FOTOGRAFIA: DALLA DESCRIZIONE ALLA RAPPRESENTAZIONE

XXI Secolo (2009)

Fotografia: dalla descrizione alla rappresentazione

Massimo Arioli

All’inizio degli anni Quaranta del Novecento, il poeta francese René Char, nei suoi Feuillets d’Hypnos, scriveva: «Il tempo visto traverso l’immagine è un tempo perso di vista. Ben diversi sono l’essere e il tempo. L’immagine sfavilla in eterno, quando ha sorpassato essere e tempo» (in R. Char, Poèmes et prose choisis, 1957; trad. it. Poesia e prosa, 1962, p. 75). Se l’immagine fotografica è il prodotto di un apparecchio a orologeria e quindi, per sua natura, inestricabilmente legata al tempo, tutte le fotografie sono però anche tracce chimiche o elettroniche, cioè registrazioni della quantità di luce riflessa da corpi opachi posti davanti a un occhio meccanico e dunque inevitabilmente dipendenti dalla realtà di quei corpi.

Per quanto debitrice all’essere e al tempo, l’immagine fotografica è andata tuttavia sempre più velocemente affrontando il proprio destino, ossia la necessità di sorpassare ciò che l’aveva resa viva e credibile. Le fotografie, alla stessa stregua delle immagini pittoriche o plastiche che per lungo tempo avevano vantato una supremazia basata sul requisito dell’unicità, hanno gradualmente conquistato un proprio spazio di eternità. La caratteristica di essere qualcosa di riproducibile all’infinito e non unico e irripetibile, cioè la mancanza dell’aura, nozione centrale nell’analisi di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, non è ormai più ritenuta unanimemente un elemento deteriore. Al contrario, e paradossalmente, la fotografia ribadisce costantemente la necessità della ripetizione e, facendo in tal modo, mette a repentaglio ogni idea di originalità. Minare l’essenza del modernismo, contaminare, fino all’estremo, l’idea di purezza di un’arte autonoma, questo è stato il ruolo della fotografia dalla seconda metà degli anni Sessanta e per tutti gli anni Ottanta. In tal modo essa ha contribuito alla ‘decostruzione’ della mitologia modernista, colpendone alla radice i presupposti teorici, decretando la rinuncia all’individuazione della specificità del medium e provvedendo all’azzeramento del principio di originalità, negando cioè «la possibilità di differenziare l’originale dalla copia» (R. Krauss, Le photographique: pour une théorie des écarts, 1990; trad. it. Teoria e storia della fotografia, 2000, p. 225). La fotografia ha da allora intrapreso un cammino volto a sostenere sé stessa, facendo della propria ambiguità, del fatto di costituire un problema per sé e per le altre arti, il nucleo della riflessione critica e la ragione fondante del suo nuovo ruolo.

Il tempo della fotografia

La messa in scacco definitiva dell’idea di fotografia come rappresentazione meccanica della realtà e dunque come documento inconfutabile trova la sua piena realizzazione nell’uso che del mezzo viene fatto a partire dalla fine degli anni Sessanta dagli artisti concettuali. Ancora una volta, paradossalmente, tutto ciò è accaduto in maniera autonoma rispetto alla volontà dichiarata di rivolgersi a un mezzo caratterizzato da spontaneità assoluta, fondamentalmente aspecifico e passibile di uno sviluppo fatto di ibridismi e contaminazioni (con la pittura, con il cinema e con le performances e installazioni). Fino ad allora la fotografia, come è stato più volte sottolineato, derivava la sua importanza dal fatto di essere un condensato dell’ingegno o dell’audacia riconosciuti al fotografo. Improvvisamente, l’immagine ai sali d’argento fu considerata capace di garantire le istanze concettuali dell’autore e non semplicemente di ratificarne le capacità tecniche. Il mezzo che più profondamente induceva un disagio nel definire il fotografo autore e nell’individuare l’originalità dell’opera venne al contrario eletto e privilegiato per garantire le possibilità espressive. Ciò che Benjamin aveva compreso, affermando che «l’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità» (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936; trad. it. 1991, p. 27), si è avverato con l’arte concettuale. La fotografia è divenuta il simbolo di un’arte che «prevede l’abbandono della specificità del singolo medium in favore di una pratica incentrata su quella che è stata chiamata arte-in-generale, cioè il carattere generico di un’arte indipendente da un supporto specifico tradizionale» (Krauss 1999; trad. it. 2005, p. 54).

Da quel momento, tutti coloro che a vario titolo si presentano come gli attori della fotografia contemporanea (reporter, artisti, autori, critici) «sembrano rivendicare una esigenza che va ben oltre il semplice valore strumentale dell’immagine» (Poivert 2002, p. 7), reclamando per il medium un’autonomia tale da elevare l’immagine fotografica al rango di opera d’arte fosse anche solo – parafrasando il fotografo statunitense Walker Evans – per il fatto di non avere niente a che vedere con l’Arte (citato in Poivert 2002, p. 21). A dar senso e forza al costituirsi di questo oggetto teorico e critico ha concorso ovviamente la sua natura ibrida: da un lato impronta del reale e, di fatto, documento storico, dall’altro finzione costruita e, pertanto, oggetto estetico. Il superamento della dimensione storica e/o estetica e del dualismo di memoria e immaginario, descritto dalla critica con parole sempre diverse (R. Durand, Un souci de mémoire, in D. Baqué, R. Durand, Photographies modernes et contemporaines. La collection Neuflize Vie, 2007, p. 8), ha fatto emergere le nuove caratteristiche della fotografia contemporanea, in cui gli estremi sempre pronti a escludersi reciprocamente hanno finito per rivelarsi compresenti attraverso generi e specializzazioni (dal reportage alla moda, dal ritratto al paesaggio, dalla foto-narrazione fino alla cosiddetta staged photography).

Scegliendo un frammento per presentarlo al nostro sguardo come un grumo di eternità, la fotografia si presenta come il luogo in cui trova realizzazione «questo impossibile insediamento del tempo nell’istante» (J.-Ch. Bailly, L’immagine assoluta. Tempo e fotografia, in Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, a cura di F. Ferrari, 2007, p. 82). L’immagine non resta a testimoniare soltanto che qualcosa «è stato» nel senso voluto da Roland Barthes, per il quale «io non posso mai negare che la cosa è stata là» (La chambre claire. Note sur la photographie, 1980; trad. it. 1980, p. 78), ma reclama una contemporaneità assoluta, in una singolare «piegatura del tempo» in cui la realtà fotografata, l’esecutore dell’immagine e il suo potenziale lettore intrecciano in modo ambivalente le loro storie e i loro destini, e in cui «il passato del referente, il presente della presentazione dell’immagine e il suo futuro sempre latente si confondono in un unico foglio di presenza» (J.-Ch. Bailly, L’immagine assoluta, in Del contemporaneo, 2007, p. 103).

Memoria e immaginario

La fotografia è memoria di qualcosa che è stato là davanti al suo occhio discreto; è traccia di quel referente fotografico che secondo Barthes è non già la cosa facoltativamente reale cui l’immagine rimanda, bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta davanti all’obiettivo (La chambre claire, 1980; trad. it. 1980, p. 77). Tuttavia in questo suo essere memoria si rivela anche una testimonianza che «ci dona il sentimento dell’esistenza di momenti, di oggetti, di esseri e sensazioni» (R. Durand, Un souci de mémoire, in D. Baqué, R. Durand, Photographies modernes et contemporaines, 2007, p. 9). D’altronde, è proprio nel contemporaneo, nelle immagini di consumo che «saziano» oltre ogni limite o nei crudeli reportage di guerra che finiscono per essere i più efficaci anestetici della coscienza critica dello spettatore laddove «il trauma delle atrocità fotografate svanisce vedendole ripetutamente» (S. Sontag, On photography, 1977; trad. it. Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, 1978, p. 19), è proprio in questo tempo, dunque, che la fotografia si presenta ai nostri occhi come una forma espressiva proteiforme, come un medium in grado di manifestare con forza l’ambiguità di origine, la doppiezza che le trasformazioni tecniche non hanno potuto elidere: essere, al contempo, meccanismo/sistema per la produzione di immagini ma anche deposito e solido punto di ancoraggio della memoria. In Kleine Geschichte der Photographie, pubblicato per la prima volta nel 1931, a proposito della ritrattistica dei primordi e degli interminabili tempi di posa cui i modelli erano costretti a causa della scarsa sensibilità dei materiali utilizzati, Benjamin osserva come il procedimento stesso inducesse «i modelli non a vivere proiettandosi fuori di quell’attimo, bensì a sprofondare nel suo interno; nel corso della lunga durata della posa, essi crescevano insieme e dentro l’immagine» (trad. it. in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1991, p. 64). Questa singolare intuizione legata all’osservazione dei modelli ottocenteschi sembra ora adattarsi sempre meno alla realtà raffigurata e sempre più all’esperienza degli attori e degli spettatori della fotografia contemporanea. Il legame con il mondo e con le cose, che è pur sempre vivo, si è andato sempre più dilatando, fino a creare nella fotografia contemporanea quasi la sensazione di una sovrapposizione di immagini. «Molte fotografie, in effetti, ci danno l’impressione di un sovrapporsi dell’immagine alla cosa, o ancora più spesso, di una sovrapposizione ad un’altra immagine iniziale» (Durand 20023, p. 63). La fotografia gioca dunque sull’ambivalenza, sulla coincidenza iniziale apparente tra immagine e oggetto reale unicamente per amplificare l’effetto di sdoppiamento nel quale «il rapporto con la realtà è fin dall’inizio messa in scena, scelta di una certa distanza, di un campo di visione, di una velocità dello sguardo, di una ‘esposizione’» (p. 63).

Creare la distanza e colmare il vuoto

L’assunzione come problema della distanza tra realtà e visione riconduce a temi usuali sia per la critica ‘storica’ sia per la riflessione più recente. Susan Sontag aveva osservato che «la distanza imposta, e superata, dal fotografo, è una distanza sociale e una distanza nel tempo» (On photography, 1977; trad. it. 1978, p. 52) in cui gli individui ritratti assurgono al rango di maschere sociali e che agisce in modo tale da far apparire ogni immagine come permeata da un senso di passato e di morte. Nella riflessione critica attuale, la fotografia, dispositivo prospettico culturalmente assorbito, è considerata un medium adatto a esibire una teatralità del verosimile che solo ingenuamente si potrebbe definire spontanea e non costruita. Si tratta, in effetti, di una teatralità che gioca sul carattere specifico del dispositivo fotografico e sul continuo alternarsi di verità e menzogna. Quest’ambiguità trae origine dalla consapevolezza che in ogni fotografia «contempliamo lo sguardo di qualcuno sul mondo e non il mondo stesso» (Durand 20023, p. 67). A tal proposito, il regista cinematografico Wim Wenders nell’introduzione a un suo libro di fotografie osserva: «Una macchina fotografica vede perciò davanti il suo oggetto, e dietro il motivo per cui questo oggetto doveva essere fissato. Mostra le cose e il desiderio di esse» (Einmal, 1993; trad. it. 1993, p. 22). L’‘inconscio ottico’, di cui Benjamin aveva parlato usando toni profetici, ritorna, ancora più efficacemente, nella riflessione sul contemporaneo, convalidando l’ipotesi secondo cui l’immagine fotografica agisce nel campo della visione in maniera analoga a quanto avviene per il concetto di inconscio pulsionale nell’ambito dell’indagine psicoanalitica. L’intuizione secondo cui «al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente» (W. Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, 1931; trad. it. 1992, pp. 62-63) non può quindi risolversi unicamente in un ampliamento degli orizzonti percettivi tale da ridurre il valore dell’immagine fotografica alla sola quantità di informazioni da essa ricavabili. Al contrario, senza contestare l’uso prettamente scientifico che in campi specialistici molto eterogenei viene fatto della fotografia documentale e delle cosiddette immagini tecniche, la presente analisi così come l’attenzione qui rivolta alla ricerca di alcuni fotografi, che vorremmo definire più propriamente operatori, sarà prevalentemente volta a indagare come la fotografia abbia condizionato qualitativamente la percezione e quanto le caratteristiche del mezzo, anche attraverso mutazioni forse più apparenti che sostanziali, abbiano contribuito alla rielaborazione del reale e non alla sua semplice esibizione.

La crisi della foto-documento

Il fotogiornalismo ha vissuto e continua ancora oggi a vivere una crisi che si è andata sviluppando nel decennio iniziato con la prima guerra del Golfo e che ha visto il suo apice tragico e spettacolare con l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. La pervasiva onnipotenza dell’informazione televisiva guidata dai network e lo svilupparsi di un’economia globale dell’informazione hanno decretato la subalternità della fotografia nel processo informativo portando a maturazione, al tempo stesso, la separazione radicale tra fotogiornalismo e reportage. Il nucleo della fotografia di reportage risiede nella sua capacità di raccontare gli eventi ancorandoli alla storia e di testimoniare, così facendo, i mutamenti sociali. Tuttavia, in seguito alla nascita e ancora di più allo sviluppo delle grandi agenzie fotogiornalistiche, prima fra tutte l’agenzia Magnum, gestita in forma cooperativistica e sostanzialmente indipendente dagli stessi fotografi che ne fanno parte, si assiste a una sorta di istituzionalizzazione del fotografo-autore. La famosa teoria dell’«attimo decisivo» elaborata da Henri Cartier-Bresson, quella cioè del fotografo che riesce a cogliere con il suo scatto meccanico un momento, quasi miracoloso, in cui le forze si compongono, con equilibrio, all’interno dell’inquadratura, ha creato non poche mitizzazioni e, a dire il vero, altrettanti equivoci. Si assiste dunque, in maniera sempre più diffusa, da una parte, alla sopravvivenza di un genere di fotografia anodino, quello sostenuto dalla diffusione delle agenzie di stampa (Associated Press, Reuters, AFP, Ansa ecc.), dall’altra, alla nascita di astri nel firmamento del reportage che portano alle estreme conseguenze la crisi di identità del genere. L’autore tende, in altre parole, a produrre lavori non più tesi a raccontare una storia attraverso una serie di immagini disposte in sequenza, ma opere che si risolvono nella singola immagine capace di accogliere tutto dentro di sé presentandosi allo spettatore come una sorta di «immagine-monumento» (Poivert 2002, p. 48). Il reporter di questo tipo cerca di confezionare emozioni, affermando un proprio stile e dunque la propria riconoscibilità ma correndo, in molti casi, il rischio di anteporre la preoccupazione per lo stile alla necessità di rendere leggibile la realtà fotografata. Si pensi alle immagini prodotte dallo statunitense James Nachtwey (n. 1948) o dal brasiliano Sebastião Salgado (n. 1944). Il primo, entrato nella Magnum nel 1986, ha documentato decine di conflitti ed è stato crudo testimone delle tragedie che affliggono l’uomo in tutto il mondo. Vincitore di numerosi premi tra cui il World press photo of the year nel 1992 e nel 1994, nel 1999 ha pubblicato il volume Inferno, una selezione significativa delle sue immagini. Salgado, intrapresa l’attività politica e ottenuti alcuni incarichi governativi, ha invece abbandonato questa strada per dedicarsi alla fotografia con lo scopo di documentare la povertà nel mondo. Passando attraverso le principali e più prestigiose agenzie fotogiornalistiche, è approdato alla Magnum nel 1979. Fotografo della siccità in Sahel (1985), della sofferenza dei minatori in Brasile (1986) o della disperazione degli addetti allo spegnimento dei pozzi petroliferi in fiamme in Kuwait (1991), ha ricevuto il premio della stampa mondiale nel 1985 e, nel 2000, ha pubblicato Exodus sul tema delle migrazioni. Entrambi questi autori, usciti dalla Magnum e raggiunto il culmine della celebrità, hanno fondato agenzie indipendenti. In ambedue i casi, ci troviamo di fronte a stili molto precisi che si sono imposti e hanno avuto immensa diffusione anche grazie a una compostezza formale ispirata a canoni classici, in netta controtendenza rispetto alla natura antimodernista del mezzo. La preoccupazione per lo stile, comunque, sembra precedere o addirittura condizionare l’osservazione del reale e l’emozione del fotografo finisce per nascondere la comunicazione camuffandola, talvolta paralizzando lo spettatore dietro a una sorta di paternalismo estetizzante. Paolo Pellegrin (n. 1964), vincitore del World press photo nel 1995, 2000, 2002, 2006, 2007, è uno dei più giovani e affermati fotoreporter. Nei suoi lavori, che lo hanno visto, tra l’altro, testimone nell’Albania postcomunista, in Bosnia per documentare le conseguenze della guerra, in Cambogia in collaborazione con Médicins sans frontières, ha radicalizzato la tendenza del fotografo-autore, imponendo uno stile assolutamente personale caratterizzato prevalentemente da uno sguardo ‘indiretto’, che carica l’immagine di significati articolando soggetti principali e riflessi apparenti su un’unica superficie. L’immagine si risolve in sé stessa e nella didascalia che si rivela utile unicamente all’individuazione sommaria del contesto geopolitico.

Il francese Luc Delahaye (n. 1962) è un reporter di guerra che ha ottenuto vari riconoscimenti tra cui la Robert Capa gold medal nel 1993 e nel 2002, il World press photo nel 1993, nel 1994 e nel 2002, il Prix Niépce nel 2002 e, nel 2005, la Deutsche Börse Photography prize. A partire dal 1994, per un decennio, è stato membro dell’agenzia Magnum, testimone delle guerre in Libano, Afghānistān, Ruanda, Cecenia e Bosnia. Delahaye, in netto contrasto con le diffuse ‘preoccupazioni’ del fotografo-autore, ha dichiarato: «Lo stile del mio lavoro deve essere impercettibile; cerco una forma di assenza, una forma di indifferenza, solo così posso essere in contatto con il reale. Lo stile è la singolarità, e io cerco di dissolvermi nel mondo, di dimenticare me stesso nella guerra […]. La fotografia è semplice, è essere nel mondo» (in Y. Morvan, Photojournalisme, 2000, p. 74).

Non è un caso che parallelamente al lavoro più propriamente legato a eventi storici e sociali Delahaye si sia poi dedicato alla ricerca personale, realizzando alcune serie. Mémo (1997) è una collezione di ritratti delle vittime del conflitto bosniaco fotoriprodotti dai necrologi dei giornali locali, in cui memorialistica e collezionismo si fondono in maniera analoga a quanto avviene nell’opera dell’artista francese Christian Boltanski (n. 1944); L’autre (1999) è, invece, una raccolta di primi piani di persone fotografate, a loro insaputa, nella metropolitana parigina, e, infine, Une ville (2003) è una campagna di documentazione architettonica e sociale nel quartiere Mirail a Tolosa, in Francia. In tutti questi casi il fotografo-reporter lavora non più con i soggetti ma sulle situazioni o meglio su idee di situazioni, dapprima quasi inconsciamente, senza tesi precostituite, e poi con un metodo preciso al fine di definire sempre meglio il proprio progetto.

Raccontare l’individuo

Nel tempo segnato dall’assenza di ideologie e di mitologie collettive, si assiste sempre più frequentemente al ripiegamento su una dimensione privata e intima dell’esistenza dove a prevalere sono le microstorie e, a trionfare, la percezione individuale. La descrizione del soggetto diventa dunque il motivo centrale destinato ad assumere le forme della riappropriazione e della narrazione, di una visione ora partecipata ora distante, rivolta al sé o all’altro, finalizzata a incrociarne lo sguardo o, più limitatamente, a riflettersi in esso. Non ci sentiamo di affermare, con assoluta certezza, che la fotografia contemporanea ha visto eclissarsi ogni traccia di umanità. L’essere umano è ancora, in essa, quel miscuglio di verità e menzogna prodotto del contrasto tra vedere ed esser visto dei lavori della francese Sophie Calle (n. 1953), l’indefinibile osmosi di identità e immaginario, di fisicità e feticcio dei ritratti della statunitense Cindy Sherman (n. 1954), il racconto banale e intimo, a tratti corrivo come la vita – senza esserne neanche l’ombra –, delle storie di amore e disperazione della statunitense Nan Goldin (n. 1953), narrate nella convinzione che l’occhio della memoria debba salvare tutto perché può salvare tutti.

Il corpo nell’immagine contemporanea tende a diventare irriconoscibile. Questa perdita di identità appare evidente nel caso in cui il fotografo pensi a sé come soggetto principale dei propri lavori. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, l’inglese John Coplans (1920-2003), storico dell’arte e fondatore della rivista «Artforum», dopo aver lasciato ogni attività precedente, iniziò a fotografare il proprio corpo, frammentandolo, ingigantendone alcune parti ma sempre escludendo il volto. Nelle sue immagini, assistiamo al rovesciamento di tutti i valori tradizionali della rappresentazione del corpo, all’abbandono della figura stereotipata, giovane e senza imperfezioni, e riusciamo a riappropriarci di una verosimile testimonianza della condizione umana. La scelta delle posture, spesso molto esasperate, la costruzione deliberatamente geometrica e perfino la volontà di affidare la registrazione alla tradizionale emulsione in bianco e nero, tutto ciò si rivela pienamente coerente con il desiderio dell’autore di trasfigurare il proprio corpo e di riscoprirne, in qualche modo, il profondo segreto.

La ricerca del sé ha accompagnato la fotografia fin dalle origini, oscillando tra finzione e realtà, dall’Autoportrait en noyé (1840) di Hyppolite Bayard, fino agli ultimi autoritratti di Robert Mapplethorpe (1946-1989), testimonianze, mai compiaciute, della malattia. Oggi, la ricerca si muove nel territorio della frammentazione e della indistinzione alle quali fa da sfondo una decisa teatralizzazione degli eventi. È il caso della fotografa finlandese Elina Brotherus (n. 1972). Parlando di sé attraverso le fotografie, la Brotherus vuole ridefinire i contorni dell’individuo nell’ambiente che lo circonda. In tal modo, costruendo un universo a misura, fatto spesso di citazioni provenienti dall’ambito pittorico, dà vita a un contesto in cui parlare dell’individuo significa guardare al mondo in cui vive e al tempo che ne segna l’esistenza. In Le miroir (2000), una sequenza di cinque fotografie, si ritrae riflessa nello specchio appannato di un bagno e, mentre la nebbia si dissolve e l’immagine si fa, fotogramma dopo fotogramma, più chiara e distinta, scopriamo il busto nudo della giovane donna con lo sguardo fisso su sé stessa e incurante dello spettatore. In una scena ormai disabitata, lo specchio (la fotografia) diventa una possibile chiave per decifrare il mistero dell’identità.

Anche nel guardare l’altro, nell’osservazione della condizione umana esterna all’individuo, traspare un mondo al fondo intangibile, in cui l’autore appare costretto a muoversi tra realtà e immaginazione in un continuo trascorrere di paura e desiderio. Parlando dei suoi lavori, definiti, superficialmente, erotici, il giapponese Araki Nobuyoshi (n. 1940) ha dichiarato: «Dentro di me ci sono due anime. Adoro le donne ma al contempo vorrei anche profanarle. Questi due stati d’animo si ossidano e nascono le fotografie» (cit. in P. Vagheggi, Contemporanei. Conversazioni d’artista, 2006, p. 47). Attrazione e repulsione, partecipazione e intenzionale distacco dalla realtà fotografata finiscono per connotare, in vario modo, alcune tra le ricerche più significative degli ultimi anni.

Lo statunitense Philip-Lorca diCorcia (n. 1951) è divenuto internazionalmente noto per la serie Streetwork, 1993-1997 (1998). I suoi ritratti, realizzati con protagonisti anonimi nelle strade di varie megalopoli del mondo, si offrono allo sguardo come un misto di realtà e artificio. Il risultato finale, amplificato dalla scelta di utilizzare, contemporaneamente, la luce naturale e la luce di flash elettronici, è quello di immagini enigmatiche, fortemente pittoriche, in cui i personaggi, pur senza seguire una regia precostituita, sembrano muoversi al pari di maschere sul palcoscenico della città contemporanea, veri e propri microcosmi in un universo di desolante e opprimente incomunicabilità.

Koos Breukel (n. 1962) è un fotografo olandese che lavora sui suoi modelli sottolineando come le immagini possano riscattare uno sguardo disattento e non sufficientemente consapevole. Nella serie The wretch­ed skin (1994), l’intenzione è quella di realizzare dei ritratti in studio apparentemente aderenti alla tradizione, utilizzando un’illuminazione e un bianco e nero molto eleganti e sofisticati, lasciando però visibili, a un’occhiata successiva, dei particolari, delle tracce degli eventi traumatici che hanno segnato il passato dei soggetti ritratti. Ancora più sottile ed emotivamente sentito è il leitmotiv della recente serie Cos­metic view (2005) nella quale il fotografo ha scelto come modelli dei suoi ritratti in studio individui che hanno un occhio di vetro come tratto che li accomuna. La naturalezza dell’impianto e della composizione, cui contribuisce la scelta di aver usato il colore, invita lo spettatore, senza costringerlo in alcun modo, a interrogarsi sull’ambiguo rapporto tra verità e rappresentazione e sulla conseguente crescente incapacità dell’uomo contemporaneo di aderire alla realtà osservata.

Il fotografo sudafricano Pieter Hugo (n. 1976) ha vinto il premio della stampa mondiale nel 2006 con i suoi ritratti, ma le immagini che realizza possono essere definite documentaristiche solo parzialmente, risultando invece momenti della riflessione personale dell’autore attorno ad alcuni nodi problematici del mondo contemporaneo. Nel 2003 Hugo ha sviluppato un progetto che lo ha portato attraverso l’Africa, l’Europa e il Sudamerica per ritrarre individui albini. Nel volume che ne è derivato, dal titolo Looking aside (2006), l’albinismo non è solo un’anomalia genetica ma soprattutto un carattere distintivo dell’individuo, il pretesto in grado di suscitare superstizione e discriminazione e, per il fotografo, la chiave per sottolineare come la differenza fisica possa incidere sulla posizione sociale delle persone e condizionarne la vita in maniera definitiva.

La svizzera Eva Lauterlein (n. 1977) con la serie Chimères, iniziata nel 2002, ha introdotto un altro motivo di scandalo nella già pericolante nozione di ritratto fotografico. Il volto di ciascuno dei soggetti della serie è il risultato di un procedimento alchimistico, una commistione effettuata attraverso l’elaborazione elettronica di un numero elevato di ritratti, in alcuni casi fino a trenta, dello stesso individuo. Il risultato non è più soltanto eterogeneo, ma aggiunge elementi nuovi rispetto alla realtà rappresentata. La traccia del modello è manipolata in modo così profondo che ogni indizio dell’identità originaria svanisce e la fotografia diventa inimmaginabile per lo stesso autore del morphing digitale. La possibilità dell’immagine di fornire informazioni allo spettatore o anche solo dettagli verosimili sul reale è ormai diventata un sogno meno reale di queste chimere dallo sguardo assorto e distante.

Percorrere lo spazio

Negli ultimi vent’anni del Novecento, l’impresa di descrivere lo spazio è stata segnata in maniera profonda dalla missione fotografica della DATAR (Délégation à l’Aménagement du Territoire et à l’Action Régionale), realizzata nella seconda metà degli anni Ottanta su commissione del Ministère de l’intérieur et de l’aménagement du territoire e finalizzata a documentare lo stato del paesaggio e dell’urbanità in Francia. A quell’esperienza ne sono seguite altre, tra le quali, in Italia, si devono ricordare le campagne dell’Archivio dello spazio, volute dalla provincia di Milano, e le iniziative di Linea di confine per la fotografia contemporanea, esempi di progetti che tra gli anni Ottanta e Novanta hanno visto impegnate, a vario livello, committenza sia pubblica sia istituzionale. In seguito, com’è stato più volte sottolineato, anche in questo settore, originariamente volto alla descrizione di luoghi e di paesaggi, si è verificato un lento ma inarrestabile processo di trasformazione. La fotografia, considerata dapprima documento, è diventata testimonianza di un autore e negli ultimi anni, definitivamente, uno strumento, un’occasione nelle mani del fotografo per esplorare una visione del mondo e darle finalmente concretezza. Lontana dunque da ogni rivendicazione di autonomia, la fotografia si presenta attualmente come «un punto di rifrazione della creazione» (Poivert 2002, p. 155), uno dei luoghi privilegiati nel quale sottoporre la realtà al processo di trasfigurazione voluto dall’autore.

I lavori del tedesco Andreas Gursky (n. 1955) esemplificano il processo di istituzionalizzazione cui è stata sottoposta la fotografia negli ultimi vent’anni. Nato a Lipsia e figlio di un fotografo commerciale, dopo aver frequentato la Folkwangschule di Essen, all’inizio degli anni Ottanta ha studiato alla Staatliche Kunstakademie di Düsseldorf entrando in contatto con il metodo rigoroso di Bernd e Hilla Becher. Negli anni Novanta, Gursky ha portato a maturazione la svolta iniziata alla fine del decennio precedente. La sua ricerca è risultata non più una semplice estensione del ‘realismo’ dei Becher, ma ha assunto caratteri nuovi sia per la scelta dei soggetti sia per l’uso del colore e per la dimensione delle immagini. L’attenzione è rivolta ai ‘non-luoghi’, agli spazi caratteristici del nostro tempo in cui la funzione assorbe le differenze in un tutto indistinto. 99 cents (1999) è un lavoro di oltre due metri per tre; a Londra nel febbraio 2007 un’edizione dei sei esemplari realizzati in dittico nel 2001 è stata aggiudicata da Sotheby’s a un prezzo leggermente inferiore ai tre milioni e mezzo di dollari. L’immagine raffigura l’interno di un grande magazzino in un modo deliberatamente enigmatico e distaccato, in cui ogni particolare sembra avvolto da un alone di artificialità provocato dal suo stesso realismo. In questo caso la realtà è il risultato di un lavoro di costruzione per realizzare il quale l’autore attinge alle risorse pittoriche della tecnica digitale.

Come appare evidente anche negli ultimi lavori di Gursky, la sua ricerca è tutta incentrata sull’esplorazione delle relazioni tra potere di documentazione del mezzo e proiezione dell’individuo che, manipolando opportunamente la prospettiva, si rapporta all’ambiente circostante, neutralizzando qualsiasi partecipazione emotiva e teatralizzando l’effetto finale grazie al gigantismo delle proporzioni.

Il lavoro di Walter Niedermayr, nato a Bolzano nel 1952 e noto principalmente per i suoi paesaggi alpini o per soggetti più specificamente architettonici, invita lo spettatore a investigare sulla relazione tra uomo e ambiente. Ciò avviene nelle immagini dei paesaggi alpini nei quali, mettendo mano a una rielaborazione del concetto di sublime, lo spazio si presenta con il tono diafano di una luce sapientemente sovradosata e invasiva fino al punto di sommergere i segni lasciati dalla presenza umana, quasi fossero inutili bookmarks disposti, senza ordine, in una natura maestosa seppur contaminata. Analogamente, nel progetto ormai più che decennale dal titolo Raumfolgen, il fotografo dirige la sua attenzione verso luoghi fortemente connotati dalla loro funzione sociale, come gli ospedali, le case di cura o i penitenziari. Il lavoro, presentato nel 2006 nell’ambito della sezione Storie urbane nel corso della Settimana della fotografia europea a Reggio Emilia, ha riguardato l’area dell’ex ospedale psichiatrico di San Lazzaro e dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Ingressi, corridoi, sale d’attesa, camere operatorie e laboratori di analisi sono fotografati per apparire, secondo le intenzioni dell’autore, come luoghi che pongono «la questione dello spazio e dell’architettura intesa come uso dello spazio e dell’uniformazione cui sono sottoposti» (citato in http://www.reggiofotografia.it/storieurbane_32.htm, 11 giugno 2009), luoghi di forte rilevanza sociale, solitamente preclusi alla vista, all’interno dei quali opera una miriade di individui invisibili.

Il francese Jean-Marc Bustamante (n. 1952) si è occupato di scultura, di pittura, di architettura e di design ma la fotografia può essere considerata, a buon diritto, il fulcro di tutto il suo lavoro di ricerca fin dall’epoca in cui lavorava in qualità di assistente di William Klein (n. 1928). Nella serie S.I.M. (Something Is Missing) iniziata nel 1995, Bustamante ha concentrato la propria attenzione su luoghi spesso deserti, non facilmente classificabili dal punto di vista temporale e non individuabili geograficamente. Lo spettatore ha l’impressione di rintracciare elementi e particolari che lo aiutino a decifrare il contesto ma, come è d’altronde implicito nel titolo, il punto di partenza di questo viaggio dell’attenzione ha un unico approdo: ciò che non è presente nell’immagine ha la stessa rilevanza di ciò che vi è incluso, i luoghi appaiono tutti uguali, tutti ugualmente compromessi da un velo di immediatezza e di superficialità. In tutte le immagini della serie L.P. (Long Playing, 2000) la banalità e la superficialità, che sembrano avere la meglio su tutto, non nascondono l’intenzionalità dello sguardo e la rigorosa struttura compositiva che guida a una lettura stratificata dell’inquadratura.

Il francese Stéphane Couturier (n. 1957) ha concentrato la sua attenzione sulla città, considerata dal fotografo come una realtà mutante in costante divenire. La trasformazione appare tuttavia dominata da un ordine accompagnato e scandito dall’inquadratura stessa. Le griglie geometriche isolate nel tessuto urbano rappresentano l’unica vera ossessione del suo sguardo. Analogamente, le immagini si concentrano sui fuori-scala e azzerano la prospettiva e l’immensa varietà dei dettagli presenti in ogni angolo, offrendo allo spettatore una visione nuova delle città. Berlino, Dresda, Seoul, San Diego, Tijuana diventano pretesti per cogliere ordine e continuità di forme nella trasformazione. Nel suo più recente lavoro, Chandigarh replay (2007), combinando le immagini delle facciate e degli interventi realizzati da Le Corbusier nella città indiana, Couturier tenta, con successo, di enfatizzare l’ambiguità dello spazio fotografato che appare, a tratti, il risultato di artifici e manipolazioni capaci di mettere in crisi la natura di analogon dell’immagine fotografica.

Spostando la riflessione su atteggiamenti marcatamente autoreferenziali, sembrano facilmente assimilabili, anche se totalmente eterogenei, gli scenari proposti dallo statunitense James Casebere (n. 1953), le realtà immaginate dallo spagnolo Dionisio Gonzáles (n. 1965) e le prospettive dell’italiana Luisa Lambri (n. 1969). Il primo, intorno alla metà degli anni Settanta, ha iniziato a fotografare modelli e plastici da lui stesso realizzati. Si tratta di interni di edifici pubblici disabitati, ricostruiti in una scala non più rintracciabile e privati di dettagli e colore. La ricerca di Casebere si colloca a metà strada tra fotografia, architettura e scultura. L’uso della luce, la fondamentale acromia del contesto e l’inserimento, in alcuni casi, di una superficie liquida, in grado di simulare l’effetto di un allagamento dello spazio rappresentato, evocano nello spettatore una sensazione di vertigine derivata dalla miscela di emozioni e di ricordi. La fotografia è modello di un modello in cui il referente è già una costruzione dell’autore.

La fotografia è però anche realizzazione di modelli impiegati per interpretare e modificare la realtà preesistente. Gonzáles, infatti, usa la fotografia come strumento in grado di mediare progetto politico, memoria storica e visionarietà architettonica. Partendo dalla realtà delle favelas brasiliane, Gonzáles ne propone un recupero parziale, coerentemente con il piano che ne vorrebbe la demolizione al fine di costruire, sempre nella stessa area, edifici basati su altri parametri e in grado di accogliere la popolazione che attualmente vive in agglomerati caotici, fatti di desolazione e di illegalità. La prospettiva non è ovviamente solo estetica ma anche, in buona parte, politica. Il riciclaggio dovrà tenere conto della realtà preesistente e, mantenendo una traccia della memoria storica, migliorare le condizioni di abitabilità dei luoghi. La rielaborazione virtuale cui Gonzáles sottopone le immagini dei luoghi attuali segue la logica dell’esistente e ne rafforza l’orizzonte ideologico in un divenire organicamente lontano da ogni piano urbanistico. Catturare il flusso della trasformazione equivale a inserirsi nel contesto con strutture di edifici importati digitalmente e poi elaborati con un processo di morphing capace di coinvolgere realtà e immaginazione.

Le fotografie di architettura della Lambri sono certamente non convenzionali. Gli edifici modernisti oggetto dell’indagine della fotografa di Como non sono dunque descritti. Di Casa Barragán, edificata tra il 1947 e il 1948, vediamo solo una serie di fotografie di una finestra semioscurata da quattro sportelli di legno. Il diverso grado di apertura degli sportelli, la quantità di luce non omogenea che filtra attraverso di essi, la sensazione di spostamento indotta dalle differenze di ciascuna immagine, ogni aspetto particolare sembra parlare dello scorrere del tempo e della fotografia come strumento privilegiato in grado di testimoniarlo. È la stessa fotografa a dichiarare: «non c’è nessun rapporto diretto tra la funzione degli edifici e le mie immagini, io cerco di restituire uno stato d’animo […], l’architettura mi interessa solo perché la abito, ogni volta in modo diverso, da un punto di vista diverso e per la possibilità di trasformarla in qualcosa di diverso da quello che è […]. È come immaginare un’architettura in potenza o declinare i casi di una grammatica sentimentale inscritta in ogni edificio» (34 questions about memory and senses, in Luisa Lambri, 2001, catalogo della mostra).

Percepire il tempo

La riflessione sul tempo è stata da sempre al centro dello sviluppo tecnico e del carattere polisemico dell’immagine fotografica.

Sugimoto Hiroshi, nato a Tokyo nel 1948, si è trasferito a Los Angeles nel 1970 per studiare fotografia all’Art center college of design e qualche anno più tardi, definitivamente, a New York. Ha esposto nei più importanti musei e gallerie del mondo tra cui il Metropolitan museum of art di New York, il Guggenheim di Bilbao e di Berlino e la Serpentine gallery di Londra. È universalmente conosciuto per alcune serie come Dioramas, iniziata nella seconda metà degli anni Settanta, realizzata nei musei di scienze naturali e focalizzata sul rapporto dialettico tra realtà e rappresentazione; Seascapes, fotografie di orizzonti nelle quali tutta l’attenzione è volta a catturare le minime variazioni della luce e delle superfici marine; The­aters, iniziata nel 1978, i cui soggetti (vecchi teatri riconvertiti in cinema, sale cinematografiche degli anni Cinquanta, drive-in in stato di abbandono) sono stati fotografati durante una proiezione con tempi di esposizione della stessa durata del film proiettato. Il risultato era una suggestiva sala in penombra o uno spazio deserto sul quale campeggiava uno schermo dall’accecante luminosità. Lo stesso Sugimoto ha rivelato come, durante la preparazione di questo lavoro, si sia costantemente interrogato circa la possibilità di riprendere tutto un film in una sola fotografia. È evidente che la compostezza estetica di tutta la ricerca del fotografo nipponico è guidata da una forte istanza concettuale. Un presupposto che può delinearsi più adeguatamente come riflessione sul tempo se ci si sofferma su lavori come In praise of shadows (1998), una serie di immagini realizzate con tempi tanto lunghi da accompagnare la fiamma di una candela fino alla inevitabile consunzione; nella serie Joe, presentata nel 2006, si assiste invece al tentativo di restituire allo spettatore la visione idealizzata dell’artista. Il fotografo, posto di fronte alla scultura Joe (2000) di Richard Serra, utilizza la sfocatura volontaria, già da lui adottata nelle riprese di architetture per evidenziare forme e volumi, quindi per documentare non la realtà ma esclusivamente un’immagine mentale.

Qualcosa di analogo propone il lavoro del tedesco Michael Wesely (n. 1963). In Schule (1994) ci troviamo di fronte a una serie di singoli ritratti di studenti, solo apparentemente mossi o sfocati. In realtà, ciascuna fotografia è il frutto dell’esposizione multipla, sulla stessa emulsione, dei ritratti di tutti gli allievi di una classe. Al di là della seduzione messa in atto dal procedimento tecnico, ciò che cattura lo sguardo dello spettatore è l’elaborazione di volti non reali ma solo mentali, frutto di un processo di omogeneizzazione e di assimilazione dei tratti comuni in individui differenti. In Open shutter project (2001-2004), per il Museum of modern art di New York, il fotografo tedesco usa lunghissimi tempi di esposizione per costruire una nuova immagine della città; la particolare indefinitezza delle foto nasce dal tentativo di coniugare i singoli elementi spaziali con la loro modificazione nel continuum temporale. Ancora più di recente, in Tulpen (2006), la tecnica di esporre la pellicola per lunghi periodi, in alcuni casi per una settimana, permette al fotografo di seguire il ciclo vitale dei fiori. Ovviamente, in tutto ciò, non vi è alcuno scopo documentario. L’oggetto specifico della ricerca è, ancora una volta, la riflessione sul legame che la fotografia stabilisce con la realtà dell’oggetto e con una percezione del tempo che superi il singolo istante per riportarlo alla durata, a un processo che renda compresenti e visibili momenti che la realtà ci presenta invece come esclusivi.

Il giovane fotografo inglese Idris Khan (n. 1978) realizza i suoi lavori sovrapponendo immagini raffiguranti lo stesso oggetto. Si tratta però di oggetti specifici (fotografie, quadri, libri o spartiti musicali) che hanno profondamente influenzato il processo di formazione dell’autore. Attraverso la rielaborazione digitale che gli consente di modificare opacità e trasparenza dei vari livelli di un’immagine, Khan utilizza la fotografia come citazione e configura la conoscenza come un processo in cui, mentre si scoprono nuovi particolari, l’immagine complessiva sembra tuttavia risultare sempre più misteriosa. Una fotografia di Bernd e Hilla Becher, le pagine di un libro come La chambre claire di Roland Barthes, i fogli di uno spartito di Johann Sebastian Bach, diventano oggetto di un sottile gioco di riappropriazione e di ricreazione capace di mimare l’andirivieni dello sguardo e, grazie al meccanismo della ripetizione, di rendere tangibile e concreto il concetto di ‘aura’ dell’opera d’arte, arricchendolo di nuovi significati.

Immagini e immaginario

La fotografia dell’inizio del 21° sec. ha portato alle estreme conseguenze le tendenze che l’hanno attraversata negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, accentuando la contaminazione degli stili, l’ibridazione delle forme espressive e il gusto per la citazione, rifiutando costantemente la possibilità di essere classificata univocamente e ricercando invece una sua sopravvivenza al confine tra misura ed eccesso, arte e kitsch, informazione e pubblicità, cultura e parossismo mediatico. La messa in scena è dunque, ripetiamo, presente ovunque come una costante che attraversa in maniera trasversale generi e categorie. La relazione sempre più stretta tra fotografia, pittura e teatro si è andata accentuando in modo sempre più visibile. Ne è un chiaro esempio il gusto per i ­tableaux vivants, che avevano goduto di grande fortuna in epoca pionieristica con i fotografi ‘pittorialisti’ come David Octavius Hill, Robert Adamson e Oscar G. Rejlander, e sono ritornati in maniera prepotente prima con alcuni fotografi di matrice surrealista e più tardi, negli anni Ottanta, con le immagini oniriche della statunitense Sandy Skoglund (n. 1946) e con quelle architettonicamente complesse del neozelandese Boyd Webb (n. 1947). Parlando di tableaux vivants e, più superficialmente, di staged-photography, non è possibile non menzionare Jeff Wall. Il fotografo canadese, nato a Vancouver nel 1946, formatosi come storico dell’arte e vicino agli ambienti concettuali negli anni Sessanta, ha portato a maturazione nella seconda metà degli anni Settanta un progetto che ruota intorno alla stretta relazione tra pittura, letteratura e fotografia, considerando quest’ultima il mezzo privilegiato in grado di attualizzare i grandi temi della rappresentazione tradizionale, una sorta di baudelairiana ‘pittura della vita moderna’, pur affermando lui stesso che le proprie immagini sono sempre «radicalmente opposte alla pittura». Su questa linea, mediando tradizione e contemporaneità, si è dedicato alla realizzazione di opere complesse ed erudite presentate, nella maggior parte dei casi, nella forma di lightboxes, scatole luminose di ampie dimensioni capaci di esaltare il contrasto e la luminosità di quelle immagini. Esposta per la prima volta a Documenta 11 a Kassel, After ‘Invisible man’ by Ralph Ellison, the preface (1999-2001) è un’opera ispirata a un momento preciso del romanzo che ha reso famoso Ralph Ellison negli anni Cinquanta. Wall ha ricreato il locale in cui vive il giovane nero protagonista del romanzo: un seminterrato illuminato da un soffitto costellato da 1369 lampade a incandescenza che irradiano una luce calda e accogliente. Wall prende a pretesto un romanzo di taglio sociale per dare concretezza a una realtà immaginaria, parlando dell’importanza della luce per la sostanza e per la forma del medium prescelto. Sembra quasi sottoscrivere la dichiarazione del protagonista: «La luce conferma la mia realtà, fa nascere la mia forma […]. Senza luce io non sono solo invisibile ma anche senza forma» (R. Ellison, Invisible man, 1952; trad. it. 1956, p. 10).

Karen Knorr (n. 1954) è una fotografa tedesca che attualmente vive e lavora a Londra. Costruisce le sue immagini mescolando con sapienza alchemica gli enigmi tipici di un sapere colto e il gusto di una ironia sofisticata, nel tentativo di catturare in maniera inestricabile l’attenzione dello spettatore. I lavori si presentano come rebus, come allegorie del rapporto tra natura e cultura e, più in generale, appaiono come una vasta riflessione, a tratti segnata da un certo manierismo, sui codici della rappresentazione e della sua istituzionalizzazione. Un’immagine come When will you ever learn? (2001) dalla serie Academies, Sanctuary è in tal senso esemplificativa. Gli animali impagliati, metafore tanto di una natura isolata e manipolata quanto della stessa fotografia quale evoluzione in senso tecnico della tassidermia, sono inseriti nel contesto di una galleria del 18° secolo. La pecora, protagonista del siparietto, sembra rivolgersi allo spettatore mentre accanto a lei un agnello giace presumibilmente senza vita e, in secondo piano, un altro agnello accompagna la visione prospettica verso il fondo della composizione. La stessa Knorr ha già dichiarato di perseguire il paradosso di voler usare il realismo contro sé stesso e appare evidente che la meticolosa messa in scena, rafforzata in questo dal titolo, faccia propendere lo spettatore per un’interpretazione ironica e moralistica dell’accadimento, come se si trattasse della teatralizzazione di una favola di Esopo.

Un intento più cinematografico è presente nelle immagini di Gregory Crewdson (n. 1962). Agli esordi, con l’uso del bianco e nero, il fotografo statunitense si limitava a vedute dall’alto, realizzate utilizzando un punto di osservazione adatto a riprendere il teatro di piccole tragedie quotidiane nel mondo della insignificante middle-class della provincia americana. Ora Crewdson, con un’abilità indiscussa nell’immaginare realtà provenienti da universi cinematografici, costruisce immagini di grandi dimensioni, allestendo per esse dei veri e propri set in cui lavora con un’intera troupe, mescolando nella produzione tecniche analogiche e digitali. È quanto avviene nelle ultime serie Twilight (1998-2002) e Beneath the roses (iniziata nel 2003). L’ambientazione è surreale e grottesca, al limite del paranormale, tipica di alcuni film di David Lynch, e si adatta all’iconografia urbana e alla solitudine dei personaggi che richiamano il clima dei quadri di Edward Hopper. Tutto il lavoro viene svolto sulla base di un accurato storyboard finalizzato alla realizzazione di un ‘momento’, del frammento di una storia da interpretare o, meglio, da creare. Ogni immagine appare quindi sospesa tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ di una trama che lo spettatore sarà costretto a immaginare, innescando una reazione necessaria nell’universo di normalità e artificio voluto dall’autore.

I lavori della statunitense Justine Kurland (n. 1969) e di Anthony Goicolea (n. 1971), pur nelle inevitabili differenze, risultano immediatamente affini nel contesto della cosiddetta staged-photography. La Kurland, dopo aver collaborato come assistente di G. Crewdson e di Ph.-L. diCorcia, si è affermata per la produzione di paesaggi neoromantici popolati da giovani fanciulle. Fortemente influenzata, per sua stessa ammissione, dalle atmosfere del pittorialismo di Julia Margaret Cameron, dalla pittura inglese dell’Ottocento e, soprattutto, dalle ambientazioni tipiche delle fairy tales, ha coniugato nei suoi lavori, come appare evidente nelle serie Skyblue (2002) e Old joy (2004), il gusto per la creazione di paesaggi pervasi di mistero e l’attenzione per la costruzione di coreografie dominate da figure di adolescenti che, agendo sullo sfondo, catturano e inquietano lo sguardo dello spettatore.

A. Goicolea, fotografo di origine cubana nato negli Stati Uniti, realizza i suoi mondi fantastici inscenando situazioni narrative in cui i protagonisti, giovani in età scolare, vestiti spesso con abiti simili a uniformi, vivono un frammento di una storia, di un’avventura dalle tinte surreali, grottesche e, a tratti, terrorizzanti. Un’immagine come Lake (2004), sia per la scenografia (un cimitero avvolto nella nebbia invernale sulle rive di un lago con una tenda da campeggio), sia per l’azione dei corpi che pensiamo di scorgere, in trasparenza, all’interno della tenda circondata da indumenti e biancheria intima posti all’esterno, crea la tensione tipica del film horror pur lasciando volutamente aperto il campo a una interpretazione più trasgressiva dell’azione messa in scena.

Wang Qingsong (n. 1966) usa le tecniche teatrali e il mezzo fotografico per raccontare la trasformazione della Cina, del suo sistema politico e del suo popolo. Il nucleo intorno al quale ruotano le sue immagini è l’incontro/scontro di un popolo carico di tradizioni millenarie con lo stile di vita materialistico dell’Occidente globalizzato e tuttavia quotidianamente in lotta per soddisfare bisogni primari come il cibo e la casa. Da ciò derivano costruzioni allegoriche spesso architettonicamente costruite sulla falsariga di opere fondamentali della tradizione pittorica cinese oppure sulla riproposizione mimica, da parte di modelli cinesi, di posture e atteggiamenti caratteristici dei capolavori della storia dell’arte occidentale.

Abbandonata la pittura alla fine degli anni Novanta nella convinzione che la fotografia fosse il mezzo migliore per ‘catturare la realtà’, Wang Qingsong allestisce immensi set per realizzare i suoi grandi ‘affreschi’ fotografici. In Commercial war (2004), per es., per denunciare il potere fuorviante della pubblicità e il suo tremendo impatto sulla società, ha costruito un set di 560 mq tappezzandolo con oltre 600 manifesti che evocano circa 3000 varietà di prodotti, spesso caratterizzati da slogan in lingua inglese. In Dormitory (2005), presentato alla Biennale di Architettura a Venezia, ha immaginato un universo concentrazionario popolato da una moltitudine di individui, uomini e donne nudi che si affollano in una immensa struttura di letti a castello, protagonisti di microstorie in cui pubblico e privato si mescolano e in cui l’affermazione di nuove libertà corrisponde a un’estrema alienazione e a un’altrettanto tragica solitudine.

Prospettive

Il passaggio dall’immagine analogica a quella digitale e l’annuncio della morte della fotografia hanno costituito uno dei nodi centrali del dibattito teorico degli ultimi anni. Per quanto riguarda l’opposizione di analogico e digitale, risulta decisiva l’osservazione che, paradossalmente, in fotografia si può parlare unicamente di un’immagine analogica ‘catturata’ da una pellicola sensibilizzata ai sali d’argento oppure da un microchip di silicio e che, in definitiva, il passaggio al digitale coinvolga solamente un processo di conversione cui viene sottoposta la traccia elettronica (Marra 2006, pp. 43 e sgg.). Le affermazioni secondo cui l’avvento del digitale avrebbe messo in crisi, falsificandolo, il legame originario della fotografia con la realtà si sono rivelate, dunque, ampiamente infondate proprio analizzando gli usi primari del mezzo. Le foto di famiglia che attestano viaggi o certificano i momenti topici nella vita dell’individuo all’interno del nucleo di appartenenza non hanno certo risentito della maggiore facilità o rapidità nella manipolazione o alterazione digitale. Lo stesso può dirsi di quanto avviene nella foto-documento di reportage; la manipolazione e l’uso distorto dell’immagine fotografica sono sempre esistiti, soprattutto nei casi in cui potevano far leva sulla caratteristica precipua di un mezzo che costituzionalmente era in grado di certificare e attestare la veridicità di un accadimento.

Questo passaggio tuttavia, seppure di enorme portata a vari livelli (si pensi a quello che ha significato per la comunicazione sociale o anche per la produzione industriale), non ha certo decretato la fine della fotografia quanto piuttosto «un ragionevole processo di trasfigurazione culturale che comunque non intacca l’identità essenziale del mezzo» (Marra 2006, p. 24). A tale proposito è illuminante quanto osservato da Jeff Wall, certamente il principale esponente della staged-photography e dunque tra i sostenitori dell’immagine artificialmente ri-creata: «Non penso che le tecniche e le tecnologie digitali avranno così tanto effetto sulle funzioni tradizionali del reportage come la gente pensa. Il reportage continuerà ad essere valido ed affidabile come è stato finora; la manipolazione sarà presa per ciò che vale e i due aspetti non saranno confusi tra loro come qualcuno teme» (J. Estep, Picture making mean­ing. An interview with Jeff Wall, 2003; trad. it. in Marra 2006, p. 38). Il superamento della doppiezza riconosciuta, il fatto cioè che la fotografia non si presenti più, come abbiamo già ricordato, né come oggetto storico né come oggetto estetico, né come qualcosa di oscillante tra realtà e finzione, ha trovato la sua realizzazione nel momento in cui l’immagine fotografica è divenuta un oggetto teorico fondato sulla sua eterogeneità, sulla sua «condizione strutturale di copia», di multiplo senza originale – carattere già presente ma fortemente accentuato nell’era digitale, disponibile persino a «frantumare la presunta unità dell’originale ‘stesso’ in nient’altro che un insieme di citazioni» (Krauss 1999; trad. it. 2005, p. 49). Ancora una volta, però, il superamento della specificità ha coinciso con momenti uguali e contrari ma comunque ‘scandalosi’ per la vita e lo sviluppo del mezzo. Da un lato, la fotografia si è trovata improvvisamente al centro dell’attenzione di musei, di istituzioni pubbliche e private, della critica e del collezionismo, con prevedibili ripercussioni sul mercato dell’arte contemporanea; dall’altro invece, a seguito della diffusione di video e di apparecchi di varia natura per la produzione di immagini digitali (telefoni cellulari, webcam, piattaforme ludiche ecc.), la fotografia ha perso definitivamente il proprio ruolo-guida in tutti i comportamenti legati alla pratica sociale. Si è rivelata, come è stato più volte evidenziato, sempre più ‘leggera’, fluida e mobile ma soprattutto disposta a giocare con le modalità di produzione, in continuo aumento, con i supporti più vari e adattabile, in tal senso, a tutte le arti. Si è affermata come un mezzo proteiforme in un contesto sempre più indifferenziato e sensibile, in ogni manifestazione, agli spostamenti di senso. In una situazione mutevole come quella descritta si è consolidata negli stessi attori della vicenda un’idea del produrre immagini assimilabile, per molti versi, alla condizione esistenziale del personaggio descritto dallo scrittore padovano Giulio Mozzi nel libro Nuovo cimitero a Chioggia: progetto, testi, fotografie (2000), catalogo della mostra di Guido Guidi (n.1941) e Michele Buda (n. 1967). «L’uomo che fotografa il cielo cerca cose che gli altri non vedono […] Ma quelle cose sono troppo veloci – appaiono per un attimo solo – e quando l’istantanea si ferma, prende forma, appare sempre e solo un quadrato azzurro. L’uomo che fotografa il cielo però non si dà per vinto. Sa che prima o poi il suo cielo apparirà […]» (p. 38).

Bibliografia

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