BRAGADIN, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 13 (1971)

BRAGADIN, Francesco

Angelo Ventura

Nato nel 1458 da Alvise, procuratore di San Marco, e da Cecilia di Francesco da Canal, apparteneva a una delle maggiori famiglie del patriziato veneziano. Una malformazione fisica (era gobbo) non gli impedì di morire in tarda età, dopo una vita intensa tutta dedita alla politica e agli studi. Profondo conoscitore della dottrina aristotelica e molto più - a quanto pare - di quella platonica (ma sul suo orientamento filosofico gli indizi sono contraddittori e forse indicano l'assenza d'un indirizzo preciso), quando Antonio Corner. che leggeva logica, filosofia e teologia nella Scuola di Rialto in Venezia, andò podestà a Vicenza, il 16 giugno 1490 fu chiamato a sostituirlo pro tempore. Ebbe allora tra i suoi allievi l'umanista Giambattista Egnazio, al quale rimase poi sempre legato da stima ed amicizia, tanto da sostenere nel 1520 la successione a Raffaele Regio nella lettura pubblica di "umanità" alla scuola di San Marco della Cancelleria ducale, contro la candidatura di Marino Becichemo - che pur aveva precedentemente favorito per la sua chiamata, allo Studio di Padova - cercando di imporre al Senato una procedura palesemente parziale, che sollevò le critiche di Marin Sanuto.

L'elenco, certo incompleto, delle dediche e degli elogi indirizzatigli da letterati e filosofi, comprende Marcantonio Sabellico, Elia Capriolo (che dichiara di aver stampato la sua Chronica de rebus Brixianorum per il consiglio e sotto l'auspicio di lui), Marino Becichemo, il filosofo averroista Agostino Nifo da Sessa, e ancora Pietro Contarini, Antonio Fracanzani e Girolamo Bologni, che nel rendere omaggio al "sapientissimus philosophus" certo intendevano soprattutto propiziarsi uno dei più influenti responsabili della politica culturale della Repubblica.

Non soltanto, infatti, il B. ebbe un peso determinante nelle nomine dei lettori nelle pubbliche scuole di Venezia, ma si occupò anche assiduamente dell'università di Padova. Dopo la lunga parentesi determinata dagli avvenimenti bellici seguiti alla lega di Cambrai, ne sostenne vigorosamente nel 1517 la riapertura, contro quanti temevano che nel caso di rinnovate ostilità un atteggiamento antiveneziano da parte degli scolari potesse compromettere la sicurezza della città, ed ebbe gran parte nella sua riorganizzazione: per oltre un decennio numerosi decreti del Senato per la condotta di pubblici professori o per aumentarne i salari recarono la sua firma, e fu riformatore dello Studio nel 1521, 1525 e 1527.

Il suo nome ricorre di frequente tra gli intervenuti alle "conclusioni" di allievi delle scuole di Venezia; nel 1514 si occupava con fervore della sistemazione della biblioteca pubblica in cui dovevano essere collocati i libri lasciati alla Repubblica dal cardinal Bessarione, primo nucleo della Biblioteca Marciana. Al suo giudizio, ancora nel 1517, il Collegio si affidava per decidere se fosse degno di premio il poema in dieci libri composto da Francesco Modesto da Rimini in lode di Venezia. E al suo prestigio di uomo di cultura, oltre che alla sua esperienza politica, si deve senza dubbio l'elezione all'ufficio di savio sopra le Leggi, avvenuta nel 1517 e poi ancora nel 1528, quando, assieme ai colleghi Daniele Renier e Giovanni Badoer, raccolse in lingua latina le più importanti leggi riguardanti il Maggior Consiglio, traendone "il troppo e il vano".

Ma fu nella vita pubblica che il B. diede il meglio di sé, secondo la più genuina tradizione del patriziato veneziano. Provveditore alle Biade (vale a dire all'annona) nel 1497, divenne savio di Terraferma nel 1504, e alla fine dello stesso anno podestà di Brescia, donde ritornò nel febbraio del 1506 per essere eletto nuovamente savio di Terraferma. Dopo alcuni mesi fu chiamato nel Consiglio dei dieci, di cui fu anche più volte capo. Dal principio del 1507 è capitano a Verona, distinguendosi durante la guerra veneto-imperiale del 1508, quando fu inviato in breve missione a Riva con il compito di rafforzarne le difese e di rincuorarne i cittadini.

Ritornato a Venezia nel settembre di quell'anno, fu subito rieletto nel Consiglio dei dieci, e da allora sino alla morte rimase quasi senza interruzione al governo della Repubblica, alternando di anno in anno l'ufficio di decemviro con quello di consigliere ducale (la prima volta dal 1º apr. 1510), o di savio del Consiglio (la prima volta dal 1º ott. 1513, elettovi "per le gran pratiche" che aveva fatto per ottenere i voti), o almeno entrando in quelle giunte straordinarie ai savi del Consiglio, che di frequente venivano istituite per evitare che qualcuno dei patrizi più influenti e sperimentati restasse anche per breve tempo escluso dai supremi consigli della Repubblica; e negli anni in cui era savio del Consiglio, quasi sempre entrava anche nella giunta che i Dieci si cooptavano per la trattazione degli affari più importanti e delicati. Ebbe anche spesso altri uffici, tra i quali mette conto ricordare quello dei Dieci savi "a tansar" (nel 1509, 1515, 1524) e di provveditore alle Biade, nuovamente ricoperto nel 1527.

Nel luglio 1521 e maggio 1523 il B. fu tra i cinque Correttori della "promissione ducale" e tra i quarantuno elettori del doge. Per tre volte, nel giugno 1516, nell'ottobre 1524 e nel gennaio 1527, giunse alle soglie della Procuratia di S. Marco, massimo onore dopo quello ducale, essendo entrato nel ballottaggio tra i quattro concorrenti più quotati, ma nonostante le grandi "pratiche" dei parenti non riuscì mai eletto. Era insomma divenuto uno degli esponenti più autorevoli del patriziato, e non stupisce di trovare ad uno sfarzoso banchetto, che offrì nel dicembre 1525 per le nozze d'una nipote, cento gentiluomini "di primi di la terra": quasi tutto il Collegio, i capi dei Dieci, gli avogadori e "il forzo del Senato", oltre a Giambattista Egnazio e a Marin Sanuto, che nei suoi Diarii mostra di apprezzare sovente le posizioni politiche e l'abilità dialettica del Bragadin.

Ricco, come dimostra tra l'altro l'entità dei prestiti più volte sottoscritti a favore della Repubblica, imparentato con i Garzoni "dal Banco" (aveva sposato una figlia di Andrea), le sue scelte di politica fiscale sono nettamente rivolte a scaricare sulle spalle dei meno abbienti il costo delle guerre. Così nel corso di un acceso dibattito svoltosi nel Senato tra il dicembre 1513 e il gennaio 1514, mentre alcuni senatori con alla testa i capi della Quarantia, esponenti della nobiltà di mediocre condizione, volevano imporre una nuova aliquota ai maggiori contribuenti allibrati per oltre 70 ducati, e rivedere gli imponibili di quelli allibrati per oltre un ducato, il B. sostenne invece che il denaro necessario doveva essere reperito mediante una revisione dell'estimo che estendesse l'imposizione anche ad altri strati di potenziali contribuenti finora non tassati; ed è proprio il B., assieme ad Alvise da Molin, che propone per primo di imporre una tassa sul macinato e un aumento dei dazi d'importazione, sui cereali, allo scopo di garantire la corresponsione degli interessi passivi sui capitali del debito pubblico, scontrandosi col doge che invano vi si opponeva esclamando "che l'avea zurato al populo justicia, abondantia et paxe". Ma, per la verità, diversa e più cauta posizione sembra aver assunto il B. in altra discussione su nuove misure fiscali, conclusasi in Senato il 1º marzo 1515.

Nelle scelte più difficili di politica estera, con cui Venezia in quegli anni mette in gioco la sua stessa sopravvivenza, il B. assume spesso le vesti del protagonista, lucido ed equilibrato, freddamente realista nelle situazioni più critiche, alieno dai partiti precipitosi quanto pronto a cogliere le circostanze che richiedevano decisioni audaci. Così, nel febbraio 1514, quando un'offensiva ispano-imperiale sembra minacciare una nuova disfatta delle proporzioni di Agnadello, assieme al doge, ad Andrea Gritti e ad Alvise da Molin si oppone alla proposta estrema di allearsi con i Turchi e chiamarli in Italia, pur suggerita da uomini esperti e autorevoli come Antonio Grimani, Luca Tron e Giorgio Emo. Un anno più tardi, al contrario, mentre molti, tra cui lo stesso Giorgio Emo, si mostrano esitanti, egli interviene risolutamente per propugnare quell'alleanza con Francesco I che condurrà alla vittoria di Marignano. Nel 1519, alle precipitose proposte d'un rapido riaccostamento a Carlo V, avanzate da alcuni senatori, tra i quali incontriamo ancora Giorgio Emo, che ritenevano "esser mudà el mondo", poiché il re cattolico dopo l'elezione imperiale "di gran re che l'era l'è fato grandissimo", il B. rispondeva ("sapientissimamente" commenta il Sanuto) che "non era da correr per non iritar Franza", unico sicuro appoggio di Venezia, mancando il quale poteva ripetersi una nuova lega di Cambrai. Quando poi nell'estate del 1523 Venezia, dovette trarre le conseguenze del crollo militare francese in Lombardia, fu pronto a cogliere le favorevoli condizioni avanzate da Carlo V, divenendo deciso fautore del rovesciamento di alleanza deliberato dal Senato il 28 luglio al termine d'un lungo e appassionato dibattitto che vide la sconfitta dello stesso doge Andrea Gritti, notoriamente filofrancese (e forse anche per questa divergenza politica due mesi prima il B. aveva sostenuto la candidatura di Antonio Tron contro quella del Gritti, cui del resto molti erano avversi soprattutto per il suo carattere autoritario unito a grande prestigio personale). Numerosi, anche negli anni seguenti, furono i suoi interventi al Senato in materia di politica estera, di solito in polemica con Marino Morosini ostinato capofila della corrente filofrancese.

Formatasi nel 1526, con l'adesione di Venezia, la lega di Cognac nell'intento di contrastare il predominio ispano-imperiale, mentre la Repubblica, badando ai propri interessi, cercava di destreggiarsi tra le diffidenze reciproche e le ambiguità che incrinavano fin dal nascere l'alleanza, nell'autunno di quell'anno l'atteggiamento del B. è improntato a duttilità nei confronti della controffensiva militare e diplomatica di Carlo V, in contrasto con le posizioni estreme del Morosini che andava proclamando voler "più presto la paxe col Turco che con Cesare"; ma nel febbraio successivo è tra coloro che inducono il Senato ad esercitare ogni sforzo diplomatico e finanziario per dissuadere il papa dal concludere una tregua con Carlo V.

Dopo il sacco di Roma, mentre la lega appariva in via di dissoluzione e Venezia si premurava di occupare Cervia e Ravenna col pretesto di custodirle per conto dell'alleanza, il B. a nome del Collegio frenò le impazienze di alcuni senatori, ammonendo che si doveva "andar cauti" e rispettare formalmente l'autorità pontificia in quelle città. E forse alla stessa preoccupazione di non urtare il papa, più che ad autentici scrupoli religiosi ("è da vardar de non tocar cose sacre", esclamava in Senato), si deve nel dicembre 1527 la sua opposizione a certe proposte intese a definire in favore della Repubblica una vertenza col monastero benedettino di S. Giustina di Padova per alcuni beni fondiari contestati a Correzzola.

Ormai vecchio, passati 170 anni, la sua presenza politica sembra farsi meno assidua. Morì il 16 ag. 1530. "Fo posto in cadeletto - annota il Sanuto - per haver leto publice in philosophia; libri atorno; vestito di scarlato". Venne sepolto a S. Marina, accanto all'altar maggiore, presso la tomba del padre.

Fonti eBibl.: Venezia, Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3781 G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, p. 103; Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 138. La fonte principale, soprattutto per l'attività politica, è costituita da M. Sanuto, Diarii, I-LIII, Venezia 1879-1903, ad Indices. Notizie sul suo insegnamento nella scuola di Rialto e sulle sue relazioni con letterati e filosofi in B. Nardi, Letter. e cultura venez. del Quattrocento, in La civiltà venez. del Quattrocento, Firenze 1957, pp. 118, 141; Id., Saggi sull'aristotelismo padovano pp. 285, 340, in cui si ricorda un severo giudizio del Bembo sulla preferenza accordata dal B. "riformatore" e dal collega M. Zorzi a Marcantonio Zimara per la condotta nello Studio di Padova (cfr. P. Bembo, Opere, a cura di F. Hertzhauser, III, Venezia 1729, pp. 497 s.; su questo episodio significativo degli orientamenti culturali del B. cfr. anche V. Cian, Un decennio della vita di M. Pietro Bembo, Torino 1885, pp. 115 s.); Marini Becichemi Ad Serenissimum principem Lauretanum... panegyricus, Brixiae 1504; M. A. Sabellici Duodecim orationes, s.l. né d., orazione VII; Petri Contareni… Argoa voluptas, Venetiis 1541, c. 5; Giornale de' letterati d'Italia, V (1711), pp. 362-364; M. Foscarini, Della letter. veneziana, Venezia 1854, pp. 30 s.; M. E. Cosenza, Biographical and bibliographical Dictionary of the Italian Humanists..., Boston 1962, I, p. 701; P. O. Kristeller, Iter Italicum, II, pp. 11, 18, 203, 285, 574.

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