PROFESSIONALE, FORMAZIONE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

PROFESSIONALE, FORMAZIONE

Aldo Lo Schiavo

La f.p. assume un ruolo di primaria importanza nelle moderne economie industriali e post-industriali. Essa influenza direttamente le qualità delle prestazioni, soprattutto in ordine alle competenze tecniche richieste nelle diverse fasi dei processi produttivi: dalla progettazione alla realizzazione dei prodotti e alla gestione dei servizi. L'intero sistema ne è condizionato in termini di economicità, di efficienza, di capacità di adattamento alle trasformazioni del mercato. Ciò spiega l'attenzione crescente dei governi e degli stessi organismi internazionali per le politiche dell'istruzione e della f. professionale. L'evoluzione di questo specifico settore formativo appare per alcuni versi indipendente e per altri strettamente correlata ai più tradizionali percorsi dell'istruzione scolastica. Più in generale, il capitale di competenze impiegato nel lavoro produttivo risulta condizionato non solo dal tipo di bisogni espresso dalle realtà economiche e dai livelli di tecnologia raggiunti, ma altresì dai più generali livelli d'istruzione e di cultura diffusi nella societa.

Il problema della f.p. comincia a porsi in termini moderni a seguito della rivoluzione industriale, in particolare col diffondersi della meccanizzazione in diversi settori produttivi. In primo luogo, fra la fine del 18° e l'inizio del 19° secolo, vengono via via soppressi in Europa i vincoli associativi e professionali delle vecchie corporazioni delle arti e mestieri. Alcuni settori dell'artigianato si riducono sensibilmente di fronte alle nuove tendenze del mercato, orientate sulle esigenze di più vaste moltitudini. Là dove continua a operare, l'artigianato conserva i suoi tradizionali moduli di acquisizione-trasmissione di conoscenze e tecniche. Ma il tipo di competenze individualizzate e organiche caratteristiche della bottega artigiana o della piccola azienda familiare servono poco o nulla alla moderna azienda industriale, per lo più di grandi dimensioni e con un notevole numero di addetti. In effetti, la nuova impresa capitalistica, più che alla qualità e alla concorrenza su tale base, tende per sua stessa natura alla quantità e alla maggiore economicità dei prodotti, alla produzione cioè su larga scala e alla ottimizzazione del profitto. In tale contesto, gli operai addetti diventano in gran parte semplice forza-lavoro, poco qualificata. Tuttavia, l'impiego crescente della macchina nella produzione (processo avviato prima che altrove in Inghilterra), se per un verso sacrifica l'apporto creativo dei singoli, segmentando e parcellizzando le operazioni all'interno della fabbrica, per altro verso promuove il sorgere di nuove competenze e profili professionali, che esigono una diversa qualificazione tecnica dei lavoratori interessati.

È da osservare, peraltro, che la lunga tradizione del lavoro artigianale e della pratica dei mestieri non è trascorsa invano. Quella tradizione, invero, ha messo in luce alcuni tratti caratteristici di una pedagogia legata al mondo del lavoro e della produzione, la quale ha corrisposto a precise esigenze dell'economia del tempo, ma ha anche lasciato indicazioni preziose nella prospettiva di nuovi rapporti fra educazione e lavoro. Nella forma dell'apprendistato qual era in uso nei vecchi mestieri era essenziale la presenza e la partecipazione diretta al lavoro sotto la direzione di un maestro. È per via d'imitazione che il singolo apprendista assumeva progressivamente la padronanza nell'uso dei materiali, a regolare i tempi di esecuzione dei lavori, ad adattare le procedure alla qualità richiesta per il prodotto. Questa pratica sviluppava un complesso di abilità e di competenze di tipo motorio, senso-percettive e persino estetiche, destinate ad affinarsi col tempo. La ''maestria'' legata alla manualità s'iscriveva, tuttavia, in un contesto professionale limitato allo specifico mestiere, sicché le competenze acquisite restavano difficilmente estensibili ad ambiti operativi differenti. Ciò comportava, su un piano generale, una certa staticità della condizione socio-economica degli apprendisti-operai. Per contro, la pratica del mestiere artigiano favoriva un tipo di aggregazione sociale meno provvisorio, aperto ai rapporti di colleganza e di reciproco aiuto.

Superato detto stadio con l'avvento della nuova economia industriale, occorre dire che il problema della f.p. non viene subito avvertito come un problema d'interesse generale. L'attenzione dei governi è all'inizio del tutto marginale. La legislazione sociale, a partire dalla metà del 19° secolo, si preoccupa quasi esclusivamente delle condizioni del lavoro nelle fabbriche e della tutela dei lavoratori, soprattutto dei minori. Selezione, destinazione, addestramento degli operai, e più in generale tutta l'organizzazione del lavoro, restano sotto il controllo esclusivo dell'impresario o di suoi intermediari. Col tempo, tuttavia, si vengono chiarendo i termini più propri dell'istruzione generale e della f.p. specifica dei lavoratori.

Da un lato si fa evidente l'esigenza di assicurare a tutti, quindi anche ai futuri addetti alle attività produttive, un'alfabetizzazione di base ovvero un'istruzione elementare diffusa (detta anche ''popolare''), la quale, nelle intenzioni soprattutto delle forze sindacali e politiche più vicine agli interessi degli operai, doveva mirare a promuovere, fra l'altro, la crescita della coscienza dei diritti sociali e politici dei lavoratori. Dall'altro lato, si pensa di organizzare le prime scuole di f.p. e di avviamento al lavoro, a cui infatti si dedicano con continuità e impegno associazioni private, enti religiosi, sindacati, comunità locali e infine anche lo stato. Il processo di acquisizione di abilità e competenze necessarie al lavoro si trasferisce fuori dell'ambiente ristretto della bottega o della piccola impresa; si prospetta per la prima volta in termini generali e pubblici, quale iter a sé che dovrebbe precedere l'inizio dell'attività lavorativa.

Non tutto però si presenta subito con dette modalità. Continuano, anzitutto, le forme tipiche di preparazione degli artigiani, almeno là dove l'artigianato non assume le caratteristiche di vera impresa. All'interno delle fabbriche, poi, si prevedono forme di apprendistato, che tutto sommato continuano a privilegiare la componente addestrativa, lasciando nello sfondo ogni più generale formazione tecnico-culturale. Molti paesi industriali europei (Regno Unito, Danimarca, Olanda, Irlanda, Germania, Francia, Italia e altri), tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, adottano leggi sull'apprendistato e altre misure relative alla f.p. dentro o anche fuori delle aziende. Più tardi si arriva a stabilire l'obbligo per l'imprenditore di far impartire agli apprendisti l'insegnamento necessario perché possano conseguire una determinata qualifica (in Italia, tale obbligo venne sancito dalla l. 19 gennaio 1955 n. 25). La regolamentazione dell'apprendistato testimonia, comunque, la raggiunta consapevolezza dell'importanza e delicatezza della fase di passaggio dei giovani alla vita lavorativa, fase da sottoporre a precise regole e garanzie nell'interesse dei singoli, ma anche della comunità.

Intanto, un po' dovunque, non senza difficoltà e ritardi, si va sviluppando un parallelo sistema di corsi tecnico-professionali, in qualche modo collegato allo sviluppo dell'istruzione generale pubblica. Il principio secondo cui la formazione dei lavoratori fosse un compito riservato all'industria e al commercio, e non riguardasse la competenza dello stato, resistette nel Regno Unito fino all'emanazione dell'Industrial Training Act del 1964, in base al quale si costituirono gli Industrial Training Boards per promuovere e coordinare le attività formative nei diversi settori industriali. In generale, tuttavia, nel periodo fra le due guerre mondiali, troviamo dappertutto veri e propri istituti d'istruzione tecnico-professionale di differenti indirizzi, affiancati da un lato ai tradizionali corsi d'istruzione secondaria generale o accademica e, dall'altro lato, a iniziative di addestramento professionale in azienda e di apprendistato. Comune orientamento delle politiche in materia è stato quello di consentire ai giovani la scelta fra le diverse soluzioni successivamente al compimento dell'istruzione obbligatoria di base, la cui durata è stata estesa negli ultimi decenni fino a comprendere il primo ciclo dell'istruzione secondaria. In ogni caso, a partire dal secondo dopoguerra, nessun sistema scolastico considererà più la scuola elementare o primaria come una scuola finale per i figli di operai, contadini, artigiani.

L'obbligo scolastico, peraltro, non coincide dovunque con la frequenza di una scuola unica d'istruzione generale. In Germania, per es., l'istruzione obbligatoria si estende fino al sedicesimo anno di età, ma resta comune solo la scuola primaria da 6 a 10 anni, dopo di che i ragazzi possono scegliere di proseguire gli studi o nel Gymnasium (corso di studi lungo, dal 5° al 13° anno scolastico, per quanti aspirano a frequentare l'università) o nella Realschule (scuola secondaria moderna, dal 5° al 10° anno scolastico, che apre la strada alla scuola tecnica Fachschule), o infine nella Hauptschule (scuola dell'obbligo, dal 5° al 9° anno scolastico, la quale indirizza verso scuole professionali di diverso tipo). La f.p. in senso proprio si realizza, infatti, nella Berufshochschule (scuola professionale a tempo pieno) oppure Berufschule (scuola professionale a tempo parziale). Quest'ultima è caratteristica del sistema duale tedesco, che contempera lavoro in azienda e frequenza scolastica per qualche giorno alla settimana. Esistono, poi, le scuole professionali di specializzazione di grado medio-superiore (Fachschulen) per la formazione di quadri di medio livello, e le scuole tecniche superiori (Fachoberschulen), create nel 1969, le quali dopo un biennio rilasciano il diploma di maturità tecnica e consentono l'iscrizione agli istituti superiori di qualificazione e quindi agli studi universitari. In altri paesi europei, invece, come in Italia, Belgio, Francia, Danimarca, Spagna, Portogallo, Grecia, il percorso dell'istruzione generale comune è stato esteso fino al compimento del primo grado dell'istruzione secondaria, rimandando così a tale momento l'inizio della formazione professionale. Peraltro, le possibilità di scelta che si offrono ai giovani in quel momento risultano diversificate nei suddetti paesi europei.

In base alla tipologia prevalente, le strade possibili sono le seguenti: a) un corso di studi lungo, di prevalente istruzione tecnico-scientifica, di fatto parallelo ai licei o a corsi generali, il quale apre direttamente l'accesso agli istituti tecnologici post-secondari o anche agli studi universitari; b) un corso di scuola professionale a tempo pieno, con possibilità di vari indirizzi, che consente dopo due o tre anni il conseguimento di una qualifica o brevetto valido per l'ingresso nel lavoro ed eventualmente anche per l'accesso a istituti di specializzazione o di completamento della f.p.; c) il contratto di apprendistato, che lega il giovane per due o tre anni a un'impresa, la quale gli garantisce una retribuzione e al contempo lo autorizza a frequentare per alcune ore settimanali un centro di formazione per il conseguimento di una qualifica.

Tale sistema è attualmente sottoposto a un'intensa riflessione critica, soprattutto in relazione alle trasformazioni intervenute nella realtà produttiva e socio-economica dell'Occidente. L'automazione di molta parte della produzione industriale, la riduzione conseguente di manodopera anche qualificata, l'informatizzazione spinta nei servizi di gestione, amministrazione e intermediazione, la prospettiva sempre più concreta per i singoli di dover riqualificare o convertire il proprio ruolo professionale una o più volte nel corso della propria vita lavorativa, sono tutti fenomeni nuovi che si riflettono anche sulla domanda d'istruzione professionale, sui suoi contenuti e livelli qualitativi. Di fronte alla nuova richiesta di profili professionali al tempo stesso più qualificati ed elastici, ossia meglio dotati sul piano intellettuale e culturale, di quanto non fossero quelli richiesti fino a qualche decennio addietro, la risposta delle politiche formative è stata piuttosto lenta e talvolta contraddittoria. Del resto, con l'esigenza predetta confligge l'altra, ineliminabile, esigenza della specializzazione dei ruoli all'interno dei sistemi produttivi, la cui complessità è sì aumentata ma pur tuttavia continua a utilizzare competenze assai diversificate oltre che, in parte, nuove. Le linee di tendenza espresse dai maggiori paesi industrializzati in questi ultimi tempi si sono concretate, per lo più, nella riduzione progressiva dell'area di qualificazione professionale precoce, nell'allargamento della base culturale di partenza comune a tutti, nel prolungamento dei percorsi tradizionali di formazione necessaria per l'inserimento nelle attività produttive. Si è cercato inoltre di affermare una linea, assai problematica invero, di f.p. polivalente per il livello di età compreso tra i 15 e i 18 anni e di diffondere un terzo livello di specializzazione post-secondaria e, per alcune funzioni di più elevato livello, anche post-universitaria, di cui sono testimonianza le scuole superiori di management, di amministrazione, di finanza, ecc. A parte quest'ultimo livello di formazione avanzata, che rappresenta la maggiore novità degli ultimi tempi, sebbene ristretta ai quadri superiori dell'industria e delle grandi società commerciali e finanziarie, va detto che gli interventi nel campo della f.p. tradizionale sono stati finora per lo più di tipo quantitativo, in quanto in gran parte indirizzati ad allungare i tempi di esposizione dei giovani ai processi di apprendimento e a incrementare il corredo di conoscenze comprese nel curricolo formale degli studi. Sono pure aumentati dovunque i soggetti interessati alle iniziative d'istruzione e di f.p.: stato, enti locali, imprese, associazioni, sindacati, enti specializzati. In alcuni paesi, in particolare in Francia, si registra il tentativo d'inserire le differenti iniziative in un quadro unitario di formazione permanente o continua, al cui interno dovrebbero svilupparsi e, per quanto possibile, riuscire a coordinarsi sia i corsi normali destinati ai giovani sia le attività di formazione ricorrente per l'aggiornamento e la riqualificazione dei soggetti in attività di lavoro o in attesa di mutare occupazione.

Tuttavia, nonostante l'allargamento delle aree dell'intervento pubblico e privato nel settore, non si può dire si sia riusciti a elaborare un nuovo modello di f.p. organico nelle sue componenti e quindi più in grado di corrispondere alle sfide dei mercati interni e internazionali. A semplici inviti e raccomandazioni ad adeguare le politiche formative dei paesi interessati si è finora quasi sempre limitata l'opera svolta in questo campo dagli organismi comunitari e internazionali. Neppure in tali sedi si è riusciti a proporre modelli più avanzati e incisivi. Ancora le indicazioni a riguardo contenute nel Trattato sull'Unione Europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, non si discostano dal quadro suddetto. Il Trattato, pur dichiarando che la Comunità "attua una politica di formazione professionale che rafforza e integra le azioni degli stati membri", si limita poi semplicemente, nell'art. 127, a prospettare che la Comunità s'impegni a migliorare la formazione iniziale permanente in relazione alle trasformazioni industriali in atto, a favorire la mobilità dei giovani e degli istruttori, a stimolare la cooperazione fra gli istituti e lo scambio di informazioni sui sistemi formativi degli stati membri.

Istruzione e formazione professionale in Italia. - Per quanto riguarda lo sviluppo dell'istruzione e della f.p. in Italia, va anzitutto ricordato che scuole con questa specifica vocazione erano nate, specialmente nel Settentrione, già prima della nascita dello stato unitario.

Fra i pionieri dell'istruzione tecnico-professionale, attraverso il tirocinio pratico in scuole-officine, è da annoverare s. Giovanni Bosco, fondatore della Congregazione dei Salesiani. A parte l'istruzione tecnica, disciplinata dalla legge Casati del 1859, esistevano vari tipi di scuole professionali (agrarie, del lavoro, minerarie, industriali, di arti e mestieri, ecc.), che avevano il compito di preparare la manodopera qualificata per l'artigianato, l'agricoltura e l'industria. Nel 1860 la competenza in materia, compresi gli istituti tecnici, venne attribuita al ministero dell'Agricoltura, industria e commercio. L'ipotesi, sostenuta ancora negli anni successivi, era che questo tipo d'istruzione dovesse essere affidata a ministeri tecnici, in modo da assicurare maggiore vicinanza e corrispondenza ai bisogni specifici dei diversi settori economico-produttivi. Nel 1878, gli istituti e le scuole tecniche (non speciali) furono restituite alla competenza del ministero dell'Istruzione, mentre le scuole speciali di vario genere rimasero affidate al ministero dell'Agricoltura.

Questa separazione di competenze rivelò negli anni successivi effetti non del tutto positivi in entrambi i tronconi formativi. In particolare: nelle scuole professionali speciali vennero a essere sacrificate le componenti culturali a favore di un'accentuata preparazione pratico-addestrativa; nell'istruzione tecnica, invece, venne a isterilirsi di fatto il legame con l'esperienza di lavoro a favore di un modello di studi certo più organico ma anche alquanto formale e rigido nelle sue strutture. Ciò, invero, non impedì lo sviluppo quantitativo di entrambi i percorsi formativi, in termini sia di istituzioni che di alunni frequentanti. L'istruzione tecnica, in particolare, col passare degli anni, crebbe sensibilmente rispetto all'istruzione liceale: nel 1862-63 quella era seguita da appena 7000 alunni, circa un terzo dei frequentanti le scuole classiche e normali; cinquant'anni dopo, nel 1911-12, il rapporto si era già invertito a favore degli indirizzi tecnici, frequentati da 118.000 giovani contro i 109.000 che frequentavano gli altri indirizzi. Pressoché analogo sviluppo trovarono le iniziative private e pubbliche di f. professionale. L'ordinamento di queste scuole fu stabilito con i decreti legislativi 31 ottobre 1923 n. 2523, e 15 maggio 1924 n. 749. Qualche anno dopo (R.D.L. 17 giugno 1928 n. 1314, convertito nella l. 20 dicembre 1928 n. 3230), le scuole industriali, minerarie, agrarie, commerciali, di avviamento, femminili, di tirocinio e laboratori scuola, già dipendenti dal ministero dell'Economia nazionale, furono attribuite alla competenza del ministero della Pubblica Istruzione, all'interno del quale venne istituita la direzione generale per l'insegnamento tecnico e professionale.

Un passo importante fu fatto con la l. 7 gennaio 1929 n. 8, con la quale venne istituita la Scuola secondaria di avviamento al lavoro, in sostituzione dei corsi integrativi di avviamento professionale, delle scuole complementari, del triennio preparatorio degli istituti commerciali e di altri corsi aggregati a istituti industriali o a laboratori scuola. Nasceva così il primo grado di una scuola professionale post-elementare, organizzata in un biennio comune e in un terzo anno specialistico secondo vari indirizzi, con l'obiettivo di preparare ai mestieri, all'esercizio pratico dell'agricoltura, alle funzioni impiegatizie d'ordine esecutivo nell'industria e nel commercio. I licenziati di detta scuola (riordinata dalla l. 22 aprile 1932 n. 490, quando assunse la denominazione di Scuola secondaria di avviamento professionale) potevano accedere al quarto anno del corso inferiore d'istituto tecnico e d'istituto magistrale, superando uno speciale esame d'idoneità in italiano, latino e matematica. La positiva esperienza di questa scuola, che nel dopoguerra ha fornito gran parte della manodopera qualificata all'industria e alle attività indotte (nel 1958-59 la scuola era frequentata da circa 560.000 allievi), venne interrotta nel 1963, quando fu istituita la nuova scuola media (l. 31 dicembre 1962 n. 1859), che unificò tutte le scuole della fascia di età compresa tra gli 11 e i 14 anni.

Intanto, sul versante del mondo del lavoro e delle sue più dirette esigenze, lo stato assumeva un'importante iniziativa col R.D.L. 21 giugno 1938 n. 1380 (convertito nella l. 16 gennaio 1939 n. 290). In relazione ai diversi settori produttivi (ivi compresi quelli del commercio, del credito e delle assicurazioni) vennero previsti corsi per lavoratori, la cui tipologia comprendeva: corsi di primo addestramento, di formazione qualificata, di formazione specializzata, di perfezionamento. Potevano essere istituiti anche appositi corsi per lavoratori disoccupati. Pur sottoposti alla vigilanza del ministero dell'Educazione nazionale, che ne approntava i programmi d'insegnamento e ne decideva la durata, detti corsi erano in gran parte affidati all'iniziativa delle confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, i quali potevano all'uopo istituire appositi enti. L'orario, serale o diurno, era stabilito in base alle esigenze della produzione e dell'insegnamento e secondo che si trattasse di allievi occupati o disoccupati. Ai datori di lavoro era fatto obbligo di concedere agli apprendisti la possibilità di frequentare i corsi. Al termine della frequenza, gli allievi sostenevano un esame d'idoneità. I relativi attestati costituivano titolo di preferenza per le assunzioni nella stessa o in altra azienda, nonché titolo per l'iscrizione negli elenchi di categoria degli uffici di collocamento. In relazione a tali iniziative sono sorti alcuni enti per l'addestramento e la f.p. dei lavoratori di diverse categorie economiche (INAPLI, ENALC, INIASA) e altri furono istituiti nel corso degli anni Cinquanta.

Con la fine della seconda guerra mondiale, si pose per primo in evidenza il problema della disoccupazione. Una commissione centrale per l'avviamento al lavoro e l'assistenza ai disoccupati venne istituita presso il ministero del Lavoro e della previdenza sociale (l. 29 aprile 1949 n. 264). Lo stesso ministero fu autorizzato a promuovere corsi di qualificazione e di riqualificazione per lavoratori disoccupati e per emigranti, nonché ad aprire cantieri-scuola di rimboschimento, di sistemazione montana, di costruzione di opere pubbliche. Il Fondo per l'addestramento professionale dei lavoratori, previsto nel 1949, fu regolamentato con d.P.R. 5 gennaio 1950 n. 17. Successivamente, col verificarsi di una forte ripresa industriale e della vasta emigrazione interna dagli ambienti agricoli di origine verso le aree urbane di espansione industriale, emersero nuove e più mature esigenze di manodopera specializzata e di tecnici a vari livelli. Tornò allora in primo piano il bisogno di un'istruzione professionale meglio strutturata e più diffusa sul territorio. Nascono così, nel corso degli anni Cinquanta, e si moltiplicheranno nei decenni successici, gli Istituti professionali di stato. L'iniziativa è dovuta al ministero della Pubblica Istruzione, che si avvale per l'occasione della facoltà, prevista dall'art. 9 del R.D.L. 21 settembre 1938 n. 2038, d'istituire scuole tecniche con finalità e ordinamento speciali. Pertanto, questa volta nell'ambito dell'istruzione secondaria di secondo grado, a fianco del consolidato settore degli istituti tecnici, si afferma il nuovo settore dell'istruzione professionale in senso stretto, che è rappresentato appunto dagli istituti professionali di stato (v. oltre).

D'altra parte, fuori del sistema scolastico, continuano a operare corsi vari di f.p. a cura di enti specializzati, sotto la tutela del ministero del Lavoro, che comunque non giunge a dare alla materia una disciplina organica, anche perché nel frattempo la competenza in materia viene trasferita alle regioni, in base a quanto previsto dall'art. 117 della Costituzione. Il d.P.R. 15 gennaio 1972 n. 10, infatti, da un lato determina la sfera di competenza regionale in materia di addestramento professionale, di corsi aziendali di riqualificazione, d'istruzione artigiana, ecc.; dall'altro lato, riserva allo stato quelle funzioni di vigilanza, indirizzo e coordinamento che sono ovviamente poste da esigenze di carattere unitario, da obiettivi del programma economico nazionale e da impegni di carattere internazionale. Lo stesso decreto del 1972 prevede l'istituzione di un apposito organismo pubblico per lo svolgimento delle funzioni statali residue; e difatti, nel 1973, nasce l'Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori (ISFOL), con il compito di approntare studi e formulare proposte per favorire le iniziative del settore.

Il predetto trasferimento di competenze discende dalla convinzione che l'istituto regionale sia meglio in grado di collegare la f.p. alle attività economiche e alla domanda di servizi espresse dal territorio. A questo punto diventava ancora più urgente la necessità di un inquadramento generale della materia, nel cui ambito le singole regioni potessero operare in base a criteri organici, altresì coerenti con la programmazione nazionale e con gli obblighi comunitari. Ed è proprio per corrispondere a tale necessità che viene emanata la legge-quadro sulla f.p. 21 dicembre 1978 n. 845, contenente una disciplina generale della materia (v. oltre) alquanto innovativa rispetto alle tradizionali forme dell'intervento pubblico nel settore.

Un'esperienza a parte va considerata l'istituzione dei contratti di formazione lavoro, introdotti nel 1983-84 (D.L. 29 gennaio 1983 n. 17, convertito in l. 25 marzo 1983 n. 79, e ulteriormente disciplinato dalla l. 19 dicembre 1984 n. 863), con l'obiettivo precipuo di favorire l'occupazione giovanile nella fascia di età compresa fra i 15 e i 29 anni. Tempi e modalità organizzative di queste attività sono stati demandati a progetti predisposti da enti pubblici economici, imprese e loro consorzi. In tale quadro, le modalità d'inserimento nel lavoro di fatto hanno compreso momenti di formazione teorica solo nelle iniziative realizzate dalle grandi imprese, mentre nel caso delle medie e piccole imprese si sono esaurite spesso in forme di semplice affiancamento nell'esercizio delle mansioni, ossia di puro addestramento. In entrambi i casi, comunque, è mancata un'organica strategia di alternanza formazione-lavoro.

La legislazione fin qui richiamata, procedendo su fronti distinti e in parte paralleli, ha finito per convalidare la distinzione fra ''istruzione'' professionale in senso proprio, rientrante ormai a pieno titolo nel sistema scolastico statale, e la ''formazione'' professionale di competenza regionale, che assume una configurazione definita con la legge-quadro già indicata. Questa seconda via non costituisce, peraltro, un doppione della via scolastica, poiché la sua utenza potenziale solo in minima parte coincide con quella cui si rivolge l'altra. I due percorsi formativi presentano, comunque, finalità e organizzazione assai differenti fra loro, come qui di seguito specificato.

L'istruzione professionale. − Essa viene impartita oggi negli istituti professionali di stato, che hanno natura di istituti d'istruzione secondaria di secondo grado e rilasciano appositi titoli di studio. Per provvedere all'amministrazione di detti istituti è sorta (1961) la Direzione generale dell'istruzione professionale del ministero della Pubblica Istruzione. La crescita quantitativa e qualitativa di tale settore ha rappresentato uno dei fenomeni più significativi entro il più generale sviluppo dell'istruzione in Italia durante gli ultimi quarant'anni.

Nel 1951-52 frequentavano questa scuola meno di 35.000 giovani. Essi diventano 113.356 nel 1961-62; 266.883 dieci anni dopo; 448.326 nel 1981-82; 541.576 nel 1990-91. Di pari passo sono venute aumentando le corrispondenti unità scolastiche, distribuite su tutto il territorio nazionale. Sorti allo scopo di fornire ai giovani la preparazione idonea all'esercizio di attività di ordine esecutivo nei diversi settori economici, questi istituti devono il loro sviluppo, fra l'altro, a un piano di studi basato su un certo equilibrio fra componente teorica e pratica applicativa in laboratorio, fra cultura generale e qualificazione professionale. A tale tipo di curricolo si è mostrata interessata quella parte di popolazione giovanile che, altrimenti, avrebbe abbandonato gli studi dopo la scuola dell'obbligo. Altra caratteristica di rilievo dell'istruzione professionale è rappresentata dalla flessibilità delle sue strutture organizzative e didattiche, che ha favorito il loro progressivo adeguamento ai fabbisogni dei settori produttivi e dei servizi, da un lato, e all'evoluzione delle tecnologie impiegate, dall'altro.

I collegamenti con le realtà aziendali non sono mai mancati, sebbene non sempre siano risultati incisivi nella misura auspicata. In relazione alle esigenze manifestate dal mercato, sono stati via via attivati non pochi indirizzi professionali specifici. Denominati ''sezioni di qualifica'', essi fanno capo a istituti professionali di vario tipo: per l'agricoltura, per l'industria e l'artigianato, per il commercio, femminili, alberghieri, per le attività marinare. Esistono anche alcuni speciali istituti, come l'Istituto di stato per la cinematografia e la televisione (riordinato con d.P.R. 31 marzo 1969 n. 644). La durata dei corsi è biennale, triennale (nella maggior parte dei casi) o quadriennale, secondo il tipo d'istituto e la sezione di qualifica. L'orario delle lezioni è per lo più di 40 ore settimanali, per metà circa dedicate agli insegnamenti letterari e tecnico-scientifici e per l'altra metà alle esercitazioni pratiche in laboratorio o azienda simulata. Al termine del corso di studi, gli allievi sostengono un esame di qualifica, il cui diploma viene trascritto sul libretto di lavoro ed è anche titolo valido per l'accesso a determinati impieghi pubblici. Della commissione di esame fanno parte anche esperti. La l. 27 ottobre 1969 n. 754, al fine di consentire ai giovani che hanno frequentato i corsi di qualifica una formazione culturale e applicativa di livello di scuola secondaria di secondo grado quinquennale, ha autorizzato l'istituzione di corsi post-qualifica di durata annuale, biennale o triennale, ai quali sono ammessi i licenziati della sezione di qualifica corrispondente. Con ciò, ai frequentanti gli istituti professionali è stata data la possibilità di conseguire un diploma di maturità professionale, valido anche per l'ammissione all'università.

In seguito alle più recenti innovazioni tecnologiche nella produzione e nell'organizzazione dei servizi e alla stessa evoluzione dei rapporti sociali e del lavoro, si è posta l'esigenza di ridefinire e aggiornare il quadro formativo dell'istruzione professionale onde garantire ai giovani una dotazione culturale più solida che in passato, su cui innestare una f.p. iniziale polivalente, per ciò stesso più adattabile alle accelerate trasformazioni del sistema economico. A tal fine, il ministero della Pubblica Istruzione ha messo a punto un programma sperimentale di rinnovamento, il ''Progetto '92'', con l'intento altresì di rilanciare l'offerta formativa degli istituti professionali di stato.

Tale progetto, istituzionalizzato con decreto ministeriale 24 aprile 1992 e che prevede l'estensione dei nuovi programmi e orari a tutti i corsi di qualifica entro l'anno scolastico 1994-95, presenta un impianto così caratterizzato:

a) Viene fortemente ridimensionato l'amplissimo ventaglio di qualifiche finora rilasciate dagli istituti professionali. Il nuovo piano prevede, in complesso, diciassette qualifiche (operatore agricolo, agro-industriale, della moda, chimico-biologico, edile, elettrico, elettronico industriale, per telecomunicazioni, meccanico, termico, operatore ai servizi di cucina, di sala bar, di segreteria, di gestione aziendale, d'impresa turistica, grafico pubblicitario, servizi sociali), raggruppate in dieci indirizzi relativi ai settori dell'agricoltura, dell'industria e artigianato, dei servizi.

b) Tutti i corsi di qualifica hanno durata triennale e sono articolati in un biennio e in un terzo anno conclusivo. Il biennio è caratterizzato da un'area comune di formazione umanistica di 22 ore settimanali; un'area d'indirizzo differenziata di 14 ore settimanali; un'area di approfondimento di 4 ore settimanali. Il terzo anno è costituito da un'area comune di 12÷15 ore settimanali; un'area d'indirizzo di 21÷24 ore; un'area di approfondimento di 4 ore. L'area di approfondimento viene definita autonomamente dai singoli istituti in sede di programmazione scolastica; può essere utilizzata, nel primo anno, per la verifica della scelta d'indirizzo o per svolgere attività di sostegno; nel secondo anno, per il raccordo della formazione tecnico-culturale alle caratteristiche socio-economiche del territorio; nel terzo anno, per lo sviluppo di specifiche competenze professionali attraverso interventi di esperti, esercitazioni in azienda, esperienze di alternanza scuola-lavoro.

c) Al termine del triennio, gli allievi debbono sostenere l'esame per il conseguimento del diploma di qualifica, titolo di studio grazie al quale i giovani possono accedere al lavoro o iscriversi ai corsi biennali post-qualifica oppure frequentare corsi modulari convenzionati con le regioni per il conseguimento di un secondo livello di qualifica

La formazione professionale. − Mantenuta all'esterno del sistema scolastico, essa, come già osservato, rientra nella sfera di competenza delle regioni, a cui è stata devoluta dal citato d.P.R. n. 10 del 1972. Il testo di riferimento per tutte le iniziative nel campo dell'orientamento e della f.p. è la ricordata legge-quadro 21 dicembre 1978 n. 845, la quale fissa i criteri generali in base ai quali le regioni esercitano la loro potestà legislativa. La f.p., definita dalla stessa legge "strumento della politica attiva del lavoro", deve tendere "a favorire l'occupazione, la produzione e l'evoluzione dell'organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico e tecnologico", nel quadro degli obiettivi di programmazione economica.

In base alla tipologia prevista, le regioni possono attuare iniziative formative dirette: a) alla qualificazione di quanti hanno assolto all'obbligo scolastico e non hanno ancora esperienze di lavoro; b) all'acquisizione di specifiche competenze professionali per quanti posseggano un diploma di scuola secondaria superiore; c) alla qualificazione di lavoratori coinvolti in processi di riconversione; d) all'aggiornamento e perfezionamento dei lavoratori; e) alla rieducazione professionale di lavoratori divenuti invalidi a causa d'infortunio o malattia; f) alla formazione di soggetti portatori di menomazioni fisiche o sensoriali.

Per le loro iniziative, le regioni predispongono programmi pluriennali e piani annuali. I corsi possono essere realizzati direttamente nelle strutture pubbliche ovvero nelle strutture di enti creati dalle organizzazioni nazionali dei lavoratori, degli imprenditori, del movimento cooperativo, delle associazioni con finalità formative e sociali. Per le iniziative dirette al conseguimento delle qualifiche professionali, le regioni stabiliscono anche gli indirizzi didattici in ragione di fasce di funzioni omogenee; conformano i corsi e i cicli formativi a criteri di brevità e di essenzialità; non possono autorizzare attività volte al conseguimento di titoli di studio o di diploma d'istruzione secondaria superiore, universitaria o post-universitaria.

Le attività di formazione possono essere distribuite in uno o più cicli (ma non più di quattro), ciascuno dei quali è di durata non superiore a seicento ore. L'orario e il calendario devono essere determinati in modo da favorire la frequenza dei lavoratori occupati. Può essere adottata un'organizzazione modulare dell'attività didattica. Particolari convenzioni possono essere stipulate con le imprese per lo svolgimento presso di esse di periodi di tirocinio pratico, di esperienze relative a impianti, macchinari o processi produttivi, nonché per la realizzazione di forme di alternanza scuola-lavoro. Al termine dei corsi o dei cicli formativi gli allievi sono ammessi a sostenere le prove finali, svolte davanti ad apposite commissioni, e conseguono attestati in base ai quali gli uffici di collocamento assegnano le qualifiche valide per l'avviamento al lavoro o per l'inquadramento aziendale.

Per il finanziamento delle loro attività, le regioni possono usufruire dei contributi del Fondo sociale europeo e del Fondo regionale europeo, per favorire l'accesso ai quali è stato istituito presso il ministero del Lavoro un apposito ''Fondo di rotazione''.

Conclusioni. − Il quadro d'insieme degli interventi di formazione e istruzione professionale in Italia risulta ancora oggi alquanto diversificato sia sotto il profilo delle competenze istituzionali sia sotto quello della natura delle iniziative e delle loro modalità organizzative. Anche sotto il profilo quantitativo, del numero cioè dei fruitori dei vari servizi realizzati, si registrano differenze. Nel 1990 (secondo il Rapporto Censis, 1991), la via dell'apprendistato è stata seguita da 529.741 soggetti; quella dei contratti di formazione lavoro ha interessato 490.165 giovani; la f.p. regionale ha coinvolto circa 270.000 allievi; l'istruzione professionale di stato ha avuto 541.576 frequentanti. Quest'ultimo settore, contrassegnato da strutture scolastiche consolidate e coerenti, ha mostrato una costante crescita di allievi. Su questi dati occorrerà riflettere per il futuro, soprattutto in considerazione dei costi in rapporto ai servizi apprestati, rivelatisi particolarmente onerosi per i corsi regionali di f. professionale.

Rimane tuttora aperto il problema di un più funzionale raccordo fra il sistema scolastico nel suo insieme e le iniziative di f.p. promosse in sedi diverse. Un naturale, e forse non più procrastinabile, sviluppo di tale raccordo concerne la decisione intorno alla creazione di istituti d'istruzione post-secondaria, a cui affidare, anche in adempimento di recenti direttive della Comunità europea, il compito di curare la preparazione e la specializzazione professionale di quadri tecnici intermedi, secondo le esigenze avvertite dalle moderne società complesse. È in tale tipo di istituzioni, tendenzialmente più flessibili e collegate ai bisogni del mercato, che i licenziati degli istituti tecnici e degli istituti professionali dovrebbero trovare conveniente proseguire e completare i loro studi e, nel contempo, orientarli verso sbocchi professionali coerenti. Peraltro, la difficoltà di riconsiderare in una prospettiva unitaria l'intera politica della f.p. risulta oggi accresciuta dalle trasformazioni accelerate del mercato del lavoro in relazione alle ricorrenti crisi dei sistemi produttivi e agli adattamenti interni che le congiunture economiche internazionali impongono anche ai paesi industriali avanzati. Vedi anche italia: Istruzione, Ordinamento degli studi, in questa Appendice.

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