività di assistenza giudiziaria, proprio in ragione della loro forza di resistenza e della consequenziale prevalenza su qualsiasi altro obbligo di natura pattizia. Di tutta evidenza è la centralità del ruolo che i divieti summenzionati hanno avuto nell’affermazione di nuove ed emergenti regole generali di diritto internazionale, quali il divieto di estradizione (e parallelamente di espulsione e respingimento) verso Stati ove l’estradando rischi di subire tortura, trattamenti o pene inumani o degradanti, ovvero di essere condannato alla pena di morte, sottoposto ad un processo iniquo o perseguito per motivi discriminatori (v. per tutti Parisi, N., Estradizione e diritti dell’uomo: fra diritto internazionale, convenzionale e generale, Milano, 1993; Salerno, F., a cura di, Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione, Padova, 2003; Lugato, M., Trattati di estradizione e norme internazionali sui diritti umani, Torino, 2006).

Le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia

L’art. 696 c.p.p. attribuisce prevalenza alle «norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato», ossia agli accordi bilaterali e multilaterali, fonti di diritto internazionale particolare, validamente stipulati nel rispetto delle regole codificate dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. Per rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 696 c.p.p. è necessario che l’accordo sia stato regolarmente ratificato dall’Italia e dall’altro Stato interessato, che il procedimento di formazione si sia perfezionato sul piano internazionale con il regolare scambio o deposito degli strumenti di ratifica e che sul piano interno si sia provveduto all’adattamento mediante adozione dell’“ordine di esecuzione” (cfr. Rel. prel. prog. c.p.p., 151-152, in Carulli, N.-Dalia, A.A., op. cit.).

Gli accordi che disciplinano la cooperazione giudiziaria in materia penale sono numerosi (per una ricognizione v. Pisani, M.-Mosconi, F.-Vigoni, D., Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, IV ed., Milano, 2004; La Rocca, N., sub Art. 696, in Gaito, A., a cura di, Codice di procedura penale ipertestuale,II, III ed., Torino, 2008, 3474 ss.) e richiedono – rispetto alla molteplicità delle fonti esistenti ed alle possibili ipotesi di confliggenza – che siano correttamente individuate le norme convenzionali specifiche che disciplinano i rapporti con ciascuno Stato o gruppo di Stati interessati, non solo distinguendo tra Paesi membri e non membri dell’UE, ma avendo anche cura di verificare gli effetti di eventuali riserve (eccettuative o interpretative), delle regole della successione nel tempo, nonché delle clausole di compatibilità, subordinazione o abrogazione che recano le norme di coordinamento tra fonti concorrenti (Conforti, B., op. cit., 96 ss.).

La maggior parte degli accordi vigenti è costituita da trattati che regolano i rapporti estradizionali. Si tratta perlopiù di accordi bilaterali e di convenzioni multilaterali ad hoc (e.g. la Convenzione europea di estradizione del 1957, ratificata e resa esecutiva con l. 30.1.1963, n. 300 e relativi protocolli addizionali), cui si affiancano altre convenzioni multilaterali stipulate per reprimere fenomeni criminali particolarmente gravi e di rilevanza transnazionale (quali genocidio, schiavitù, cattura di ostaggi, traffico di esseri umani, traffico di stupefacenti, terrorismo internazionale, pirateria) che contengono a loro volta clausole estradizionali (v. tra le più recenti la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale del 2000, ratificata e resa esecutiva con l. 16.3.2006, n. 146).

Altra importante categoria di convenzioni in vigore per l’Italia è costituita dagli accordi che istituiscono forme di cooperazione più ampia, quale la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959 (ratificata e resa esecutiva con l. 23.2.1961, n. 215), cui l’art. 696 c.p.p. rinvia espressamente in seguito alla modifica del testo normativo introdotta dall’art. 9, co. 1, della l. 5.10.2001, n. 367. Ancorché menzionata in via meramente esemplificativa, l’indicazione della sola Convenzione di Strasburgo è apparsa nondimeno riduttiva e sostanzialmente superflua, soprattutto se rapportata all’esistenza di un numero cospicuo di accordi parimenti rilevanti (v. soprattutto Marchetti, M.R., Rapporti, cit., 144). Di fatto, per quanto rivolta ad un numero consistente di Stati (i 47 Membri del Consiglio d’Europa), la Convenzione non ha alcuna vocazione universale ed annovera tra gli Stati parti non europei solo il Cile, la Corea ed Israele. Alla luce delle numerose osservazioni critiche della dottrina si comprende quindi il diverso orientamento espresso nel progetto di riforma del codice di rito elaborato dalla Commissione Riccio, che ha ribadito l’importanza del principio della prevalenza del diritto internazionale in ossequio ad una dichiarata esigenza di «coerenza sistemica e di organicità dei processi di adeguamento della legislazione nazionale agli obblighi [internazionali]», ma ha ritenuto di doverlo «depura[re] da ogni improprio riferimento a specifiche fonti convenzionali» (Relazione Commissione Riccio per la riforma del codice di procedura penale, 27.7.2006, § 30).

Occorre infine sottolineare, in linea con quanto fin qui evidenziato a proposito della rilevanza delle norme internazionali in materia di diritti fondamentali, che anche nella individuazione delle «altre norme delle convenzioni internazionali in vigore» cui fa riferimento l’art. 696 c.p.p. va riconosciuto un ruolo primario ai trattati sui diritti umani, ancorché non dettino una disciplina specifica in materia di assistenza giudiziaria. Dell’importanza di tali accordi, prima fra tutti la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, vi è chiara testimonianza già nella Relazione al progetto preliminare del codice vigente, laddove si sottolinea che rispetto «alle … ‘norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia…’ vengono ovviamente in considerazione, in primo luogo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; su un piano più specifico, la Convenzione europea di assistenza giudiziaria» (Rel. prel. prog. c.p.p., 151, in Carulli, N.-Dalia, A.A., op. cit.,779, corsivo nostro). Accanto alla costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ha preso le mosse dalla nota sentenza resa nel leading case Soering v. The United Kingdom (C. eur. dir. uomo, 7.7.1989, n. 14038/88), numerose pronunce della Corte Suprema confermano la rilevanza della Convenzione nei rapporti di cooperazione giudiziaria in materia penale (v., tra le più recenti, Cass. pen., 3.9.2010, n. 32685; 18.4.2011, n. 15578).

Il diritto dell’Unione Europea

Rientra a pieno titolo nella categoria degli accordi che disciplinano la cooperazione giudiziaria “orizzontale” anche il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in ragione della disciplina dettata dal Capo 4 in tema di cooperazione giudiziaria penale nello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (titolo V TFUE).

L’art. 82 TFUE dispone che «la cooperazione giudiziaria in materia penale nell’Unione è fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e include il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri». La norma prevede che l’Unione possa adottare misure destinate a facilitare la cooperazione giudiziaria  deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria (il che non esclude la possibilità che intervenga anche mediante regolamento: v. art. 289 TFUE), mentre precisa che la fissazione delle norme minime idonee a facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione nelle materie penali aventi dimensione transnazionale è deliberata mediante direttive. Alla luce dell’art. 82, il principio di prevalenza del diritto internazionale sul diritto interno enunciato dall’art. 696 c.p.p. opererebbe solo nell’ipotesi in cui l’Unione decidesse di adottare misure regolamentari, che sono idonee a produrre effetti diretti nell’ordinamento interno e determinare la disapplicazione delle norme statali confliggenti (C. cost., 8.6.1984, n. 170). Ad oggi, invece, la progressiva creazione dello spazio di libertà sicurezza e giustizia si è andata realizzando mediante ricorso a strumenti normativi diversi, in particolare attraverso l’adozione di decisioni-quadro nel regime pre-Lisbona, e di direttive nel regime vigente. Per loro natura questi atti dettano obblighi di risultato che gli Stati membri dell’Unione sono tenuti a recepire ed eseguire entro un certo limite temporale, e rispetto ai quali la disciplina interna non ha affatto carattere residuale, ma costituisce piuttosto «il dato normativo da applicare» (in tal senso Marchetti, M.R., sub Art. 696, in Comm. c.p.p. Giarda-Spangher, Milano, 2007, 6038).

Pertanto, ai fini dell’art. 696 c.p.p., decisioni-quadro e direttive adottate in sede di cooperazione giudiziaria in materia penale prevalgono sul diritto interno nella misura in cui gli obblighi di risultato impongono che la normativa di recepimento non possa porsi in contrasto con tali fonti (in virtù degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost.), ovvero fungono da parametro interpretativo atto a realizzare la “interpretazione conforme” delle norme statali vigenti, in ipotesi di mancata o ritardata esecuzione all’atto comunitario (C. giust., 16.6.2005, C-105/03, Pupino). In ogni caso, la disciplina dettata dall’Unione in materia di cooperazione giudiziaria deve coordinarsi ed essere conforme agli obblighi fondamentali in materia di diritti umani (Negri, S., L’incidenza della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sulla cooperazione giudiziaria penale nell’Unione Europea, in Kalb, L., a cura di,«Spazio europeo di giustizia» e procedimento penale italiano. Adattamenti normativi e approdi giurisprudenziali, Torino, 2012, 63 ss.).

Le fonti che disciplinano la cooperazione giudiziaria “verticale”

Con la creazione dei Tribunali penali internazionali per la repressione dei crimini commessi nella ex-Yugoslavia (TPIY) ed in Ruanda (TPIR), il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha dato vita a nuove forme di cooperazione giudiziaria “verticale” che possono essere lato sensu ricondotte nell’alveo degli «altri rapporti con le autorità straniere, relativi all’amministrazione della giustizia». I due Tribunali ad hoc sono stati istituiti con le risoluzioni 25.5.1993, n. 827 e 8.11.1994, n. 955, adottate ai sensi del Capitolo VII della Carta dell’Onu (dedicato alle azioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale) e non hanno carattere permanente. Dal punto di vista della competenza materiale, essi hanno giurisdizione concorrente con i tribunali penali interni in materia di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ma entrambi godono di una posizione di primacy,che impone ai giudici nazionali, se richiesti, di astenersi dall’esercizio della propria giurisdizione a favore di quella del Tribunale internazionale (v. art. 9 Statuto TPIY e art. 8 Statuto TPIR). Accanto all’obbligo di trasferire il processo nazionale, in ogni stato e grado del procedimento, qualora il Tribunale faccia valere la clausola di supremazia, entrambi gli Statuti pongono l’obbligo per gli Stati di cooperare anche in sede investigativa ed istruttoria, disponendo che sia dato corso senza ritardo ad ogni richiesta di assistenza concernente, tra l’altro: a) l’identificazione e la ricerca di persone; b) l’assunzione di testimonianze e la produzione di prove; c) la trasmissione di documenti; d) l’arresto o la detenzione di persone; e) il trasferimento o la traduzione dell’accusato davanti al Tribunale internazionale (art. 29 Statuto TPIY e art. 28 TPIR). Tale obbligo di collaborazione – che costituisce un elemento cruciale per un efficace svolgimento della missione dei Tribunali (Cassese, A., Diritto internazionale. II. Problemi della comunità internazionale, a cura di P. Gaeta, Bologna, 2004, 170) ‒ s’impone agli Stati membri dell’Onu in quanto essi sono tenuti a rispettare le decisioni del Consiglio di Sicurezza ai sensi dell’art. 24 della Carta (il TPIY ha difatti ricondotto la risoluzione istitutiva n. 827/1993 all’art. 41 della Carta, fondamento giuridico degli atti vincolanti adottati dal Consiglio ai sensi del Capitolo VII: Prosecutor v. Dusko Tadic, Decision on the Defence Motion for Interlocutory Appeal on Jurisdiction, 2.10.1995, parr. 35-36; v. in generale, Conforti, B., op. cit., 351 ss.). Nella misura in cui dettano norme vincolanti per gli Stati, le risoluzioni Onu e gli Statuti possono considerarsi fonti di diritto internazionale richiamate dall’art. 696 c.p.p. (in quanto fonti previste da accordo), la cui disciplina di attuazione è dettata dalle due leggi parallele che recepiscono le decisioni del Consiglio di Sicurezza: la l. 14.12.1994, n. 120 (Disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nei territori della ex Jugoslavia), e la l. 2.8.2002, n. 181 (Disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nel territorio del Ruanda e Stati vicini. Tali provvedimenti riaffermano l’obbligo di cooperazione e recano la disciplina di dettaglio relativa alle varie attività di assistenza giudiziaria, richiamando volta a volta le norme del Libro XI applicabili al procedimento.

Analogo obbligo generale di cooperazione sussiste nei confronti della Corte penale internazionale, istituita mediante accordo multilaterale e competente in materia di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed aggressione (v. artt. 86 ss. dello Statuto di Roma, 17.7.1998, ratificato e reso esecutivo con l. 12.7.1999, n. 232, Ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale). A differenza dei Tribunali ad hoc,la giurisdizione della Corte è complementare rispetto a quella del giudice nazionale e l’obbligo di dichiarare l’improcedibilità del caso opera a beneficio della competenza primaria dei tribunali statali (art. 17 Statuto). Le necessarie norme di adeguamento allo Statuto (v. per tutti Kalb, L., L’esigenza di adeguamento dell’ordinamento giuridico italiano allo statuto della Corte penale internazionale, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, Milano, 2005, 397 ss.) sono state adottate con enorme ritardo rispetto all’adesione italiana (v. l. 20.12.2012, n. 237, Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale) e non sembrano raggiungere ancora l’obiettivo della piena cooperazione a causa del mancato adeguamento del diritto penale sostanziale italiano, che allo stato attuale non contempla talune fattispecie di crimini previste nello Statuto (ad es. la tortura). La legge di adeguamento disciplina invece i soli aspetti procedurali del rapporto tra giurisdizione italiana e Corte, affidando al Ministro della giustizia il ruolo di autorità centrale con funzione amministrativa e politica, ed alla Corte di appello di Roma le competenze di carattere giudiziario (secondo lo schema già utilizzato per i Tribunali ad hoc). Le attività di cooperazione previste riguardano l’assistenza al Procuratore della Corte per lo svolgimento di attività istruttorie sul territorio italiano; la consegna della persona nei confronti della quale sia stato emesso un mandato di arresto ai sensi dell’art. 58 dello Statuto ovvero una sentenza di condanna; l’esecuzione dei provvedimenti della Corte, inclusi quelli che dispongono pene detentive, pecuniarie, misure patrimoniali e ordini di riparazione alle vittime. In linea con l’art. 696 c.p.p., l’art. 3 della l. n. 237/2012 dispone che: «1. In materia di consegna, di cooperazione e di esecuzione di pene si osservano, se non diversamente disposto dalla presente legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale. 2. Per il compimento degli atti di cooperazione richiesti si applicano le norme del codice di procedura penale, fatta salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dalla Corte penale internazionale che non siano contrarie ai princìpi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.» Anche in questo caso, dunque, il codice di rito è chiamato ad assolvere una funzione integrativa della disciplina applicabile ai rapporti con la Corte, fornendo il supporto normativo necessario alla concreta attuazione dell’obbligo di cooperazione.

Fonti normative

Art. 696 c.p.p.; artt. 10, 11 e 117 Cost.; art. 82 TFUE; l. 14.2.1994, n. 120; l. 2.8.2002, n. 181; l. 20.12.2012, n. 237.

Bibliografia essenziale

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