FORTUNATO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FORTUNATO

Daniela Rando

Patriarca di Grado, secondo con questo nome, successe al patriarca Giovanni, suo consanguineo, che era stato assassinato nell'802 circa per mandato del duca veneziano Giovanni e ricevette il pallio il 23 marzo 803. Un'indicazione inserita nel secolo XII nel catalogo patriarcale più antico farebbe di F. un prete triestino, ma la notizia non è altrimenti confermabile, né è in alcun modo documentato un episcopato di F. a Trieste, prima dell'elezione a patriarca. Secondo il Cessi e l'Ortalli la nomina di F. a patriarca fu un gesto di esplicita sfida ai duchi veneziani, al fine di ribadire l'orientamento politico del defunto patriarca Giovanni, legato al pontefice e contrario alle posizioni filobizantine dei duchi medesimi. Difatti il neoeletto F. si mosse contro i due duchi - Giovanni e Maurizio suo figlio - collegandosi ad alcuni maggiorenti venetici, fra i quali il tribuno Obelerio di Malamocco. Per questo fu costretto ad abbandonare il Ducato e a portarsi alla corte carolingia. Qui, nell'agosto dell'803, ottenne un diploma che, a ricompensa dei servigi e dei meriti acquisiti, concedeva l'immunità a lui, ai sacerdoti e agli uomini delle sue terre dislocate nel Regno. Con un altro diploma, probabilmente contemporaneo, F. vedeva anche accolta la richiesta di esenzione dall'imposta di transito in ogni località del Regno per quattro sue navi e otteneva inoltre in beneficio l'abbazia di Moyenmoutier.

Il sostegno e il potenziamento del patriarcato di Grado s'inserivano nella politica di promozione delle Chiese, con l'attribuzione di specifiche funzioni di natura temporale, che fu propria di Carlo Magno e dei suoi successori. Nell'area nordorientale del Regno Italico tale politica si complicava però per la rivalità fra i presuli delle due sedi di Aquileia e Grado, in seguito alla scissione dell'antica provincia aquileiese fra le due metropoli. La tensione si faceva sentire in particolare nella penisola istriana che, conquistata nel 770 dai Longobardi e incorporata poi nel Regno franco, anche dal punto di vista ecclesiastico era stata contestata all'area di pertinenza gradense. Se da parte di Carlo Magno fu netta la volontà di garantire i diritti della Chiesa di Aquileia, altrettanto importante fu per lui stabilire e preservare il legame con F., prezioso elemento di riferimento nel confronto politico e diplomatico che si giocava con l'imperatore d'Oriente nell'Adriatico settentrionale. Nell'803 Carlo Magno si rivolgeva a F. con l'appellativo di "Venetiarum et Istriensium patriarcha" riconoscendo dunque senza incertezze sia la legittimità del suo titolo, sia la sua autorità sulle Chiese istriane, cioè sulle Chiese che nel secolo precedente avevano manifestato tendenze secessioniste e che annoveravano quale sede più importante Pola.

La posizione di tranquilla supremazia goduta da F. in Istria emerge dal placito tenuto nell'804 a Risano, presso Capodistria. Espressione tipica della tradizione franca importata in Istria all'epoca della sua conquista, il placito vedeva raccolte autorità ecclesiastiche e laiche, una gerarchia aperta appunto da F. il quale, alle lamentele avanzate dai rappresentanti della città e dei castelli circa la mancata corresponsione dell'adiutorium e dei gravami consuetudinari da parte delle Chiese, obiettava che a lui tali consuetudini erano state condonate sia perché "ovunque aveva potuto, era stato loro d'aiuto", sia perché aveva inviato molte volte dationes e messi all'imperatore. Emerge, dal placito, il radicamento del patriarca nella realtà istriana attraverso l'inserimento nel sistema politico-amministrativo franco, come pure il ruolo di mediazione fra potere imperiale e popolazione locale che egli in certo modo rivendicava.

Nel frattempo i fuorusciti venetici, collegandosi ai loro fautori in patria, erano riusciti a rovesciare i due duchi e a eleggere al loro posto Obelerio (804). Il rivolgimento politico non facilitò, però, il rientro di F., poiché le rivendicazioni autonomistiche dei congiurati non coincidevano con l'obiettivo di F. di tutelare, con il favore franco, le prerogative patriarcali sull'intera circoscrizione metropolitica. Dopo un certo periodo F. fece ritorno dal territorio franco insieme con il vescovo di Olivolo, Cristoforo, il quale, dopo aver lasciato il Ducato subito dopo la cacciata dei duchi Giovanni e Maurizio, a lui si era unito. I due, tuttavia, non ebbero il permesso di entrare nel Ducato, e dovettero trattenersi ai suoi margini. Venuto a sapere che a Olivolo sedeva un nuovo vescovo - il diacono Giovanni -, F. lo fece catturare. Il duca, comunque, finì con l'accogliere la richiesta di F. reintegrando Cristoforo nell'episcopato, nel quadro di una politica di normalizzazione del Ducato e di ricerca di un'intesa con le gerarchie ecclesiastiche.

Nell'805, ad Aquisgrana, si sancì il passaggio della Venezia marittima e della Dalmazia dalla sfera d'influenza bizantina a quella franca, con un accordo che secondo il Bognetti e il Cessi era stato propugnato appunto da Fortunato. Costantinopoli reagì inviando una flotta al comando del patrizio Niceta e F., che si apprestava a ritornare alla sua sede di Grado, temendo l'arrivo di Niceta, riparò nuovamente in territorio franco. Il Ducato rientrò nell'orbita di Costantinopoli e al posto di F. fu nominato quel diacono Giovanni che aveva dovuto abbandonare la cattedra di Olivolo.

A questa circostanza fa riferimento una lettera di papa Leone III in risposta alla richiesta formulatagli da Carlo Magno perché F., esule dalla sua sede di Grado "propter persecutionem Grecorum seu Veneticorum", potesse soggiornare a Pola, la capitale dell'Istria (dominata dai Franchi) che già in precedenza aveva visto un suo presule aspirare alla cattedra metropolitica. C'era forse l'intento di sottrarre la sede gradense ai condizionamenti venetico-bizantini ponendo le premesse per un suo trasferimento in territorio franco; certo risalta, ancora una volta, la sollecitudine di Carlo Magno per le sorti di F., al punto che lo stesso Leone III, con una punta di rimprovero, rilevava quanta pena l'imperatore si desse per lo honor temporale del presule gradense, accennando pure ai benefici concessigli in territorio franco. Se quello di F. fu "un disegno politico in larga misura indipendente dai partiti in lotta, teso a preservare…i residui diritti su una giurisdizione divisa in partenza tra opposti domini" (Ortalli, 1980, p. 377), è tuttavia evidente la sua convergenza con la politica carolingia: attraverso immunità e privilegi F. tese a trasformarsi in "metropolita d'Impero" (Kehr, 1927, p. 52), tanto che ancora nel testamento di Carlo Magno Grado figurava fra le sedi metropolitiche dell'Impero carolingio. A un rapporto personale di fiducia e di confidenza allude l'autore della Cronica de singulis patriarchis Nove Aquileie (metà del secolo XI), accreditando il desiderio di Carlo Magno di nominare F. suo padre spirituale.

Riguardo alla richiesta di soggiorno a Pola, Leone III acconsentiva a patto che F., quando fosse stato restituito alla sua sede con l'aiuto imperiale, avesse lasciato l'episcopato polesano integro nei suoi possessi e diritti. Il pontefice coglieva l'occasione per esortare Carlo Magno a preoccuparsi del bene spirituale, oltreché temporale, di F., e a indurlo a un più corretto esercizio del ministero pastorale. Il papa riservava espressioni durissime a F., che a suo dire godeva di cattiva fama sia in Italia sia in Francia, e invitava l'imperatore a diffidare degli estimatori di F. in quanto da lui corrotti. Di siffatta condotta "indegna di un arcivescovo" non abbiamo ulteriori testimonianze, ma l'accusa di corruzione si accorda con certa spregiudicatezza del personaggio rilevabile dall'avvio di un'inchiesta, sollecitata dal successore di F., Venerio, riguardo a beni della Chiesa gradense ceduti da F. al nipote Domenico e da Venerio rivendicati subito dopo la sua nomina a patriarca.

La spedizione carolingia auspicata da Leone III fu attuata nell'810 dal re d'Italia, Pipino, che consentì a F. il ritorno a Grado. La conquista di Pipino fu però effimera, dato che la pace di Aquisgrana (810-814) riconobbe l'autorità bizantina sul Ducato. F. vide così fallire definitivamente il suo progetto di assicurare al patriarcato i diritti sull'area venetico-istriana sotto la tutela carolingia, pur non abbandonando del tutto, pare, l'ambizione a un recupero dell'eredità aquileiese (se è originale, e non frutto di interpolazione, il titolo di "patriarca della Chiesa di Aquileia e di Grado" che un documento dell'819 gli attribuisce).

Dopo la pace di Aquisgrana si aprì, per F., una fase di relativa stabilità presso la sede gradense; non si può escludere che proprio F., attestato su posizioni filofranche, in contatto con la corte imperiale e beneficiato con l'abbazia di Moyenmoutier, sia stato uno dei tramiti di quella penetrazione, nel Ducato, di istituti e tradizioni carolinge che in quegli anni è possibile documentare.

Il suo apporto è del resto ben attestato in campo artistico: nell'elenco delle sue donazioni, F. ricorda il restauro della chiesa di S. Giovanni Evangelista, per la quale "feci venire maestri dalla Francia", e cita un calice inviato in Francia perché venisse impreziosito e abbellito con oro e gemme. Anche l'esame della vivace produzione artistica a Grado durante il suo pontificato conferma l'influenza carolingia, rilevabile sia nell'utilizzazione di temi e modelli franchi sia nella presenza di sculture "astratte geometriche", "una delle principali componenti della rinascenza carolingia" (Gaberscek, p. 397).

L'irrequietezza di F. non venne comunque meno, giacché egli si recò ripetutamente in territorio franco contro la volontà dei duchi. Secondo Giovanni diacono, fu appunto tale continuo e indesiderato collegamento a spingere i duchi a scacciare definitivamente F. dopo 27 anni di pontificato (una durata eccessiva, se è vero che la morte del predecessore non era avvenuta prima dell'801-802 e che il successore Venerio è documentato al più tardi nell'826).

Una versione diversa dell'esilio di F. è offerta dalle fonti carolingie: nell'821 un prete della diocesi di F. lo accusò davanti all'imperatore Ludovico I il Pio di fomentare la rivolta del duca della Pannonia inferiore, Ljudewit, mirante a costituire un ampio, autonomo spazio di dominazione con centro in Sisak in Croazia, e di sostenere concretamente il duca con l'invio di maestranze che ne fortificassero i castelli. Ricevuto l'ordine di presentarsi a corte, in un primo momento F. finse di obbedire recandosi in Istria, poi, simulando un ritorno a Grado, all'insaputa dei suoi, s'imbarcò per Zara. Il prefetto della provincia dalmata, informato da F. delle ragioni della sua fuga, lo fece subito tradurre a Costantinopoli, circostanza che ha fatto ipotizzare al Dvornik un accordo fra Ljudewit e F. esteso all'imperatore bizantino Michele II. Non è chiaro quale obiettivo F. si proponesse abbandonando l'orientamento filocarolingio fino ad allora seguito, ma probabilmente dopo la pace di Aquisgrana erano cambiati gli interessi e le relazioni con l'Impero: nonostante un diploma che fra l'altro confermava il giudicato di Risano, Ludovico I il Pio non pare aver continuato a F. il favore assicuratogli da Carlo Magno.

A Costantinopoli F. rimase fino all'824, quando si unì ai legati dell'imperatore di Bisanzio diretti alla corte di Ludovico I il Pio. Tali messi avevano probabilmente anche l'incarico di perorare la causa di F., ma non dissero niente in suo favore. Ludovico I il Pio, reso edotto dei motivi della fuga di F., decise di tradurlo a Roma perché fosse sottoposto al giudizio del pontefice.

A questo punto gli annali franchi si disinteressano di F. che, secondo Giovanni diacono, morì poco dopo l'arrivo alla corte carolingia, ancora in territorio franco, quasi certamente senza che l'indagine romana avesse potuto aver luogo. Il cronista di Moyenmoutier - che di F. dà un ritratto estremamente lusinghiero facendone addirittura un patriarca di Gerusalemme in relazione con Harun-Al-Rashid e dominatore di quasi tutta l'Asia - assegna la sua morte al 26 febbraio di un anno che, considerati i vent'anni di abbaziato attribuitigli, fu al più tardi l'825-826 (secondo i necrologi dell'abbazia la morte sopraggiunse però il 12 marzo). F. fu sepolto nell'abbazia stessa, presso l'altare di S. Gregorio Magno.

Agli ultimi anni della sua vita risale l'elenco dei "lasciti e delle donazioni fatte da Fortunato alla sua chiesa", un testo non datato, redatto in prima persona, che per la maggior parte è dedicato alla presentazione puntigliosa e orgogliosa dei diversi interventi per il restauro, per l'arricchimento di chiese e monasteri del patriarcato gradense, per il sostentamento dei suoi chierici. Alla lista segue l'inventario dei beni della casa vescovile al momento dell'arrivo di F., il quale conclude lo scritto rendendo omaggio all'imperatore Ludovico I il Pio ed esprimendo la convinzione di poter tornare alla propria Chiesa con grande onore e nella grazia dell'Impero. Il rinvio a interlocutori con i quali F. si augura di poter vivere in pace e tranquillità induce a ritenere che il testo, di difficile definizione diplomatistica e considerato correntemente un testamento, sia parte almeno di una lettera inviata ai chierici di Grado dall'esilio, forse da Costantinopoli. Il ricordo delle benemerenze acquisite nell'arricchimento del tesoro della propria chiesa si colloca nel solco di una tradizione celebrativa tipica delle carte di donazione o di testamento solennizzata nel Liber pontificalis e nelle cronache monastiche. Per F. fu, però, anche un mezzo per perorare la propria causa, per ricostituire il filo spezzato fra l'attività passata e quella futura, e soprattutto per rafforzare in se stesso e nei suoi interlocutori la speranza di un ritorno nella sua sede.

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