CENNINI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CENNINI, Francesco

Gaspare De Caro

Nacque a Sarteano, borgo del dominio senese, il 21 nov. 1566, da Curzio, di antica famiglia del luogo, nota sino al sec. XV col cognome di Salamandri, e da Iacoma Franceschi. Addottoratosi in diritto civile e canonico nello Studio di Siena, prese gli ordini nel 1591. In questo medesimo anno gli fu attribuito dal vescovo di Chiusi Ludovico Martelli il beneficio della parrocchia di S. Vittoria fuori le mura di Sarteano. Questa concessione fu tuttavia oppugnata dal camaldolese Anselmo Venturi, che vide accolte le proprie ragioni dal tribunale romano della Sacra Rota. Per compensare il C. del perduto beneficio il Martelli lo chiamò presso di sé, nominandolo arciprete della cattedrale di Chiusi e vicario generale della diocesi.

In tale ufficio il C. rimase alcuni anni, trasferendosi quindi a Roma, dove entrò al servizio del cardinale Girolamo Bernieri in qualità di uditore, compiendo al suo fianco un lungo e proficuo tirocinio negli affari di Curia, specialmente dopo l'elezione al pontificato, nel 1605, di Camillo Borghese, Paolo V, del quale il Bernieri fu un assiduo collaboratore. Tale tirocinio consentì al giovane prelato di guadagnarsi l'apprezzamento del pontefice e del cardinale Scipione Borghese che nel 1611, alla morte del Bernieri, volle che il C. entrasse a far parte della propria famiglia: morto poi l'anno successivo l'uditore del cardinale, il vescovo di Amelia A. M. Franceschini, il Borghese attribuì tale incarico al C. e gli procurò il vescovato rimasto vacante con bolla pontificia del 1ºott. 1612.

Il C. divenne così il principale collaboratore del munifico cardinal nepote di Paolo V, partecipando alle sue splendide intraprese mecenatizie e rappresentandolo negli affari più disparati, dall'amministrazione della piccola corte privata alla direzione degli affari religiosi ai quali il cardinal nepote era preposto. Ma soprattutto entrava a far parte della ristretta cerchia di governo del pontefice, come dimostra la sua partecipazione alle principali congregazioni romane, da quella del Buon Governo a quella dell'Abbondanza, dalla Consulta alla Congregazione del Sacro Palazzo; e ancora più significativo è che gli fosse affidata, senza alcuna speciale qualifica ufficiale ma a quanto pare con poteri assai ampi, la supervisione della corrispondenza del pontefice e del cardinal nepote.

Il 17 luglio del 1618 Paolo V accreditò il C. quale nunzio apostolico permanente alla corte del re di Spagna Filippo III, in sostituzione del cardinale Antonio Caetani, e il 17 dicembre di quello stesso anno aggiunse al suo titolo episcopale di Amelia quello di maggior risonanza di patriarca di Gerusalemme.

La scelta del C. per una così importante rappresentanza della S. Sede è una nuova prova di quanto si facesse affidamento su di lui nella Curia borghesiana. Il momento politico internazionale era gravido di minacce alla pace europea per l'evidente gravità della crisi apertasi in Boemia: la missione del C. presso Filippo III aveva dunque come principale obiettivo quello di caldeggiare presso il governo spagnolo la causa di un accordo tra le potenze, che impedisse l'allargarsi del conflitto insorto nel seno dell'Impero, e di rinnovare, al tempo stesso, le proteste di neutralità del pontificato, secondo la linea che Paolo V si era imposto, tra Asburgo e Francia, sin dall'inizio del suo governo della Chiesa. In realtà, la breve durata della missione del C. a Madrid, conseguente alla morte del pontefice, impedì che essa potesse assumere una effettiva rilevanza in rapporto ai maggiori problemi internazionali. Maggior peso ebbe l'opera del C. nel rinsaldare i rapporti di cordialità tra la corte spagnola e la famiglia Borghese, incombenza in definitiva secondaria ed alla quale tuttavia Paolo V attribuiva grande importanza. Già il C. aveva avuto una parte notevole, lavorando in Curia, nella definizione della questione dell'elevazione alla porpora cardinalizia del favorito di Filippo III, il duca di Lerma, lungamente sollecitata dal sovrano spagnolo: l'elezione era avvenuta il 26 marzo del 1618, con molte difficoltà di carattere canonico e diplomatico. Ora un analogo desiderio Filippo III mostrò per il figlio minore, l'infante decenne Ferdinando, e la cosa appariva soprattutto difficoltosa per le inevitabili gelosie della Francia, accresciute appunto dalla recente elevazione del Lerma. Il C. dedicò i primi mesi della nunziatura a portare a buon fine anche questa candidatura e l'infante Ferdinando ricevette la porpora il 29 luglio 1619.

La cosa aveva un evidente carattere di concessione personale di Paolo V al sovrano spagnolo ed esigeva un corrispettivo che non poteva tardare: infatti, tramite sempre lo zelante C., Filippo III concesse di lì a poco il grandato di Spagna al nipote del pontefice, il principe di Sulmona Marcantonio Borghese. Anche in questo caso le arti diplomatiche del C. dovettero superare notevoli difficoltà di carattere politico e protocollare, tanto che la concessione avvenne sotto la forma di uno speciale favore da parte di Filippo III al C. stesso per evitare l'impressione di un accordo diretto tra il re ed il papa.

L'11 genn. 1621 Paolo V premiò il C. con la porpora cardinalizia. Era uno degli ultimi atti del pontificato: Paolo V morì infatti il 28 gennaio ed il C., messosi in viaggio alla volta di Roma per partecipare al conclave, dovette far ritorno alla corte di Madrid avendo ricevuto lungo la strada la notizia della già avvenuta elezione al pontificato del cardinale Alessandro Ludovisi, Gregorio XV.

Dal nuovo pontefice il C. ricevette l'incarico di illustrare le valutazioni e le direttive della Curia in merito agli avvenimenti politici che precipitavano drammaticamente verso un generale conflitto europeo: dalla guerra di Germania alla minaccia di una ripresa del conflitto tra Spagna e Olanda, dal pericolo di una aggressione dei Tartari e dei Turchi contro la Polonia, alle lotte intestine di Francia. In questo quadro, come scriveva il 26 marzo 1621 Gregorio XV a Filippo III, destava grandi preoccupazioni nel pontefice la possibilità che l'atteggiamento assunto dal governo spagnolo sulla questione della Valtellina potesse estendere la guerra anche all'Italia, pericolo contro il quale il pontefice dichiarava di voler impegnare tutte le proprie risorse.

Tale posizione pontificia suonava come una netta condanna del trattato concluso il 6 febbr. 1621 separatamente tra la Spagna ed il Gran Consiglio valtellinese, il quale agli occhi del papa non soltanto pregiudicava la causa della religione cattolica nella regione, ma anche dava occasione di sospetto a Venezia ed alla Francia, minacciando la pace italiana. Far presente a Filippo tale atteggiamento di Gregorio XV senza inasprire i rapporti tra Roma e Madrid, e soprattutto senza destare sospetti di connivenza tra il papa ed i nemici della Spagna, come caldamente raccomandava al nunzio il nuovo cardinal nepote Ludovico Ludovisi, fu l'ultimo compito diplomatico del C. alla corte madrilena: a Roma infatti era stato già deciso il suo richiamo e la sua sostituzione col patriarca di Alessandria Alessandro de Sangro.

Il richiamo del C. non era che una tra le molte manifestazioni di animosità del nuovo pontefice nei riguardi delle creature del suo predecessore. Il periodo di offuscamento delle fortune della famiglia Borghese, coincidente con il pontificato ludovisiano, non poteva non coinvolgere chi, come appunto il C., era stato tra i più fedeli collaboratori di Paolo V e di Scipione Borghese e in definitiva nell'ultimo decennio era stato il più accorto e zelante procuratore degli interessi della famiglia. Tornato a Roma, il C. ricevette ufficialmente il cappello cardinalizio col relativo titolo di S. Marcello, e fu tutto quello che egli potette ottenere da Gregorio: non solo infatti il papa lo escluse dagli affari di Curia, ma rifiutò anche di prendere in considerazione la richiesta del C. di qualche prebenda che gli permettesse di far fronte alle spese della porpora con quella dignità che le modeste rendite del vescovato di Amelia non consentivano.

Nel conclave seguito alla morte di Gregorio XV, nel luglio 1623, il partito dei cardinali di Paolo V che facevano capo a Scipione Borghese sembrò inizialmente dominare la situazione ed il C. stesso parve dovesse trarne un personale vantaggio: la sua candidatura fu infatti più volte proposta, ma infine i suoi stretti legami con Scipione Borghese finirono per nuocergli. La netta opposizione dei cardinali di Gregorio XV contro l'elezione di un così scoperto partigiano del partito avversario finì per rendere necessaria una soluzione di compromesso, alla quale finalmente accedette lo stesso Scipione Borghese, nel nome del cardinale Maffeo Barberini. Più tardi lo stesso Urbano VIII dichiarò di aver ritenuto assai probabile l'elezione del C. e di aver egli stesso votato per lui numerose volte.

Urbano VIII reintegrò subito il C. in funzioni di governo adeguate alla sua esperienza ed alla sua capacità: il 2 ott. 1623, infatti, lo trasferì al più pingue vescovato di Faenza ed il 20 novembre successivo lo nominò legato di Ferrara; ma soprattutto gli affidò le trattative con il duca di Urbino Francesco Maria Della Rovere per il riconoscimento dei diritti dello Stato pontificio sul ducato nel caso che il duca stesso, come sembrava probabile, morisse senza eredi.

Urbano VIII attribuiva grande importanza all'annessione del ducato alla S. Sede: esso costituiva in effetti l'ultima signoria particolare all'interno dello Stato pontificio e ne comprometteva l'unità politica e geografica; inoltre la sua annessione avrebbe garantito alla Chiesa nuovi importanti scali marittimi a Senigallia, Pesaro e Fano. La devoluzione tuttavia appariva difficoltosa sia per le riserve del vecchio duca a prendere impegni che ledessero la sua sovranità, sia per le rivendicazioni che sul ducato vantava l'imperatore e per quelle avanzate dal granduca di Toscana sulla contea di Montefeltro, dipendenza del ducato urbinate. Mentre la diplomazia pontificia si prodigava, di conserva con le dotte elucubrazioni dei giureconsulti, per dimostrare la inconsistenza delle pretese di Ferdinando II d'Asburgo e delle reggenti di Ferdinando II de' Medici, il C. si portò presso Francesco Maria Della Rovere a sventare le manovre che gli inviati imperiali e toscani ordivano nella piccola corte del principe, e circuì con i ben più potenti argomenti della religione a tal punto il duca che questi, "che voleva terminare in pace i suoi giorni" (Pastor, XIII, p. 272), si indusse finalmente il 4 nov. 1623 a soddisfare con una lettera al papa tutte le richieste della Curia.

Nella legazione di Ferrara, governata senza particolari difficoltà, il C. rimase sino al marzo 1627, allorché fu sostituito dal cardinale Giulio Sacchetti. Da allora il C. visse per circa tre lustri a Roma, impegnato nelle attività delle congregazioni, governando da lontano il suo vescovato di Faenza per mezzo di vicari, fino a che Urbano VIII, il 25 febbr. 1641, lo trasferì alla sede episcopale di Sabina.

Alla morte di Urbano VIII, nel lungo conclave che ne seguì, la candidatura del C. venne nuovamente proposta ed ottenne inizialmente larghi consensi, sebbene in definitiva finisse per prevalere contro di lui la considerazione della sua età eccessivamente avanzata. Sembra che il C., sul cui nome conversero sino a ventotto voti, fosse sostenuto decisamente dal partito spagnolo, a quanto pare perché lo si riteneva ostile al cardinale Antonio Barberini, protettore di Francia. Fu proprio il delinearsi di un suo possibile successo ad indurre Antonio Barberini, contro il mandato ricevuto dal Mazzarino e senza aver modo di informare il potente ministro, ad appoggiare la candidatura di Giovan Battista Pamphili, determinandone l'elezione.

Innocenzo X attribuì al C. la carica, di cui egli stesso era stato titolare sino alla elezione al pontificato, di prefetto della Congregazione del Concilio ed il C., malgrado la sua tarda età, sorprese i suoi collaboratori e gli altri cardinali componenti della Congregazione con l'ancora grande capacità di lavoro. Il 6 marzo del 1645 fu trasferito alla sede episcopale di Porto, come competeva alla sua qualità di vicedecano del Collegio dei cardinali.

Morì a Roma il 2 ott. 1645. Secondo il suo stesso desiderio, ultimo omaggio alla memoria del suo grande protettore, volle essere seppellito nella cappella Paolina della basilica romana di S. Maria Maggiore, ai piedi della tomba di Paolo V.

Fonti e Bibl.: F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra, I. Venetiis 1717, col. 304; L. V. Pastor, St. dei papi, XII, Roma 1930, pp. 229, 247 s.; XIII, ibid. 1931, pp. 28, 156, 230, 232 s., 238, 242; XIV, 1, ibid. 1932, pp. 14 s., 19, 143; D. Bandini, F. C. cardinale di S. R. Chiesa, in Bull. senese di storia patria, s. 3, XLIX (1942), pp. 37-50, 93-116; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor.-eccles., XI, p. 79.

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