Fotoperiodismo

Enciclopedia del Novecento (1978)

Fotoperiodismo

Gaspare Mazzolani

di Gaspare Mazzolani

Fotoperiodismo

sommario: 1. Introduzione. 2. Cenno storico. 3. La scoperta del fotoperiodismo.  4. Definizioni. 5. Sviluppo e risultati delle ricerche sul fotoperiodismo. a) Risposte fotoperiodiche, carattere della induzione fotoperiodica, periodo giovanile e maturità a fiorire. b) Esigenza di basse temperature per la fioritura e vernalizzazione. c) Sito di percezione e trasporto del florigeno. d) Fitocromo e qualità della luce. e) L'orologio biologico, i ritmi endogeni e la misura del tempo.  6. Recenti indirizzi e prospettive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Quasi tutte le regioni della Terra, a eccezione di quelle equatoriali, sono soggette a cambiamenti stagionali del- l'ambiente con un ciclo annuale della temperatura, dell'illuminazione, delle precipitazioni. Alla periodicità - in certi casi con oscillazioni assai forti - delle condizioni climatiche corrisponde, negli organismi viventi, una periodicità di attività biologiche, congiunta a modificazioni adattati- ve che permettono loro di superare i periodi in cui l'ambiente è sfavorevole e di assicurare la sopravvivenza delle specie.

Questi fenomeni ritmici, a base genetica ed ecologica, pur ricorrendo in tutti gli organismi, sono più netti e di rilevanza evidente nel mondo vegetale, nel quale la manifestazione stagionale più appariscente è la transizione dalla fase vegetativa a quella riproduttiva. Essa è caratterizzata, nelle piante superiori, da un fenomeno spettacolare, la fioritura, che è il processo periodico più intensamente studiato. La sua induzione dipende da speciali meccanismi, dei quali i più importanti e specifici sono il fotoperiodismo e la vernalizzazione. Le espressioni dell'attività biologica degli organismi si ripetono con regolarità in definite epoche dell'anno: esse si riferiscono all'attitudine a regolare metabolismo e comportamento su una base temporale che presuppone l'esistenza di dispositivi fisiologici immaginabili come contatori, detti orologi biologici, mediante i quali gli organismi sono capaci di ‛misurare il tempo'.

Il fotoperiodismo divenne un principio positivo della biologia nel 1920 e fu subito accettato universalmente per l'ineccepibilità dei dati su cui era fondata la sua formulazione e per la sua intrinseca suggestività. In questo articolo vengono trattati, in particolare, i fenomeni fotoperiodici del mondo vegetale (per gli animali, v. ritmi biologici).

È nozione comune che le piante, nel corso dell'evoluzione, si sono distribuite sulla superficie della Terra secondo un modello profondamente influenzato dal clima, e che gli eventi che preparano e mettono in moto i meccanismi che precedono il passaggio dalla fase di accrescimento vegetativo a quella riproduttiva sono in stretto rapporto con la loro stratificazione, o zonazione, naturale in altitudine e in latitudine.

La distribuzione delle piante in altitudine obbedisce in primo luogo alle imposizioni della temperatura. Quanto alla loro distribuzione nel senso della latitudine, il fattore che esplica l'influenza determinante, la luce, rimase di fatto insospettato fino al 1920. In quell'anno, due ricercatori dell'U.S.D.A. (United States Department of Agriculture), G. W. Garner e H. A. Allard, pervennero a stabilire che la fioritura, insieme con altri processi dello sviluppo e dell'accrescimento delle piante, è controllata dalla variazione stagionale della durata relativa del giorno e della notte. Nella prima pubblicazione che fecero sull'argomento (v. Garner e Allard, 1920) chiamarono il fenomeno ‛fotoperiodismo'. Il termine suggerisce che la durata giornaliera delle ore di luce controlli la fioritura; più tardi, tuttavia, altre esperienze mostrarono che le reazioni che misurano il tempo sono ‛reazioni oscure', molto sensibili in certi casi (ne sono un esempio molte piante brevidiurne) quando può bastare un solo minuto o qualche secondo di illuminazione a metà del periodo oscuro per inibire la fioritura.

Diversi altri processi della vita vegetale (produzione di bulbi, tuberi e stoloni; forma, colore, caduta delle foglie; quiescenza; tipo di ramificazione, ecc.) sono controllati dalla lunghezza del giorno. Le risposte fotoperiodiche vengono in genere classificate rispetto alla fioritura, data la conoscenza molto più estesa che si ha di questo processo.

Dopo la scoperta del fotoperiodismo nelle piante, si trovò che esso è operante anche negli animali, nei quali gli eventi periodici stagionali più cospicui sono le migrazioni degli uccelli, la riproduzione, la diapausa, l'ibernazione, i cambiamenti della pelliccia e del piumaggio.

2. Cenno storico

Durante tutto il sec. XIX, ricorrenti osservazioni casuali avevano messo in luce che le condizioni di temperatura negli stadi giovanili di sviluppo delle piante superiori possono condizionare la formazione delle strutture riproduttive; ma le scarse notizie sui comportamenti che sarebbero stati attribuiti al fotoperiodismo restarono curiosità note solo ad alcuni botanici e orticoltori, pur nella generica consapevolezza, avvertita dai tempi più remoti, dell'influenza che la luce e i fattori climatici esercitano sull'accrescimento e sulla fruttificazione delle piante.

La prima ipotesi che la distribuzione naturale delle piante potesse essere funzione, oltre che della temperatura, della durata dell'illuminazione diurna secondo la latitudine, risale a Henfrey (v., 1852). Circa trenta anni dopo, Kjellmann (v., 1885) riferì su esperienze eseguite al circolo polare artico, sulle coste siberiane ove d'estate la luce è continua, per studiare gli effetti della durata del giorno sulle piante. Successivamente, Bailey (v., 1893) e Rane (v., 1894) introdussero l'impiego delle lampade elettriche, da poco inventate, per allungare artificialmente la durata del giorno nelle serre, e videro che i trattamenti potevano accelerare la crescita (lattuga) e provocare la fioritura precoce (spinacio). Queste esperienze, come quelle successive di Schimper (v., 1903) e di altri, consideravano soprattutto la durata delle condizioni utili allo svolgimento della fotosintesi.

Le prime ricerche specificamente riferite alle relazioni tra illuminazione e fioritura furono pubblicate nel 1912 da J. Tournois (v., 1912). Questi si propose di chiarire perché la canapa e il luppolo fioriscono abbondantemente se piantati in primavera, ma restano allo stato vegetativo se piantati alla fine della primavera o in estate. Egli osservò che le piante producevano i boccioli fiorali prontamente se esposte a giorni corti e riuscì a farle fiorire precocemente con un regime d'illuminazione di sei ore di luce al giorno. Si trattava di ‛una risposta al giorno breve', che Tournois interpretò come dovuta a scarsezza di materiali di riserva.

Nel 1913, G. Klebs dimostrò che, purché fossero illuminati per alcuni giorni con luce artificiale continua anche durante la notte, era possibile far fiorire d'inverno alcuni semprevivi (Sempervivum funkii, S. albidum), la cui epoca normale di fioritura è in giugno. L'induzione alla fioritura non si poteva, secondo Klebs, attribuire alla temperatura più favorevole; infatti, altre piante in serra, non trattate con ore supplementari d'illuminazione, non avevano differenziato le gemme a fiore. Doveva, dunque, essere la lunghezza del giorno (ore di luce) la responsabile dell'epoca della fioritura dei semprevivi. In essi, Klebs aveva osservato ‛una risposta al giorno lungo' e notato la rilevanza per la fioritura delle temperature invernali e della lunghezza del giorno, concludendo che in natura la fioritura è probabilmente determinata dal fatto che a partire dall'equinozio (21 marzo) la lunghezza del giorno aumenta. Quand'essa raggiunge una certa durata, si hanno i primordi della fioritura. La luce è probabilmente un fattore più catalitico che nutritivo (v. fig. 1).

Tale conclusione, nella quale si riconosce alla luce una funzione non semplicemente nutritiva, è significativa in quanto Klebs era il più autorevole esponente della teoria nutritiva, che aveva elaborato a partire dal 1892.

Molto prima di lui, J. von Sachs (v., 1880-1882 e 1885) si era interessato agli stessi problemi, proponendo una veduta fisiologica del processo di fioritura e l'esistenza nella pianta ‛di sostanze formatrici di organi e di fiori' che riteneva fossero presenti nelle piante in piccola quantità, probabilmente come stereoisomeri di normali metaboliti, e potessero modificare le sostanze componenti le piante, determinando distinti modelli morfologici.

L'ipotesi di Sachs, in lunga polemica con H. Vöchting per le loro divergenze sugli effetti della luce e l'influenza dei carboidrati nella fioritura, non resse al vaglio sperimentale. Tuttavia le idee sulle sostanze da lui preconizzate mantennero un perdurante interesse per circa mezzo secolo, finché non ne fu dimostrata la sostanziale fondatezza con la scoperta delle auxine (F. W. Went, 1928).

Le ricerche, che precedettero la scoperta del fotoperiodismo e ne anticiparono la comprensione, furono fortemente influenzate dalla preminente importanza che si dava ai fattori nutritivi. Klebs considerava decisivo l'equilibrio tra carboidrati e sostanze nutritive inorganiche, al quale riteneva si dovesse attribuire una funzione essenziale nel raggiungimento della ‛maturità a fiorire' (Blühreife), un concetto che espresse (v. Klebs, 1913) per intendere che la pianta deve, attraverso uno stadio giovanile, raggiungere un certo grado di sviluppo per essere atta a passare dalla fase vegetativa a quella riproduttiva.

Nella teoria di Klebs, la funzione delle sostanze nutritive (zuccheri formati per fotosintesi e composti azotati assunti dal terreno) era fondamentale, e i suoi studi furono orientati per parecchi anni a dimostrare che le condizioni necessarie per la fioritura sono favorevoli anche per la fotosintesi, mentre un'abbondante nutrizione minerale, specialmente azotata, avrebbe stimolato la vigorosa crescita vegetativa e inibito la fioritura.

Fra i seguaci della teoria nutritiva, E. J. Kraus e H. K. Kraybill (v., 1918) prospettarono la veduta (rassomigliante a quelle di Klebs) che la fioritura nelle piante superiori sarebbe controllata non tanto dalla quantità assoluta dei carboidrati, quanto dal loro rapporto con le sostanze azotate (rapporto CN). Il favore che questa visione incontrò, determinando anche notevoli applicazioni pratiche in agricoltura, non impedì che la teoria nutritiva, che rimase in auge dal principio del secolo per oltre una trentina di anni, venisse superata quando, dopo la scoperta del fotoperiodismo, si vide che la fioritura delle piante sotto diverse condizioni fotoperiodiche ne contraddiceva alcuni presupposti principali. Infatti fu dimostrato che, indipendentemente dalla loro reazione fotoperiodica, tutte le piante contengono più carboidrati in condizioni di giorno lungo e più composti azotati, ai contrario, in condizioni di giorno breve: perciò non sembra vi sia una definita relazione fra idrati di carbonio e sostanze azotate all'inizio del processo di fioritura.

L'opera scientifica di Klebs fu interrotta dalla morte, avvenuta prematuramente nel 1918, l'anno in cui diede la completa enunciazione della teoria nutritiva. Contemporaneamente, O. Gassner (v., 1918) segnalava che le forme invernali dei cereali debbono trascorrere un certo periodo a bassa temperatura per poter fiorire. Questo comportamento, che le differenzia dalle forme primaverili, detto da Gassner ‛termoinduzione', era stato osservato anche da Klebs, il quale aveva notato che la barbabietola da zucchero e altre specie biennali possono restare per anni allo stato vegetativo se tenute costantemente in serra calda, mentre fioriscono prontamente e completano il ciclo biologico già nel primo anno ove siano sottoposte, per un periodo più o meno lungo (da alcuni giorni a diverse settimane) a bassa temperatura (1-8 °C). Tale germinazione al freddo fu sperimentata da Maximov a partire dal 1923, ma il metodo si impose con grande risonanza nell'URSS col nome di ‛iarovizzazione' proposto da T. D. Lysenko (v., 1928), successivamente latinizzato in ‛vernalizzazione' (v. Whyte e Hudson, 1933). Va ricordato, indipendentemente dall'affare Lysenko (v. evoluzione: L'evoluzionismo nella cultura del XX secolo), che una tecnica di vernalizzazione era già stata descritta da J. H. Klippart (v., 1858) nell'Ohio.

Gassner aveva cercato d'interpretare la termoinduzione che consiste, in sostanza, nella risposta delle piante alla bassa temperatura e nella fioritura in risposta al giorno lungo, ma non riuscì a chiarirne il significato in quanto non era ancora stato identificato il requisito aggiuntivo proprio delle piante biennali, che sono adattate a fiorire in risposta a entrambi i fattori citati, cioè bassa temperatura seguita da giorni lunghi. Gli sviluppi delle ricerche, specie sull'effetto che la temperatura durante la germinazione lascia indelebilmente nelle piante agli effetti della fioritura, sarebbero sfociati nella corrente di studi che si sviluppò quando, acquisiti ormai i principi del fotoperiodismo, si profilarono, a partire dal 1928, le conoscenze sulla regolazione ormonale dell'accrescimento, che fecero ritornare attuali le sostanze formatrici di organi e di fiori preconizzate da Sachs (v. botanica).

Nel 1918 erano disponibili le informazioni essenziali sul fotoperiodismo e la vernalizzazione. La loro portata non fu però realizzata dai vari studiosi (Klebs, Tournois, Gassner, ecc.), che pure ne scoprirono aspetti fondamentali.

3. La scoperta del fotoperiodismo

Il merito di avere scoperto il fotoperiodismo è universalmente riconosciuto a W. W. Garner e a H. A. Allard. Essi lavoravano da parecchi anni a un programma di allevamento vegetale e miglioramento genetico di piante agrarie presso la Stazione di Industrie Agrarie di Beltsville (Maryland) e si erano particolarmente interessati all'abito di fioritura.

In una coltura di tabacco (Nicotiana tabacum) era comparso, nel 1906, un mutante al quale avevano dato il nome di Maryland Mammoth perché cresceva vegetativamente tutta l'estate fino a più di tre metri di altezza, producendo grandi foglie e senza fiorire. Quando la stagione, in autunno, diventò troppo fredda per la coltura all'aperto, ricavarono dalle piante del mutante talee da coltivare in serra. Gli individui così ottenuti fiorirono in dicembre, quand'erano alti circa un metro e mezzo, meno della metà delle piante madri; dai loro semi, fertili, nacquero nuove piante della varietà mutata.

Studiando l'eredità del carattere ‛non-fioritura', che il tabacco Maryland Mammoth presenta nelle condizioni naturali, Allard identificò nel 1919 un fattore rilevante per l'emergente concetto del fotoperiodismo. Incroci con varietà di tabacco a fioritura estiva mostrarono che quel carattere è recessivo: le piante F1 fiorirono tutte in estate, ma alla F2 le piante allevate in fotoperiodo lungo fiorirono per il 75% e per il 25% restarono allo stato vegetativo. Si trattava, quindi, di una mutazione per un solo paio di alleli. L'analisi fattoriale per il tabacco Maryland Mammoth fu fatta, più tardi, da Lang (v., 1942).

Un'altra delle piante studiate da Garner e Allard era la soia (Glycine max var. Biloxi), che veniva sperimentata con altre varietà (Peking, Tokyo, Mandarin) nel tentativo di graduarne la maturazione e, quindi, il raccolto. Benché avessero piantato i semi in epoche diverse, le piante di soia var. Biloxi fiorivano tutte in settembre-ottobre, indipendentemente dalla data della semina, effettuata scalarmente da maggio ad agosto. La statura delle piante e il numero dei giorni necessari per arrivare alla formazione delle gemme fiorali diminuivano col progredire dell'epoca della semina (v. fig. 2; v. tab. I).

Nelle loro esperienze, Garner e Allard avevano preso in esame diversi fattori ambientali: in particolare, le variazioni di intensità luminosa, di temperatura, di umidità, non avevano prodotto alcun effetto sulla fioritura. Infine, sfiduciati e quasi controvoglia, provarono a variare la durata del giorno, allungandolo o abbreviandolo. I risultati furono sorprendenti: il tabacco della varietà Maryland Mammoth fioriva d'estate se sottoposto a giorni brevi della stessa durata di quelli invernali in dicembre, e comunque più brevi di 14 ore di luce; d'inverno restava invece allo stato vegetativo se si allungavan,o le giornate brevi invernali con ore supplementari di luce portandole, con illuminazione artificiale, a oltre 14 ore. La soia var. Biloxi, a sua volta, fioriva in serra d'inverno, anche quando le piante erano molto piccole.

Sulla base di queste e di molte altre esperienze su piante coltivate e su specie spontanee, i due ricercatori stabilirono (v. Garner e Allard, 1923) che, indipendentemente dalle altre condizioni ambientali (purche' non estreme per la sopravvivenza), alcune piante fiorivano se il giorno veniva allungato, altre se il giorno veniva abbreviato. V'erano, infine, piante che agli effetti della fioritura erano indifferenti alla lunghezza del giorno.

Un tratto notevole della scoperta di Garner e Allard fu che la semplicità dei principi che enunciarono apparve subito come un elemento unificatore della comprensione della natura. Essi denominarono ‛brevidiurne' le piante che per fiorire richiedono che il giorno non ecceda una certa lunghezza e ‛longidiurne' quelle che hanno l'esigenza opposta; furono, poi, dette ‛neutrodiurne' le piante che fioriscono senza apparente relazione con la durata del giorno.

Negli anni seguenti le risposte di fioritura furono ampiamente studiate in molte piante e ben presto fu evidente che i tre tipi fondamentali di risposta, rappresentanti le manifestazioni più tipiche e frequenti dell'abito di fioritura delle piante, costituiscono una generalizzazione e non sono sempre tassative, ma che la situazione è in effetti più varia e complessa.

Lang (v., 1965) distingue sette tipi di risposta fotoperiodica: oltre alle piante ‛brevidiurne', ‛longidiurne' e ‛neutro-diurne', vi sono, sebbene in numero molto minore, piante ‛longi-brevidiurne', piante ‛brevi-longidiurne' (che richiedono giorni lunghi seguiti da giorni brevi e viceversa), piante ‛mediodiurne' o ‛stenofotoperiodiche' (che richiedono rigidamente giorni di lunghezza intermedia) e ‛piante anfifotoperiodiche' (che richiedono solo giorni lunghi o solo giorni corti, ma non giorni intermedi). Nella tab. II è riportato un elenco di piante che manifestano le diverse risposte, con l'indicazione degli Autori che per primi ne hanno studiato e definito il comportamento.

4. Definizioni

Il termine di fotoperiodismo ha un significato collettivo e impreciso, che può generare confusione con altri fenomeni. Garner e Allard lo coniarono dandogli il senso di ‛risposta della pianta alla lunghezza relativa del giorno e della notte', che rispecchiava le risultanze dei loro esperimenti e la loro originaria interpretazione dei fenomeni fotoperiodici.

Accade tuttora di trovare, in certe pubblicazioni superficiali, distinzioni arbitrarie delle piante in brevidiurne e longidiurne, ove si definiscono le prime come quelle che fioriscono se soggette a periodi di illuminazione inferiori a 12 ore, le seconde come quelle che fioriscono se soggette a periodi di illuminazione superiori a 12 ore. Ciò è del tutto errato: nel fotoperiodismo ha importanza primaria la nozione di ‛regolazione' o ‛sincronizzazione' (timing) della durata e della successione dei periodi di luce e di oscurità.

Le seguenti definizioni permettono di fissare il significato dei principali termini fotoperiodici: a) ‛fotoperiodismo': la risposta delle piante alla regolazione della successione dei periodi giornalieri di luce e di oscurità; b) ‛fotoperiodo': la durata giornaliera dell'illuminazione; c) ‛pianta brevi-diurna': la pianta che, per essere indotta a fiorire, richiede un fotoperiodo più breve di una certa lunghezza critica; d) ‛pianta longidiurna': la pianta che, per essere indotta a fiorire, richiede un fotoperiodo maggiore di una certa lunghezza critica; e) ‛induzione fotoperiodica': l'esposizione della pianta al trattamento fotoperiodico dal quale risulterà la risposta di fioritura, anche se dopo il trattamento, che in genere è irreversibile, la pianta viene restituita a condizioni fotoperiodiche che, di per sé, non ne avrebbero determinato la reazione; f) ‛ciclo fotoinduttivo' o ‛periodo di induzione': l'alternanza ottimale delle condizioni giornaliere di luce e di oscurità; g) ‛stimolo fotoperiodico': lo stimolo ambientale, o il fattore interno, a cui la pianta è suscettibile quando si trova nello stato indotto; h) ‛iniziamento della fioritura': la percezione del condizionamento fotoperiodico che determina i cambiamenti per cui un apice meristematico si differenzia a fiore.

Durante e dopo l'induzione fotoperiodica, nelle gemme nulla si manifesta che possa essere immediatamente rilevato morfologicamente anche dal più esperto istologo. Solo qualche tempo dopo l'induzione fotoperiodica, improvvisamente, ha inizio il differenziamento delle gemme fiorali. Si ha quindi, all'inizio del processo di fioritura, una fase percettiva, fisiologica (flowering initiation); ad essa segue una seconda fase, nella quale si osservano modificazioni morfologiche dell'apice vegetativo che si differenzia gradualmente in gemma fiorale e poi in bocciolo fiorale. Questa seconda fase si può suddividere convenzionalmente in più stadi.

I cambiamenti per cui un apice meristematico diventa fiorale, e la sua evoluzione in fiore, si seguono dall'inizio sezionando le gemme. La separazione tra il passaggio della gemma alla fase riproduttiva e la comparsa delle iniziali fiorali è alquanto arbitraria. In certi casi, in cui il materiale si presta, si possono caratterizzare stadi successivi del differenziamento a fiorire. Come esempio, si riporta, nella fig. 3, A e B, la sequenza delle fasi distinte da F. B. Salisbury (1955) all'inizio del differenziamento dell'infiorescenza staminifera di Xanthium.

Alcuni hanno proposto la dizione di pianta ‛longinotturna' (in luogo di brevidiurna) e di pianta ‛brevinotturna' (in luogo di longidiurna), dato che, salvo eccezioni, la durata della notte (periodo oscuro) ha, come si è accennato, importanza determinante; nello stesso senso alcuni hanno suggerito (v. per es. Čajlachjan, 1968) il termine di ‛fotonictoperiodismo', in luogo di fotoperiodismo.

Non si deve ritenere che, per esempio, le piante brevi- diurne fioriscano comunque in seguito a trattamento foto- periodico (o nelle condizioni fotoperiodiche naturali) comprendente una durata del giorno più breve di quella che può indurre la fioritura nelle piante longidiurne; e viceversa per queste ultime. Ciò che conta è la lunghezza del giorno (o della notte) critica di ogni pianta, da accertarsi sperimentalmente. Per chiarire con un caso concreto, si può confrontare il comportamento della brevidiurna Xanthium pennsylvanicum e della longidiurna Hyoscyamus niger (v. fig. 4). Xanthium ha un fotoperiodo critico di circa 15,5 ore ed essendo brevidiurna ‛obbligata' fiorisce a tutte le lunghezze del giorno inferiori a 15,5 ore di luce: essa richiede inoltre tassativamente, per essere indotta alla fioritura, almeno un solo ciclo fotoinduttivo con un periodo di oscurità non inferiore a 8,5 ore. Hyoscyamus ha un fotoperiodo critico di circa 11 ore, ed essendo longidiurna fiorisce a tutte le lunghezze del giorno superiori a lì ore e anche in luce continua. In fotoperiodi compresi tra il e 15,5 ore possono fiorire entrambe le piante, nonostante le loro distinte richieste fotoperiodiche.

Caratteristica delle piante longi-brevidiurne e brevi-bngidiurne è che le prime non fioriscono sotto fotoperiodo breve continuo, le seconde sotto fotoperiodo lungo continuo. Inoltre, le piante fotoperiodiche ‛obbligate' o ‛qualitative' hanno una precisa richiesta critica e restano permanentemente allo stato vegetativo in tutte le condizioni diverse da quelle indispensabili per l'induzione alla fioritura (brevidiurne Xanthium, Chenopodium; longidiurne Hysocyamus, Avena, Lolium); in altre, dette fotoperiodiche ‛quantitative', la fioritura si ottiene preferibilmente in certe condizioni di giorno breve o lungo, ma può in definitiva avvenire anche in condizioni di durata del giorno non ottimali (brevidiurne Cannabis, Cosmos, Oryza; longidiurne Lactuca, orzo, segale e grano primaverili). Fotoperiodiche ‛condizionali' sono dette le piante che, in determinate condizioni (di temperatura, di livello di ioni rame, ecc.) non manifestano più richieste fotoperiodiche assolute (brevi-diurne: tabacco Maryland Mammoth, Ipomoea, Lemiza perpusilla; longidiurne: alcune varietà di spinacio). Le richieste induttive minime di alcune piante sono indicate nella tab. III.

Fra le piante che hanno una richiesta induttiva minima cui segue una risposta strettamente qualitativa sono Xanthium, Chenopodium, Hyoscyamus. Non sembra vi sia correlazione tra richiesta induttiva e carattere della risposta (qualitativa o quantitativa). Anche la persistenza dell'induzione è variabile: gli estremi si trovano da un lato nella soia, in cui la risposta di fioritura (indicata dal numero dei nodi portanti primordi fiorali) è proporzionale al numero di giorni brevi (oltre il primo) di induzione (v. Hamner, 1940; v. fig. 5) e, se questa è sospesa, la pianta ritorna alla fase di accrescimento vegetativo; dall'altro in Xanthium pennsylvanicum (v. Hamner e Bonner, 1938) e in Perilla ocymoides (v. Lona, 1946; v. Zeevaart, 1958), nelle quali l'induzione, una volta soddisfatta, perdura per tutta la vita della pianta. In altri casi, si hanno gradi variabili di persistenza. Un comportamento analogo a quello della soia è stato osservato da P. Chouard (v., 1949 e 1950) nelle longidiurne Anagallis arvensis e Circaea lutetiana.

5. Sviluppo e risultati delle ricerche sul fotoperiodismo

Il passo decisivo compiuto da Garner e Allard con la dimostrazione che la durata dell'illuminazione è un fattore critico del controllo di processi fisiologici, tra cui quello di fioritura, e con la formulazione della teoria fotoperiodica, costituì anche la conclusione di una linea di pensiero iniziata con Sachs e giunta con Tournois, Gassner e Klebs all'identificazione degli elementi principali della nuova generalizzazione.

La letteratura sul fotoperiodismo divenne presto copiosa e le ricerche relative, svolte in Germania, Russia, Olanda, Stati Uniti, Italia e altri paesi, oltre a confermare l'interpretazione di Garner e Allard, determinarono una grande estensione, ma anche alcune limitazioni, dei principi del fotoperiodismo. Per la quantità dei dati e dei fatti acquisiti e per la difficoltà di riassumerli in breve, occorre tenersi ai punti generali ed essenziali. Va ricordato, intanto, che le indagini sul fotoperiodismo si basarono dapprima, per circa trent'anni, su esperimenti cinetici, riguardanti l'osservazione degli effetti ottenuti variando singoli fattori (luce, temperatura, sostanze nutritive, regolatori dell'accrescimento, ecc.); tra il 1950 e il 1955 entrarono decisamente nella fase biochimica, per poi indirizzarsi, da ultimo, anche nel campo genetico e al livello molecolare.

In natura, l'attività degli organismi è necessariamente dipendente sia dal ciclo diurno di luce e oscurità di 24 ore, con le sue varianti e oscillazioni locali e temporali, sia dalle condizioni nutritive; l'uno e le altre possono eventualmente essere di tale natura da impedire la riproduzione.

Mediante il fotoperiodismo e la vernalizzazione, le piante suddividono l'anno in epoche definite, distinguono le stagioni, regolano l'accrescimento, fanno coincidere i processi riproduttivi con momenti favorevoli e li completano prima dell'inizio di periodi avversi, conformando a questi ritmi la fioritura di intere popolazioni e ordinando su di essi il successivo periodo di riposo.

Tutto ciò comporta l'esistenza di meccanismi regolativi, che ‛sentano' e misurino il tempo.

Un'idea dell'esattezza dell'aggiustamento fotoperiodico della fase riproduttiva e dell'importanza della sua sincronizzazione si ricava: a) dai casi di fioritura che talora tutte le piante della stessa specie hanno simultaneamente, su aree vastissime, dopo anni (talora parecchi decenni) di crescita vegetativa (Arundinaria falcata, Corypha umbraculifera, Bambusa arundinacea); b) dai casi di ritardo a fiorire e di mancata fioritura di altre specie fuori del loro habitat nativo (per es., Agave americana fiorisce dopo 8-10 anni nell'areale di origine, ma impiega venti-settanta anni nell'Europa meridionale e giunge a non fiorire andando più a nord, prima di scomparire dalla flora); c) dai casi di accentuata sensibilità che alcune piante hanno acquisito rispetto alla durata del giorno o alle oscillazioni termiche nelle regioni dove le variazioni naturali di tali fattori sono molto piccole: per es., il riso (Oryza sativa), pianta tropicale, ha una risposta fotoperiodica con l'accuratezza di 5 minuti, mentre nell'orchidacea Dendrobium crumenatum un abbassamento di temperatura di 4-5 °C (che può prodursi durante un acquazzone) induce l'immediato sviluppo delle giovani iniziali fiorali in un gran numero di individui e così ne sincronizza la fioritura su aree molto estese.

Se una specie ha un'area di diffusione assai vasta, con i limiti boreale e meridionale a latitudini notevolmente diverse, si trova che spesso si sono differenziati, nel suo interno, ecotipi a risposte fotoperiodiche diverse (Lolium temulentum, Solidago sempervirens) e, a volte, graduate, con la presenza di forme progressivamente distinte, da brevi-diurne obbligate a sud, a longidiurne quantitative verso nord.

L'ampio contesto d'informazioni sul fotoperiodismo accumulatosi in oltre cinquant'anni, frequentemente su specie vegetali d'importanza economica in vista di applicazioni pratiche, lascia tuttavia il numero delle piante fin qui fotoperiodicamente caratterizzate del tutto esiguo; ancora pressoché inesplorato è, poi, il mondo delle piante inferiori. Le ricerche fotoperiodiche, stimolate dalla possibilità d'immediate e redditizie applicazioni, presentano, d'altra parte, difficoltà di vario genere, sia perché si articolano in molte direttrici di lavoro su parecchi aspetti fisiologici, morfologici e applicativi, sia perché richiedono (oltre a quelli di un efficiente istituto botanico) più o meno grandi e in ogni caso costosi mezzi e attrezzature specifiche (serre e celle climatiche, in complessi fino ai veri e propri fitotroni; locali con accurato controllo delle condizioni ambientali e nei quali si possano attuare diversi regimi fotoperiodici e variazioni quantitative, qualitative e di durata dell'illuminazione). Questi complessi sono stati realizzati in alcuni centri speciali di ricerca e in certe stazioni agrarie sperimentali negli Stati Uniti d'America, in Olanda, ecc. In ogni caso, restano sempre alcune restrizioni in quanto è per esempio, assai difficile ottenere bande spettrali monocromatiche di luce, di elevata intensità, su superfici abbastanza estese per il trattamento di piante intere; ed è praticamente impossibile sperimentare su piante di grandi dimensioni, come alberi maturi. La maggior parte delle esperienze è stata fatta con piante erbacee e quelle più studiate sono le brevidiurne, la cui conoscenza è molto migliore di quella delle longidiurne e degli altri tipi fotoperiodici. Nonostante l'impiego di tanti ricercatori e la rilevanza di molti risultati, il chiarimento dei meccanismi che presiedono al passaggio delle piante dalla fase vegetativa a quella riproduttiva costituisce tuttora uno dei compiti più importanti e affascinanti della biologia vegetale.

Un contributo di grande rilievo alla sua soluzione è venuto dalla scoperta del ‛fitocromo', il pigmento azzurro al quale è stata attribuita una funzione essenziale nel meccanismo di sincronizzazione delle risposte delle piante alla luce. Il fitocromo è una cromoproteina, il cui gruppo prostetico è una ficobilina, affine ai pigmenti biliari e a quelli specifici delle Alghe azzurre e rosse, e che, perciò, chimicamente è un complesso tetrapirrolico a catena aperta (a differenza della clorofilla e dell'eme in cui la catena pirrolica è ciclizzata); esso è presente nelle piante in almeno due forme diverse, una presumibilmente inattiva, che si designa con Pr (Phytochrome red), l'altra attiva, che si indica con Pfr (Phytochrome far-red), le quali assorbono entrambe nella regione visibile dello spettro con massimi la prima intorno a 660 nm (rosso=R), la seconda intorno a 730 nm (estremo-rosso=ER), sono interconvertibili l'una nell'altra secondo lo schema

Formula

e la conversione è ripetutamente reversibile sotto l'effetto della luce di λ appropriata.

Come già nel 1920 per il fotoperiodismo, anche per il fitocromo furono i ricercatori della Stazione di Industrie Agrarie di Beltsville, Md., a cogliere un altro successo scientifico, con una scoperta che da quasi trent'anni è un punto primario di riferimento per le questioni relative ai più importanti processi fisiologici delle piante (morfogenesi, germinazione, quiescenza, fotoperiodo, ecc.). Dopo il 1920, per parecchi anni erano state studiate le richieste fotoperiodiche delle piante, specialmente per ciò che riguarda la successione delle ore di luce e di oscurità, ai fini, anzitutto, della fioritura. Nel 1938, Hamner e Bonner trovarono che, nella brevidiurna Xanthium pennsylvanicum, l'inizio della fase riproduttiva è regolato più dalla durata del periodo di oscurità che da quello di luce e che, se il periodo di oscurità sufficiente a indurre la fioritura viene interrotto a circa metà con una breve illuminazione di adeguata intensità, l'induzione a fiorire è annullata e la pianta non fiorisce.

Queste osservazioni posero diversi problemi. Secondo le leggi della fotochimica, solo la luce assorbita è efficace per determinare cambiamenti chimici (‛legge di Grotthus-Draper') e ogni fotone assorbito può attivare una sola molecola (‛legge di Stark-Einstein'). La quantità di energia luminosa necessaria a interrompere il periodo oscuro (notte) e utile a inibire la fioritura è abbastanza piccola, notevolmente minore di quella richiesta per la fotosintesi. Vari esperimenti nel campo del fotoperiodismo dimostrarono pure che le piante, entro certi limiti piuttosto ampi, obbediscono alla legge detta di reciprocità, o dell'equivalenza fotochimica, secondo la quale in un processo fotochimico l'efficacia è funzione della quantità totale di energia luminosa assorbita. Si assume che la pianta possa assorbire e assommare l'energia luminosa assorbita per un tempo anche abbastanza lungo, prima che si producano cambiamenti nell'organismo, fino, cioè, al raggiungimento di una soglia oltre la quale la risposta può manifestarsi; inoltre, si ammette che, se una data quantità di energia ha un certo effetto, entro limiti sui quali peraltro vi sono ancora molte incertezze, tale effetto possa essere constatato sia con una illuminazione breve e intensa, sia con un'esposizione alla luce lunga e di debole intensità.

Nessuna delle risposte delle piante utilizza in pieno l'intensità luminosa massima della luce solare; per alcune, come quella di fotomorfogenesi, molte piante rispondono a intensità luminose di gran lunga inferiori (10-8 μwatt/cm2 è la soglia per l'effetto fotomorfogenetico del primo internodo di Avena) a quelle percepibili dall'occhio (v. fig. 6). Mentre l'occhio risponde in una frazione di secondo, nella pianta si può misurare la risposta dopo un certo tempo di esposizione: si ammette che essa avverta attimo per attimo l'intensità della luce incidente e la assommi fino a raggiungere le condizioni per la fotoreazione e si ritiene, poi, che esista uno stato di saturazione luminosa al di là del quale (anche con fortissime intensità luminose) non si ottiene più alcuna risposta.

La legge di equivalenza, o di reciprocità, può essere studiata interrompendo, in momenti diversi, il periodo oscuro (notte) con luce di varia intensità e durata. I ricercatori di Beltsville affrontarono il problema determinando la quantità di luce, somministrata a metà della notte, necessaria per inibire la fioritura delle brevidiurne Xanthium e Glycine max; nelle ore centrali del periodo oscuro la legge risultò verificata. Tuttavia, regna molta incertezza circa la quantità di luce occorrente per la saturazione dei pigmenti, per la durata dell'irradiazione e per le intensità luminose fisiologicamente utili, né si dispone di un'interpretazione unitaria plausibile del comportamento delle piante al riguardo. Ricerche su materiali biologici indicano che la legge dell'equivalenza non è più valida per intensità di luce assai elevate e per tempi molto lunghi.

Nel 1937, L. A. Flint e M. D. McAlister avevano studiato, alla Smithsonian Institution di Washington, l'effetto della luce monocromatica sulla germinazione di semi di lattuga. In alcune varietà, che non germinano al buio, avevano visto che essa, nei semi inibiti, è nettamente stimolata dalla luce rossa (R) di λ=600-690 nm e marcatamente inibita dalla luce estremo-rossa (ER) di λ=720-800 nm.

Borthwick, Hendricks e collaboratori, analizzando accuratamente gli effetti qualitativi della luce, fecero l'importante scoperta che le radiazioni rosse ed estremo-rosse hanno effetto ‛antagonistico' se somministrate l'una immediatamente dopo l'altra; che l'una annulla l'effetto dell'altra e che, ferma restando la ripetuta reversibilità, l'effetto efficace è quello della radiazione data per ultima.

Se una molecola assorbe luce, deve essere colorata: è, cioè, un pigmento, di colore complementare di quello delle radiazioni che assorbe; al limite, un pigmento che potesse assorbire le radiazioni visibili di tutti i colori, dovrebbe essere nero.

Il gruppo di Beltsville, cercando di ottenere informazioni sul meccanismo di controllo della fioritura, all'inizio degli anni quaranta mise a punto le tecniche per ricavare spettri d'azione (determinazione delle bande spettrali fisiologicamente attive) e, tra l'altro, riuscì a ottenere uno spettro molto grande, di circa 2 m, che permise di esporre alla luce dei vari colori una sola foglia di ciascuna di una serie di piante della stessa specie e di rilevare le risposte. (Per quanto presente anche negli organi verdi, ove le clorofille e gli altri pigmenti possono alterarne le proprietà di assorbimento, il fitocromo si può rilevare meglio negli organi e nelle parti incolori, come semi, piantine eziolate). Si stabilì così che sia nelle piante brevidiurne (Xanthium, soia), sia (successivamente) nelle longidiurne (orzo, giusquiamo) v'è un effetto massimo nella regione del rosso (λ= 620-680 nm, con un picco intorno a 660 nm), una diminuzione nell'ER oltre λ=700 nm (minimo a = 730 nm) e un leggero effetto nel blu a λ=400 nm circa. Un siffatto spettro d'azione si adattava allo spettro di assorbimento di un pigmento simile a una ficobilina (v. fig. 7). Gli spettri d'azione per le brevi-diurne (v. Parker e altri, 1946) e per le longidiurne (v. Borthwick e altri, 1948; v. Parker e altri, 1950) risultarono simili, oltre che fra loro, a quelli del fotocontrollo della morfogenesi nelle piante eziolate e della rimozione degli effetti dell'eziolamento (pisello, fagiolo, orzo albino, ecc.) oltre che a quelli della germinazione, nella quale fu dimostrato chiaramente l'antagonismo e la reversibilità degli effetti della luce rossa ed estremo-rossa (v. tab. IV): da ciò discendeva, in definitiva, la constatazione della ‛unicità' del pigmento. Con tali verifiche delle interazioni R-ER, si concretò la concezione che il fitocromo, nelle sue due forme interconvertibili sotto l'effetto delle bande luminose rossa ed estremo-rossa, rappresenta il sistema regolatore di molti processi fisiologici che S. B. Hendricks (v. ,1959) così elencava: a) fioritura, fotoperiodo; b) germinazione dei semi; c) germinazione delle spore delle felci; d) allungamento (foglia, picciolo, fusto); e) distensione della curvatura della plumula; f) sintesi di pigmenti (antociani, ecc.); inoltre, informazioni più limitate indicavano che il fotocontrollo reversibile opererebbe anche nei fenomeni di: g) epinastia; h) abscissione delle foghe; i) formazione dei bulbi; 1) formazione dei punti di Caspary (nell'endodermide); m) produzione di rizomi; n) filloidia; o) succulenza; p) espressione del sesso; q) sviluppo delle radici; r) rotture cromosomiche dopo trattamento con raggi X; s) formazione di plastidi; t) rigenerazione della protoclorofilla.

Il fitocromo, essendo una proteina, si comporta probabilmente nella pianta come un enzima. Esso è molto largamente distribuito nelle piante superiori e forse è presente anche in molti gruppi di piante inferiori: non è escluso che sia ubiquitario. Il numero dei processi in cui è coinvolto non implica che la pianta risponda egualmente per tutti; del resto, l'esistenza di vari tipi fotoperiodici indica che per alcune di esse non v'è un controllo fotoperiodico ovvio e uniforme della fioritura, ma che possono rispondere in altri modi. Ciò è vero specialmente per le piante neutrodiurne, nelle quali il controllo della fioritura non è netto, ma che talora hanno semi fortemente fotosensibili o rispondono alla luce per altri dei fenomeni suelencati (allungamento internodi, ecc.).

La scoperta del fitocromo e le conoscenze sulle sue proprietà e attività hanno dato al fotoperiodismo (e alle questioni correlate) un'unità concettuale mettendo al tempo stesso in evidenza diversi aspetti tuttora irrisolti. Per dare un quadro delle acquisizioni e della situazione presente, si tratteggiano nelle linee principali i seguenti argomenti: a) risposte fotoperiodiche delle piante, carattere dell'induzione fotoperiodica, periodo giovanile e maturità a fiorire; b) esigenza di basse temperature e vernalizzazione; c) sito di percezione e trasporto dello stimolo fotoperiodico; ormone fiorigeno; d) fitocromo; e) orologi biologici, ritmi endogeni e misura del tempo.

a) Risposte fotoperiodiche, carattere della induzione fotoperiodica, periodo giovanile e maturità a fiorire

La fig. 8 riassume le principali risposte fotoperiodiche delle piante brevidiurne e longidiurne. La definizione delle richieste delle piante in fatto di lunghezza del giorno (lungo o breve) fu la prima a essere studiata dopo la scoperta del fotoperiodismo. Ci si domandò, tra l'altro: quale parte del ciclo giornaliero di luce e oscurità (giorno e notte) e quale loro durata relativa determinano le risposte? quale organo della pianta percepisce lo stimolo fotoperiodico? qual'è la natura di esso? quali reazioni luminose e oscure sono messe in moto dall'induzione fotoperiodica e da quali di esse dipende, in definitiva, la fioritura? quali altri fattori possono influenzare, e in che modo, il processo della fioritura?

Le piante brevidiurne hanno di norma l'esigenza assoluta di un ‛periodo oscuro critico' non inferiore a una certa durata e ‛ininterrotto'; al contrario, le piante longidiurne non solo non hanno tale esigenza, ma possono fiorire anche in luce continua. Se le piante longidiurne sono assoggettate a un periodo oscuro (notte), che ecceda una certa lunghezza (12 ore o più), la loro fioritura è inibita e restano allo stato vegetativo (v. fig. 8, C-D, F, H; v. tab. V).

La durata della notte ha un effetto profondo tanto sulla fioritura delle longidiurne, quanto su quella delle brevidiurne; a questa constatazione si deve che si sia parlato di piante ‛longinotturne' (per le brevidiurne) e di ‛brevinotturne' (per le longidiurne). Per esempio, Hyoscyamus niger non fiorisce in cicli di 12 ore Q più di luce alternati con periodi oscuri di 12 ore, ma fiorisce in cicli alternati di 6 ore di luce e 6 ore di oscurità (v. Lang e Melchers, 1943). Questi autori, oltre a determinare le risposte fotoperiodiche (v. fig. 9), dimostrarono che l'effetto inibitorio di periodi lunghi di oscurità non dipende solo dall'assenza della luce, ma da processi che si svolgono nelle foglie e che sono influenzati anche dalla temperatura. Infatti, piante di giusquiamo ‛defogliate' formarono gemme fiorali anche in giorno breve e in completa e continua oscurità, ma l'effetto inibitorio del giorno breve si ristabiliva reinnestando anche una sola foglia su una pianta defogliata. L'induzione alla fioritura è inoltre favorita dall'abbassamento e rallentata dall'aumento della temperatura: infatti, la lunghezza critica del fotoperiodo passa da 8,5 ore a 15,5 °C, a 11,5 ore a 28,5 °C.

Nelle piante brevidiurne il periodo di oscurità ininterrotto e non inferiore alla lunghezza critica è condizione sine qua non per la fioritura. L'interruzione della notte anche per un solo minuto di luce dell'intensità di circa 1500 lux a metà di un periodo oscuro di 9 ore è sufficiente a sopprimere la fioritura in Xanthium pennsylvanicum (v. Hamner e Bonner, 1938); lo stesso trattamento, invece, promuove la fioritura nelle longidiurne. Si è, dunque, di fronte a un paradosso, finora inspiegato, del fotoperiodismo: indubbiamente, durante l'oscurità si svolgono processi attivi che vengono interrotti e annullati da brevi periodi di illuminazione, ma gli effetti prodotti nelle piante brevidiurne e in quelle bngidiurne sono opposti.

Nel ciclo giornaliero naturale di 24 ore è evidente che una maggiore durata del giorno significa inevitabilmente una minore lunghezza della notte e viceversa. Una volta ottenute le informazioni di base sulle risposte fondamentali per stabilire se sia più rilevante l'importanza del periodo luminoso o di quello oscuro, il passo successivo fu di variare, servendosi di serre e ambienti adatti, con fonti di luce artificiale, la durata relativa dei periodi di luce e di oscurità e di vedere gli effetti di cicli luce-oscurità diversi da quello naturale di 24 ore.

Una serie di classici esperimenti di Hamner (v., 1940) su piante brevidiurne, per gli effetti sulla fioritura della lunghezza del fotoperiodo e del periodo oscuro, sono illustrati nelle figg. 10 e 11. Nel primo caso, nella soia, la risposta diveniva più accentuata allungando il fotoperiodo fino a 12 ore, per poi decrescere fino a restare inibita con fotopenodo di 20 ore, pur restando costante la notte di 16 ore. Nel secondo caso, risultò che il periodo oscuro critico, per la soia, è di circa 10 ore, ma che la più intensa risposta di fioritura si aveva con periodo oscuro di 16 ore. Analoghi esperimenti indicarono per Xanthium pennsylvanicum che il periodo oscuro critico è di circa 8,5 ore.

Gli effetti dell'interruzione della notte con brevi periodi di illuminazione in momenti diversi, studiati da Salisbury e Bonner (v., 1955), sono illustrati nella fig. 12. L'inibizione della fioritura provocata dalla luce comincia poco dopo l'inizio del periodo oscuro e aumenta progressivamente fino a essere totale quando la ‛rottura della notte' avviene a circa 8 ore dall'inizio del periodo oscuro e anche se esso prosegue successivamente.

Per le piante brevidiurne Lang nel 1939, Hamner (v., 1940), Parker e Borthwick (v., 1940 e 1943) e altri studiarono la richiesta quantitativa di luce. Essa è abbastanza elevata. Prima e dopo il periodo oscuro è necessaria a queste piante un'alta intensità luminosa, che determina soprattutto effetti fotosintetici; questa richiesta è stata chiamata ‛reazione ad alta intensità luminosa'. In Xanthium, ove l'induzione alla fioritura è determinata da una sola notte lunga, Hamner osservò che il processo avviene solo se la notte è preceduta da alcune ore di luce intensa. Che la reazione ad alta intensità sia correlata all'attività fotosintetica e, attraverso questa, a processi metabolici connessi alla fioritura, è avvalorato dal fatto che, per promuovere la fioritura, è necessaria durante il fotoperiodo la presenza di CO2 e che, in certe piante, la fioritura può avvenire in completa oscurità purché si somministrino alle foglie carboidrati in soluzione.

Queste osservazioni pongono in evidenza un altro paradosso: nelle piante brevidiurne, la luce intensa è necessaria, prima e dopo il periodo oscuro, per promuovere la fioritura che è, invece, inibita dalla luce durante il periodo oscuro stesso. In giorno lungo, alcune piante brevidiurne possono fiorire se l'intensità luminosa viene notevolmente ridotta (v. fig. 13); in tali condizioni Perilla ocymoides può fiorire anche in luce continua.

La definizione di fotoperiodismo data in origine da Garner e Allard potrebbe far pensare che, variando la successione diurna del giorno e della notte con suoi multipli o sottomultipli, si ottengano gli stessi effetti. Ciò, in generale, non si è dimostrato vero. Un trattamento di 16 ore di luce e 8 di oscurità (oppure 12 + 12 o 10 + 14) non è la stessa cosa e non produce gli stessi effetti di un ciclo di 32 ore di luce e 16 di oscurità (oppure 24 + 24 o 20 + 28).

L'impiego di cicli di 48 o di 72 ore, diversi da quello naturale di 24 ore, è stato oggetto di numerose ricerche, in relazione specialmente alla possibile esistenza di cicli endogeni circadiani, in alcuni casi fotoperiodicamente significativi.

Le risposte fotoperiodiche possono essere modificate da variabili come la temperatura, l'intensità luminosa, la qualità della luce, ecc., che agiscono prima, durante o dopo i trattamenti sperimentali e la cui azione può dipendere dall'età della pianta: ciò riconduce ai concetti di giovanilità e maturità a fiorire (v. Klebs, 1913) o di pubertà (v. Gregory, 1948) della pianta.

Gli esempi più notevoli di piante che transitano per una fase giovanile (prima di poter percepire il fotoperiodo ed essere indotte a fiorire) ricorrono tra quelle perenni legnose, che crescono vegetativamente più o meno a lungo durante un periodo giovanile che è di 5-10 anni nella betulla, di 10-15 nel lance, di 15-20 nel frassino e nell'acero, di 25-30 nella quercia rovere, di 30-40 nel faggio; nelle piante monocarpiche (che fioriscono una sola volta e poi muoiono) dura praticamente tutta la vita, protraendosi fino a 120 anni nella bambusacea Phyllostachis nigra.

La fase giovanile ha un senso più marcato nelle neutro- diurne, che sono le piante meno sensibili al fotoperiodo e dovrebbero perciò essere più frequenti all'Equatore, dove la durata del giorno e della notte, e altre condizioni, sono costanti tutto l'anno. In ambiente costante le piante neutro- diurne trascorrono prima un periodo allo stato vegetativo e poi fioriscono; perciò, il loro passaggio alla fase riproduttiva dev'essere controllato da qualche meccanismo interno, finora ignoto, non potendosi riferire a fattori ambientali. In molte piante (Gossypium, Delphinium, Hedera, Ipomoea, ecc.) la conclusione della fase giovanile (che è, peraltro, di difficile definizione, in concreto) è accompagnata da diversi cambiamenti graduali, manifesti per esempio nella forma delle foglie.

La differenza fra piante neutrodiurne (risposta nulla o attenuata al fotoperiodo) e piante fotoperiodiche (richieste più o meno precise e talora molto rigorose) sembra essere sostanzialmente quantitativa e consistere in una diversa sensibilità alle condizioni esterne. Gregory e Purvis proposero di considerare il minor numero possibile di foglie e appendici vegetative che si debbono formare prima che la pianta sia in grado di fiorire e di giudicare su questa base la durata e la conclusione della fase giovanile. Benché relativo, questo è ancora il solo metodo utilizzabile praticamente. Le ricerche in tal senso, iniziate da Knott (v., 1934) dimostrarono non solo che le piante per passare alla fase riproduttiva debbono raggiungere un certo sviluppo, approssimativamente determinabile in base al numero di foglie apparse, ma anche che le foglie sono il sito della percezione dello stimolo fotoperiodico; la sensibilità percettiva è tale che in alcune brevidiurne [Ipomoea (Pharbitis) nil] possono bastare i soli cotiledoni a permettere la fioritura (O. Kujirai e Sh. Imamura, 1958).

Esperimenti di ovvio interesse pratico, miranti a ridurre la durata della fase giovanile, sono stati fatti, per esempio, innestando rami tratti da piante adulte su soggetti giovanissimi. Due casi interessanti sono quelli dell'innesto di un pino mugo (Pinus montana) di 15 mesi su una plantula di Picea excelsa e di pino mugo su Pinus sylvestris (v. Herrman, 1951 e 1961) con il risultato della formazione di qualche cono maschile all'età di circa 2 anni invece che a quella di 10-15 anni, normalmente richiesta.

Per molti anni, la teoria nutritiva della fioritura esercitò il suo influsso sulle ricerche fotoperiodiche, imponendo rigorose dimostrazioni delle affermazioni tendenti ad attribuire maggiore importanza ad altri fattori e anzitutto alla luce.

Accurate prove comparative permisero di stabilire (e su questo v'è generale concordanza di vedute) che nelle piante fotoperiodiche la luce ha sull'inizio della fioritura effetti molto più rilevanti di quelli dovuti al livello dell'azoto. Il modo di rispondere all'azoto è stato oggetto di ricerche in base alle quali sono state distinte le piante in varie categorie: azoto-negative, azoto-positive, azoto-indifferenti (v. Čajlachjan, 1945). Le piante, indipendentemente dalla loro reazione fotoperiodica, contengono più carboidrati in condizioni di giorno lungo e più composti azotati in condizioni di giorno breve. Ciò significa, come rileva Čajlachjan (v., 1968), che non v'è una relazione definita fra carboidrati e composti azotati all'inizio del processo di fioritura. Allo stesso tempo, esperimenti sull'applicazione di fertilizzanti azotati al substrato e di soluzioni di saccarosio attraverso infiltrazione nelle foglie mostrarono altre caratteristiche del loro effetto sulla fioritura: la deficienza di azoto nei substrati nutritivi stimola la fioritura nelle piante longidiurne (orzo, avena, senape, ecc.) e la inibisce nelle brevidiurne (miglio, mais, crisantemo, tabacco, ecc.); un sovrappiù di azoto, invece, stimola la fioritura delle brevidiurne e inibisce quella delle longidiurne. L'applicazione di saccarosio inibisce nettamente la fioritura della brevidiurna Perilla e, al contrario, favorisce l'accrescimento del fusto ed eventualmente la formazione di primordi fiorali nelle longidiurne giusquiamo e Rudbeckia.

La nutrizione minerale influenza indubbiamente il tempo richiesto per lo sviluppo, la fertilità, il tipo di fiori (prevalenza di fiori carpelliferi o staminiferi) e ha, quindi, un'importanza non secondaria nel metabolismo preparatorio, ma senza condizionare l'inizio della fioritura. In questa fase il fotoperiodismo manifesta la sua natura di strumento attivo di controllo dello sviluppo. Mentre il controllo dell'accrescimento vegetativo non è induttivo, quello fotoperiodico del processo di fioritura è largamente induttivo e ha il carattere di un fenomeno del tipo ‛tutto o niente': la pianta, quando ha ricevuto il numero minimo di cicli fotoinduttivi necessari (esemplificati nella tab. VI), fiorisce di norma anche se poi viene riportata in condizioni non fotoinduttive. Il fiore, germoglio metamorfosato, è originato da un meristema ‛determinato' a primordio fiorale. Stabilire quando esattamente un meristema apicale diventa primordio fiorale, quali fattori e con quali meccanismi determinano tale destinazione irreversibile (tranne, forse, che nei primissimi stadi) è il principale problema della fisiologia della fioritura, che oggi viene intesa come il raggiungimento da parte della pianta di una soglia interna, regolata dal livello dell'ormone florigeno.

b) Esigenza di basse temperature per la fioritura e vernalizzazione

Le prospettive aperte dalle ricerche di G. Gassner (v., 1918) sulla termoinduzione in Secale cereale misero in evidenza che in certe piante - segnatamente nelle varietà invernali delle piante annuali e nelle piante biennali - il comportamento rispetto alla fioritura dipende, oltre che dalla durata del giorno, da altri fattori, come la temperatura, che esercita un'azione determinata nel senso che l'inizio della fioritura è subordinato a un periodo (naturale) o a un trattamento (artificiale) in cui esse sono esposte a basse temperature. Si tratta, in genere, di piante - spesso cereali - delle regioni temperate o temperato-fredde.

‛Vernalizzazione' è detta, in senso stretto, la tecnica, portata a grande notorietà da T. D. Lysenko nell'URSS, con cui si ottiene la fioritura di varietà invernali di cereali sottratti ai rigori dell'inverno, inumidendo moderatamente i semi in modo da determinarne la germinazione incompleta, conservandoli in questo stato per diverse settimane sotto la neve (o, comunque, a bassa temperatura) e seminandoli, infine, all'inizio della primavera. Il termine di vernalizzazione si usa anche, in senso più ampio, per intendere, genericamente, l'inizio della fioritura conseguente a un previo trattamento con il freddo. I semi trattati nel modo indicato generano piante che crescono e fioriscono come quelle delle varietà primaverili.

Lysenko formulò la ‛teoria dello sviluppo fasico' o ‛stadiale', la quale, distinguendo accrescimento da sviluppo, prevede che quest'ultimo consti nelle piante annuali di diversi stadi separati, che si succedono rigidamente (perciò ciascuno non può cominciare prima del compimento del precedente) e che hanno speciali requisiti di condizioni ambientali (di temperatura nel termostadio; di durata della luce - non di intensità - nel fotostadio) distinte e spesso molto diverse. In ogni stadio, se le condizioni necessarie a superarlo sono soddisfatte, si verificano cambiamenti qualitativi e morfologici, regolati in natura dall'andamento stagionale ma, in effetti, non immutabili e pertanto suscettibili di essere accelerati o rallentati con l'impiego di appropriate combinazioni di temperatura e di luce. In particolare il termostadio, che condiziona la riproduzione sessuale perché il suo completamento vincola la formazione degli organi riproduttivi, è ritenuto nella teoria singolarmente indipendente dall'età e dal grado di accrescimento della pianta, e tale da potersi concludere sia sulla pianta già sviluppata vegetativamente, sia addirittura nei semi appena rigonfiati. Superato il termostadio, una pianta può superare il fotostadio molto rapidamente, per esempio in luce continua.

A parte l'interesse dei fatti prospettati da Lysenko e l'importanza delle applicazioni pratiche, la teoria dello sviluppo fasico - e, in specie, la sua aspirazione a essere di portata generale - è stata contraddetta da diverse constatazioni (varietà delle risposte fotoperiodiche; devernalizzazione; ritorno di alcune piante allo stato vegetativo sotto luce poco intensa o dopo defogliazione; abito perenne di molte piante, ecc.). L'interesse delle acquisizioni verificate sperimentalmente non suffraga le restrizioni poste alla teoria stadiale dal suo autore e non giustifica le sue conclusioni sul piano genetico. L'assunto che l'ambiente possa, indipendentemente dalle mutazioni, determinare modificazioni permanenti e trasmissibili (per es., la vernalizzazione convertirebbe ereditariamente cereali invernali in primaverili) e il contesto della teoria eretto a ideologia politica, volta a far valere una concezione biologica fuori del dibattito scientifico, sono gli aspetti più singolari della vicenda di Lysenko, le cui vedute, a ben guardare, oltre che errate, appaiono più conservatrici di quelle che, negli anni in cui fu in auge, egli rimproverava alla scienza del mondo occidentale (v. evoluzione).

Le varietà invernali delle piante annuali e quelle biennali hanno bisogno del periodo a basse temperature, soddisfatto nelle prime dalla stagione invernale che segue alla semina; le seconde producono nel primo anno un apparato vegetativo a rosetta e nel secondo hanno un cospicuo allungamento degli internodi associato alla fioritura.

La maggior parte di quanto si sa sulla fisiologia della vernalizzazione si riferisce a relativamente poche specie e proviene soprattutto dalle ricerche sulla segale (Secale cereale var. Petkus; v. Gregory e altri, 1955; v. fig. 14) e sulle varietà biennali di Hyoscyamus niger (v. Melchers e Lang, 1941). Importanti contributi sono stati dati, oltre che dalla Scuola russa (Lysenko, Maximov, Marinov, Pojarkova, ecc.), da Blaauw, Wellensiek, Verkerk in Olanda; Schwabe in Inghilterra; Chouard in Francia; Napp-Zinn in Germania; Lona in Italia. Anche in questo campo è difficile un resoconto sommario per la stretta connessione di parecchi aspetti della vernalizzazione con molti altri del fotoperiodismo.

Lo stato vernalizzato si può conservare a lungo o perdere rapidamente. Una pianta vernalizzata può essere ‛devernalizzata' mediante trattamenti a temperature relativamente alte (25-40 °C) e talora può essere ancora rivernalizzata. La vernalizzazione richiede condizioni aerobiche, quindi presenza di ossigeno e carboidrati, il che indica come, pur essendo il metabolismo rallentato dalla bassa temperatura, si svolgano processi attivi, la cui natura peraltro è ignota. Nelle piante perenni v'è rivernalizzazione naturale ogni inverno. In certi casi la fioritura inizia solo a conclusione del periodo a bassa temperatura; altre volte l'esposizione al freddo deve continuare finché non siano comparsi i primordi fiorali. La parte della pianta sulla quale il trattamento è efficace può essere il seme imbibito, o la pianta intera allo stato vegetativo, o entrambi. Le piante vernalizzabili allo stato di seme manifestano una richiesta facoltativa di freddo e in genere il trattamento accelera la fioritura che, in definitiva, avverrebbe ugualmente; altre (cavoli, sedani) per divenire sensibili al freddo debbono raggiungere uno stato reattivo, dopo una fase giovanile; esse, se non vengono vernalizzate, possono crescere indefinitamente senza mai produrre getti fiorali: hanno, perciò, una richiesta obbligata di basse temperature. Ulteriori esigenze sono condizioni di giorno lungo o neutro, raramente di giorno breve, seguito da giorni lunghi, dopo la vernalizzazione.

Un caso notevole fra le brevidiurne è quello del crisantemo, che richiede la vernalizzazione prima di poter rispondere all'induzione fiorale in giorni brevi. Nelle condizioni naturali, questo requisito è soddisfatto, dopo la fioritura autunnale, dalla stagione invernale; ma non si realizza nelle colture in serra a temperatura più alta e la pianta, se non viene sottoposta al trattamento termoinduttivo, non essendo stata vernalizzata, non fiorirà l'autunno successivo, quando la fioritura può essere anticipata con regolazione artificiale del fotoperiodo.

Nelle piante annuali, l'abito invernale è considerato recessivo rispetto a quello primaverile, che non richiede vernalizzazione. Nella segale la differenza tra forme invernali e primaverili è controllata da un solo gene.

Un'importante relazione tra fotoperiodo e vernalizzazione si riscontra nelle piante biennali, che sono un esempio di adattamento evolutivamente significativo (con cospicui riflessi pratici) in rapporto alla conquista di più vaste aree di diffusione. Nel giusquiamo (in cui l'abito biennale è dominante), le forme annuali longidiurne hanno fioritura estiva nel primo anno; quelle biennali possono esser fatte fiorire anch'esse il primo anno, previa vernalizzazione seguita da giorni lunghi. Le piante biennali derivano da antenati annuali, in genere dominanti, da cui differiscono per mutazioni riguardanti spesso un solo gene.

La base fisiologica e biochimica dell'azione delle basse temperature è ancora sconosciuta. È assodato, comunque, che la vernalizzazione è percepita dalla pianta nei meristemi apicali in attiva divisione cellulare, compresi quelli dell'embrione, che può essere vernalizzato ancora sulla pianta madre pochi giorni dopo la fecondazione. Non è chiaro se la vernalizzazione si trasmetta attraverso organelli citoplasmatici capaci di autoreplicazione, o per attivazione di geni (ciò che sarebbe sostenuto dall'abbondanza di istoni e dall'aumento del numero dei mitocondri in coincidenza con l'arrivo del fiorigeno), o attraverso linee dirette di discendenza cellulare, per mitosi. In favore di questa possibilità sta il fatto che la vernalizzazione non sembra ‛diluirsi' nella pianta e che, per esempio, nella segale lo stato vernalizzato si conserva in getti di 2°, 3°, 4° ordine, la cui formazione si può stimolare per decapitazione del germoglio apicale direttamente sottoposto alla vernalizzazione. Nel giusquiamo, invece, l'innesto di una sola foglia di una pianta vernalizzata su una non vernalizzata ne determina la fioritura e ciò è stato interpretato come dovuto a uno stimolo trasmissibile: ‛sostanza B' di Purvis (v., 1934); ‛vernalina' di Melchers (v., 1939) e Melchers e Lang (v., 1941). Nel crisantemo gli innesti non sono efficaci ed evolvono a fiore solo le gemme sottoposte a trattamento localizzato a bassa temperatura.

Il processo di vernalizzazione e di risposta fotoperiodica (nei cereali con richiesta di freddo) fu concepito da Purvis (v., 1934) come un cambiamento in cui, durante il periodo a bassa temperatura si ha una reazione A B con cui da A si produce la sostanza B, forse identica alla vernalina. Successivamente, Gregory e altri (v., 1955) proposero lo schema seguente (lievemente modificato)

Formula

secondo cui la vernalizzazione porta alla sintesi di un prodotto intermedio B che, in giorni brevi e a bassa temperatura, si converte in C, e questo, al sopravvenire di giorni lunghi e di temperatura più elevata, funge da precursore di D, il cui livello regola l'inizio della fioritura. Le reazioni II.a e III competono per il substrato B e hanno un diverso coefficiente di temperatura; questa, se elevata, in giorni brevi che agevolano la controreazione C→B, favorisce la sintesi di E e la fioritura è ritardata; se, quando terminano i giorni brevi (primavera) si ha innalzamento di temperatura, sarà favorita la reazione II.b con sintesi di D, che induce la fioritura.

c) Sito di percezione e trasporto del florigeno

Fin dal 1936 Čajlachjan, dopo che Knott (v., 1934) aveva stabilito che il sito dell'induzione fotoperiodica sono le foglie, postulò l'esistenza di una sostanza, che chiamò ‛florigeno' o ‛ormone florigeno', la quale, sintetizzata nelle foglie in condizioni fotoperiodiche favorevoli, è trasmessa alle gemme, ove si attuano l'inizio (fase fisiologica) della fioritura e la formazione dei primordi fiorali (fase morfologica)

I tentativi compiuti per isolare il florigeno sono stati fin qui vani. Esso si diffonde nella pianta ed è trasferito dalle foglie agli organi recettori dello stimolo prodotto dai cicli fotoinduttivi anche attraverso parabiosi di innesto. Una quantità anche piccola di tessuto fogliare (1/8 di foglia in Xanthium) è necessaria all'induzione, che non si produce in piante completamente defogliate. La sensibilità all'induzione può dipendere dall'età della foglia.

La fig. 15 mostra gli effetti di cicli fotoinduttivi favorevoli o meno sulla brevidiurna Pharbitis nil e sulla longidiurna Hyoscyamus niger; la fig. 16 illustra gli effetti di varie lunghezze del giorno a cui furono sottoposte da Čajlachjan (v., 1945) parti diverse e porzioni diverse di una sola foglia di Perilla nankinensis.

Il florigeno si ‛diluisce' nella pianta; talora, però, non è attivo, ad es. nelle gemme laterali sotto inibizione da dominanza apicale o quando arriva a una gemma sotto l'azione di mitoinibitori (per es., 5-fluorodesossiuridina).

Lona (v., 1946) dimostrò in Xanthium che la fotoinduzione è molto persistente: trattando una sola foglia matura trovò che le foglioline della gemma ascellare giunte a completo sviluppo potevano indurre la pianta a fiorire (induzione indiretta). Successive estese ricerche di Zeevaart (v., 1958) confermarono che la fotoinduzione è ‛contagiosa in Xanthium. In questa pianta, secondo esperienze inedite di Thurlow citate da Bonner e Liverman (v., 1953), innestando in serie sei piante a due rami e fotoinducendo un solo ramo della prima, l'induzione si trasmise alle altre 5 piante. Invece, in Perilla, Zeevaart constatò che l'induzione è localizzata alle sole foglie trattate (v. fig. 17).

Sono state fatte molte esperienze per stabilire la velocità di sintesi e di trasporto del fiorigeno e i suoi posteffetti. La velocità di trasporto dello stimolo fiorale può essere notevole. Essa si svolge dalle foglie agli apici meristematici percorrendo la pianta attraverso il floema, anzitutto nel settore del fusto adiacente alla foglia indotta, come confermano esperimenti di legatura di rami, incisioni anulari, vaporizzazioni e narcotizzazioni. Lo stimolo è trasmissibile per innesto oltre che da piante brevidiurne a longidiurne e viceversa, anche tra varietà della stessa specie e tra specie, generi e famiglie diversi (v. tab. VII). Ciò indica che il fiorigeno è lo stesso per tutte le piante e che è, quindi, un principio aspecifico.

In Perilla, nel 1949, Lona ottenne il rilevante risultato di far fiorire individui in giorno lungo sui quali innestò foglie staccate da altri individui in giorno lungo o fotoindotte in giorni brevi dopo la recisione. Sempre in Perilla, nel 1950 Lona segnalò un comportamento di posteffetto, consistente nella possibilità della pianta di fiorire molto tempo dopo la fotoinduzione, anche se tenuta, una volta fotoindotta, in condizioni non induttive: la foglia sembra, perciò, poter conservare memoria del trattamento e la capacità di trasferirne gli effetti con innesti.

La fig. 18 illustra il trasferimento rapido dello stimolo fioraie in Pharbitis; la fig. 19 mostra come il florigeno si trasferisce nel tabacco Maryland Mammoth da un ramo indotto in giorni brevi a un altro tenuto in giorni lunghi; la fig. 20 riguarda il passaggio attraverso innesto dell'induzione dalla longidiurna Nicotiana sylvestris sulla quale è innestato un ramo della varietà brevidiurna Maryland Mammoth; infine, la fig. 21 mostra il trasferimento dell'induzione attraverso parabiosi d'innesto tra specie di generi diversi.

Esperimenti di Čajlachjan e Butenko (v., 1957) sul movimento del fiorigeno in foglie sottoposte a condizioni induttive e non fotoinduttive e rifornite di anidride carbonica marcata con 14C dimostrarono in Perilla che il trasporto del fiorigeno e la localizzazione dei prodotti marcati dipendono dalla posizione delle foglie indotte rispetto alle gemme terminali e ascellari (v. fig. 22).

Assai discussa è la natura del fiorigeno. Per le difficoltà che presenta la sua estrazione (e, quindi, l'identificazione chimica) si è ricorsi a vie indirette, con la ricerca di sostanze che, inibendo qualche stadio della fioritura e agendo secondo meccanismi più o meno noti su altri sistemi biologici, permettessero qualche congettura sulla natura dell'ormone e sulla biochimica dell'induzione fioraie. Certi amminoacidi (etionina, p-fluorofenilalanina) in Xanthium inibiscono la sintesi del florigeno; applicandoli in momenti e concentrazioni diversi prima, durante e dopo l'induzione, si è trovato che la loro azione è inversa rispetto a quella dei corrispondenti metaboliti metionina e fenilalanina. È stata avanzata l'idea che il florigeno sia uno steroide: l'ipotesi di un ormone fioraie di composizione simile a quella di tanti ormoni animali è indubbiamente allettante, ma non ha avuto finora adeguata convalida. In ogni modo, è stata osservata l'azione inibitoria sulla fioritura dell'antisteroide tris(2-dietilammino-etil)-fosfato, ma non si è riusciti a invertirla.

d) Fitocromo e qualità della luce

Il florigeno è un'entità ancora ipotetica; il fitocromo lo fu finché non fu isolato nel 1959. I ricercatori di Beltsville, che ne avevano postulato l'esistenza e le proprietà in base alle osservazioni sulla germinazione, ne rivelarono spettrofotometricamente i mutamenti di assorbimento, così come li avevano previsti, in risposta alle irradiazioni alternative e consecutive con luce rossa ed estremo-rossa. Tali cambiamenti furono successivamente dimostrati anche nell'analisi del processo di fioritura. Nonostante la cospicua base sperimentale, le conoscenze sui cambiamenti e le interconversioni delle forme del fitocromo sono ancora essenzialmente fenomenologiche. La fig. 23 illustra gli effetti della luce R ed ER sulla morfogenesi e sulla rimozione dell'eziolamento.

Alla fine di una giornata con luce intensa, la concentrazione del Pfr si ritiene sia relativamente alta e l'equilibrio fra le due forme è probabilmente del 50% Pfr e 50% Pr, oltre alla presenza nella pianta di una certa quantità (circa 25-30% del fitocromo totale) di forme intermedie dovute a rapide conversioni, dato che nella luce bianca vi sono le componenti rossa ed estremo-rosssa, e all'eventuale esistenza di altre forme del pigmento.

Dal 1952, Borthwick, Hendricks e collaboratori pubblicarono una serie di studi da cui risultò che, se s'interrompe con una breve illuminazione la notte minima di 8,3 ore responsabile dell'inizio della fioritura in Xanthium, la luce rossa di λ=640-680 nm è particolarmente efficace nel produrre l'effetto; inaspettatamente si accorsero che l'inibizione veniva annullata e l'effetto invertito (quindi seguiva la fioritura) da una breve esposizione immediatamente successiva alla luce estremo-rossa di λ=720-760 nm. Lo spettro d'azione per questi effetti R-ER e alcuni dati sulla loro azione antagonistica sono esposti nella fig. 24.

Quando ha inizio la notte (periodo oscuro) il fitocromo Pfr, accumulatosi di giorno, si converte gradualmente in Pr, forma utile nelle brevidiurne per il processo di fioritura, e in parte viene distrutto enzimaticamente. Secondo Hendricks, le due principali forme di fitocromo si convertono l'una nell'altra secondo lo schema della fig. 25. Una breve illuminazione con luce ER a metà della notte è, infatti, priva di effetto e non interrompe l'oscurità. Si è ammesso che la trasformazione proceda (v. fig. 26) nel senso che la conversione Pfr→Pr si attui nella notte critica fino a raggiungere una soglia oltre la quale si innescano altri processi, quello di sincronizzazione e poi quello di sintesi del florigeno.

Per la difficoltà a interpretare certe risposte, occorre tener conto che gli spettri d'azione R ed ER si sovrappongono considerevolmente (v. fig. 7) e che entrambe le forme di fitocromo hanno un picco nel blu. Alcuni cambiamenti morfogenetici rispondono a prolungate alte intensità luminose R ed ER: vengono perciò detti ‛reazioni ad alta energia', per distinguerli da quelli a breve durata, e hanno spettri d'azione del tipo di quello riportato nella fig. 27 con attività anche nel blu. Poiché, in alcuni casi, si osservano risposte al blu e all'ER, ma non al rosso, è stata postulata l'esistenza di un secondo pigmento, oltre il fitocromo.

In luce monocromatica, per esempio, Hyoscyamus niger è fotoperiodico rispetto al viola, al blu, all'ER, ma non per il rosso, l'aranciato e il verde; Lemna perpusilla ha tipica risposta brevidiurna in luce rossa, ma è neutrodiurna in luce blu o estremo-rossa. Queste constatazioni rendono ancora più ardua la formulazione di una teoria generale per il fotoperiodismo che appare, almeno in alcuni casi, condizionato anche dalla qualità della luce.

Xanthium (brevidiurna) è un esempio limite di pianta indotta a fiorire con un solo ciclo fotoinduttivo; le longidiurne, invece, non hanno bisogno di notti critiche: si deve, perciò, ammettere che in esse la fioritura sia promossa dal Pfr e che la notte breve (o mancante, in caso di luce continua) permetta loro la conservazione di un alto livello dello stesso Pfr. In alcune piante longidiurne la fioritura è stimolata fortemente da ER dato immediatamente prima del periodo oscuro, e ciò indica che il Pfr non può essere il solo fattore influente sui processi che si svolgono nell'oscurità.

La notte sembra avere la funzione di regolare il livello e la forma prevalente del fitocromo, ma questa interpretazione appare insufficiente, anche se la conversione Pfr→Pr è da ritenersi una fase importante della sequenza di processi oscuri. Pur dipendendo dalla temperatura, la conversione è assai rapida nelle brevidiurne: a 20 °C un intervallo oscuro di 30 minuti tra un lampo R e uno ER riduce di oltre il 50% la reversibilità dei loro effetti, e dopo un'ora il processo sfugge totalmente al controllo fotochimico; una certa reversibilità persiste dopo un'ora se la pianta è a 5 °C (v. Downs, 1956).

Il fotoperiodismo appare, quindi, come una reazione dovuta a interazioni di periodi ciclici di luce e oscurità, collegate al meccanismo sincronizzatore (orologio biologico) che, da un lato appare connesso all'ambiente attraverso il sistema del fitocromo, dall'altro si collega ai meccanismi, finora sconosciuti, di sintesi del florigeno, recettore comune di messaggi che nelle piante brevidiurne e longidiurne funzionano in modo opposto ma conducono, in definitiva, in entrambi i casi, alla produzione delle strutture fiorali adibite alla riproduzione.

e) L'orologio biologico, i ritmi endogeni e la misura del tempo

Le esperienze per determinare in quale periodo della notte siano più efficaci le interruzioni dell'oscurità mediante brevi illuminazioni hanno provato che raramente esso cade a metà della notte (o del periodo oscuro). Se si modifica l'alternarsi naturale del giorno e della notte con cicli di 48, 72 ore o più, la regolazione delle interruzioni dell'oscurità determina risposte che fanno supporre la presenza nella pianta di meccanismi temporizzatori controllati o, almeno, correlati a un ritmo interno.

La teoria dei ritmi endogeni persistenti (v. fig. 28) in organismi in condizioni costanti fu avanzata da E. Bünning nel 1931, studiando i movimenti nastici delle foglie. Tali ritmi sono concepiti come legati alla durata del giorno e ordinati secondo il succedersi di due fasi di circa 12 ore ciascuna, una ‛fotofila' (diurna) l'altra ‛scotofila', o ‛fotofoba', (notturna). La teoria fu poi estesa e adattata anche al processo di fioritura e lo stesso Bünning ne propose diverse varianti nel tentativo di farla concordare con le conoscenze via via intervenute (fitocromo, ecc.). Si ammette che, delle due fasi, quella fotofila promuova la fioritura e quella scotofila la inibisca; la luce, se data quando la pianta è nella fotofase, stimola sempre la fioritura, mentre se è somministrata durante la scotofase la inibisce nelle brevi- diurne ed è in genere senza effetto nelle longidiurne.

Le piante brevidiurne e longidiurne differirebbero, perciò, tra loro per il modo in cui l'inizio del giorno regolerebbe il succedersi delle due fasi e per lo stadio del ritmo endogeno in cui la pianta si trova, quando inizia l'illuminazione (v. fig. 29).

La teoria di Bünning (con le sue modificazioni) ha un fondo metafisico, nonostante i dati sperimentali su cui poggia. Bünning (v., 1948 e 1954) osservò che la luce rossa (R) è la più efficace di tutta la banda visibile nel ‛mettere in fase' l'orologio biologico e che l'induzione di tale messa a punto è reversibile con luce ER; egli affermò pure che la sensibilità alla luce durante il ritmo diurno segue una curva sinusoidale con la quale concorda il comportamento delle piante brevidiurne, sulle quali la luce è l'oscurità hanno effetto molto rapido; per le longidiurne (che fioriscono anche in luce continua) è necessario ammettere che debba trascorrere un periodo di ritardo, lungo fino a 12 ore, prima che si avvii la fase fotofila dopo l'inizio dell'illuminazione, o prima che l'effetto di quella scotofila (nell'oscurità) divenga neutro o non inibitorio della fioritura.

Secondo la teoria dei ritmi endogeni il processo di fioritura dipende da un meccanismo ‛pendolare' (un oscillatore), mentre l'ipotesi basata sulla interconversione delle forme Pfr⇄Pr del fitocromo richiamerebbe l'idea di un contatore ‛a clessidra' (un meccanismo a soglia) che funzionerebbe come una reazione chimica (sarebbe, perciò, di tipo lineare e molto sensibile alle variazioni della temperatura nelle sue risposte), e avrebbe lo svantaggio di mancare di compensazione (correzione) per la temperatura, dimostrandosi, così, di poca utilità dal punto di vista evoluzionistico. Una proprietà di questi processi periodici e di misura del tempo è, infatti, quella di conservarsi sensibilmente costanti a temperature notevolmente diverse (v. fig. 29B; v. tab. VIII); essi hanno, in genere, un coefficiente di temperatura Q10 di circa 1,2 che, tenendo conto delle variazioni termiche stagionali in rapporto alla durata del giorno, appare adeguato a che le piante percepiscano il tempo con l'approssimazione di pochi giorni durante la maggior parte dell'anno.

L'allungamento artificiale del ciclo diurno è stato impiegato (Hamner; Claes e Lang; Carr e altri) per indagare le interazioni fra ritmo endogeno e sistema del fitocromo. In alcune piante (Glycine max var. Biloxi, Kalanchöe fra le brevidiurne; Hyoscyamus niger, Lemna gibba fra le longidiurne) è stata rivelata convincentemente l'esistenza di un ritmo di variazione di sensibilità alla luce. La fig. 30 mostra come l'induzione della fioritura nella soia var. Biloxi possa dipendere da un ciclo di 24 ore o da un suo multiplo. In altre piante (Coleus fredericii, brevidiurna; Anagallis arvensis, longidiurna) non si è, invece, ottenuta tale dimostrazione.

Allo stato dei fatti, la presenza nelle piante di un riposto sistema interno di meccanismi fotoperiodici e di congegni di misurazione del tempo, il cui funzionamento è complicato dalla varietà e, talora, dalla contraddittorietà delle risposte, non permette ancora di stabilire se le fluttuazioni ritmiche siano una risposta intrinseca, del fotoperiodismo, o se il ritmo circadiano vi si sovrapponga secondariamente. Il fatto che entrambi abbiano caratteri comuni (notevole indipendenza dalla temperatura, variabile sensibilità alla luce, ritardi di fase) fa supporre anche l'esistenza di accoppiamenti complessi e labili, che tuttavia lasciano ancora sconosciuta la natura dell'orologio biologico.

6. Recenti indirizzi e prospettive

L'unità e l'integrazione dei processi vitali è stata confermata, col procedere delle conoscenze sul fotoperiodismo, dalle connessioni con altri processi; cosicché è impossibile isolare il fotoperiodismo dalla vernalizzazione, dalla quiescenza, dalla morfogenesi, dalla misura del tempo, dalla fotosintesi, dal controllo ormonale e dall'accrescimento.

Nel 1956 Lona e, subito dopo, Lang scoprirono che l'acido gibberellico (gibberellina GA3) determina la fioritura in giorni brevi di varie piante longidiurne e sostituisce l'azione del freddo in piante che richiedono la vernalizzazione (v. fig. 31) e avviarono con ciò un notevole progresso nello studio del meccanismo fotoperiodico.

Čajlachjan (v., 1958 e 1968), per integrare gli effetti delle gibberelline con le conoscenze acquisite sull'ormone florigeno, propose (adottando il termine ‛antesina' di Cholodny) l'ipotesi che la fioritura dipenda dall'azione congiunta delle gibberelline, sempre presenti nelle brevidiurne ove l'antesina si formerebbe solo in giorni brevi, e dell'antesina sempre presente nelle longidiurne in cui si avrebbe deficienza di gibberelline in giorni brevi. I risultati di molti esperimenti, escludendo che le gibberelline siano l'ormone florigeno, indicano che la loro azione sulla fioritura non è primaria e che consiste soprattutto nell'allungamento degli internodi, che sembra un prerequisito necessario per la fioritura. Numerose altre sostanze, tra cui l'acido abscissico (ABA), inibitore della crescita, alcuni ritardanti (CCC, B.9, ecc.), l'acido truodobenzoico (TIBA), l'idrazide maleica, la vitamina E, possono favorire la fioritura in alcune piante, ma nessuna combinazione di soli fitormoni naturali induce la fioritura e il problema di fondo resta sempre quello dell'isolamento dell'ormone florigeno.

Le auxine hanno un'azione negativa rispetto alla fioritura nelle brevidiurne; nelle longidiurne o non v'è reazione o l'induzione è annullata dall'applicazione di acido indolilacetico (IAA) e di altre auxine. Questi fitormoni esercitano, comunque, in alcune specie un'importante funzione di controllo della fioritura, o stimolandola o sincronizzandola (Ananas, Litchi, patata dolce), cosa molto importante dal punto di vista agricolo; inoltre influenzano, forse con la partecipazione dell'etilene, l'espressione del sesso nelle piante a fiori unisessuali (canapa, cetriolo, ecc.), con una spiccata accentuazione della femminilità.

Si ritiene che l'azione dell'ormone fiorigeno, quando raggiunge l'apice vegetativo della gemma da indurre alla fioritura, consista nell'attivazione di geni preposti al controllo del processo (v. Mohr, 1959) e al metabolismo degli acidi nucleici.

L'effetto iniziale del Pfr esplicherebbe al livello della membrana cellulare e le trasformazioni del pigmento ne modificherebbero la permeabilità con l'induzione di gra- dienti elettrochimici localizzati (v. Jaffe, 1968).

La necessità della sintesi di RNA nell'apice vegetativo durante l'induzione fioraie è stata dimostrata sia per le longidiurne che per le brevidiurne; nella fase di formazione dei primordi fiorali è necessaria anche la sintesi di DNA. Durante il periodo dell'induzione, è stata segnalata negli apici meristematici la diminuzione delle proteine istoniche. Nel 1962, Huang e Bonner, in un sistema acellulare, dimostrarono che l'aggiunta di istoni ostacola l'azione dei geni e inibisce la sintesi DNA-dipendente dell'RNA; il florigeno agirebbe quindi rimuovendo gli istoni e riattivando i geni coinvolti nella fioritura. Con l'impiego di precursori radioattivi, R. B. Knox e L. T. Evans (v., 1968) trovarono, in Lolium, che la mattina seguente all'unico ciclo induttivo sufficiente a indurre la fioritura, v'è intensa sintesi di RNA specialmente nelle cellule delle zone del meristema destinate a produrre le spighette, ma non riscontrarono una diminuzione del livello degli istoni. Con l'impiego di antimetaboliti come il 2-tiouracile e la 5-fluorodeossiuridina (FUDR), che inibiscono rispettivamente la sintesi di RNA e di DNA, si è trovato che la sintesi di entrambi gli acidi nucleici, in genere entro 12-24 ore dall'inizio del ciclo fotoinduttivo, appare un requisito necessario per l'inizio della formazione delle iniziali dei fiori.

Alcune risposte, come quelle nictinastiche, sono rapidissime (minuti) e anch'esse risultano controllate reversibilmente dal fitocromo (v. Fondeville e altri, 1966), le cui conversioni determinano in questi casi effetti assai localizzati, con cambiamenti di turgore connessi al movimento di ioni K+ tra cellule dei lati opposti dei pulvini fogliari. Ciò pone il problema di come le trasformazioni del fito- cromo influiscano sulla permeabilità delle membrane, così che ne risultino effetti sulla crescita e sullo sviluppo.

Non tutte le piante hanno controllo fotoperiodico della fioritura, pur contenendo fitocromo, dato che manifestano regolazione R-ER-controllata di vari processi morfoge- netici; si può, perciò, supporre che il fitocromo non sempre sia legato al sistema di controllo della riproduzione e che possa presiedere a fenomeni non legati alla stessa reazione primaria.

In conclusione, il fotoperiodismo offre attualmente un panorama complesso e stimolante, per gli aspetti enigmatici e i dati talora contraddittori che indicano come quasi ogni pianta abbia una sua risposta di fioritura, sollecitata da un agente o ormone - il florigeno - la cui sintesi sembra in definitiva mediata dal fitocromo.

La possibilità di controllare la fioritura è un problema d'importanza scientifica e pratica enorme; l'identificazione del florigeno e il suo isolamento, o la sintesi di prodotti analoghi, potrebbero determinare una rivoluzione senza precedenti nell'agricoltura mondiale.

Il fitocromo Pfr, che nella fotomorfogenesi determina risposte come la crescita del fusto (allungamento degli internodi) e l'espansione delle foglie, nel fotoperiodismo definisce, nelle foglie, se il metabolismo sia longidiurno o brevidiurno. Resta insoluto, per il momento, il quesito se alla base di questi comportamenti vi sia un unica reazione e se essa sia la stessa nel fotoperiodismo, nella fotomorfogenesi e negli altri processi fotocontrollati.

Gli studi sul fotoperiodismo richiedono larghi mezzi, data la natura della sperimentazione. Anche in questo campo, la ricerca tende a valersi dei metodi della genetica, della biochimica e della biologia molecolare, in un'area ove, peraltro, non è assolutamente possibile prescindere dalla base naturalistica.

La prospettiva dei prossimi anni è l'interpretazione delle interferenze che, al livello fisiologico, hanno messo in luce, dopo oltre cinquant'anni di lavoro e l'accumulo di una copiosa quantità di informazioni, un insieme di misteri provvisoriamente senza risposta.

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