CONTARINI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Francesco

Gino Benzoni

Nacque a Venezia il 7 ott. 1554, primogenito di Bertucci (1573-1576) di Francesco e di Lucia di Marco Dolfin in una famiglia, appartenente al ramo della cosiddetta "dalla porta di ferro", il cui patrimonio, stando afia redecima del 1582, comportava una rendita annua di 1.142 ducati.

Ebbe tre fratelli, Giovanni (1558-1620), che sarà capo del Consiglio dei dieci, Dolfin (1559-1587), Nicolò (1563-1648), che sarà pur egli capo dei Dieci ed un cui figlio, Alvise, diverrà doge, ed una sorella, Contarina, sposa, nel 1587, ad Antonio Lando di Girolamo. Il C. non va confuso col coevo Francesco Contarini figlio naturale di Taddeo, prolifico autore e docente a Padova; ed è, altresì, da distinguere da altri omonimi quali il Francesco Contarini di Piero nella lista dei quaranta giovani nobili destinati al "servigio" di Enrico III in occasione del suo passaggio, nel 1574, per Venezia e, nel 1603-1604, capitano a Vicenza, e il Francesco Contarini di Luca Francesco all'inizio del Seicento sopracomito, quindi capitano a Zara e, poi, conte di Lesina.

Munito di una discreta cultura filosofica e letteraria, il C. volle concludere la fase formativa della sua esistenza con un'arricchente esperienza di viaggio. La "peregrinazione" inducente alla visione diretta di "molti costumi de' popoli" è, infatti, "norma dei viver politico e civile", annota il C. negli appunti stesi durante l'itinerario, del 1580-1581, in Spagna e Portogallo. E Giovan Francesco Morosini, rappresentante veneto a Madrid, che nel "ritorno" l'ebbe "per compagno", l'elogia, nella relazione, quale giovane dai "virtuosi costumi" e dal "bel giudicio", che, appunto, nel "veder" il "mondo" e le "corti", ha "voluto... metter in pratica" quanto appreso dai "libri". Il C. è ormai pronto per una brillante carriera politica cui preferisce, rimanendo scapolo, dedicare tutte le sue energie.

Con ogni probabilità risale alla fine del 1581 o all'inizio del 1582 una sua richiesta, non datata, d'"attion publica" che stronchi definitivamente la "voce calunniosa" insidiante il suo "honore, per rispetto del quale" tanto s'è "affatticato et nelli studii et nelle peregrinationi per il mondo". Si vocifera, infatti, sia in qualche modo coinvolto, addirittura - si dice anche - in veste di "reo", in "certi processi" relativi alle benedettine di S. Servolo. Una diceria fastidiosa per l'ambizioso giovane quella egli abbia bazzicato con monache. Perciò il C. proclama a gran voce che, in vita sua, mai è stato, nemmeno "una volta", né nella "chiesa" né, tanto meno, nel "monasterio" dell'isoletta lagunare. E, disposto a giocarsi la testa "quando fosse trovato in contrario", esige un pubblico attestato d'estraneità.

Eletto savio agli Ordini nel 1582, il 29 dic. 1583 presenta una Relation dell'Arsenale, succinto resoconto su la "fabrica d'i vasselli", specie galee, gli "apprestamenti" come "palamenti, sartiami, arbori", e le "fabriche che occorrono far alla zornata". Occasione di maggiore spicco l'incarico, del 14 maggio 1588, d'esprimere al nuovo duca di Mantova il cordoglio della Serenissima per la scomparsa del padre e, insieme, le felicitazioni per la successione.

Svolta rapidamente, nella seconda metà di settembre, la complimentosa missione, il C. legge, il 3 ottobre, una concisa relazione ove traccia una compendiosa "pittura" dei connotati del contiguo Stato: coglie acutamente il ruolo della presenza ebraica di "gran utilità e beneficio" specie in fatto di "dazi e mercanzie" e compensante gli effetti negativi del disdegno nobiliare per "simili esercizi"; pertinente il profilo di Vincenzo, fissato nella sua bruciante passione per la "milizia" (per "questo suo ardentissimo desiderio" il duca "non pensa e non parla d'altro") e arricchito da dettagli sui rapporti con i parenti, le "intelligenze" con altri principi, la "contenzione di Monferrato", il "marchesato fertilissimo e popolatissimo" che Vincenzo "possede... per eredità" della nonna patema Margherita, oggetto peraltro di manifeste cupidigie sabaude.

Nominato, il 4 apr. 1589, ambasciatore straordinario a Firenze e sbrigata, nella prima metà di maggio. l'incombenza di congratularsi per le nozze di Ferdinando con Cristina di Lorena, delle quali riferisce nei dispacci senza trascurare il contorno di "trattenimenti" balli e "apparati", il C. nella relazione tenuta in giugno, si sofferma sui tratti essenziali del granducato.

Una "provincia" abbondante "d'ogni sorte di biade", ricca d'olio e vino, felicemente delimitata - "recinta" com'è dai "monti" e dal "mare" - dalla natura. Si tratta, precisa, d'uno "stato... grande", con quindici "città", con capitale l'operosa Firenze, "bellissima e nobilissima"; dimentichi del "viver sotto republica", i popoli sono tranquilli e, anche, soddisfatti "sotto dominio di principe solo".

In effetti, spiega il C., il "governo" dipende "solamente dalla persona del granduca", che decide "come più gli pare"; persistono i "magistrati antichi", quelli, cioè, del "tempo della republica", ma senza reale autonomia di "giudicio", ché s'azzardano a formularlo solo dopo aver appurata "l'intenzion del granduca", regolante, per l'appunto, "i giudici come più li piace".

Più volte, a partire dalla fine del 1590, savio di Terraferma e incaricato, quanto meno nel 1594 e nel 1595, della "revisione" e "regolatione" delle "genti d'arme", scarta dalle "compagnie" gli "inhabili" e "incapaci", verifica le "bande habbino tutti li suoi officiali". Una quotidiana e assidua esperienza riflessa in una specie di diario che, con grosse lacune, va dal 1° aprile 1592 al 9 settembre 1595.

Vi abbondano le notizie miste, talora, ad osservazioni, specie sull'andamento del deliberare in Senato, la cui giornata è interrotta dal "disnar"; e il C. ci tiene a precisare se la riunione si svolge "prima" o "dopo" tale pausa. "Venne in collegio il secretario dell'imperator", "arrivorono lettere di Spagna", "fu letto un memoriale", "si ridussero i savi", "fu disputata la lite". Una registrazione un po' opaca e appiattente specie se accostata a coeve espressioni d'anticurialismo montante e sin rampante. Sintomatico che, al riesplodere del contrasto per l'alta sovranità su Ceneda, il C. sia anzitutto preoccupato: "comincio a scrivere un negotio che... dubito longo et molto travaglioso... il Signor Mo lo faccia terminar in bene". Il C. accenna, qua e là, alla sua attività personale: "andai a veder il studiol d'hobbano lasciato dal patriarca Grimani"; si reca a Padova "a veder le mostre che si son fatte sul Pra della Valle di 1500 fanti di cernide et di 6 di insegne". Un annotare rapido, comunque, e aridamente cronachistico; "in questo giorno - così alla fine di maggio del 1594 - è morto il famoso pittor... Giacomo Tentoretto che ha fatto molte opere in questa città et fuori et specialmente il bellissimo, quadro del Paradiso nella sala del Maggioi Consiglio". Non inutile, tuttavia, rovistare tra le grigie pagine del C.; vi si trova, ad esempio, la premessa d'una legge che - con altre due - scatenerà l'ira di Paolo V e l'indurrà alla scomunica e all'interdetto. In data 5 luglio 1593, il C. informa, infatti, della richiesta bresciana (sollecitata dal testamento d'una donna che, diseredando i "poverissimi o nipoti, aveva clamorosamente e lasciato tutto il suo" ai gesuiti) di rispettare integralmente uno "statuto" proibente il "lassar beni stabili a' religiosi". Gli "ambasciatori" della città, considerando che, ormai, gli immobili in mano ecclesiastica costituiscono la "terza parte" della proprietà, insistono sul ricorso ad una legislazione che blocchi ulteriori ampliamenti, che difenda i e laici".

Il 30 dic. 1596 C. - che già il 6 nov. 1594 aveva avutp dei suffragi in occasione dell'assegnazione della rappresentanza spagnola, toccata, comunque, ad Agostino Nani - viene eletto ambasciatore in Francia, ove risiede dal settembre del 1597 al febbraio del 1600, spettatore della rimessa in moto della malconcia macchina statale da parte di Enrico IV. Esponente della Serenissima che tanto s'è adoperata per la riconciliazione tra il nuovo re e la S. Sede e che tanto ha, antecedentemente, caldeggiato la soluzione borbonica della crisi, il C. via via si rallegra col sovrano per i "felici successi - dalla presa di Amiens all'"acquisto... della Bertagna", dalla "pace" col re cattolico alla "nullità et dissolutione dei matrimonio" - grazie ai quali costruisce la necessaria "quiete" e recupera la "pristina grandezza dei regno". Una laboriosissima ricucitura - di cui l'editto di Nantes, contestatissimo, resta tappa saliente - sulla quale i dispacci del C. si diffondono meticolosi e, insieme, consenzienti colla ferma determinazione regia, non senza ammirazione per la sagace e duttile sua capacità dalternare argomentazioni persuasive ed energici scatti di ferrea autorità. Savio del Consiglio nel 1601, il C. viene nominato bailo il 12 marzo 1602. Donde il prolungato (e disturbato da "continuate e intermittenti indispositioni" fisiche) soggiorno a Costantinopoli, dove sbarca il A novembre partendone il 2 dic. 1604.

Da salvaguardare anzitutto i pacifici rapporti tra Venezia e la Porta, pur nel proseguire della "guerra di Ungheria" e pur essendo a causa de "li motti d'Asia" e dell'esasperai rivalità tra i ministri, "estraordinaria" la "confusione nel governo". C'è il rischio gli "avantaggi" della pace venetoturca e la connessa sussistenza degli scambi siano compromessi dai sussulti delle "continue mutationi" ai vertici. Non facile il ruolo del diplomatico laddove si verificano "le frequenti sanguinose essecutioni contra li più principali ministri", quando, specie all'inizio del 1603, nessuno vuol diventare primo visir ché la massima carica è anche la più esposta ed insicura. Ogni alto dignitario teme per la sua testa; tutti fuggono dalle responsabilità, nel terrore di "cader in precipizio". Il C., rappresentante della Repubblica "bene ordinata" per antonomasia, è esterrefatto: i "comandamenti" dei sultano e dei "ministri" non vengono "obbediti", impazzano "licenza" e "insolvenza de' populi" nella mancata "reverenza verso i... superiori". Assiste allibito al tumultuare di "militie infuriate", alla terribile "sollevavatione" degli "spahi". Sbalordito nell'apprendere le truculente gesta delle orde banditesche scorrazzanti in Anatolia, trova inconcepibile il sommarsi di tante disfiinzioni ed orrori. Da un lato accumula notizie (e tra queste v'è quella dell'attiva presenza a Costantinopoli d'un frate, già complice di Campanella, che, fattosi turco, vuole riaccendere il focolaio sovversivo in Calabria, essendovi ben trecento, á suo dire, alcuni dei quali di "conto", che "tengono la setta maomettana"), dall'altro, convinto d'appartenere ad un mondo incomparabilmente superiore, ne inorridisce più che sforzarsi d'intenderle. È un mondo per lui diverso e, come tale, barbaro. Ciò non toglie che il C., quando il rinnegato Cicala (che lo scandalizza per la spudoratezza delle sue continue richieste di donativi) gli espone la "differenza" tra galee turche e veneziane, stia bene attento: "basse" le galere venete vanno bene "in bonascia", mentre le turche, più "alte", resistono meglio alle onde; più veloci le prime perché i galeotti, stipati in poco spazio, sono costretà a vogare quasi in piedi, mentre nelle seconde, essendo i banchi più distanziati, essi sono più "comodi" e più "durevoli". Ma il C. si guarda bene - egli che, pure, è disposto a commuoversi per la sorte degli schiavi, a parteggiare per loro quando fuggono - dal dedurre che, tutto sommato, il trattamento riserbato ai vogatori forzati è meno iniquo presso il Turco. C'è da dire, comunque, che, quando la scienza medica occidentale pare incapace di scalzare la sua inappetenza che via via diventa rifiuto e aborrimento del cibo, il C. non esita a ricorrere ad "un turco", il quale "li fece prendere" una pietra "cotta e scaldata" al massimo, ed "involta, la faceva applicare" alla pianta dei piedi. Con effetto positivo se sarà lo stesso C. a suggerire, anni dopo, il medesimo rimedio a Sarpi (lo ricorda Micanzio, in una lettera, del 15 ag. 1637, a Galilei), anch'egli colpito da analoga "infermità gravissima", di fronte alla quale i medici si dichiarano impotenti. Pure a Sarpi l'applicazione del mattone rovente "giovò assai"; donde il commento ironico di Micanzio che "le ricette di mastro Grillo alle volte sono migliori di quelle di Galeno".

Una volta a Venezia il C. vi è di nuovo savio del Consiglio e, il 26 luglio 1605 (lo stesso giorno in cui, nell'elezione dei nuovo patriarca, il suo nome ottiene qualche voto), viene incluso nell'ambasciata straordinaria di complimento a Paolo V per l'assunzione al soglio. Formata, oltre che dal C., da Francesco Molin, Pietro Duodo e Giovanni Mocenigo e resa spettacolare dalla nutrita scorta di quattordici nobili veneziani e da "buon numero" di nobili di Terraferma, questa ha luogo nella prima metà di novembre. Tocca al C., il più giovane dei quattro, la recita dell'orazione, con "ordine... gravità... eloquentia", nel "publico concistoro". Ma, al di là delle "dimostrationi di honore et di affettione" caratterizzanti i "quattro congressi" col pontefice e le visite ai cardinali, già emerge l'irrigidimento della S. Sede, già trapela il "gran disgusto" del nuovo papa - cocciutissimo nell'intransigente "rigor de termini legali" derivantegli da una formazione esclusivamente e sin soffocantemente giuridico-canonistica - verso la Repubblica rea di scarso rispetto per la "libertà et iurisditione ecclesiastica". Seguono, infatti, la rottura e la contrapposizione tra Roma e Venezia, durante le quali il C., pur convinto nell'intimo della liccità della legislazione veneta nei confronti dei clero, pur non insensibile alle motivazioni del settore più pugnace dei patriziato, preferisce non esporsi con vistose dichiarazioni d'intransigenza, si guarda bene dall'applaudire all'altrui irruenza. Comprensibile, pertanto, che il 21 apr. 1607, nell'atto stesso in cui i due avversari si riconciliano e ristabiliscono i rapporti, il C. venga eletto ambasciatore straordinario (e diventerà ordinario l'8 marzo 1608) al pontefice.

In fama d'uomo prudente, che - lungo tutto il corso delle infuocate "controversie" con la Sede apostolica - non s'è "mai espressamente decchiarito per alcuna delle opinioni che tenevano occupato e distratto l'animo della maggior parte de' senatori", sembra, infatti, il più adatto a facilitare la ripresa di relazioni il più possibile, serene, senza, peraltro, che ciò comporti la svendita del patrimonio ideologico e giuridico ispirante la prassi veneziana.

A Roma dal 9 giugno 1607 al 12 maggio 1609, il suo compito è reso estremamente arduo dal sussistere di vecchie incancrenite, questioni - quella dell'esame del patriarca, quella cenedese - e dal sovrapporsi d'ulteriori cause di frizione, quali la pretestuosa pretesa pontificia d'un impegno antiturco da parte di Venezia, l'insediamento lagunare del rappresentante inglese, il controverso conferimento dell'abbazia di S. Maria della Vangadizza le cui pingui rendite Paolo V vorrebbe destinare all'insaziabile ingordigia dei nipote cardinale Scipione Borghese. Ben presto svanita l'euforia della riappacificazione e subito sbollita l'effervescenza dei reciproci complimenti e delle mutue assicurazioni di "perfetta intentione" di rinnovata e rinsaldata "buona intelligenza" da costruire, concordi, insieme, resta un clima pesante saturo di memore astio, d'occhiuta diffidenza. Irriproducibile l'artificiosa sceneggiatura della prima udienza quando il C. si presenta a nome di Venezia "figliuola devotissima" dei papa e questi assicura che, dimentico della passata burrasca, professa per la città grandissimi amore e stima. I rapporti ricomincino con rinnovata cordialità, s'erano ripromessi entrambi. "Nova sint omnia et recedant vetera", aveva esclamato enfatico Paolo V. Irriducibile, invece, il rancore papale; privo dello sfogo chiassoso della rottura, ribolle malcelato sotto il coperchio delle convenienze, si fa acrimonia puntigliosa, nutrita costantemente da un'avversione che la ricomposizione (più subita che promossa dal papa la fine della contesa; boccone amaro e smacco cocente, non trionfo Personale), lungi dal rimuovere, ha anzi acuito ed esasperato. Venezia non è pecorella pentita; continua ad essere proterva ed arrogante. Intollerabile per Paolo V difenda i suoi "teologi": sono "heretici formali", motivo di vergogna e di "biasimo" per la Repubblica, "gran dishonore di Dio" e "vilipendio" della S. Sede. È scandaloso sia concesso a taluno di quelli di predicare. Il C. ha un bell'assicurare che si limitano a leggere passi scritturali. "Non sapete voi", esplode furibondo il papa, come "il tanto legger la scrittura guasti la religione cattolica?". Leitmotiv avvelenante questo dei "falsi theologi", pietra ingombrantissima d'inciampo nell'ingranaggio, di per sé complicato, delle riannodate relazioni. "Il pensiero romano è di haver tutti ad uno ad uno", osserva Sarpi. E il C., che, peraltro, ha messo in guardia sulle pressioni esercitate sui "teologi" più fragili e ricattabili, deve fronteggiare gli effetti della fuga a Roma di Futgenzio Manfredi e Pietro Antonio Ribetti. Loquacissimo il primo nel denunciare Venezia quale covo d'eresia, proprio mentre il C. s'affanna a dipingerla come adamantina roccaforte dei più specchiato e trasparente cattolicesimo. Ma il papa rimprovera la copertura a Giovanni Marsilio "apostata e bandito", la protezione, i favori, gli emolumenti concessi a Sarpi e Micanzio, "sentine d'heresie". Soprattutto Sarpi è oggetto d'odio violentissimo; e il C. subodora come a Roma si trami contro la sua vita, come siano romane le responsabilità dei tentato assassinio. Spie e sicari sono strumenti della determinazione d'eliminarlo.Un'atmosfera d'intrigo e sospetto, d'avversione e ripicca all'interno della quale il C., non senza disagio ed apprensione, ribadisce la lealtà e l'ortodossia venete, sostenendo, nel contempo, la condotta della Repubblica con dignitosa fermezza. "Non haverà mai per cattive propositioni quelle che sono predicate in diminutione dell'autorità" papale, mette in.guardia il nunzio a Venezia Gessi, invitando a diffidare di lui; è, infatti, della "scuola del principe", condivide, cioè, l'orientamento di Leonardo Donà. Del C. "sono noti i spiriti et i sensi", concorda il cardinal Borghese; "et piacesse a Dio che fossero stati migliori, perché le cose sarebbero in termini diversi da quel che sono". Colpa anche del C., dunque, se, come lamenta Gessi, "le cose ogni dì pigliano peggior piega". Certo, quando parte da Roma, non lo si rimpiange; gli subentra il "papista" Giovanni Mocenigo, "benissimo visto", a detta di Sarpi, negli ambienti curiali.

Di nuovo in patria, il C. vi legge, l'8 giugno 1609, la relazione incentrata soprattutto su Paolo V, che il C. s'ingegna di focalizzare in un ritratto fisico e psicologico: vigoroso e imponente nel suo "corpo grande" (anche se, particolare curioso, gli occorre la pettinatura mattutina d'un'ora per "evaporar la humidità... grande nella testa"), ha l'"animo cupo", è ombroso custode della sua "riputazione", ostinato nell'accrescerla. Privo di "cognitione delle cose del mondo e di stato" (cagione questa che, a suo tempo, l'indusse a fulminare Venezia coll'interdetto), è, pertanto, poco duttile; ferratissimo, invece, in materia canonistica, addentro in tutto ciò che attiene alla "corte di Roma", gli manca quella capacità di considerazione distaccata che permetta di disincagliare le cause dei contrasti.

Consigliere pel sestiere di Castello, il C. è incaricato, l'11 sett. 1609, di scusare il divieto di circolazione in terra veneta - valido anche per gli scritti confutatori - dell'Apologia, stesa da Giacomo I, re d'Inghilterra, del giuramento da lui imposto. Parte il 1° dicembre, attraversa la Francia sostando a Parigi donde il nunzio avvisa che "il suggetto della sua legatione è la proffibitione fatta in Venetia del libro di quel re". Trattenuto per due settimane a Calais da un mare scatenato che nessuna imbarcazione osa affrontare, il C. raggiunge Londra solo il 4 febbr. 1610.

Cordialissima, l'udienza elimina ogni residuo dell'imbarazzo creato a Venezia dalle proteste del rappresentante inglese. La missione di giustificazione si trasforma in proclamazione della "sincera affezione" della Repubblica per il sovrano, il quale ricambia assicurando che, "tra tutti li principi", è questa quella cui più s'indirizza il suo "amore". Giacomo I non serba rancore, riconosce "con quanto riguardo si è proceduto intorno al... libro", scritto, beninteso, nell'"interesse" dei "principi" e a sostegno della "loro giurisdizione". Con lui rispettosissima, la Serenissima non è ricorsa ad "alcun decreto o scrittura", non ha messo in ballo il suo "nome"; il C. dal canto suo, assicura che il testo regio è stato letto, meditato e condiviso dalla classe dirigente veneziana, la quale solo per ragioni d'opportunità ha preferito circoscriverne la conoscenza, trattandosi d'argomento d'esclusiva competenza dei governanti.

Al rientro del C., "per Fiandra e Germania", segue, il 6 settembre, la relazione; premesso che l'incarico, comportante un "viaggio" faticosissimo d'oltre 2.000 "Miglia" tra andata e ritorno, è stato da lui accettato "con poco gusto", il C. caldeggia il mantenimento e il consolidamento dei rapporti anglo-veneti. "Devesi procurare di mantenere l'amicizia con questo re, per esser uno dei più potenti principi d'Europa". Quanto ai cattolici inglesi, che Giacomo I "teme" e, di conseguenza, "stringe", il C. finisce coll'ammettere la legittimità della loro situazione d'inferiorità, del rigido controllo cui sono sottoposti. Solo "se non succedevano le congiure - commenta -, si potea sperare che fosse permessa la libertà della coscienza".

Nuovamente consigliere, più volte savio dei Consiglio, tre volte riformatore allo Studio di Padova (al C. e ai suoi colleghi Agostino Nani e Nicolò Donà il giurista napoletano Giacomo Antonio Marta, allora in urto con Roma, deve la chiamata, del 6 ott. 1611, all'insegnamento patavino), il C. è altresì, con Agostino Nani, nel settembre-ottobre 1613, ambasciatore straordinario al ncoimperatore Mattia; e, colla stessa veste, risiede, per qualche tempo, nel 1619 a Costantinopoli e partecipa, con Girolamo Soranzo, Antonio Grimani e Girolamo Giustinian, alla missione d'omaggio, nella tarda primavera del 1621, al neo pontefice Gregorio XV. Rilevante il lavoro d'inventariazione e sistemazione dal C. svolto, nel 1611-1615, assieme ad Andrea Morosini, essendo entrambi "deputati a ridur in sommario et regola" il coacervo legiferativo del Consiglio dei dieci.

Riordinata e collocata in "luoco proportionato et commodo" la confusa accatastata e, anche, sparsa sovrabbondanza di "filze" "libri" "scritture" "lettere", fattane "nota distinta" e facilitatane la consultazione con una "rubrica generale" per "materie", i due vengono elogiati, il 17 ott. 1614, specie per la "ristretta et singolar regolatione" delle leggi e "civili" e "criminali", rese "distintamente" comprensibili a "cadauno". Fatica meritoria, in effetti, questa di sintetizzare armonizzare riesumare interpretare una plurisecolare produzione di "parti".

Nel frattempo il prestigio del C. si rafforza: "columen" della Repubblica, nonché "studiosorum spes et subsidium" lo dice Giovanni Antonio Ridolfi Sforza. Esagera, comunque, quanto al mecenatismo, solo risultando il C., assieme a Morosini, "protettore" e "padre" degli Immaturi di Venezia e, come tale, dedicatario dell'illustrazione dell'"impresa" recitata e pubblicata nel 1618 dal suo omonimo, figlio di Taddeo. Marcato e consistente, invece, il rilievo politico: il C. è "uno dei migliori soggetti" di Venezia a giudizio del marchese di Bedmar, l'ambasciatore di Spagna; "a gentleman of singular integrity", riconosce il rappresentante d'Inghilterra Henry Wotton. Eletto, il 9 dicembre del 1615, con 1011 voti a favore e 381 contrari, procuratore di S. Marco de citra, il C., già beneficiario di suffragi nelle elezioni dogali del 2 dic. 1615 e del 4 apr. 1618, diventa, l'8 sett. 1623, doge.

Se ne rallegra il nunzio Agucchi, a detta del quale il C., già "senatore di grandissima stima et auttorità nella republica", in fama di "molto savio et di buoni et temperati costumi", da un pezzo ha annacquato la sua precedente fermezza in materia giurisdizionale intensificando, di pari passo, le pratiche devote. "Se bene altre volte - osserva - pare che teneva opinioni contrarie alla giurisdittione ecclesiastica, nondimeno, da alcunì anni in qua, s'è mostrato tanto religioso et pio che se ne spera buona riuscita et prudente et moderato governo".

Anche se implicitamente la sua elezione suona, dunque, quale ulteriore conferma del progressivo accantonamento, in seno al patriziato, delle idealità sarpiane. Sempre più netta si delinea la rimonta del settore più conservatore, al quale, tuttavia, poco giova la presenza al vertice del C. poiché, specie a partire dalla fine di giugno del 1624, le sue condizioni di salute peggiorano. E, dopo una "lunga malattia" destenuanti attacchi febbrili e di soffocante oppressione catarrale, il C. muore a Venezia, il 6 dic. 1624, venendo sepolto nella cappella di famiglia, a S. Francesco della Vigna.

Una grave "perdita", per il nunzio, questa d'un "principe" non solo d'indubbio "sapere" di grande "eloquenza" e di notevolissima "esperienza delle cose humane", ma anche persuaso - nonostante la passata frequentazione di "huomini di fama rea intorno alla pietà et alle cose ecclesiastiche", nonostante l'adesione ai "concetti" e alle "pretensioni" dello Stato - della necessità "si stesse bene con Roma", schivando le "novità e i pericoli della rottura". Perciò, "per ogni rispetto era da desiderarsi la sua vita".

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Ceneda, in Boll. dell'Ist. di storia della soc. e Stato ven., IV (1962), pp. 201, 207 n. 72; Id., Gesuiti e politica sul finire del '500..., in Riv. stor. it., LXXXV (1963), pp. 502, 503 n. 68, 530 n. 125; La civ. ven. nell'età barocca, Firenze 1959, pp. 270, 276 s.; Dispacci degli amb. ... Indice, Roma 1959, pp. 11, 14, 41, 59, 62, 105, 138, 155, 226 s., 229, 267; A. da Mosto, I dogi..., Milano 1960, pp. XXIX, 354-357, 368, 416 s., 579 s.; M. Natalucci, Ancona..., II, Città di Castello 1960, p. 176; Les manuscrits de la reine de Suède.... Città di Castello 1964, p. 112 n. 2053; F. C. Lane, Navires et construcreurs d Venise.... Paris 1965, p. 151 n. 3; I. Moro, I dogi..., Milano 1968, p. 231; A. Stegmann, L'héroisme cornélien..., II, Paris 1968, p. 32 (erronea la qualifica di cardinale data al C.); S. Secchi, A. Foscarini..., Firenze 1969, p. 65; G. Benzoni, I "teologi" minori dell'Interdetto, in Arch. ven., s. 5, XCI (1970), pp. 58 n. 100, 73 n. 155, 200; Il tesoro di S. 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