CASSI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 21 (1978)

CASSI, Francesco

Sebastiano Timpanaro

Nacque a Pesaro il 4 giugno 1778 dal conte Annibale e dalla marchesa Vittoria Mosca.

Era legato per vincoli familiari a molte delle più note personalità del piccolo mondo marchigiano-romagnolo: lo zio materno Francesco Mosca Barzi fondò a Pesaro fin dal 1792 una colonia dell'Arcadia, con intenti non solo letterari, ma di laicismo e riformismo di tinta massonica; la zia materna Virginia Mosca era madre di Monaldo Leopardi; la zia paterna Anna era madre di Giulio Perticari, che del C. fu, oltreché cugino, l'amico più caro. Tra i suoi familiari vanno ancora rammentati il fratello Luigi, che partecipò alla campagna napoleonica di Russia e morì in prigionia, e la sorella Geltrude (1791-1853), che sposò il conte Giovanni Lazzari e durante un breve soggiorno a Recanati (dicembre 1817) ispirò a Giacomo Leopardi la prima intensa passione amorosa.

Fu educato da precettori ecclesiastici: uno di essi, don Sebastiano Sanchini, fu più tardi precettore di Giacomo Leopardi e dei suoi fratelli. Acquisì una buona conoscenza dei classici latini e una precoce facilità nel verseggiare, che mantenne anche in seguito (molti componimenti poetici inediti sono ora nella. Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Cassi; altri, editi in pubblicazioni per nozze e in opuscoli occasionali, si trovano ivi e altrove. per esempio a Firenze, Bibl. nazionale, fondo Palatino). A differenza del padre e del cugino Monaldo Leopardi, sentì per tempo, insieme al Perticari, ad Antaldo Antaldi e ad altri giovani nobili pesaresi, quelle aspirazioni riformatrici di cui si era fatto paladino Francesco Mosca: sicché fu tra coloro che accolsero con gioia l'occupazione francese della Marche (febbraioaprile 1797) e, dopo la delusione del trattato di Tolentino che restituiva quei territori al papa, chiesero e ottennero nel marzo 1798 l'annessione alla Cisalpina.

Nel circolo costituzionale di Pesaro il C. fece parte della commissione per la stesura del regolamento interno e fu apprezzato come oratore, per la "giovane fervida fantasia" (Bianchi, I circoli..., pp. 409-410). Un suo discorso, che ebbe l'onore della pubblicazione (Allocuzione del cittadino F. C. pronunciata ed acclamata di stampa... nel giorno 21 messidoro anno VI repubblicano... per l'indipendenza della Repubbl. Cisalpina, Pesaro 1798), contiene forti espressioni contro il potere temporale dei papi, esaltazioni della libertà, dell'amicizia tra Italiani e Francesi; ma al di sotto del piglio oratorio e delle troppo frequenti reminiscenze dell'antichità classica s'intravede una posizione politico-sociale moderata.

Chiusa, con la controffensiva austrorussa del 1799 e col ritorno dei Pontifici a Pesaro, la breve parentesi giacobina, il C. riuscì a "far presto dimenticare i suoi trascorsi con proteste di fedeltà alla Chiesa e all'Austria" (Caponetto, p. 116). Si trattò. allora e poi altre volte in analoghe circostanze, di comportamenti non certo eroici, ma che non possono essere conimisurati ai criteri di un'etica risorgimentale rigoristica, alla quale il C., per tutta la sua formazione, era e rimase estraneo. Che, d'altra parte, il suo pur moderato progressismo e patriottismo non fosse insincero, lo prova il fatto che, ogni qual volta si presentò un'occasione di ribellarsi all'ancien régime e poi alla Restaurazione, non esitò a farsi avanti, correndo pur qualche rischio: cosicché mantenne sempre la stima di patrioti ben più conseguenti di lui, da Guglielmo Pepe a Terenzio Mamiani, il quale ultimo dall'esilio, dopo il '31, non mancava quasi mai di ricordare il C. con vivo affetto e ammirazione nelle lettere al fratello (cfr. Viterbo, Mamiani, I, pp. 13, 25, 90 e passim). Va piuttosto tenuto presente che la mitezza con la quale uomini come il C. furono trattati dai restauratori dell'assolutismo era in parte dovuta al fatto che, in momenti di crisi rivoluzionaria, la loro presenza nei governi provvisori aveva una funzione moderatrice e costituiva una garanzia contro radicalizzazioni sociali, temute dai liberali non meno che dagli assolutisti.

Nel 1801, in seguito alle nuove vittorie del Bonaparte, Pesaro ritornò a far parte della Cisalpina. Il C., con l'Antaldi e il Perticari, divenne membro per Pesaro del Collegio elettorale nella sezione dei dotti; più tardi (1809) lo zio F. Mosca, che aveva fatto una brillante carriera nell'alta burocrazia napoleonica, lo fece nominare segretario della viceprefettura di Pesaro dei Regno italico. Compì in questo periodo viaggi a Roma e a Milano (Marzetti, p. 15): rare eccezioni nella vita di un uomo che non si mosse quasi mai da Pesaro, se non per soggiornare di quando in quando nella propria villa a San Costanzo presso Fano.

Aveva intanto sposato Maddalena Brighenti e ne aveva avuto una figlia, Elena, da lui amatissima. E aveva ripreso gli studi letterari, anche per influsso del Perticari. Un suo carme in ottave La caccia de' tori (Senigallia 1810; cfr. M. Parenti, Rarità bibliogr. dell'Ottocento, VI, Firenze 1961, pp. 58 s.) rivela l'influsso di certe odi "civili" del Parini, non nel metro, né nello stile tuttora frugoniano, ma nell'intento educativo-umanitario: il C. condanna l'usanza delle corride, che dalla Spagna si era propagata nelle Marche; e pare che abbia in effetti contribuito a farla cessare. Il carme piacque al Monti, che vide giustamente nel C. un proprio futuro seguace letterario, ma, in pari tempo, s'illuse di trovare in lui un conciliatore delle divergenze di carattere che, già in periodo di fidanzamento e poi durante il matrimonio, si andarono sempre più accentuando tra la propria figlia Costanza e il Perticari (Monti, Epist., IV, pp. 1, 69).

Attraverso il Perticari, fin dai primi anni del secolo, era divenuto amico di Bartolomeo Borghesi (Campana, p. 701). Tra le colonie o "catecie" (dal greco katoikíai)dell'Accademia Rubiconia Simpemenia dei Filopatridi, fondata nel 1801 a Savignano per iniziativa del Borghesi, una sorse anche a Pesaro, e il C. ne fu il capo o "protocateco" (Gasperoni, p. 143 cfr. p. 41), con il nome accademico di Filonda Dorico. Firmò con tale nome, oltre ad altre poesie sparse, l'inno a Nettuno nella silloge degli Inni a gli dei consenti (Panna 1812, pp. 24-33) pubblicata, appunto per iniziativa del Borghesi, in occasione delle nozze Perticari-Monti.

L'inno del C. non è certo tra i migliori della raccolta: presenta, accentuati, quei caratteri di freddo neoclassicismo e di sovrabbondante erudizione mitologica che, in varia misura, si notano anche negli altri. Meglio, anche in seguito, egli riuscì (prescindendo, per ora, dalla versione di Lucano) in poesie che traevano lo spunto da motivi umanitari e da progressi della civiltà: per es. nel sonetto "La stampa", in Poesie e prose ined. o rare di italiani viventi, II, 4, Bologna 1835, p. 295 (ivi, pp. 292 ss., altre poesie del C.) e ora anche in Poeti minori dell'Ottocento, a cura di E. Janni, I, Milano 1955, p. 125.

Crollata la potenza napoleonica, il C. ebbe ancora, come il Perticari e altri patrioti e letterati più illustri, ardenti speranze nel tentativo indipendentistico e unitario, intrapreso da Gioacchino Murat. Nel corso dei movimenti e delle soste che l'esercito del Murat compì nelle Marche, egli e il Perticari si legarono di viva amicizia con Guglielmo Pepe, che in quegli avvenimenti ebbe una parte politico-militare importante. Più di trent'anni dopo il Pepe ricordava di essersi spesso incontrato coi due amici nel '14-15, specialmente a Senigallia, di cui il C. fu nominato viceprefetto dal Murat il 28 marzo 18 15 (Pesaro, Bibl. Oliveriana, carte Cassi, 1898, fasc. VI, 1, cfr. Mazzatinti-Sorbelli, Inventari, LII, p. 183); e chiama il C. "anima eletta e calda di amor patrio", e narra di averlo abbracciato l'ultima volta nel vivo di un combattimento, al termine del quale Senigallia dovette essere abbandonata alle truppe austriache (Pepe, I, pp. 3623 367 s., 382-384, 432-434).

L'insediamento della amministrazione provvisoria austriaca non segnò senz'altro la destituzione del C. dal suo ufficio; furono, piuttosto, diminuite le sue mansioni e la sua autorità a favore di altri funzionari più ligi alla Restaurazione; cosicché, dopo un vano tergiversare e dopo aver cercato di far intervenire in suo appoggio il Monti, finì col dimettersi (Monti, Epist., IV, pp. 224-226; Pascucci, 1964, p. 82 n. 17). Il Monti, che ormai aveva accettato il fatto compiuto della Restaurazione, scrivendo al Perticari nel luglio 1815 lo metteva in guardia contro "certe speranze politiche, simili a quelle del nostro Cassi, a cui godo sia tornato il giudicio" (Epist., IV, p. 233). In effetti il C., anche dopo il reinsediamento del governo pontificio nelle Marche, mentre condivise i sentimenti di molti patrioti contro Napoleone che - aveva deluso le speranze nell'indipendenza italiana (cfr. un suo sonetto del 1840, Pel ritorno in Parigi delle ceneri di Napoleone, autogr. a Rimini, Bibl. Gambalunghiana; e a tale sentimento non sarà stato estraneo il ricordo del fratello Luigi morto in Russia), mantenne con ogni probabilità nostalgie muratiane. Più incerto è se abbia appartenuto alla carboneria: lo afferma Bianchi, Processo di Carbonari..., p. 24, ma senza documentazione, anzi la deposizione di un delatore, ibid., p. 7, lo esclude esplicitamente. Il fatto che il Perticari abbia quasi certamente avuto contatti, sia pur timidi, con carbonari romani e pesaresi, può far pensare altrettanto del C.; ad ogni modo egli non s'impegnò in alcuna vera attività cospirativa e ritornò ai suoi studi, e specialmente alla versione della Farsaglia di Lucano.

Questo lavoro, che occupò la maggior parte della sua vita, fu incominciato quasi certamente già nel periodo napoleonico: non si spiegherebbe, altrimenti, come il Perticari potesse ai primi del '15 rimproverargli, in un epigramma scherzoso (cfr. Pascucci, 1956-57, p. 193 n. 1), l'eccessivo ritardo nel compimento dell'opera. Tuttavia il C. vi si dedicò soprattutto dopo la forzata rinuncia alla vita politica. Perché abbia scelto Lucano, si può comprendere facilmente. Dei grandi epici dell'antichità soltanto Lucano non aveva avuto fin allora traduzioni italiane di qualche valore. D'altra parte il libertarismo tragico e sdegnoso di questo poeta, già ammirato nel sec. XVIII da uomini di gusto e temperamento così diverso come Voltaire e Alfieri e dai protagonisti stessi della Rivoluzione francese, continuava a esercitare un grande fascino, nel clima di rinnovata oppressione politica, su gran parte dei letterati-patrioti italiani, dai classicisti come il Giordani (e, più indirettamente, il Leopardi) ai romantici come il Borsieri. Si aggiunga che la coloritura aristocratica e moralistica di tale libertarismo (che non esaurisce in sé il valore della personalità di Lucano, ma ne costituisce comunque una C. aratteristica saliente) trovava particolare rispondenza in chi, come il C., era portato in quegli anni più a vagheggiare in pectore un ideale incontaminato di libertà che a cercare di tradurlo in azione politica.

Nel 1820 il C. pubblicò a Milano un Saggio di una traduzione di Lucano, comprendente il libro primo. Il Saggio era dedicato a Costanza Monti Perticari, alla quale il C., nella prefazione, si dichiarava debitore di consigli relativi all'interpretazione e allo stile (cfr. C. Monti, Lett., pp. 85-87). Il Monti, al quale il C. aveva consegnato personalmente a Milano il manoscritto, ne promosse e ne seguì personalmente la stampa (cfr. Monti, Epist., V, pp. 219, 222, 225 s., 237) e apportò anche ai versi del C. qualche ritocco (cfr. Forlì, Bibl. civica, fondo Piancastelli, 310. CR. 19, una copia del Saggio di mano di Costanza con correzioni del Monti, segnalatami da Paola Zambelli). Due anni dopo, ai primi del '22, rivolgeva al C. un affettuoso sonetto d'incitamento a proseguire il lavoro (nella raccolta poetica Un sollievo alla melanconia, Milano 1822, = Opere, ed. Resnati, I, p. 23).

Un'amicizia cordiale, seppure non particolarmente intima, si era stabilita dal 1817 in poi anche con Giacomo Leopardi, dopo che il C. ebbe chiarito un infondato sospetto circa una battuta sarcastica che il Leopardi gli aveva erroneamente attribuito (Leopardi, Epist., I, pp. 77, 89, 103, 130, 247 [un testo più esatto di questa lett. in G. Leopardi, Lettere, a cura di F. Flora, Milano 1949, pp. 183 s.] 251; II, p. 90 [anch'essa meglio nell'ed. del Flora, p. 294]; VII, p. 44). Il C. mise in corrispondenza il Leopardi col Perticari, e apprezzò, forse più del Perticari stesso, l'alto ingegno poetico del Leopardi; gli espresse soltanto (e il Leopardi ne tenne conto nelle edizioni successive) qualche riserva su parole troppo arcaiche o, viceversa, "poco nobili" nelle prime due canzoni, e su una frequenza eccessiva di moduli retorici.

Ma i lieti auspici sotto i quali pareva essersi iniziata la fatica di traduttore del C. furono turbati da una violenta rottura dell'amicizia con Costanza Perticari e col Monti stesso.

Il 25 giugno 1822il Perticari, da tempo ammalato, moriva, ospite dei C. a San Costanzo di Fano. Se il C. e i fratelli del Perticari avessero soltanto accusato Costanza di poco amore per il marito, avrebbero detto cosa vera, anche se la veemenza delle accuse sarebbe stata comunque fuor di luogo, trattandosi di un matrimonio fallito fin dall'inizio, e non per causa della sola Costanza. Ma in un ambiente provinciale e pettegolo, nel quale era di prammatica, specialmente da parte della piccola nobiltà oziosa, vantarsi dei propri successi maschili extraconiugali e, al tempo stesso, diffamare e condannare con pesante moralismo le donne anche in base a vaghi sospetti d'infedeltà o di frivolezza, il dissidio degenerò in un vero e proprio linciaggio morale. Si arrivò a diffondere un libello manoscritto, opera di Cristoforo Ferri da Fano, in cui Costanza veniva accusata di aver provocato la morte del marito col proprio disamore e, in forma più velata, si insinuava addirittura un sospetto di assassinio. Il C. negò sempre di aver avuto parte nella stesura di questo libello (cfr. lettere al Mustoxidi e a Violante Perticari, in Borgese, pp. 206-207;al Borghesi, in Seganti, pp. 645-649). Se in un esemplare del libello stesso (ora a Forlì, Bibl. civica, fondo Piancastelli, 306.CR.474) si possano ravvisare correzioni di mano del C. (come affermarono A. Garavini, in un'annotazione sulla sovracoperta, e la Borgese, p. 197), è molto dubbio: si tratterebbe, comunque, di correzioni scarsissime e meramente ortografiche, tali da non aggiungere o mutare nulla alla sostanza dello scritto del Ferri. È invece sicuro che il C. contribuì a diffondere per via epistolare l'accusa di veneficio fatto perpetrare da Costanza, accusa basata su un'autopsia tutt'altro che probante e più tardi smentita da uno dei più illustri e onesti medici del tempo, Giacomo Tommasini (cfr., per ciò che riguarda il C., le lett. cit. a Mustoxidi e a Borghesi). Si trattò di consapevole calunnia, o la freddezza mostrata da Costanza per il Perticari già gravemente ammalato spinse il C. a concepire in buona fede un assurdo sospetto? Fu quella del C. la vendetta di un innamorato respinto da Costanza, oppure l'amicizia, non priva di affettuosa espansività, che egli aveva avuto per la figlia del Monti (al pari, del resto, di molti altri letterati di quell'ambiente) si tramutò in irrazionale sdegno a causa dei pregiudizi e dei sospetti suaccennati? Di fronte a entrambi gli interrogativi, i biografi di Costanza scelgono senza esitare (ma senza vere prove) la prima alternativa e raffigurano il C. come un vero e proprio genio del male, facendo propria l'immagine che, con estrema violenza ma anche genericità di espressionio oscurità di allusioni, ne dette Costanza in numerose lettere ad amici (cfr. Lettere, a cura di M. Romano). Fino a che la questione non venga ulteriormente indagata (la Romano e la Borgese accennano ad alcuni documenti in forma vaga e si valgono di testimonianze orali indirette, non si sa quanto attendibili), è da ritenere che la seconda alternativa sia la più probabile: essa non scagiona certamente il C., ma rende più spiegabile il suo agire nell'ambito della sua personalità complessiva, caratterizzata da una, certa vanità e melodrammaticità Provinciale, ma anche da innegabile spirito filantropico e moderatamente progressista.

In un primo tempo anche il Monti, ferito dalle accuse rivolte alla figlia, ruppe i rapporti col C.; ma la riconciliazione era facilmente previedibile, perché i due avevano bisogno l'uno dell'altro. Il Monti, uomo di sdegni violenti ma passeggeri, era troppo desideroso di non respingere chi si professava, e in effetti era, suo seguace in letteratura, e di non troncare i rapporti con quell'ambiente romagnolomarchigiano che per lui costituiva una "zona d'influenza" culturale più sicura, proprio perché più tenacemente classicistica, del più vivo e agitato ambiente milanese. Il C., d'altra parte, non voleva perdere la protezione e i consigli del Monti, per il quale aveva affetto e ammirazione sincera. Dopo varie tergiversazioni da entrambe le parti (lett. cit. del C. al Borghesi; Monti, Epist., V, pp. 449-451, 508 s-; VI 3 p. 36), la riconciliazione avvenne ai primi del '25, grazie anche all'opera mediatrice di amici comuni (Monti, Epist., VI, pp. 79 e 91; L. Pescetti in Resto del Carlino, 17 marzo 1955; cfr. Pascucci, 1955, p. 73 n. 1).

Molto vi contribuirono le Notizie intorno alla vita e alle opere del cav. Monti che, scritte dal C. già nel '23 come introduzione alle tragedie del Monti edite nel Teatro scelto antico e moderno (Milano 1823, XI, I, pp. III-XXXVII), piacquero all'interessato (Monti, Epist., VI, p. 102) e furono poi ristampate più volte (cfr. G. Bustico, Bibliogr. di V. Monti, Firenze 1924, pp. 6, 18, 19, 91, 139). Malgrado qualche eccesso di lodi e qualche comprensibile reticenza sui mutevoli atteggiamenti politici del Monti, queste Notizie, che nelle posteriori redazioni il C. proseguì fino alla morte del poeta, sono tutt'altro che un vacuo panegirico e costituirono un primo dignitoso saggio di biografia montiana e di valutazione dell'importanza letteraria e culturale, più che strettamente poetica, dì quella personalità già allora così discussa. A sua volta il Monti (Proposta di alcune correz. ed aggiunte al Vocabol. della Crusca, III, 2, Milano 1824, p. LXXXI), già prima della riconciliazione esplicita, aveva messo in bocca al Perticari, in un dialogo tra la sua ombra e quella di Guido Guinicelli, un elogio della "ricca veste italiana" che il C., suo "diletto congiunto ed amico", andava tessendo al poema di Lucano, e aveva reiterato l'augurio che la versione non tardasse ad esser compiuta. Era un pubblico riconosci mento non solo di stima per il C. come letterato, ma di fede nella sincerità dell'amicizia che fino all'ultimo aveva unito il C. al Perticari.

Nessuna vera riconciliazione avvenne con Costanza (cfr. Lettere, pp. 222-224, ad A. Papadopoli; e Monti, Epist., VI, p. 124). La costernazione per la morte del Perticari e lo sdegno per le calunnie sospinsero Costanza a immedesimarsì - in contrasto col C. e coi fratelli del Perticari - nella parte di unica.erede spirituale del marito e custode della sua memoria, a rivendicare il diritto di pubblicame tutti gli inediti, a convincersi sinceramente di averlo amato da vivo e a considerare come mera ipocrisia la venerazione dimostrata dal C. per la sua memoria. Reazione emotiva ben comprensibile, ma errata: nei 25 anni in cui gli sopravvisse, il C. non cessò di tributare all'amico scomparso un vero e proprio culto, smarrendo, fra l'altro, ogni ragionevole stima del valore del Perticari, che era stato, sì, un notevole grammatico e filologo (più tardi troppo disconosciuto), ma non certo uno dei maggiori geni che avesse avuto l'Italia. La sincerità di questa ammirazione non toglie che nel modo di rendergli onore il C. introducesse una nota di esibizionismo che dette facile adito a critiche. Riprendendo la versione della Farsaglia, dichiarò di destinarne i proventi, derivati da sottoscrizioni più che da libera vendita, alla costruzione d'un monumento funebre al Perticari. Questo proposito, espresso già in moltissime lettere private, fu ribadito in un primo opuscolo-manifesto (A tutti quelli che hanno in onore la virtù e il nome degl'illustri defunti..., Pesaro, 10 apr. 1826) e in un secondo di poco posteriore (Adonorata ricordanza della pietà e cortesia italiana, ibid., 30 dic. 1826). Essi contenevano già nutriti elenchi. di sottoscrittori, parecchi dei quali avranno aderito per una sorta di pressione morale: rifiutarsi significava non solo mostrare poco interesse per la versione di Lucano (alla quale, anzi, il C. accennò sempre con parole di esagerata umiltà), ma negare un doveroso omaggio alla memoria del Perticari i Lo stesso Leopardi, che non a torto considerava eccessivo questo culto perticariano (cfr. lett. al padre del io maggio 1826), figura nel secondo elenco fra i sottoscrittori di Bologna dove allora risiedeva: i suoi rapporti col C., del resto, si erano fatti più cordiali dopo una visita a Pesaro (lett. da Milano, 17 sett. 1825). Ostile all'iniziativa, o almeno diffidente, rimase invece Monaldo Leopardi, che né al C. né al defunto Perticari perdonava i loro sentimenti liberali (Leopardi, Epist., IV, p. 99).

La versione, intanto, procedeva molto a rilento. Nell'edizione rilegata in due tomi in-4° (e in quella più lussuosa, in-folio, destinata al papa, a monarchi, prelati e uomini di alta posizione sociale, e costituita parimenti da due tomi, rilegati in uno) il primo reca la data del 1826, il secondo del 1829: La Farsoglia di M. Anneo Lucano volgarizzata dal conte F. Cassi, Pesaro, A. Nobili. Ciascuno dei due reca una lettera dedicatoria, l'una alla memoria del Perticari, l'altra del Monti, anche se al Perticari si deve intendere consacrata l'opera intera. Ma le date dei frontespizi si riferiscono soltanto all'inizio della stampa dei due tomi. i quali in realtà uscirono a dispense, l'uno dal '26 al '28, l'altro dal '29 al '36 (Pascucci, 1964, p. 80 n. 3). L'intervallo più lungo dovette verificarsi dopo la prima dispensa del tomo secondo, anche per circostanze esterne. Rassegnatosi al dominio papale, il C. poté rientrare in quel tanto di vita pubblica (con mansioni amministrative più che politiche) concessa alla piccola nobiltà e ad esigue frazioni di borghesia. Nominato gonfaloniere di Pesaro, poté promuovere nel '28, col beneplacito del legato pontificio B. Cappelletti, una riforma del'inanicomio di Pesaro che, per quei tempi, era notevolmente innovatrice (cfr. il suo opuscolo Intorno l'ospizio degli alienati di S. Benedetto in Pesaro, Pesaro 1835; Mestica, p. 424). Incoraggiò nel 1829 la fondazione dell'Accademia agraria, che ebbe nel fisico e geologo Domenico Paoli, patriota e amico del C., il suo maggiore esponente scientifico (Marzetti, p. 27). Durante la carestia che afflisse le Marche nell'inverno del '29-30, rimediò in parte alla disoccupazione facendo eseguire lavori pubblici di abbellimento della città: fu allora che ebbero quasi definitiva sistemazione gli "Orti Giulii", un parco situato su un tratto dei bastioni, dove avrebbe dovuto esser collocato il monumento al Perticari. S'impegnò, dunque, in quell'attività filantropica verso la quale, fin dalla Caccia de' tori, si era sentito attratto. Sicché non deve essere meramente convenzionale la lode tributatagli dal Mestica (p. 427) che, fanciullo, conobbe il C. già vecchio e lo ricorda "dedito specialmente ad alleviare i travagli dei poveri e degli infelici, scevro affatto da ogni albagia nobilesca, popolare per sentimento, affabilissimo ancora coi minimi". Inoltre, pur pagando ampio tributo di adulazioni a pontefici e prelati, egli affermò con un certo puntiglio, forse non dovuto a mera vanità, la sua pur limitata autorità di magistrato "civile" di fronte al potere temporale ecclesiastico (cfr. l'aneddoto riferito da G. G. Belli nel suo Zibaldone, p. 156 n.).

Accadevano, poco dopo, i moti del '31: estesasi il 9 febbraio la rivoluzione a Pesaro, il C. fu nominato presidente di un Comitato provvisorio, che abolì la tassa sul macinato e aprì una pubblica sottoscrizione per sopperire, col contributo dei più abbienti, alle necessità finanziarie del nuovo governo. Il fallimento del moto (Pesaro fu rioccupata dagli Austriaci il 27 marzo) e la restaurazione pontificia non gli causarono persecuzioni nemmeno questa volta, anche perché, come è noto, il governo francese riuscì a intercedere per tutti i patrioti non troppo gravemente compromessi. Da allora il ritiro a vita privata del C. (al quale era morta la moglie nel febbraio 1831, proprio durante il breve periodo rivoluzionario) fu, per quanto risulta, definitivo.

L'ipotesi - accennata fuggevolmente, e senza documentazione, nel volume Le Marche nella rivoluzione del '31, p. 42 n. 6 - di una sua appartenenza alla Giovine Italia è di per sé improbabile, e non appare neanche corroborata da una lettera (in L'apporto delle Marche..., pp. 102 s.) nella quale i mazziniani di Ancona sollecitano quelli di Pesaro a chiedere sovvenzioni al conte Casti (sic). Troppo diversa, in confronto ai principi e alla prassi muratiana-carbonara (di cui il C., del resto, era stato soltanto un simpatizzante non privo d'incoerenze), era la nuova concezione mazziniana, troppo più impegnativo e "militante" il tipo d'adesione che si richiedeva. E sul C. cominciavano a pesare, oltre l'età, le disillusioni di troppe sconfitte politiche.

Nel 1834, con un nuovo manifesto Aisuoi generosi e onorevoli soci (Pesaro, e in Nuovo giorn. de' letter. di Pisa., XXVIII [1834], pp. 243-246) il C., mentre accennava alle vicende che avevano ritardato la sua versione di Lucano (tacendo soltanto, per ovvie ragioni, la sua partecipazione ai moti dei '31). cercava di ricostituire le file dei propri sottoscrittori, sostituendo con nuovi aderenti coloro che, dal lontano 1826, erano morti o irreperibili o renitenti. A questo stesso scopo mirano molte delle lettere che egli scrisse ad amici di varie città d'Italia, incaricandoli di farsi "collettori" (come oggi si direbbe) delle quote d'abbonamento per le singole città o regioni. Ma i fondi raccolti, e quelli che vi aggiunse di suo il C. stesso, bastarono appena a portare a termine la pubblicazione: il monumento al Perticari rimase un pio desiderio, e cio provoco maligne insinuazioni che amareggiarono il C. (manifesto del 1834, cit.; Montanari, p. 250; Masi, p. 262; Mestica, p. 426), tanto più che, proprio a causa del monumento, egli era già da tempo in cattivi rapporti con Gordiano Perticari, dapprima suo alleato nelle polemiche contro Costanza Monti (cfr. Monti, Epist., VI, pp. 169172). Un ultimo ritardo alla pubblicazione venne da un inasprimento della censura contro le espressioni "empie" (negatrici della bontà e della provvidenza divina) che abbondano in Lucano: vedi l'ultimo manifesto del C. A' miei generosi associati, del 30 nov. 1835, premesso alla versione del lib. VII; la Protesta del Traduttore, ibid., e le note in fondo all'opera, nelle quali il C., dopo aver già nella versione soppresso o mitigato molte di queste espressioni irreligiose, altre ne condanna esplicitamente; sugli interventi della censura cfr. Montanari, p. 254).

Non furono, tuttavia, queste circostanze esterne i soli motivi della lentezza con cui il C. lavorò al suo Lucano; vi si aggiunsero, ed ebbero probabilmente maggior peso, ragioni interiori. Se Lucano era amato dai classicisti ottocenteschi per il suo spirito libertario, era oggetto di gravi riserve per lo stile, che, con la sua tensione enfatica e il suo frequente barocchismo, appariva molto discordante dagli ideali neoclassici e puristi. Questo giudizio contrastante si trova sia in Giordani (nel quale, tuttavia, l'aminirazione prevaleva) e in Leopardi, sia nei molto più modesti, ma non per ciò meno indicativi, classicisti-puristi del Giornale arcadico:vedi, per es., la recensione di S. Betti al Saggio del 1820, in Giorn. arcad., VI (1820), pp. 86-100. Il C. credette quindi sempre più (già nelle correzioni autografe al Saggio del 1820in una copia conservata nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, cfr. Pascucci, 1956-57, p. 197 n. 1, e poi a mano a mano che procedeva nella stesura definitiva) di doversi assumere un compito di traduttore-rifacitore: volle dare alla sua Farsaglia italiana quella chiarezza di espressione, "semplicità di forma", "naturalezza". assenza di ripetizioni, che l'originale latino, a giudizio suo e dei letterati del suo ambiente, non possedeva (prefaz. al tomo I). In ciò era probabilmente incoraggiato anche dall'esempio dei precedenti traduttori, specie francesi, come il Marmontel. Se la versione del libro I, anche nella redazione del 1826, è ancora abbastanza fedele al testo (tanto che si è potuto porre il problema dell'edizione o delle edizioni da lui seguite: probabilmente una sola, quella dell'Oudendorp, recante numerose varianti e congetture fra le quali il C. scelse quelle più consone al proprio gusto: cfr. Zicari, diversamente da Pascucci, 1956-57). I libri seguenti recano omissioni di interi brani, ampliamenti di altri, libertà stilistiche sempre più pronunciate. Senonché i "difetti" di Lucano sono inseparabili dal suo pathos tragico, dall'essenza stessa della sua personalità: la traduzione del C. è troppo più dignitosamente uniforme e neoclassica che l'originale. Non sono dunque dovute a classicismo angusto, ma ad una più profonda comprensione dello spirito lucaneo le critiche del Giordani, anche se si può convenire che egli non avesse del tutto ragione di preferire alla Farsaglia del C. quella, più fedele ma alquanto stentata, di Michele Leoni; dei resto il Giordani divenne, in seguito, meno severo verso il Cassi.

Bisogna aggiungere che le infedeltà del C. verso il testo di Lucano non si svilupparono del tutto coerentemente a quell'ideale di "semplicità" neoclassica che sarebbe piaciuta ai redattori del Giornale arcadico. Specialmente a cominciare dal libro VI, si nota una tendenza diversa, ad amplificare quell'elemento misterioso-magico del poema che già era piaciuto a Goethe: tendenza non tanto "romantica" nel senso storicamente determinato del termine, quanto piuttosto ossianesca. Essa aveva già suscitato le riserve di G. Salvagnoli nella recensione al tomo I, e andò accentuandosi nel seguito della versione. Infine, se si tiene presente la produzione poetica del C. negli ultimi anni, appare probabile che l'attenuazione o soppressione dei passi "empii" negli ultimi libri non sia dovuta solo all'intervento già menzionato della censura ecclesiastica., ma anche a un mutamento d'idee e di sentimenti del traduttore.

Ciò nonostante, la Farsaglia del C. mantiene un posto onorevole tra le versioni classicistiche del primo Ottocento. Accanto all'esempio inarrivabile dell'Iliade del Monti, il C. tenne presente l'Eneide del Caro (cfr. Monti, Epist., VI, p. 170), alla quale la sua Farsaglia rassomiglia per il suo carattere, tuttavia più pronunciato, di libera traduzioneimitazione e per certi non felici espedienti stilistici, ad esempio per l'inserzione di emistichi o di interi versi danteschi. Una versione così libera non può essere giudicata in quanto sussidio esegetico; eppure il C. era buon conoscitore del suo Lucano, e in qualche punto la sua interpretazione è filologicamente più corretta di quella dei traduttori e commentatori suoi contemporanei e persino dei più recenti (un es. in Maia, XIX [1967], p. 371 n. 2). Meritato è, quindi, il sia pur non unanime successo che il C. ottenne, e che è testimoniato, più che da lettere private come quella del Manzoni (in cui va fatta sempre la dovuta parte alla mera cortesia), dalle nuove edizioni che la sua Farsaglia ebbe dopo che egli era morto (Venezia 1850, nella collana Antonelli dei classici latini; Firenze 1881, nella collezione "Diamante" Barbera diretta dal Carducci, a cura di C. Gargiolli). È anche significativo che il Cattanco, frequentatore e seguace del Monti negli anni giovanili, ponga come motto allo scritto Se fossi ricco! (in Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, I, Torino 1972, p. 3) un verso di Lucano (1, 165)nella versione del C. (1, 265):"La santa povertà madre d'eroi".

Prima del C. c'era già tutta una tradizione di "continuatori" del poema lasciato interrotto da Lucano (per esempio nel sec. XVI Giulio Morigi, nel sec. XVII Thomas May, quest'ultimo in latino): ci si proponeva, per lo più, di arrivare fino alla fine della guerra civile o fino alla morte di Cesare. Anche il C. volle mettersi per questa strada: del resto, la sempre crescente libertà con cui aveva parafrasato il testo di Lucano costituiva un implicito stimolo a proseguire il poema non più come traduttore, ma come autore. Dopo aver preannunziato tale suo proposito nella Licenza posta in fine alla traduzione (e pubblicata anche a parte), nel 1839 pubblicò a Pesaro un Saggio di proseguimento della Farsaglia, di 513 versi; dopo la sua morte, il nipote Giulio Schiavini Cassi pubblicò dalle carte dell'avo un Secondo saggio di proseguimento alla Farsaglia (Pesaro 1858) e, in collaborazione con la moglie Francesca, un Terzo saggio (Pesaro, stesso anno: in tutto circa 300 versi). Ma, in confronto alla traduzione di Lucano, si nota uno scadimento irreparabile, anche riguardo allo stile e al vigore ritmico dei versi.

Una grave disgrazia familiare si era intanto abbattuta sul Cassi. L'unica figlia Elena, che aveva sposato il conte Michele Schiavini, recatasi a Pisa per subire un intervento chirurgico (lett. del C. in Leopardi, Epist., VI, p. 341), morì in quella Città il 22 apr. 1837 (cfr. la partecipazione funebre a stampa, Bibl. Apost. Vaticana, autogr. Ferraioli 2851). Fu, come attestano concordi i biografi e come appare dalle lettere, un colpo da cui il C. non si riebbe più, e che dovette affrettare quel ritorno alla religione, quell'allontanamento dal libertarismo e dal laicismo, che in lui era già in atto da alcuni anni. Si trattò però di un ritorno alla religione tradizionale, non, come si è supposto, di una conversione al romanticismo. Come gusto e stile letterario il C. rimase un classicista (nella cultura marchigiana, del resto, il romanticismo non era mai veramente penetrato); tutt'al più fece qualche concessione a quella maniera ossianesca che già notammo negli ultimi libri della versione di Lucano. I due saggi di versione delle Notti di Edward Young (Volgarizzamento della VI Meditazione notturna dello Young, Pesaro 1834; Libera versione della XI Medit. notturna di Odoardo Young, in Prose e poesie... di italiani viventi, IV, Bologna 1836, pp. 214-216) sono pur sempre su questa linea. Basti pensare che lo Young era stato già ripetutamente tradotto, ottenendo un grande successo, nell'ultimo Settecento (G. Bottoni, L. A. Loschi), e che ad un gusto di questo tipo aveva inclinato il Monti stesso negli sciolti al principe Chigi, nei Pensieri d'amore e nel Bardo della Selva Nera. E infine gli inni sacri coi quali egli concluse la sua carriera poetica (Alla beata Michelina proteggitrice di Pesaro, Pesaro 1838; A santa Mustiola comprotettrice della città di Pesaro, ibid. 1841; Alla beata Felice Meda comprotettrice della città di Pesaro, ibid. 1844) non s'ispirano al modello di quelli del Manzoni (strofe brevi e veloci, ricerca di una religiosità nuova), ma sono una trasposizione in termini cristiani del tipo di inno "omerico" o callimacheo, al quale si era già conformato, nei suoi Inni sacri, il concittadino e parente del C., Terenzio Mamiani. Al Mamiani (e ad un altro distinto letterato di quella cerchia, G. I. Montanari) il C. rassomigliò anche nello spirito di sincera tolleranza, per cui continuò ad ammirare, per es., il Leopardi: un accenno ammirativo al Leopardi si trova ancora nel terzo degli inni (p. 10).

Negli ultimi anni il C. fu colpito da grave malattia: cecità, frequenti attacchi apoplettici (Marzetti, pp. 30-32; lett. del 2 aprile 1845, a Firenze, Bibl. nazionale, Carteggi vari, 20, 11). Morì a Pesaro il 5 giugno 1846.

Mentre la biblioteca del C. è andata dispersa (Pascucci, 1956-57, p. 195), le sue carte si trovano, per la maggior parte, a Pesaro, Bibl. Oliveriana (Mazzatinti-Sorbefli, Inventari, LII, pp. 173-193; la catalogazione non è del tutto esatta e completa, cfr. Pascucci, 1964, p. 80 n. 5). Un altro cospicuo gruppo di suoi autografi (circa 200) è nel fondo Piancastelli della Bibl. civica di Forlì; altri ancora nella Bibl. Federiciana di Fano (Mazzatinti-Sorbelli, LI, pp. 57, 94) e nella Bibl. Gambalunghiana di Rimini. Lettere inedite si trovano in moltissime biblioteche: oltre quelle indicate nei vari volumi degli Inventari di Mazzatinti-Sorbelli (per Pesaro vedi anche le carte Antaldi e Perticari e in generale gli indici dei nomi dei voll. LII e XLVIII degli Inventari;per Fano, ibid., XXXVIII., pp. 77, 172, 179), si vedano per es. alla Bibl. Apost. Vaticana, gli autografi Ferraioli 2823, 2830, 2831, 2833-43, 2845-46, 2848, 2850; a Firenze, Bibl. nazionale, Carteggi Vari, 20, 9-12; 51, 1; 444, 100; 453, 25; 463, 21; sempre a Firenze, Bibl. Moreniana (Riccardiana), autografi Frullani, 300-302, ecc. Tra le lettere edite, oltre quelle contenute nell'Epistolario di V. Monti, a cura di A. Bertoldi, Firenze 1928-31, e del Leopardi, a C. di F. Moroncini, cfr. Lettere inedite di uomini illustri, a cura di F. Cicconetti, Roma 1866, pp. 22-26 (a F. Odescalchi); Lettere edite ed inedite del cav. D. Strocchi, a cura di G. Ghinassi, II, Faenza 1868, pp- 84 s. 100 s., cfr. p. 258; Lett. di G. Capponi e di altri a lui, a cura di A. Carraresi, V., Firenze 1887, p. 309; L. Amaduzzi, Spigolature letterarie ined., Savignano 1892, p. 47 (lett. a L. Nardi); G. Natali, Un poeta maceratese, Macerata 1898, pp. 52-57.

Fonti e Bibl.: Un'ampia bibliografia (fino al 1955) è data da I. Pascucci, Appunti bibliografici su F. C. e sul volgarizzamento della "Farsaglia" di Lucano, in Studia Oliveriana, III (1955), pp. 71-79: suo unico difetto, a parte qualche inevitabile lacuna, è di essere troppo poco suddivisa per singoli argomenti. Notizie sulla vita e le opere: G. Marzetti, Elogio di F. C., Pesaro 1846 (tuttora indispensabile); D. Paoli, Art. necrologico pel conte C., in Esercitazioni dell'Accad. agraria di Pesaro, X (1847), 2, p. 109; necrol. di F. Papalini, in L'Album: giornale letterario di belle arti, XIV (1847-48), pp. 370 s.; G. I. Montanari, Elogio del conte F. C., in Giornale arcadico, CXX (1849-50), pp. 243-260; G. Mestica, Manuale d. letteratura italiana nel sec. XIX, I, Firenze 1882, pp. 424-427 (un po' troppo apologetico, ma ricco di notizie basate anche su ricordi personali). Sul C. politico vedi inoltre per il periodo napoleonico e murattiano: S. Caponetto, Il giacobinismo nelle Marche: Pesaro nel triennio rivoluzionario 1796-1799, in Studia Oliveriana, X (1962), pp. 1-122 (dove è tenuto conto anche di precedenti lavori); N. Bianchi, I circoli costituzionali durante la prima Repubblica Cisaltina nella Romagna, nelle Marche e nell'Umbria, in Rass. stor. d. Risorg., VI (1919), pp. 387-434, spec. 406-412; G. Pepe, Memorie intorno alla sua vita... scritte da lui medesimo, Lugano 1847, I, pp. 362-434 passim;per il periodo della Restaur. e sulla sua vera o presunta apparten. alla carbon.: D. Spadoni, Sette, cospir. e cospiratori nello Stato Pontif. all'indomani della Restaur., Roma-Torino 1904, pp. XXIV, XXXVII; N. Bianchi, Processo di cospiratori carbonari dell'Alta Marca (1825-27), in Rass. stor. d. Risorg., XVI (1929), pp. 1-54; per la sua partecipazione ai moti del 1831: Un diario ined. della rivoluz. del 1831 a Pesaro (di Geltrude Busi), a cura di E. Spagni, Venezia 1909; G. Vicini, La rivoluz. dell'anno 1831 nello Stato Romano, Imola 1889, pp. 45-49; D. Spadoni, Fisionomia del moto del '31 nelle Marche, in Le Marche nella rivoluz. del 1831, Macerata 1935, pp. 1-25; M. Petrini, La rivoluz. a Pesaro, ibid., pp. 27-48; più sporadici accenni al C. in L'apporto delle Marche al Risorgim. nazionale, Ancona 1961; utile, ma non privo di qualche inesattezza e troppo genericamente "patriottico" è il profilo del C. politico di G. Manacorda, in Diz. d. Risorg. naz., II, Milano 1930, p. 587- Sull'opera svolta come gonfaloniere di Pesaro e promotore di istituzioni culturali e filantropiche cfr. i necrologi cit. all'inizio. Sui suoi rapporti col Borghesi e con l'Accademia dei Filopatridi: G. Gasperoni, L'Accademia dei Filopatridi di Savignano, Bologna 1898, passim; Id., Saggio di studi storici sulla Romagna, Imola 1902, pp. XLI-LIII, 127-145; A. Campana, Borghesi e Leopardi, in Critica e storia letteraria: studi offerti a M. Fubini, Padova 1970, I, pp. 706-7091 G. Seganti, cit. più sotto. Col Giordani (e giudizio del Giordani sulla sua Farsaglia):cfr. Lettere ined. di P. Giordani a L. Papi, Lucca 1851, p. 116 (17 apr. 1833: contiene la critica già accennata sopra); lett. a P. Zambelli in I. Della Giovanna, P. Giordani e la sua dittatura letteraria, Milano 1882, pp. 217 s.; al C., in P. Giordani, Lettere, a c. di G. Ferretti, II, pp. 121 s. (implica un giudizio più favorevole, forse non dovuto a mera cortesia formale, verso il C. traduttore e continuatore del poema di Lucano); a D. Paolì, ibid., p. 149. Col Leopardi: cfr. i passi dell'Epistolario leopardiano cit.; I. Pascucci, Di tre lettere di G. Leopardi, in Convivium, XIV (1942), pp. 192-194; A. Campana, cit., p. 707. Col Monti e con Costanza Monti Perticari: Epistolario del Monti, cit., ad Indicem;G. S. Scipioni, Alcune lettere e poesie di C. Monti Perticari, in Giorn. stor. d. lett. it., XI (1888), pp. 79, 83-91; E. Masi, Parrucche e sanculotti, Milano 1886, pp. 239-267; C. Monti Perticari, Lettere ined. e sparse. a c. di M. Romano, Rocca San Casciano 1903; M. Romano, C. Monti Perticari, Rocca San Casciano 1903, pp. 63-65, 109, 119-122, 126-166 e passim;M. Borgese, C. Perticari nei tempi di V. Monti, Firenze 1941, pp. 156-245 e passim (ha attinto in parte a materiali inediti raccolti da A. Garavini sotto il titolo Ritratto stor. della contessa C. Monti Perticari, conservati nella Bibl. dell'Archiginnasio di Bologna); C. Selvelli, L'anonimo libello diffuso a Milano..., in Arch. stor. lomb., s. 8, II (1950), pp. 318-322; G. Seganti, F. C. e C. Monti, in Studi romagnoli, VIII (1957), pp. 639-653. Con G. G. Belli: R. Ciampini-G. Orioli, Lettere ined. di G. G. Belli a F. C., in Studi romani, VIII (1960), pp. 570-582 (cfr. anche le edizioni di G. G. Belli, Le lettere, a c. di G. Spagnoletti, Roma 1961, I, pp. 306, 361, 364, 381, 392; II, p. 514; e Lettere, Giornali, Zibaldone, a e. di G. Orioli, Torino 1962, pp. 155-156). Col Mamiani: E. Viterbo, T. Mamiani: lettere dall'esilio, Roma 1899, ad Indicem. Col Manzoni: R. Braccesi, Di una lett. del Manzoni al C., in Studia Oliveriana, VII (1959), pp. 113-118 (inclina a credere che la lode tributata alla Farsaglia del C. sia una mera espressione di cortesia; di contro, cfr. I. Pascucci, in Le Parole e le idee, cit. più sotto, con singole obiezioni giuste, che però non infirmano sostanzialmente l'interpretazione del Braccesi). Con Caterina Franceschi Ferrucci: Epist. di C. Franceschi Ferrucci, a c. di G. Guidetti, Reggio Emilia 1910, pp. 72-77, 130-134, 163-165 (essa fu sempre grata al C. di aver combinato il suo matrimonio, singolarmente felice, col latinista Michele Fegrucci). Per rapporti con altri intellettuale personaggi politici cfr. anche E. Viterbo, Lettere ined. di illustri italiani a F. C., Pesaro 1591. Sull'attività letteraria del C. e specialmente sulla versione di Lucano, oltre i saggi biografici cit., cfr. G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1913, I, pp. 379 s.; II, p. 1358 (nelle successive edizioni la trattazione è invariata, ma mancano i riferimenti bibliografici); I. Pascucci, Sulla "Farsaglia" tradotta da F. C., in Studia Oliveriana, IV-V(1956-57), pp. 192-202; M. Zicari, Il Lucano del C., ibid., XI (1963), pp. 23-25; I. Pascucci, Appunti sulla traduz. della "Farsaglia" di F. C., in Le Parole e le idee, VI (1964), pp. 73-84. Giudizi di contemporanei sulla versione della Farsaglia, in S. Betti, recens. al Saggio del 1820, in Giorn. arcadico, VI (1820), pp. 86-100; P. Odescalchi, recens. al primo Manifesto del C. con invito a contribuire alla stampa della Farsaglia e al monumento al Perticari, ibid., XXIX (1826), pp. 368-373; G. Salvagnoli, rec. al volume I della Farsaglia, ibid., XXXIV (1827), pp. 80-96; M. [G. Montani], rec. allo stesso, in Antologia, XXIX (1828), gennaio-marzo, pp. 168-170 (ammette la legittimità di una traduzione molto libera come quella del C., di cui peraltro ha veduto direttamente solo il primo fascicolo); G. I. Montanari e F. L. Polidori, lett. aperte in elogio della versione del C., in Giorn. arcadico, LXVI (1836), pp. 305-309; F. Romani, Critica letteraria, Torino 1883, I, pp. 119-123; L. Mancini, Scherzi in rima d'un accad. della Crusca, Firenze 1843, p. 24 ("della più che civile guerra più che parafrasi"); G. Carducci, Ceneri e faville, s. 3, in Opere (ed. naz.), XXVIII, pp. 175 s. (elogia una dissertaz. inedita di Anna Evangelisti Su la Farsaglia di Lucano e su la traduz. della medesima fatta dal conte F. C., senza peraltro esprimere un giudizio preciso sul Cassi). In generale sul "lucanismo" nel primo Ottocento: L. Paoletti, La fortuna di Lucano dal Medioevo al romanticismo, in Atene e Roma, n.s., VII (1962), pp. 144-157, spec. 154-156; P. Treves, Lo studio dell'antichità class. nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962, pp. 444 s.; S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa 1969, pp. 149 s. Un ritratto del C., conservato a Forlì, Bibl. civica, fondo Piancastelli, è riprodotto nell'op. cit. della Borgese, p. 255, tav. XIV.

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