FOTOGRAMMA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Fotogramma

Bruno Di Marino

Il f. cinematografico (frame), preso autonomamente rispetto alla concatenazione di immagini che compongono la pellicola del film, non si discosta da una semplice fotografia e si può considerare come l'unità minima dell'inquadratura cinematografica. Ed è proprio a questo primo livello di riproduzione analogica che il cinema evidenzia i suoi legami con la tecnica fotografica. Ogni singolo f. contiene una porzione di immagine, un frammento di azione che solo in fase di proiezione sarà ricomposto come un unicum originando così l'illusione del movimento e componendosi in una inquadratura. Nella maggior parte dei casi i f. sono separati tra loro da un'interlinea orizzontale (frame line). L'interlinea non sussiste nella pellicola 16 mm e nel formato Cinemascope (v. formati). Ai lati, invece, il f. è delimitato dalle perforazioni, il cui numero varia a seconda del formato della pellicola (una perforazione nel 16 mm, quattro nel 35 mm, cinque nel 65 mm e nel 70 mm). La velocità di svolgimento di un'azione e la durata complessiva di un film sono date innanzitutto dalla velocità di scorrimento (cadenza) dei f. per ciascun secondo (f./s) in fase di proiezione. Dal cinema delle origini fino alla comparsa del sonoro, tale velocità di scansione era variabile (nella maggior parte dei casi 16 o 18 f./s); con l'avvento del sonoro è aumentata a 24 f. al secondo. Qualora un film venga telecinemato (trasferito cioè su supporto elettronico) per la messa in onda televisiva, la cadenza deve essere infine di 25 f. al secondo. Nel caso di sequenze accelerate o riprodotte al ralenti già in fase di ripresa, il numero di f./s nella ripresa può diminuire o aumentare. Vi sono sofisticate macchine da presa che possono dilatare la velocità di registrazione fino a migliaia di f./s (si pensi, per es., alla sequenza dell'incidente automobilistico in Quattro mosche di velluto grigio, 1971, di Dario Argento, o alle immagini per l'installazione video di Bill Viola The greetings, 1995).

A ogni singola inquadratura corrisponde una serie di unità fotogrammatiche il cui numero varia rispetto al metraggio di pellicola impressionata corrispondente alla durata delle riprese. Ogni f. contiene quindi entro i suoi bordi tutto ciò che il regista ha deciso di ritagliare della parte di realtà che ha davanti, il cosiddetto profilmico. Tutto il resto diventa conseguentemente fuori campo e può essere documentato da una fotografia di scena. Ma in ciò si evidenzia la differenza tra riproduzione cinematografica da un lato e riproduzione fotografica di una inquadratura dall'altro. Una fotografia scattata sul set potrà infatti simulare un'inquadratura, ma non potrà mai corrispondere esattamente al punto di vista della macchina da presa. Soltanto un'immagine stampata a partire dal f. di un film può garantire che si tratta della riproduzione esatta di un'inquadratura. Il f. insomma è la documentazione di un preciso punto di vista, di una scelta operata dal regista, rispetto alla molteplicità degli sguardi messi in atto nel film. Vi sono casi in cui una serie di unità fotogrammatiche contiene più inquadrature, per esempio quando riproduce la dissolvenza incrociata (v. dissolvenza), ovvero il momento simultaneo e fluido di passaggio da un'inquadratura all'altra. Sempre all'interno di una stessa serie di f. possono inoltre coesistere due o più inquadrature nettamente separate (split screen), registrate in tempi e luoghi diversi.Il f. può variare di formato, secondo valori determinati dal rapporto base per altezza. La dimensione classica corrisponde ai 3/4 (1:1,33). Successivamente si sono imposti altri formati quali l'1:1,66, l'1:1,75 e l'1:1,85 (chiamati comunemente panoramici), l'1:1,88 (Vistavision), l'1:2,35 e l'1:2,55 (Cinemascope) e altri. Nel caso del Cinemascope, un formato che prevede la compressione dell'immagine nel f. e che dà luogo a un allungamento delle figure, viene applicata in fase di proiezione una lente anamorfica che corregge l'immagine, in modo che gli elementi inscritti nel f. riacquistino la loro forma naturale.

In passato, un formato particolare di pellicola come il citato Vistavision (ben presto sostituito dal 65 mm) era basato sulla riproduzione orizzontale dei fotogrammi. Si trattava di doppi f. a 8 perforazioni che avevano una resa superiore rispetto al Cinemascope grazie alla doppia superficie di esposizione. Il doppio f. era utilizzato un tempo su formati come l'8 mm (in pratica un 16 mm) e il 16 mm (ovvero un 32 mm). Una volta sviluppata, la pellicola veniva tagliata in due parti e poi giuntata. Tale procedimento ‒ adottato per ridurre la dimensione delle apparecchiature e i tempi di lavorazione ‒ in certi casi ha stimolato delle scelte di tipo estetico. Alcuni cineasti sperimentali hanno costruito i loro film su f. raddoppiati: un esempio è Ciao-ciao (1967) di Adamo Vergine, in cui si vedono nell'inquadratura contemporaneamente 4 f. (2 per la ripresa di sinistra e 2 per quella di destra).In sede di proiezione, ai vari formati descritti corrispondono altrettanti tipi di mascherino capaci di nascondere tutto ciò che è estraneo alla rappresentazione (lo spazio oltre i bordi del f., la banda sonora ecc.) incorniciando ulteriormente i margini del fotogramma. Dunque c'è uno scarto tra l'immagine stampata effettivamente sulla superficie della pellicola e l'immagine realmente proiettata. Molto spesso, quando il proiezionista sbaglia mascherino, compaiono in campo i microfoni utilizzati sul set per la presa diretta. Il f. quindi può contenere al suo interno un elemento che rivela la natura del cinema come artificio. Ci si trova di fronte a un vero e proprio paradosso del f.: una porzione di fuori campo inclusa nell'immagine, seppure destinata preventivamente a restare invisibile allo spettatore.

Vi sono alcuni ambiti cinematografici nei quali il f. acquista un ruolo particolarmente significativo. Per es., il cinema d'animazione che ha sempre lavorato sul singolo f., adottando la tecnica del passo uno (single frame o stop motion shot): a seconda della velocità che si vuole dare al movimento, ciascun disegno viene ripreso per la durata di un certo numero di fotogrammi. Il campo dove si lavora direttamente sul f. è però quello del cinema realizzato 'senza macchina da presa', ovvero dipinto a mano su pellicola. L'autore è obbligato a misurarsi con lo spazio ristretto del frame, aiutandosi con una lente di ingrandimento. Ciò è possibile principalmente nel caso della pellicola 35 mm, i cui f. hanno un'ampiezza maggiore rispetto all'8 mm e al 16 mm. Nell'esempio del cinema astratto tuttavia, il f. può risultare concettualmente neutralizzato, qualora non si rispetti la linea di scansione. La pittura su pellicola diventa così un flusso continuo non circoscritto dalla rigida gabbia del singolo frame. Alcuni esempi sono i film del canadese Norman McLaren (Begone dull care, 1949) o dello statunitense Stan Brakhage (Mothlight, 1963, realizzato con fiori e ali di falena pressati tra due strati di pellicola trasparente inseriti nella stampatrice ottica). Brakhage tra l'altro ha affermato che i suoi film potrebbero essere visti sia a 16 sia a 24 f. al secondo. Indipendentemente dalla natura figurativa o astratta di un'immagine, è possibile creare un flusso iconografico che metta a dura prova la percezione dell'osservatore; rispettando la cornice del f. è sufficiente inscrivere in ciascun frame una diversa immagine. Tale tecnica è stata adottata da Robert Breer, esponente di punta dell'animazione sperimentale, in film come Recreation (1956-57) o 66 (1966). Nell'ambito del lavoro sul singolo f. in un certo senso il cinema si avvicina alla pittura, in quanto ciascun f. rappresenta un unicum (ancor più di una sequenza a disegni animati che costituisce una variazione sul tema), e allo stesso tempo costituisce un ritorno alla fotografia, in quanto ogni frame è uno scatto a sé stante così che il movimento è dato esclusivamente dalla rapida successione delle immagini.

Il lavoro sul singolo f. ‒ indipendentemente dall'utilizzo di tecniche basate sulla ripresa a fasi ‒ è anche il terreno di congiunzione tra il cinema d'animazione e un certo cinema sperimentale (v.), chiamato generalmente strutturale. Si tratta di film, secondo la definizione di P. Adam Sitney (Structural film, in "Film culture", 1969, 47, pp. 1-10), basati su alcune caratteristiche quali l'immobilità della macchina da presa, l'effetto stroboscopico (cioè la scomposizione del movimento di un soggetto nelle sue diverse fasi, spesso invisibili a occhio nudo, ottenuta illuminandolo ripetutamente con speciali lampeggiatori), la ripetizione esatta e consecutiva di una stessa inquadratura, la ri-registrazione di immagini proiettate sullo schermo. In generale questo tipo di cinema esplora le infinite possibilità della pellicola come supporto e in quanto elemento strutturale di base. Molte opere sono addirittura concepite attorno a precise regole matematiche. Anche per questo il numero esatto di f. risulta estremamente importante per dare senso alle sperimentazioni. I film astratti dell'artista italiano Luigi Veronesi, realizzati tra la fine degli anni Trenta e gli anni Cinquanta (in gran parte dispersi), erano appunto basati sulla serie di Fibonacci, applicata al numero di f. che costituiscono le diverse inquadrature, e nella quale ogni termine, fissati i primi due, è la somma dei due che lo precedono (0, 1, 1, 2, 3, 5, 8…).

È chiaro che la perdita anche di un solo f. in una copia ricavata dall'originale compromette la corretta visione dell'opera. Così un film come Serene velocity (1970) dello statunitense Ernie Gehr è costruito su un esatto calcolo di f. e montato direttamente in macchina, cioè nella fase di ripresa pianificata in questo senso. L'obiettivo inquadra il corridoio di un edificio moderno, geometricamente asettico, da un punto di vista posto a distanza mediana, quindi allarga e restringe continuamente lo zoom scattando 4 f. per volta. Al termine del film lo spettatore ‒ ormai del tutto frastornato da questa ossessiva e ipnotica alternanza di vicino/lontano ‒ vedrà sovrapporsi per effetto della persistenza dell'immagine sulla retina, le due opposte vedute: il totale del corridoio e il piano ravvicinato del fondo.

L'austriaco Peter Kubelka è un altro di quei cineasti che hanno attribuito grande valenza sia alla matericità del film sia alla sua armonia strutturale. Adebar (1956-57, composto da 1664 f.) o Schwechater (1958, contenente 1440 f.) sono il frutto di uno studio approfondito sui valori di ritmo, durata, composizione in rapporto a ogni singolo f., anche se partono, innanzitutto, dalla necessità di ripensare il concetto di movimento. Il cineasta viennese mette in discussione proprio l'idea che il cinema sia composto di immagini in movimento. Per lui "il fotogramma, mentre viene proiettato, non si muove" (Masi 1995, p. 17). Potremmo affermare che Kubelka si sofferma sul f. e non concepisce né l'inquadratura né la sequenza (che appartengono già alla drammaturgia cinematografica). Il fatto che in quasi mezzo secolo Kubelka abbia realizzato poco più di 50 minuti di cinema fa capire quanta importanza egli attribuisca a un semplice frame in quanto elemento basilare del linguaggio filmico e totalizzante rispetto all'intera estetica cinematografica. Un altro celebre film di Kubelka, Arnulf Rainer (1958-1960, formato da 9216 f.) rappresenta una tappa ancora più estrema nell'indagine su questa unità minima. Si tratta di un'opera basata unicamente su f. bianchi e neri alternati. A essa si può affiancare The flicker (1966) di Tony Conrad, anch'esso composto da una serie di frame bianchi e neri, posizionati però a distanza assai maggiore e con effetti percettivi diversi. Nello stesso anno lo statunitense Paul Sharits realizzò Ray gun virus, altro esperimento basato su f. monocromi di diversi colori. Questo e altri film di Sharits, sotto la sigla 'Frozen film frame', in diverse occasioni sono stati esposti in forma di strisce di pellicola sulla parete. Stessa sorte è toccata ai film di Conrad e di Kubelka. La fruizione statica e spaziale di tali 'film-oggetto', anziché la loro visione dinamica e temporale sullo schermo, oltre a mettere in evidenza la struttura rigidamente matematica dei film, attribuisce al f. un rilievo del tutto inedito, che va al di là del semplice supporto. Il f. monocromatico è stato poi adottato in due casi al di fuori del cinema strettamente sperimentale: Blue (1993), ultimo lungometraggio del regista inglese Derek Jarman (un coraggioso film narrativo senza immagini, dove il blu uniforme dello schermo è riempito unicamente da dialoghi, suoni e musica) e Branca de neve (2000) del portoghese João César Monteiro, composto in gran parte da f. neri, interrotti di tanto in tanto da inquadrature di cielo, su cui viene recitato un testo di Robert Walser. Un'operazione del genere l'aveva già tentata nel 1930 Walter Ruttmann con Weekend, definito all'epoca film radiofonico. Utilizzando f. trasparenti che in proiezione si traducevano nel puro spazio dello schermo luminoso, il cineasta tedesco riusciva a raccontare una gita domenicale soltanto attraverso effetti sonori.

Il fatto che ciascun istante di un film sia riducibile a un f., ovvero a un frammento isolabile dal contesto, risulta in alcuni casi evidente grazie al fermo-immagine. Il corrispettivo inglese, freeze-frame, ha tuttavia acquistato negli ultimi decenni (e sempre in relazione a un uso sperimentale dell'immagine) una più ampia connotazione. Non ci si trova di fronte a un semplice blocco del f., ma a una tecnica che procede per f. congelati, capaci di mostrare solo alcuni passaggi di un'azione. Questo tipo di congelamento operato sulla riproduzione di un movimento reale ha come scopo quello di rendere irreale la sequenza, di marcare la sua dimensione atemporale, oppure di scandire in modo dettagliato le varie fasi di un avvenimento. Il più classico fermo-immagine è invece solitamente utilizzato alla fine del film come, per es., nell'ultima inquadratura di Les 400 coups (1959; I quattrocento colpi) di François Truffaut e può essere anche adottato per arrestare improvvisamente la narrazione (in Romanzo popolare, 1974, di Mario Monicelli l'escamotage è marcato dalla voice over autoironica di Ugo Tognazzi).

Non dissimile è l'inserimento di una vera e propria fotografia all'interno di una sequenza cinematografica. Anche qui si tratta dell'arresto di un flusso di immagini in movimento. Ciò che Rosalind Krauss chiamerebbe il fotografico (Le photographique, 1990; trad. it. 1996) è dato in questo caso dalla marcatura dello statuto fotogrammatico del cinema, dal ritorno a un grado zero della scrittura filmica, quindi da un azzeramento linguistico e storico (fase pre-cinetica). Esistono però opere composte esclusivamente da istantanee che ripropongono obbligatoriamente il binomio fotografia/fotogramma. La jetée (1962) di Chris Marker è il più noto esempio di film realizzato con tante foto. La singolarità del mediometraggio del cineasta francese consiste nel fatto che si tratta di un'opera a carattere narrativo, a differenza di documentari sul tipo di Processioni in Sicilia (1964) di Michele Gandin, basato sulle fotografie di Ferdinando Scianna, o di film sperimentali come Anonimatografo (1972) di Paolo Gioli, in cui vengono 'animate' fotografie d'epoca. Tutti questi procedimenti sono ottenuti mediante truka, tecniche di ri-fotografia, dispositivi ottici e di stampa ecc., e impongono un'ulteriore riflessione sul cinema inteso come arte della fotogrammatura (v. anche fotografia).

La componente metariflessiva del cinema in molte circostanze è messa in luce proprio attraverso lo svelamento della struttura del fotogramma. La gag di Wolf, che fuoriesce dall'inquadratura debordando oltre la perforazione della pellicola in Dumb-hounded (1943) del celebre cartoonist statunitense Tex Avery, rappresenta una splendida rottura dell'illusione scenica. In Onboro firumu (1985, Film male in arnese) del disegnatore giapponese Tezuka Osamu, il cowboy buono e il bandito cattivo si inseguono arrampicandosi sulle interlinee che separano un f. dall'altro. Nel video musicale 7 days (2000) diretto da Max e Dania, il cantante Craig David, premendo un semplice bottone, interrompe l'azione, fuoriesce dal f., riavvolge la pellicola, quindi rientra in scena e può rimediare a una gaffe che gli sarebbe stata fatale. Diverso è il caso di Standard gauge (1984) di Morgan Fisher, interamente dedicato all'analisi dei diversi tipi di pellicola. Oltre a f. di film scorrono sul banco ottico scarti, codes, start, commentati dalla voice over del filmmaker, che ricostruisce una sua personale idea dei rapporti tra cinema di ricerca e cinema di consumo.

Con il passaggio prima all'elettronica e poi al digitale, non ha più senso parlare di f., ma si dovrebbe ragionare solo in termini di inquadratura. Il frame lascia il posto allo still. Il f. inteso in senso letterale, come traccia visibile sul supporto, è ormai destinato a scomparire, essendo irrimediabilmente legato alla fase analogica, al rapporto della stampa su pellicola. Resterà solo la sua traccia virtuale, numerica, catturabile attraverso un software e modificabile all'infinito.

Bibliografia

P.A. Sitney, L'avanguardia del cinema americano, in New American Cinema. Il cinema indipendente americano degli anni Sessanta, a cura di A. Aprà, Milano 1986, pp. 77-114.

R. Tritapepe, Le parole del cinema, Roma 1991, pp. 100-102.

S. Masi, Peter Kubelka, Napoli 1995.

B. Di Marino, Macchine dello spazio, in "Segnocinema", 1997, 88, pp. 2-5.

J.L. Burford, Robert Breer, Paris 1999.

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