CONTARINI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Francesco

Giuseppe Gullino

Nacque a Venezia nel 1477, secondogenito dei cavaliere Zaccaria e di Alba Donà di Antonio.

Questo ramo - uno dei più ricchi e potenti dei numerosi in cui si articolava la famiglia - risiedeva allora a S. Trovaso, nel sestiere di Dorsoduro, ed era, detto "dalli Scrigni"; base della sua. fortuna era la vasta proprietà di Piazzola, nel Padovano, che ancor oggi vanta uno dei più notevoli esempi di villa veneta: pur non essendo feudo plenoiure, la località (ottenuta dai Carraresi nel 1413, per via di matrimonio), godeva però dell'esenzione da ogni angheria, fazione o dazio, e i Contarini vi erano anche titolari del giuspatronato della chiesa, del diritto di mercato, pascolo, mulino e guardia armata. Il padre aveva percorso una brillante carriera politica: ambasciatore a Carlo VIII di Francia, che l'aveva fatto cavaliere, nel 1494 aveva ricoperto uguale incarico presso l'imperatore Massimiliano; ma nel 1509, trovandosi podestà a Cremona, era stato fatto prigioniero dai Francesi vittoriosi ad Agnadello, e condotto prigioniero prima a Milano e poi in Francia.

Questo avvenimento condizionò anche la vita del C., che sino a quel momento aveva trascorso una giovinezza brillante e priva dì preoccupazioni, tra le feste e i convegni riservati alla compagnia dei Fausti, che raccoglieva i migliori patrizi della Dominante: dal giugno 1509 cominciò infatti un fitto carteggio con il genitore, i fratelli e numerosi esponenti della vita politica, diventando il centro di informazioni e manovre tendenti tutte alla liberazione dei padre.

Nell'ottobre il segretario Gian Giacomo Caroldo, prigioniero a Forlì, lo informava sulle mosse dei cardinale di Pavia, un mese dopo il fratello Paolo, imbarcato nell'armata dei Po, gli riferiva sulle devastazioni compiute ai danni dei Mantovani e dei Ferraresi a Corbole ed alla Polesella, nel dicembre trattava coi signore di Boissy, grande ammiraglio di Francia. Anche Zaccaria gli scriveva: si trovava in un castello presso Parigi, trattato con riguardo, ma prigioniero. Voleva la libertà. Soltanto nel maggio successivo tuttavia, quando la situazione politica appariva meno tragica per la Serenissima, il C. si decise a giocare le sue carte; si presentò nel Maggior Consiglio con i cognati Marino Trevisan e Andrea Gussoni ai fianchi, e 2.000 ducati in mano: voleva offrirli alla Repubblica in cambio della liberazione di un francese contro quella dei padre. La Signoria rispose vagamente, incerta se liberare proprio un francese o un italiano: si poteva pensare a Sagramoso Visconti, ad esempio. Versasse il denaro nella cassa del Consiglio dei dieci, intanto, e stesse di buon animo. Il C. obbedì, ma la somma fu destinata ad altri usi; tentò strade diverse, propose lui stesso nomi di persone che si potevano liberare in tutta tranquillità, ma non ottennealtro risultato che quello di vedersi restituire i 2.000 ducati. Decise allora di radicalizzare la questione: se suo padre non poteva essere liberato, ebbene, nessun altro lo sarebbe stato, e così, nell'ottobre, il Consiglio dei dieci era costretto a rifiutare uno scambio di prigionieri, a detta dei Sanuto quantomai vantaggioso, "per le pratiche di sier Francesco Contarinì, el qual fa il tutto per il riscato di suo padre, et non vol sia dà niun prexon francese, fin suo padre non sia riscatà". Il fatto rappresenta una spia significativa della influenza di cui godeva il C. che, nonostante la giovane età e l'inesperienza politica, era riuscito ad allacciare importanti amicizie: negli anni 1510-11, infatti, furono presenti a casa sua numerosi ospiti illustri, quali Franco degli Uberti, il cavaliere La Motte, lo stesso duca di Borgogna.

Il padre, però, non riuscì a tornare in patria: sentendo avvicinarsi la fine, nel novembre del 1512 inviò al figlio il suo anello e l'ultima lettera. Per onorarne la memoria, nell'agosto del '13 la Repubblica nominò il C. auditore novo: era la sua prima carica politica, ma il C. aveva di sé un'opinione troppo elevata per sottoporsi all'usuale tirocinio dei cursus honorum, e l'anno seguente comperava con 2.000 ducati l'ingresso in Senato. Non si sentiva ancor disposto, tuttavia, a dedicarsi completamente all'attività politica, e il 7 giugno 1515 si imbarcava su una galera diretta a Giaffa, per compiere un pellegrinaggio in Terrasanta. Tornato in patria, riuscì a pervenire ad una delle più prestigiose cariche dello Stato, nonostante non avesse ancora esercitato alcun impiego pubblico fuori della città: comprò infatti per 1.500 ducati l'elezione al Consiglio dei dieci dall'ottobre 1516 al settembre del '17.

L'ambasceria all'estero o il rettorato in Terraferma costituivano un requisito indispensabile per chi ambisse ad essere presente con continuità nei maggiori consessi dello Stato, ma il C., che non amava staccarsi da Venezia e dalle sue amicizie, riuscì a lungo ad evitare tali nomine: il 17 genn. 1517 mancò per pochi voti l'elezione ad ambasciatore presso il re di Spagna; qualche mese più tardi, il 14 maggio, quella al re di Francia, e il 3 luglio 1518 al re di Ungheria, ma il 3 settembre gli toccava finalmente di raccogliere il consenso del Pregadi allorché si trattò di nominare un successore a Francesco Corner, ambasciatore a Saragozza. Tuttavia, pur avendo accettato la decisione del Senato. non si mosse dalla laguna, e il 3 marzo 1520 riuscì a farsi eleggere savio di Terraferma, un incarico che avrebbe ricoperto ancora numerose volte. Carlo d'Asburgo, intanto, era divenuto l'imperatore Carlo V e la Repubblica non poteva permettersi di non onorare nelle dovute forme un sovrano di così alta levatura , tanto più che la nomina del C. ad ambasciatore in Spagna non era mai stata revocata. Se ne ricordò il savio del Consiglio Antonio Tron, proponendo in Senato, il 16 giugno 1520, che il savio di Terraferma, "qual fo electo a la Catholica Majestà, ch'è stà electo Re di romani, atento li altri potentati li habi mandato orator, et essendo passà in Fiandra, sia expedito...".

La proposta del Tron venne accettata con pienezza di voto, ma ancora una volta la deliberazione del Pregadi non ebbe attuazione, giacché il C. continuò puntualmente ad essere rieletto savio di Terraferma, col compito di cassiere, il 22 marzo 1521, il 14 marzo 1522, il 27 giugno 1523, il 28 maggio 1525.

Non ci è dato di conoscere le ragioni del suo attaccamento a tale carica, ma forse qualche indicazione ci può essere offerta da una testimonianza dei Sanuto: egli narra, infatti, che il 3 ott. 1525 fu eletto un nuovo cassiere per i savi di Terraferma, "et rimase sier Michiel Morexini", che con grande sorpresa "ha trovato tutto obbligado e la cassa senza denari, però che sier Francesco Contarini, era cassier, restellò tutto, e non solum de qui, e denari dil lotto di le bottege di naranzeri, ma etiam di le camere di terra ferma".

Dati i precedenti, non ci si può quindi stupire se qualche giorno dopo il C. mancava l'elezione a savio sopra i Danari, alla quale pur mostrava di tenere moltissimo. Tuttavia non si diede per vinto, e il 20 marzo 1526 riusciva ancora una volta a rientrare tra i savi di Terraferma, ed un mese dopo era addirittura riconfermato nell'ambito posto di cassiere. Tanta comprensione non poteva tuttavia mancar di suscitare riserve e perplessità, e così, il 6 giugno di quello stesso anno, risultava eletto ambasciatore al re d'Inghilterra, notizia che fu da lui accolta "con gran cordoglio". Corse subito alla cassa a contare dei soldi, da mandare alle truppe, naturalmente, e poi cadde ammalato.

Intanto l'ambasciata veneziana a Londra era priva di titolare, per esser morto Lorenzo Orio, proprio in un momento così importante e delicato per le vicende europee. Se ne doleva il Sanuto, che il 14 giugno così annotava: "sier Francesco è savio di terraferma, stà in caxa con farsi di amalato per non andar a la ditta legation", e qualche giorno dopo incalzava sconsolato: "è amalato di sperdimento, e stà in caxa".

Fu una brutta malattia da cui si riprese soltanto il 3 luglio, quando seppe che a, Londra era stato spedito Mcantonio Venier. Durò a lungo, però, anche la convalescenza politica, dal momento che per tutto il 1527 non riuscì ad essere eletto ad alcuna carica: la quarantena ebbe termine soltanto il 9 ott. 1528, allorché fu nominato cassiere del Collegio, e un anno dopo, provveditore sopra i Danari, una magistratura che, come sappiamo, gli stava molto a cuore. Fra l'ottobre 1531 e il settembre del '33 esercitò ancora per tre volte il saviato di Terraferma, nel corso del quale dovette anche occuparsi di una lunga controversia sorta tra la Repubblica e i benedettini di Correzzola, nel Padovano, a motivo dei confini, incerti e mai delimitati, delle estese proprietà fondiarie dei monaci. Il 30 luglio 1534 accettava infine il suo prùno incarico all'estero, in qualità di ambasciatore presso il re dei Romani, Ferdinando. Il 26 novembre riceveva le commissioni e un mese dopo era già a Vienna.

La situazione politica dei domini asburgici era assai delicata: stretto tra la morsa delle lotte religiose e sociali che in tutta la Germania opponevano i luterani ai cattolici ed agli anabattisti, e dell'espansionismo turco, che, vittorioso sui Persiani, trionfava sul mare col Barbarossa, Ferdinando non nascondeva il desiderio di avere la Repubblica accanto a sé, contro il nemico di sempre. Venezia, invece, pur sollecitata in questo senso anche dal papa e dall'imperatore, cercava in tutti i modi di evitare un impegno che avrebbe duramente colpito i suoi traffici col Levante. In margine a questi fondamentali problemi, il C. doveva anche cercare di ottenere la restituzione dei territori friulani di Belgrado e Castelnuovo, feudo dei Savorgnan. Le questioni religiose si alternarono quindi, nei suoi dispacci, a quelle più strettamente politiche: delle prime egli riferì con preoccupazione, dal suo osservatorio viennese, la diminuita sensibilità verso le pratiche del culto, come la scarsa osservanza per l'astinenza del venerdì - "non obstante che la Maestà del Re facci tener le Becharie serate, niente di meno la maggior parte in casa sua fa becharia" - e, soprattutto, l'allontanarsi degli animi dalle celebrazioni liturgiche: "Lo episcopo di questa Cità predica ogni matina in San Stephano, che è la chiesa cathedral, et è valentissimo homo, et dignissimo prelato, et ha poche persone alla sua predica", ma il 7 luglio 1535 poteva annunciare la distruzione dei "regno di Sion" anabattista: notizia "molto desiderata da tutti questi principi", i quali con grande soddisfazione "hanno inteso il prender per forza della terra di Monster, con ammazzar molti delli rebatizzati, et preso il Re di essi rebatizzatì, et alcuni principali in presone". Quanto ai rapporti con il Turco, le pressioni per un'alleanza militare non gli giunsero da parte di Ferdinando, ma dallo stesso Carlo V, che stava preparando l'offensiva contro Tunisi: in un lungo dispaccio cifrato del 23 apr. 1535, il C. riferisce di un colloquio col vescovo di Trento che, dopo avergli mostrato lettere da Roma con l'annuncio di rotte subite dagli Ottomani ad opera del sofì di Persia, aggiunse che l'imperatore aveva allestito "una grosissima et bella armata, et forsi tale, che non si havea più visto la simile". Se dunque Venezia fosse entrata in guerra, certamente "recuperarla tutto il suo stato del Levante et anchor di più, et usciria de questa servitù et guerra che lei havea, di convenir ogni anno far una grosissima armata, et spender un thesoro". Invano il C. tentò di sviare il discorso. di rifugiarsi in lunghi silenzi; quando però dovette pronunciarsi, ricordò anzitutto al vescovo che a Costantinopoli e ad Alessandria le mercanzie veneziane ammontavano a "milioni di oro", e che, a rompere la pace, "in una hora si perderla tuto lo haver de nostri", quindi gli oppose i motivi di disgusto della Repubblica verso la corte di Roma, rammentando "che non era anchor dui anni, che se non era li formenti havuti dal Sig. Turco, tuti li habitanti nella città di Venetia, et in le terre circonvicine sotto quel Domituo, seriano morte di fame, cosa che non havevemo potuto obtenir dal Papa, dalle terre consegnate a Sua Santità per far cosa grata a "imperator".

Nell'aprile del '36 Paolo Cappello sostituì il C., che però rimase in patria soltanto tre anni, al termine dei quali ripartì per un'analoga missione: stavolta era stato eletto ambasciatore proprio a Carlo V, che si trovava nelle Fiandre, a Gand, assieme al fratello Ferdinando.

I problemi che agitavano l'Impero erano sostanzialmente gli stessi che avevano caratterizzato la precedente ambasceria: le guerre religiose ed i Turchi, ma la situazione ora appariva deteriorata e i mali radicalizzati. Per la sua politica, Carlo sapeva di non poter contare sui Veneziani, presso i quali Lutero riscuoteva qualche simpatia, e più che mai propensi a firmare la pace col Turco, dopo essere riusciti a fermare l'avanzata di Solimano su Corfù. In effetti, quando il C. giunse a Gand, alla fine di aprile 1540, la Repubblica aveva appena stipulato un trattato - un oneroso trattato - con la Porta, e questo spiega perché i suoi dispacci pongano in secondo piano il problema turco, per dedicarsi quasi interamente ai preparativi della Dieta di Ratisbona, che avrebbe dovuto appianate i contrasti che dividevano l'imperatore dai principi riformati.

La strada per la Baviera, però, era lunga, e la corte imperiale non aveva fretta: da Gand passò ad Anversa e poi a Bruxelles, Bruges, Utrecht, Lussemburgo, Spira, Norimberga. Il C. ebbe modo di dedicarsi ad altri interessi, oltre a quelli politici: a Bruxelles riuscì a trovare un codice di Goffredo di Villehardouin sulla presa di Costantinopoli del 1204, che al ritorno in patria consegnò al Consiglio dei dieci, il quale nel 1556 ne affidò la stesura in latino a Paolo Ramusio; a Bruges studiò il funzionamento di una macchina idraulica che sarebbe potuta essere impiegata utilmente anche a Venezia; a Norimberga visitò la casa di Erasmo da Rotterdam. In mancanza di novità di rilievo, cercava di condire i suoi dispacci con curiosità e pettegolezzi talvolta piccanti, come gli inquieti amori del langravio di Nssia, che ricalcava l'esempio del re di Inghilterra.

A Ratisbona la corte giunse nel febbraio del '41, e fu subito evidente l'inconciliabilità delle posizioni cattoliche e luterane: una settimana dopo l'altra, le lettere del C. scandiscono le tappe di un progressivo fallimento; alla fine di maggio, poi, l'arroganza dei luterani si manifestò, a suo dire, "con parole tanto grandi e di tal sorte contro Sua Santità, che mi vergogno scriverle", mentre l'imperatore si preparava a tornare nei paesi iberici. Nell'agosto dei '41 il C. stese a Trento il suo ultimo dispaccio, insierne col successore Francesco Sanuto, e proprio a Trento i due si sarebbero ritrovati, l'anno dopo, in veste di commissari per dirimere le controversie di confine tra la Repubblica e Ferdinando.

In riconoscimento dei servizi prestati il C. ottenne la nomina a cavaliere, e nel 1543 entrò per la prima volta nel novero dei savi del Consiglio; lo stesso anno trattò con Pietro Strozzi la consegna alla Repubblica della città di Marano, la cui restituzione costituì una tappa fondamentale nella politica veneziana di lenta riconquista delle posizioni perse, dopo Cambrai. Negli anni successivi, il C. fu quasi sempre tra i savi dei Consiglio o tra i consiglieri per il sestiere di Dorsoduro.

Dalla Dominante si mosse ancora nel '50 e nel '55, in occasione di ambascerie straordinarie per l'elezione dei pontefici Giulio III, Marcello II e Paolo IV, e dal maggio 1551 al settembre '52 fu capitano a Padova, dove per qualche mese ricoprì anche l'incarico di vicepodestà.

Nel 1553 e 1556 fu tra gli elettori dei dogi M. A. Trevisan e Lorenzo Priuli, ed in tali occasioni ricevette lui stesso diversi consensi; nell'anno 1556 fu tra i correttori della promissione ducale ed il 16 ottobre veniva eletto procuratore di S. Marco de supra, prevalendo sul futuro doge Girolamo Priuli. Era ormai uno dei più autorevoli esponenti dell'oligarchia senatoria che aveva la sua roccaforte nel Consiglio dei dieci, in un periodo caratterizzato da una fortunata congiuntura politico-economica per la Repubblica.

Il C. morì a Venezia l'11 marzo 1558.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii..., II, pp. 428, 454; Venezia. Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna, 3791: G. Priuli, Pretiosi frutti.... I, cc. 156v-166r; l'elez. ad ambasciatore presso il re dei Romani, con la commissione, in Arch. di Stato di Venezia, Sonato, Delib. Secreta, reg. 56, c. 40v; per la successiva missione all'imperatore, Ibid., Segretario alle voci. Elezioni dei Pregadi, reg. I, c. 27v; per la commissione, Ibid., Senato, Delib. Secreta, reg. 61, c. 5v. Ducali al C. dal 26 nov. 1534 al 17 marzo 1536 e dispacci dello stesso al Senato, a Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 802 (= 8219): Registrum literarum..., cc. 18-141; lo stesso codice (cc. 142-195) riporta anche i dispacci della missione presso Carlo V, dal 28 apr. 1540 al 13 ag. 1541; sulla vertenza per Belgrado e Castelnuovo, sostenuta nel corso della prima ambasceria, Ibid., Mss. It., cl. VII, 994 (= 9536): Lettere e docum. riguardanti il Friuli; sulla miss. a Trento, per le questioni confinarie, Arch. di Stato di Venezia, Sonato, Delib. Secreta, reg. 62, cc. 54v-55r, 69v, 74r, 81r; sul rettorato a Padova, lettere del C. alla Signoria tra il 18 maggio 1551 ed il 6 sett. 1552, Venezia. Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 1145 (= 8346); Ibid., Mss. It., cl. VII, 1357 (= 8089), cc. 1r-109r; lettere al Consiglio dei dieci, in Archivio di Stato di Venezia, Lettore di rettori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 82, nn. 140, 142. Vedi inoltre: Calendar of State Papers... relating to English affairs existing in the archives... of Venice..., a cura di R. Brown, London 186973, III, pp. 247, 267, 561, 565, 572; V, pp. 27-32, 36, 38-40, 83-110; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1880-1903, IV, VIII-XII, XV-XVII, XXXXI, XXIII-XXXI, XXXIII-XLVII, XLIX-LVIII, ad Indices; Nuntiaturber. aus Deutschland 1533-1559, V, Berlin 1909, pp. 266, 284-286, 307, 333, 343; B. Bonifacio, Elogia Contarena, Veneriis 1623, pp. 42-43; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Veneziane, Venezia 1827-1853, II, pp. 113, 162, 271, 330, 332; IV, pp. 13, 440, 479; V, pp. 248, 250, 557; VI, pp, 256, 273, 279, 319, 776; P. A. Paravia, Memorie venez. di letterat. e di storia, Torino 1850, pp. 222, 237-39; M. Foscarini, Della letter. venez., Venezia 1845, p. 298; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, Torino 1965-1970, I, Inghilterra, p. XIII; II, Germania (1506-1554), pp. XV, XIX.

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