CRISPI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

CRISPI, Francesco

Fausto Fonzi

Nato nel piccolo centro siciliano di Ribera, nell'Agrigentino, da Tommaso (di stirpe albanese e originario di Palazzo Adriano), commerciante di grano, e da Giuseppa Genova di Ribera il 4 ott. 1818 (non 1919), iniziò gli studi a Villafranca Sicula nel 1825 e li proseguì nel palermitano Seminario greco-albanese de' Siciliani dal novembre 1828 al 1835. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Palermo, verrà proclamato doctor utriusque iuris soltanto nel 1843. Negli anni universitari si colloca il suo amore, contrastato dai genitori, per la popolana Rosalia D'Angelo, dalla quale ebbe due figli, Giuseppa e Tommaso, che morirono, come la loro madre, nel 1839. Mentre lavora nello studio dell'avvocato Viola, intraprende l'attività giornalistica soprattutto con l'Oreteo (inizialmente piuttosto superficiale e dispersivo, ma infine particolarmente attento al tema politico-sociale), del quale è fondatore, direttore e proprietario dal 1839 al 1842, e con la Galleria del Bon-ton, che si pubblicò dal 20 apr. al 10 ott. 1842 col fine d'"istruir dilettando" attraverso articoli d'argomento prevalentemente letterario (il C. ebbe influenza sui primi quattro numeri).

È difficile individuare nei citati periodici e negli articoli del C., che vi pubblica anche un Inno a Cristo, una precisa e coerente visione culturale e politica. Nell'Oreteo si possono notare, nell'ambito di un'impostazione illuministico-riformista, alcuni motivi liberisti, romantici e sociali, ma si oscilla tra l'esaltazione della "grande patria siciliana" e quella dell'accentramento borbonico, né molto robusti appaiono gli inviti a sentire italianamente sulle colonne della Galleria del Bon-ton.Dopo avere sostenuto con successo nel 1844 gli esami per "alunno di giurisprudenza pratica", non poté compiere il triennio di tirocinio gratuito presso la Corte di cassazione di Palermo, anche per difficoltà economiche dovute a un dissesto dell'azienda paterna non avendo ottenuto la richiesta nomina a giudice, si trasferì a Napoli, quasi certamente nel 1845, per esercitare la professione di avvocato. Dopo avere tentato inutilmente di ottenere una carica statale, si dedicò, nel 1847, all'attività cospirativa in favore del Comitato siculo-napoletano (fondato nel 1846 e diretto da moderati come M. d'Ayala, C. Poerio e G. Raffaele), recandosi anche più volte in Sicilia (negli ultimi mesi dell'anno) per stabilire collegamenti fra il Comitato e i malcontenti dell'isola.

Scoppiata la rivolta siciliana del 12 genn. 1848, il C., giunto a Palermo il 14, è subito chiamato a far parte del Comitato generale degli insorti ed è nominato segretario del Comitato speciale per la guerra e la marina, alle immediate dipendenze del presidente principe di Pantelleria. Si tratta di organizzare le forze rivoluzionarie, di fornirle di armi efficienti, così da far fronte alle bene equipaggiate e ordinate milizie borboniche. Il C. contribuisce ad assicurare la disciplina dei soldati siciliani e la vittoria sui napoletani, che si ritirano da Palermo il 30 gennaio.

Il 27 è intanto apparso il primo numero de L'Apostolato il C., che l'ha fondato insieme all'abate G. Fiorenza, ne è proprietario e direttore. Attraverso il periodico egli propaganda ideali di libertà e d'indipendenza siciliana (l'unità d'Italia deve "consistere in un'unione federale", "una sarà la nazione, ma non uno lo Stato"). Invita i Siciliani a respingere la costituzione concessa da Ferdinando I e a richiamarsi invece a quella siciliana del 1812 l'intransigente opposizione ad ogni idea di compromesso con il Borbone contribuisce a fargli abbracciare dei principi accentuatamente democratici. Ristabilito in Sicilia il sistema bicamerale, è inviato alla Camera dei Comuni dagli elettori di Ribera e nel Parlamento, inaugurato il 25 marzo, assume posizioni di Estrema Sinistra.

Il C. vota il conferimento dei poteri regali a Ruggero Settimo e la decadenza dei Borboni dal trono di Sicilia (13 aprile). Chiede che nella costituzione sia sancita la libertà di culto e sia modificato l'art. I, che proclama "unica religione dello Stato" la "cattolica apostolica romana". Il 10 luglio vota con la maggioranza per il conferimento della corona di Sicilia a Ferdinando Alberto Amedeo di Savoia, duca di Genova, nella speranza che ciò possa assicurare all'isola l'appoggio inglese tuttavia, segretario del Comitato di guerra e dirigente nel ministero della Guerra, non condivide l'ottimismo di chi, fidente in quell'appoggio, vuol rinviare all'arrivo del re i provvedimenti per la difesa. Insiste quindi per un più efficace sistema di arruolamento, ma la sua proposta (del 15 settembre) è appoggiata soltanto da La Masa ed è respinta sia dal Comitato di guerra sia dal Parlamento, ch'è ostile alla coscrizione obbligatoria. La Camera respinge anche una sua proposta per l'abolizione della fustigazione nell'esercito. Avendo proposto il 31 luglio lo scioglimento delle congregazioni dei gesuiti e dei redentoristi, con l'incameramento dei loro beni, appoggia l'11 ottobre un progetto Privitera per "l'incameramento da parte dei comuni delle residue proprietà feudali e di quelle ecclesiastiche". Il 18 dicembre è per la convocazione di una Costituente italiana.

Quando nell'aprile del 1849, in una situazione ormai disperata, l'ammiraglio francese Baudin offre la sua mediazione al fine di riconciliare la Sicilia con Ferdinando II di Borbone, il C. è con la minoranza che inutilmente si oppone. Dopo le dimissioni del governo e la partenza di Ruggero Settimo, incita ancora il popolo alla resistenza, ma il 15 maggio il generale Filangieri di Satriano, comandante delle truppe napoletane, entra a Palermo. Pur non essendo fra gli esclusi dall'amnistia concessa dal governo borbonico, il C. abbandona la Sicilia con Rosalino Pilo e i fratelli Orlando, raggiungendo Marsiglia e stabilendosi quindi, dall'8 novembre, a Torino.

Qui scrive un opuscolo intitolato Ultimi casi della rivoluzione siciliana esposti con documenti da un testimone oculare, che pubblica a Torino nell'aprile 1850. Vi viene denunciato il comportamento incerto ed interessato dei moderati (che "temevano più la vittoria del popolo che quella delle truppe borboniche"), mentre si esalta la decisa intransigenza del popolo, che tenta di prolungare la resistenza dello Stato siciliano, e si critica l'atteggiamento dell'Inghilterra e soprattutto della Francia di Luigi Bonaparte.

Durante il soggiorno in Piemonte tenta invano di ottenere una cattedra universitaria di diritto (1850), o un posto di segretario comunale a Verolengo (1852). Trova impiego, anche se con modesti compensi, presso alcuni giornali della Sinistra: lavora infatti durante qualche mese per La Concordia di Valerio e poi, con Depretis e Seismit Doda, per Il Progresso di Correnti ma anche per Il Crepuscolo di Tenca e la Gazzetta di Torino di Cesana. Politicamente è ormai decisamente orientato in senso repubblicano, ma, pur avendo contatti epistolari con Mazzini, non è sempre allineato sulle sue posizioni è forse più vicino a Cattaneo, anche se non si colloca fra i più accesi federalisti socialisteggianti.

Con Gaspare Cipri vuol costituire, all'inizio del 1850, una "società calabro-sicula", mentre R. Pilo è per un "comitato siculo-napoletano" orientato verso l'adesione al "comitato nazionale italiano" promosso da Mazzini. Quando questi, con l'aiuto di Pilo e di Luigi Orlando, riuscirà nel corso dell'anno a portare i democratici siciliani esuli a Genova (già prevalentemente orientati verso il federalismo) a condividere la sua formula unitaria, anche se non accentratrice, il C. assume un atteggiamento distaccato: nel Comitato centrale dell'emigrazione siciliana, eletto nella sua casa torinese nel dicembre 1850 con i voti di esuli nei diversi paesi europei, non prevarranno le tendenze mazziniane. Nel 1851 afferma che bisogna essere "più federalisti che unitari" "vi sono delle idee nelle quali non siamo d'accordo con Mazzini": probabilmente questo sarebbe stato lo spirito del periodico La Settimana che allora va progettando.

Certo è che il pensiero di Cattaneo, con il quale collaborava per la pubblicazione di documenti della rivoluzione siciliana nell'Archivio storico contemporaneo italiano di Capolago, è presente nello spirito antiaccentratore che ispira le sue opere di quel tempo: Studi sulle istituzioni comunali (Torino 1850), Il comune in Piemonte (Torino 1852) e Ordinamenti politici delle Due Sicilie (Londra 1855), che si distingue per un più accentuato anticlericalismo ed antinapoletanismo.

Nei primi due scritti viene soprattutto esaltato il principio dell'autogoverno, che deve realizzarsi in comuni autarchici e democratici. "Senza il Municipio - afferma il C. - la Nazione non esiste". Come rimprovera ai Borboni di avere soppresso le libertà municipali, soffocate dal Regno delle Due Sicilie, così accusa i Savoia di avere distrutto le libertà comunali in Piemonte dal tempo di Emanuele Filiberto alla stessa legge del 7 ott. 1848, che, a parere del C., avrebbe eliminato ogni autonomia dei municipi.

Quando il governo di Cavour, dopo il moto milanese del 1853, decide l'espulsione dal Piemonte di molti esuli, fra questi è anche il C. che contesta gli ordinamenti politici e amministrativi del regno sardo. Arrestato il 7 marzo, è trasferito il 14 nelle carceri di Genova il 20 s'imbarca sullo "Oronte" alla volta di Malta lo accompagna la stiratrice savoiarda Rosalia Montmasson, della quale si è innamorato a Torino.

Giunto a Malta il 26 marzo 1853, si stabilisce in campagna, a Tarxien. Prepara uno studio sui Diritti della Corona d'Inghilterra sulla Chiesa di Malta, che stamperà a Londra nel 1855, e avvia una ricerca sulle istituzioni comunali maltesi per vivere deve però ricorrere all'aiuto finanziario del padre, perché poco gli rendono i lavori giornalistici ed eruditi che riesce ad ottenere da patrioti amici residenti a Torino o a Parigi. Egli si trova male a Malta, per la forza che vi hanno i clericali e per il carattere dell'emigrazione siciliana, ch'è composta in prevalenza da moderati diretti da R. Settimo (che non gli è amico) e, in minor misura, da democratici guidati da P. Calvi, capo di un Comitato indipendente, che si rivolge a persone poco affidabili per infruttuose spedizioni armate in Sicilia. Stringe invece amicizia con G. Tamajo e con N. Fabrizi, il patriota modenese da tempo fautore (anche in contrasto con Mazzini) dell'"iniziativa meridionale", e aderisce al Comitato d'azione fondato da quest'ultimo. Ora Fabrizi, che si è riconciliato con Mazzini, è vivacemente ostile a P. Calvi, ch'era stato fra i maggiori esponenti dell'Estrema Sinistra siciliana nel 1848-49 ed aveva subito l'influenza di Romagnosi e di Proudhon. Il C. condivide con Fabrizi e con Pilo anche la speranza nel successo del fantasioso progetto di Kossuth per una spedizione con navi americane al fine di liberare la Sicilia, progetto delineatosi già nel 1852, ma tramontato nell'estate del 1854. Intanto ha intrapreso anche a Malta un'attività giornalistica, pubblicando dal 6 febbr. 1854 La Valigia e poi La Staffetta, che penetra anche in Sicilia, ma deve cessare le pubblicazioni alla fine dell'anno in seguito all'espulsione (il 3 dicembre) del C., che, soprattutto con i suoi articoli, si è reso sgradito, non soltanto agli esuli siciliani di tendenza moderata e ai gesuiti, ma alle stesse autorità inglesi. Prima di partire sposa con rito religioso Rosalia Montmasson, che non può raggiungerlo subito nel nuovo esilio.

Sbarcato in Inghilterra il 12 genn. 1855, il giorno successivo è a Londra e comincia a cercare un lavoro, chiedendolo "a licei, a librai, a tipografi, a negozianti, a gente di foro", a fotografi. È aiutato da Mazzini, che sarà la sua guida non soltanto politica almeno fino al 1859. Questi gli consiglia fra l'altro la lettura di Carlyle, "novatore ardito", di Stuart Mill, di Tennyson, di Browning, Newman, Ruskin e Rossetti. Scarsa dev'essere stata invece l'influenza del barone G. Corvaia (fautore della "bancocrazia"), del quale il C. fu, in quel tempo, segretario. Egli trova finalmente un impiego modesto nella banca del siciliano Sebastiano Lella, ma non è soddisfatto e il 3 genn. 1856 si trasferisce a Parigi per lavorare con l'amico G. Carini al Courierfranco-italien la paga è però insufficiente per vivere cosicché in aprile torna a Londra. Nel giugno è nuovamente a Parigi, ove lavora, in seguito ad una presentazione di Mazzini, nella banca di un poco scrupoloso Léonce Pignière ma poi avvia un proprio ufficio di commissionario commerciale, che gli assicura un buon guadagno. Rosalia lo ha seguito a Londra ed a Parigi. Proprio in quel tempo giunge al C. notizia della morte del padre e di quella, avvenuta due anni prima, della madre. Politicamente ha scarsa fiducia nel Piemonte e crede sempre nell'"iniziativa meridionale", e particolarmente in quella siciliana. Perciò controbatte le affermazioni (e il programma politico) di D. Manin con una lettera del 10 luglio 1856 al Daily News: in particolare nega che la costituzione napoletana del 1848 sia stata accettata dai Siciliani e respinge ogni possibilità di accordo con i Borboni: poiché non si può contare sul "cannone delle potenze occidentali", la libertà potrà venire solo dalla "rivoluzione" in una prospettiva non più separatista, ma nazionale. Dopo l'attentato di F. Orsini, del 14 genn. 1858, una perquisizione in casa del C. non porta ad un suo arresto ma la polizia continua a sorvegliarlo, e il 3 agosto il C. riceve il decreto di espulsione dalla Francia.

Dopo essersi fermato tre mesi a Londra, si trasferisce a Lisbona, avendo accettato l'invito di Simeone Gattai (già suo compagno di prigionia a Torino), il quale ha in Portogallo una compagnia di vapori. Mentre lavora in questa compagnia, organizza, seguendo le istruzioni di Mazzini, una sezione del Partito d'azione fra gli italiani residenti a Lisbona. Rientrato a Londra, di fronte alle notizie sugli accordi di Plombières e sui preparativi di guerra, il C., che collabora a Pensiero e azione, manifesta con Mazzini una viva diffidenza verso le manovre di Cavour e di Napoleone. Dopo Villafranca, sempre d'accordo con Mazzini, mira nuovamente all'insurrezione in Sicilia, ove giunge con un passaporto argentino intestato a Manuel Pareda il 26 luglio 1859: si ferma a Palermo, a Catania e a Messina, incontrando molti amici (ai quali insegna l'uso delle bombe alla Orsini), raccogliendo notizie sulla consistenza delle forze borboniche e studiando progetti per l'insurrezione. Il 3 settembre lascia la Sicilia e raggiunge Mazzini a Firenze per comunicargli che nell'isola "gli animi sono pronti al movimento, che si preparano le armi nelle varie città per rispondere all'insurrezione". Quando però nell'ottobre, con un passaporto inglese col nome di Tobia Glivaie, torna in Sicilia, né i palermitani né i messinesi sono, disposti ad agire deluso nelle aspettative insurrezionali, deve proseguire il viaggio fino in Grecia, ove si ferma tredici giorni incontrandosi anche con patrioti greci: in quell'occasione esalta le aspirazioni dei due paesi accomunati dal ricordo del glorioso passato classico, con linguaggio mazziniano anche se con accenti realistici.

Sebbene Mazzini gli comunichi la volontà dei patrioti siciliani d'insorgere veramente in una prossima occasione, il C. comincia a studiare anche altre strade per la liberazione della sua isola. S'incontra a Modena con L. C. Farini, dittatore dell'Emilia, e comincia a progettare l'invio di una consistente spedizione, che potrebbe partire dall'Italia centrale (dall'Elba) sotto il comando di Garibaldi. Per ottenere il consenso del governo piemontese si reca quindi a Torino il 15 e il 26 dic. 1859 parla rispettivamente con Rattazzi e con La Farina, i quali però si mostrano contrari all'iniziativa. Matura così la decisione del Pilo, che nell'aprile 1860 raggiunge la Sicilia, insieme a G. Corrao, per suscitare quei "fatti positivi" che possano indurre Garibaldi a capeggiare l'impresa. L'insurrezione di Palermo viene però soffocata dalla polizia, che arresta i rivoluzionari, guidati dall'artigiano Francesco Riso, nel convento della Gancia. Garibaldi, che sta rinunciando alla spedizione, è infine convinto da un telegramma proveniente da Malta (che riferisce sul proseguimento della rivolta nelle province siciliane), telegramma che secondo qualcuno sarebbe stato "inventato" dal Crispi.

La mattina del 6 maggio 1860 il C. è con Garibaldi e i Mille che s'imbarcano fra Genova e Quarto sul "Piemonte" e sul "Lombardo". Sbarcato a Talamone un gruppo di volontari che non rinunciano all'intransigenza repubblicana e che si dirigono contro lo Stato pontificio, Garibaldi, nel nome d'"Italia e Vittorio Emanuele", assume il titolo di "comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia" e nomina i suoi ufficiali, tra i quali il C. è il "sotto-capo di Stato maggiore". Questi consiglia di sbarcare nei pressi di Ribera, ma il generale preferisce accogliere il suggerimento di S. Castiglia e ordina lo sbarco a Marsala. Qui il C., che si è dimesso dalla carica militare, comincia a impegnarsi sul piano politico-amministrativo, inducendo il decurionato di Marsala a rivolgere a Garibaldi l'invito ad assumere la dittatura. Col decreto di Alcamo del 17 maggio il dittatore nomina "segretario di Stato" il C., il quale appoggia l'impresa militare di Garibaldi con un'azione di governo che assume delle tonalità giacobine in senso populista e laicista.

Si susseguono infatti decreti relativi alla distribuzione di terre demaniali a combattenti, all'abolizione dell'imposta sul macinato e del dazio sul grano, all'espulsione "dal regno d'Italia" ed al sequestro dei beni delle congregazioni dei gesuiti e dei redentoristi, all'abolizione del titolo di eccellenza e del baciamano fra uomini. Ma soprattutto si provvede all'ordinamento dello Stato il dittatore unisce nella sua persona i tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, e verso di lui è responsabile, dal 2 giugno, un Consiglio dei segretari di Stato, fra i quali, accanto a Ugdulena, Orsini, Guarneri e Pisani, è il C., ministro dell'Interno e delle Finanze. Egli nomina e dirige i governatori dei ventuno distretti siciliani. Nella sua opera legislativa e di governo il C. utilizza anche istituti borbonici, ma si rifà principalmente a quelli del regno costituzionale siciliano del 1848 e del Regno di Sardegna. Introduce (con scarso successo) la coscrizione obbligatoria dai 17 ai 50 anni per la formazione di un esercito meridionale, scioglie le "squadre" armate che preoccupano soprattutto i proprietari, e punisce con la morte il reato di saccheggio.

Il 7 giugno giunge però a Palermo (appena sgomberata dalle truppe borboniche) G. La Farina, che già da tempo assicura a Cavour l'efficace appoggio della Società nazionale e che si propone di ottenere (anche mediante la propaganda svolta dal giornale L'Annessione e secondo le istruzioni del governo piemontese) un plebiscito per l'immediata e incondizionata annessione dell'isola al regno sardo. Alla sua azione si oppone il C., il quale, pur definitivamente convertito alla soluzione sabauda, contrasta, anche sulle colonne del suo giornale Il Precursore, ilprogetto di sollecite annessioni parziali, che, a giudizio suo e di tanti altri democratici, può essere di ostacolo all'attuazione del piano di Garibaldi, che mira a Napoli, a Roma e a Venezia. Nonostante una tale opposizione, La Farina riesce presto a conquistare al programma annessionista di Cavour (che prometteva un ordinamento decentrato per il costituendo Stato italiano) molti autonomisti siciliani, irritati dall'unitarismo giacobino e dall'arrogante procedere del C., che dagli amici di La Farina era accusato, fra l'altro, di fervente ortodossia mazzi. niana.

In realtà il C. manteneva cordiali rapporti epistolari con Mazzini, che in quel tempo spingeva Bertani a indirizzare le nuove spedizioni di volontari (guidate da Medici, Cosenz, Finzi, Besana) verso il territorio pontificio anziché in Sicilia, ma restava fedelissimo alla formula "Italia e Vittorio Emanuele". Non voleva l'annessione immediata soprattutto per non indebolire la corrente democratica che in Sicilia aveva la base necessaria per sostenere lo sforzo politico-militare di Garibaldi, il quale si proponeva di giungere a Napoli ed a Roma con la finalità di stabilire la sovranità della "monarchia popolare" sabauda su tutto il territorio nazionale. Il programma era tale però da suscitare preoccupazioni anche in chi non credeva alle accuse di repubblicanesimo rivolte al C. e da isolare quest'ultimo, contro il quale si svolsero violente agitazioni di piazza il 27 giugno. Due giorni dopo Garibaldi accettava le dimissioni del C. ma il 7 luglio faceva arrestare e rispediva in Piemonte (insieme a due spie cavouriane) La Farina, che ormai appariva allo stesso Cavour inadatto a svolgere la missione affidatagli.

Sotto buoni auspici s'iniziava invece l'opera di A. Depretis, abile deputato della Sinistra piemontese, nominato prodittatore da Garibaldi con il consenso di Cavour. Depretis, giunto in Sicilia il 21 luglio, nominava il democratico Bargoni suo segretario e chiamava il C. a reggere nuovamente il ministero dell'Interno. Nonostante l'azione svolta allora in Sicilia dagli agenti cavouriani Filippo Cordova e Giovanni Battista Bottero, salda e fruttuosa fu la collaborazione tra Depretis e il C. (che, fra l'altro, introdusse allora nell'isola lo statuto albertino) finché il primo, sostenuto da tutti i ministri tranne il C., non chiese, alla fine di agosto, che si procedesse al plebiscito per l'annessione. E quando Depretis perseverò nel suo intento sebbene il dittatore, consigliato dall'intransigente Bertani, avesse esplicitamente negato il suo assenso, il C., il 6 settembre, diede le dimissioni. La questione fu alla fine risolta da Garibaldi, il quale, raggiunto a Napoli dal prodittatore e dal C., confermò il 14 settembre la propria volontà contraria alla convocazione del plebiscito prima della liberazione di Roma, provocando così le dimissioni di Depretis.

Il 17 settembre Garibaldi, lasciando nel Sud continentale il prodittatore Sirtori, si recava per poche ore a Palermo per nominare un nuovo prodittatore in Sicilia nella persona del toscano Mordini, che, contrario alla annessione immediata, ebbe il sostegno di radicali e autonomisti. Il C. restò invece a Napoli, ov'era ormai il centro della vita politica meridionale e forse italiana, anche per la presenza, oltre che di Bertani, principale consigliere e segretario di Garibaldi, di molti altri esponenti della democrazia: Mazzini, Cattaneo, Ferrari, Nicotera, Mario, Saliceti, Saffi. Ciò nonostante la situazione politica viene modificandosi a favore dell'indirizzo sostenuto da Cavour. Infatti, mentre a Palermo Mordini, espulso l'agente cavouriano Casalis, il 5 ottobre convoca un'Assemblea siciliana per studiare le forme dell'unione dell'isola allo Stato unitario sabaudo, a Napoli i moderati, dopo avere ottenuto il licenziamento di Bertani (che ha voluto nominare governatori democratici, ponendosi in conflitto con il governo presieduto da Liborio Romano), osteggiano anche il meno radicale e più prudente suo successore, cioè il C., che già il 20 settembre è divenuto segretario di Stato per gli Esteri e la Guerra. Anche il nuovo prodittatore a Napoli, Giorgio Pallavicino, nominato il 3 ottobre da Garibaldi ma deciso fautore dell'annessione immediata e incondizionata al regno sabaudo, il 7 ottobre si oppone, con l'appoggio del presidente del Consiglio Conforti e di Francesco De Sanctis, alla proposta del C. per la convocazione di un'Assemblea anche per il Mezzogiorno continentale, minacciando di dimettersi qualora non si proceda subito al plebiscito per l'annessione, secondo i progetti di Cavour, che sarebbero stati approvati pochi giorni dopo dal quasi unanime Parlamento sardo.

Garibaldi e il C., di fronte ai pericoli d'interventi stranieri ed all'avanzata delle truppe piemontesi attraverso le Marche, finiscono con l'approvare l'8 ottobre la fissazione del plebiscito per il 21, ma con la formula "Italia una e indivisibile". Nei giorni successivi ancora tentano però di avere anche l'Assemblea: questa è invocata dal federalista Cattaneo per ragioni di principio, mentre il C. la vuole soprattutto per motivi tattici. In due drammatiche riunioni dell'11 e del 13 ottobre Pallavicino, che già, aveva ottenuto la soppressione della carica, ricoperta dal C., di "segretario generale", avrebbe accusato quest'ultimo di essere il principale ostacolo all'unità d'Italia Garibaldi, dopo aver difeso energicamente il proprio segretario e sostenuto con la maggioranza dei presenti l'idea dell'Assemblea, finiva per rinunciare a quest'ultima anche per l'opposizione di Türr e della guardia nazionale. Garibaldi e il C. sperano però che un'Assemblea si riunisca almeno in Sicilia ma Mordini, privo d'informazioni e di chiarimenti da Napoli, ha finito per rinunciarvi anch'egli fissando il plebiscito per la stessa data e con la stessa formula decise a Napoli. Ormai l'impresa rivoluzionaria, fallito un passo di Garibaldi presso il re per la sostituzione di Cavour e dopo l'inevitabile rinuncia alla conquista di Roma, si concludeva con la consegna, ai primi di novembre, dei territori meridionali a Vittorio Emanuele.

Il C., rientrato in novembre a Palermo, si sottrae, nella notte fra il 1º e il 2 genn. 1861, all'arresto ordinato da La Farina, che fa parte del Consiglio del luogotenente Montezemolo. Attraverso Il Precursore, che sarà suo organo di stampa fino al 1868, il C. riafferma la propria fedeltà alla causa dell'Italia unita nel regno di Vittorio Emanuele. Il 18 febbraio è eletto deputato nel collegio di Castelvetrano soprattutto per l'appoggio del proprietario Vincenzo Favara, che lo sosterrà con successo anche nelle campagne elettorali dei 1865 e 1867, e si colloca, nel Parlamento di Torino, fra i pochi rappresentanti di Estrema Sinistra, tentando di conciliare un atteggiamento realista, monarchico e parlamentare, con legami ancora assai stretti con Garibaldi e con lo stesso Mazzini. Questi dirige le intransigenti Associazioni unitarie, ma invano cerca di ispirare anche i "comitati di soccorso a Garibaldi", che il 4 gennaio a Genova si sono trasformati in "Comitati di provvedimento per Roma e Venezia", sempre guidati da Federico Bellazzi fedelissimo a Garibaldi. In Parlamento il C., mentre da un lato si scontra con Bixio che gli appare troppo ligio al governo cavouriano, dall'altro lato suscita le critiche di Mazzini, che gli rimprovera di fare solo "una piccola guerra", e di Asproni, che gli attribuisce ambizioni ministeriali e lo accusa di fare il doppio gioco. Il C. si difende notando come ben poco si possa fare con una ventina di deputati che sono spesso assenti dall'aula il 17 aprile sostiene alla Camera la propria concezione della monarchia popolare, condannando la formula di compromesso "per grazia di Dio e volontà della nazione" e proponendo che Vittorio Emanuele sia "primo" e non "secondo" perché re di uno Stato nuovo nato dalla rivoluzione unitaria.

Nel dicembre 1861 la Sinistra parlamentare si organizza con Depretis presidente, Crispi e Zanardelli vicepresidenti, Cadolini e Saffi segretari. Ma un'assemblea tenuta a Genova il 9-10 marzo 1862 da tutte le associazioni democratiche (sebbene il vicepresidente C. cerchi di ammorbidirne le tendenze più rivoluzionarie) dà vita ad una Associazione emancipatrice italiana, che finisce per seguire l'ispirazione mazziniana. Del resto la via extralegale non è ormai una scelta esclusiva dei repubblicani e invano il C. si reca a Trescore per sconsigliare Garibaldi dall'organizzare imprese militari per il Veneto o il Trentino e (dopo gli arresti di garibaldini in Lombardia e gli incidenti di Sarnico) dal recarsi nella Sicilia inquieta per il malgoverno della Destra. Mentre il Garibaldi, acclamato nell'isola e ingannato dall'equivoco atteggiamento del re e di Rattazzi, sbarca insieme a truppe volontarie in Calabria ed è arrestato dalle armi del colonnello Pallavicini, il C., che non lo ha seguito, si limita a giustificarlo in Parlamento e in tribunale: con disagio e incertezza cerca infatti di conciliare la fedeltà al partito con la scelta legalitaria e con la consapevolezza della grave situazione interna e internazionale.

Nel dicembre 1863 la Sinistra legalitaria (sostenuta da Il Diritto, dal Roma e da Il Precursore) sceglie il C. come suo presidente, Mordini come vicepresidente, Lazzaro e Bargoni come segretari nello stesso tempo si delinea però una tendenza all'opposizione intransigente ed extraparlamentare al governo Minghetti: La Porta, appoggiato da Bertani, chiede le dimissioni dei deputati democratici: a partire dal 16 si susseguono quelle di Nicotera, di Garibaldi, di Cairoli, Saffi, De Boni e altri. Il C., pur avendo criticato con forza la politica governativa in Sicilia, rimane in Parlamento con Mordini, Bargoni e pochi altri, e per questo non viene criticato soltanto dagli estremisti, ma pure da Il Diritto e dallo stesso Precursore. Anche la costituzione a Caprera, il 25 dicembre, di un Comitato unitario centrale per l'iniziativa nel Veneto sembra risuscitare il Partito d'azione mazziniano-garibaldino isolando i legalitari. Nel corso del 1864 viene però riprendendo vigore la Sinistra parlamentare tanto ad opera di Mordini (che il 4-5 luglio delinea un programma legalitario, ma continua ad avere fiducia in Garibaldi e nei suoi metodi) quanto del C., che ormai assume una netta posizione antirivoluzionaria ("Il tempo delle rivoluzioni è finito" scrive già nel marzo "la monarchia è quella che ci unisce, la repubblica ci dividerebbe", afferma alla Camera il 7 maggio e ripete il 21 ottobre, opponendosi al trasferimento della capitale a Firenze, ch'è invece approvato da Mordini). Mazzini, che incita all'azione il Comitato unitario e dirige l'organizzazione segreta repubblicana Falange sacra, reagisce pubblicando sull'Unità italiana del 3 genn. 1865 una lettera A F. C. accusato di opportunismo e di diserzione. Il C. risponde con l'opuscolo Repubblica e monarchia pubblicato nel marzo, ove riafferma la convinzione che, se anche la propaganda repubblicana suscitasse degli echi nel Sud, ciò provocherebbe la scissione dal Nord e l'intervento straniero, compromettendo unità e indipendenza, e accusa l'intransigenza mazziniana di ostacolare la possibile riforma dello Stato in senso popolare. E tale volontà di riforma delle istituzioni ad opera di una partito liberal-democratico (che miri all'allargamento del corpo elettorale, al Senato elettivo ed alla gratuità del mandato parlamentare) differenzia il C. da Mordini, che, al fine di completare l'unità nazionale, appare disposto a seguire la guida politica dei moderati.

Di fronte all'alleanza con la Prussia ed alla nuova guerra contro l'Austria il C. assume un atteggiamento che, pur escludendo una partecipazione al ministero Ricasoli (rifiutata dallo stesso Mordini), è di sostanziale appoggio all'opera del governo. È relatore del progetto per il domicilio coatto ai sospetti, che diviene legge il 19 maggio 1866, ed è fautore (contro il corregionale D'Ondes Reggio) della legge per la soppressione (e l'incameramento dei beni) delle corporazioni religiose, che viene approvata il 7 luglio.

Nell'agosto si oppone ai progetti extralegali di Biertani ed altri per la conservazione del corpo dei volontari garibaldini e deplora, in settembre, tanto i sobillatori della rivolta palermitana quanto le misure esclusivamente repressive del governo si rifiuta di entrare in un rinnovato ministero Ricasoli insieme a Cialdini e a Mordini. Dalle posizioni di quest'ultimo (sostenuto dal Diritto) appare ormai ben distante il C., che alla fine del 1866 stende, insieme a Bertani, un programma politico riformatore. Il grosso del partito segue ora il C., che con Bertani fonda, nel febbraio 1867, L'Avanguardia come "organo in Firenze dell'antica opposizione parlamentare". Dopo le elezioni politiche il C., candidato della Sinistra alla presidenza della Camera, ottiene 142 voti. La sua crescente forza politica è documentata dal sorgere di un grande giornale politico, La Riforma, che, progettato nella primavera come organo della Sinistra parlamentare, dal C., Bertani, Cairoli, De Boni e Carcassi, viene pubblicato dal 4 giugno a Firenze sotto la direzione di Antonio Oliva. Il contrasto fra il C. e Bertani (che vorrebbe imporre la collaborazione del repubblicano A. Mario) si risolverà in agosto a vantaggio del primo, che finalmente ha un personale organo di stampa a livello nazionale.

Il ritiro delle truppe francesi dal territorio pontificio (dicembre 1866) e la successione di Rattazzi a Ricasoli (aprile 1867) avevano intanto rinfocolato le speranze di quanti miravano all'unione di Roma allo Stato italiano. Il C., che, per non separarsi dal partito, ha rifiutato il portafoglio della Giustizia offertogli da Rattazzi, è certamente ostile alle tendenze e ai metodi della mazziniana Alleanza repubblicana universale, ma, per il resto, si comporta in modo che può apparire incerto e contraddittorio soprattutto egli tenta, nello stesso tempo, di stimolare all'intervento il governo e di frenare le impazienze di Garibaldi. Questi, giunto a Firenze il 17 settembre per guidare i suoi volontari oltre il confine, è arrestato e rinviato a Caprera: il C. gli raccomanda ripetutamente di non abbandonare la isola. Quando però i garibaldini avanzano in territorio pontificio, il C. è forse il più attivo tra i dirigenti del Comitato centrale di soccorso, che, nato a Firenze il 7 ottobre, si rivolge il 23 al paese affinché appoggi l'azione per la conquista di Roma. Tale azione è ormai personalmente diretta da Garibaldi, che, tornato sul continente, non ha curato i tentativi di dissuasione da parte di Cialdini (designato dal re per la successione a Rattazzi) e del C., che lo raggiungerà al campo - consenziente il nuovo presidente del Consiglio Menabrea - solo il 3 novembre, dopo che i volontari sono già stati battuti a Mentana. Ormai il C. considera chiusa anche la fase del garibaldinismo e si dedica, oltre che all'attività di avvocato, al rafforzamento, con l'azione parlamentare e giornalistica, della Sinistra parlamentare, ch'è certamente avversa ai ministeri Menabrea, ma nello stesso tempo si pone decisamente e definitivamente sul terreno della legalità costituzionale.

In Parlamento il C. si oppone al disegno di legge relativo all'imposta del macinato (marzo 1868), anche perché colpisce soprattutto il Sud, e si associa all'accusa di corruzione rivolta da Cristiano Lobbia ad una parte dei deputati che l'8 ag. 1868 hanno approvato la convenzione con la Società anonima per la Regia cointeressata dei tabacchi. L'attacco colpisce particolarmente il Civinini, che ha abbandonato la Sinistra per il partito di governo, e politicamente è diretto contro la Destra e contro il terzo partito di Mordini, che con Bargoni entra, il 13 maggio 1869, nel terzo ministero Menabrea. Anche se le accuse del C. e del Lobbia appaiono esagerate e poco documentate, lo scandalo indebolisce il partito di corte, che sostiene Menabrea, cosicché questi dovrà dimettersi il 19 novembre in seguito all'elezione alla presidenza della Camera di G. Lanza votato dai gruppi di opposizione della Destra piemontese, del Centro e della Sinistra. In quel tempo il C. è impegnato anche in una causa contro Cristoforo Bonavino (Ausonio Franchi) che egli accusa di diffamazione per aver pubblicato lettere scritte nel 1860 da La Farina, che saranno ritenute anche dalla magistratura gravemente offensive della onorabilità del Crispi.

Questi, che con Rattazzi e la maggior parte dei colleghi della Sinistra ha concesso una tregua al ministero di Centrodestra costituitosi il 14 dic. 1869 sotto la direzione di Lanza e Sella, condanna i moti promossi da Mazzini (arrestato a Palermo nell'agosto 1870) e difesi in Parlamento solo da un gruppetto di Estrema Sinistra capeggiato dal Billia, ma, insieme a Bertani, Cairoli, Fabrizi e Rattazzi, minaccia, sempre nell'estate del 1870, le dimissioni dalla Camera ed una durissima opposizione al governo se non si approfitta della guerra franco-prussiana, decisa nella battaglia di Sedan, per procedere all'occupazione e annessione di Roma. Sella s'impegna, a nome del governo, che finalmente agisce: il 20 settembre segna la vittoria del partito di Crispi e la definitiva sconfitta di Mazzini, che, nonostante il raggiungimento della soluzione unitaria con Roma capitale, scrive: "Il doppio sogno della mia vita s'è dileguato: l'iniziativa repubblicana è sorta, non in Italia, ma in Francia Roma ha subito la monarchia".

Attivissimo è il C. anche nella discussione parlamentare, che si svolge fra il gennaio e il maggio del 1871, sul disegno di legge sulle guarentigie al pontefice. Il C., il cui anticattolicesimo d'ispirazione mazziniana e massonica si esprime in forme della tradizione giuridica meridionale, si oppone a che la persona del papa sia dichiarata "sacra e inviolabile" e sostiene che, dopo la perdita del territorio, Pio IX debba essere considerato come un qualsiasi cittadino del Regno d'Italia, nel quale unico sovrano è la nazione che nei palazzi vaticani non possano rimanere guardie armate pontificie, ma debbano invece avervi libero accesso gli "agenti della forza pubblica" dello Stato italiano. Non ottiene l'accoglimento di tutte le sue proposte, che alla maggioranza non appaiono coerenti con le finalità della legge, ma contribuisce a far sì che questa contenga, accanto a elementi di ispirazione separatista, delle norme dettate dal neogiurisdizionalismo anticuriale.

Il trasferimento della capitale a Roma, per il quale il C. tanto si è battuto, lo danneggia sul piano finanziario e professionale: il palazzo che si era fatto costruire a Firenze, con i frutti dell'agiatezza ormai raggiunta, perde gran parte del suo valore traslocando a Roma deve rinunciare alla buona clientela che si era conquistato in Toscana. Forse ancora più grave è in quegli anni la sua situazione familiare per il difficile rapporto con Rosalia, che gli appare sempre più pesante, soprattutto dopo che Filomena (Lina) Barbagallo, la giovane amante di condizione sociale e culturale ben superiore a quella della stiratrice savoiarda, gli ha dato una figlia, Giuseppina, nata nell'ottobre 1873 (di altra madre è il figlio Luigi, che il C. ha legittimato). Ma soltanto nel 1875 Bertani e Tamajo indurranno la Montmasson ad accettare la separazione.

Tutto ciò si ripercuote sull'impegno politico del C., che in quegli anni ha momenti di scoraggiamento, di depressione e d'inerzia: minaccia i moderati ("o rispettate la Costituzione applicandola lealmente o ripiglieremo il lavoro che facemmo contro i principi decaduti e mandati via", afferma il 31 dic. 1871), ma l'11 giugno 1872 presenta le dimissioni da deputato, che sono respinte dalla Camera con dichiarazioni di stima nei suoi riguardi. Certo è che alla morte di Rattazzi, nel 1873, non a lui ma a Depretis è affidata la direzione della Sinistra. Del resto egli non condivide certe nuove tendenze, che allora si manifestano, come quella dei sessantaquattro deputati di Centro e di Sinistra ("sinistra giovane"), che antepongono alle questioni politiche quelle economico-sociali.

La sensazione di essere ingiustamente emarginato, soprattutto dal re e dai compagni di partito, appare al C. confermata dall'esclusione dal primo governo di Sinistra nato in seguito alla "rivoluzione parlamentare" del 18 marzo 1876 e presieduto da Depretis con Nicotera agli Interni. Ed egli protesta propone la costituzione di un "comitato di vigilanza" che controlli il ministero pubblica I doveri del gabinetto del 25 marzo (Roma 1876) per ricordare i tradizionali obiettivi programmatici del partito. In seguito all'anticipato scioglimento della Camera è nominato presidente del Comitato centrale elettorale democratico, che guida la Sinistra alla vittoria del novembre 1876 e porta all'elezione (232 voti su 347) del C. alla presidenza dell'Assemblea dei deputati, ch'egli reggerà con correttezza ed energia.

Nel 1877 il nuovo presidente della Camera guarda con interesse alla politica estera in un momento di grave crisi internazionale per l'acuirsi della questione d'Oriente, che ha provocato una nuova guerra russo-turca. L'eventualità di una occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina suscita, non soltanto fra i democratici irredentisti, ma pure negli ambienti governativi e diplomatici, la speranza di compensi all'Italia lungo il confine nordorientale. Perciò il re, Depretis e Melegari, ministro degli Esteri, vengono incontro ai desideri del C., fautore di un'attiva politica estera, affidandogli l'incarico di una missione presso i principali governi d'Europa, formalmente per un accordo che garantisca ai cittadini italiani gli stessi diritti civili goduti dai nazionali nei diversi Stati europei, sostanzialmente per togliere l'Italia dall'isolamento (in un momento in cui le correnti politiche prevalenti in Francia minacciano d'intervenire a favore del papa) e per conseguire qualche miglioramento dei confini nella Valle dell'Adige oppure oltre l'Isonzo. Il C. svolse tale incarico fra l'agosto e l'ottobre 1877 incontrando ministri della Francia, della Germania, della Gran Bretagna e dell'Austria-Ungheria. Particolarmente importanti furono i due colloqui con Bismarck nell'austriaca Gastein e a Berlino. Il cancelliere tedesco confermò il proprio impegno a difendere l'Italia da eventuali aggressioni francesi, non escludendo formali accordi in tal senso, ma dichiarò di essere nettamente contrario ad appoggiare il governo italiano nella richiesta di terre irredente quale compenso ad una eventuale occupazione austriaca di territori turchi. Disse di tener molto ad una stretta alleanza con l'impero asburgico e consigliò al C. di accordarsi con Andrassy, ministro della duplice monarchia, suggerendo di mirare a compensi in Albania lo stesso consiglio, non accolto dal C., diede anche il ministro inglese Derby. Del resto Andrassy manifestò l'assoluta intransigenza austroungarica riguardo a Trento e a Trieste. Successivamente il C. vanterà i "concreti risultati" raggiunti durante la sua missione, ma in realtà nulla ottenne durante il viaggio del 1877, che pur gli valse lo stabilirsi di un forte rapporto di amicizia con il "cancelliere di ferro".

Più felice fu la sua esperienza come responsabile della politica interna italiana, fra il 26 dic. 1877 e il 7 marzo 1878, nel secondo ministero Depretis. Secondo la volontà del C., Vittorio Emanuele II, morto il 9 gennaio, fu sepolto a Roma, nel Pantheon, solennemente, ed il suo successore non fu chiamato Umberto IV (come proponevano ambienti conservatori e moderati), ma Umberto I come segno del carattere nuovo, popolare e nazionale, dello Stato unitario. Dopo la morte di Pio IX (7 febbraio) il C. mostrò nello stesso tempo fermezza e prudenza: scoraggiò alcuni ambienti ecclesiastici, che progettavano un conclave a Malta, e quelli anticlericali, inducendo Garibaldi a non prestarsi a clamorose manifestazioni contro le guarentigie assicurò un libero svolgimento del conclave a Roma e attenuò così le vive preoccupazioni che il suo passato ancora suscitava a corte e fra gli stessi liberali. Su proposta del C. è soppresso il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, con un provvedimento d'ispirazione liberista vivacemente criticato da molti, e per suo volere è istituita presso il ministero dell'Interno la Direzione generale di statistica, affidata a Luigi Bodio, che a lungo avrebbe svolto un fruttuoso lavoro al servizio dei governi italiani. Il C. andava progettando altri provvedimenti (fra i quali una nuova legge elettorale con allargamento del suffragio), quando la sua opera venne interrotta da uno scandalo che sembrò dover troncare per sempre la sua carriera politica. Infatti una dura campagna di stampa, condotta soprattutto sulle colonne de Il Bersagliere, organo del partito di Nicotera (che nutriva rancore nei confronti del C., suo successore agli Interni), e su Il Piccolo diretto da Rocco De Zerbi, investì il C. accusato di bigamia per avere sposato civilmente il 27 gennaio Lina Barbagallo, nonostante l'anticolegame con la Montmasson. Il C., sostenendo la nullità del matrimonio di Malta, reagì anche per via giudiziaria, ma fu costretto, soprattutto per volere del re, a dimettersi dalla carica ricoperta nel ministero Depretis, che sopravvisse solo per qualche settimana.

Al nuovo ministero formato il 24 marzo da Cairoli, con Corti agli Esteri e Zanardelli all'Interno, il C. rimprovera una politica di debolezza tanto sul piano internazionale (di fronte alle potenze, ed in particolare all'Austria-Ungheria, durante il congresso di Berlino) quanto all'interno (rispetto a radicali, repubblicani e internazionalisti). Dopo avere efficacemente contribuito alla caduta di Cairoli (colpito da un voto di sfiducia, l'11 dicembre, in seguito ai gravi attentati di Napoli e di Firenze), il C. non combatte il governo Depretis nato il 19 dicembre anche perché esso include alcuni meridionali a lui vicini, come Tajani e Magliani alla Camera appoggia (contro Baccarini, Cairoli, Zanardelli, Sella e Nicotera) il progetto di legge governativo sul macinato, che prevedeva, non soltanto (come voleva la maggioranza dei senatori) l'abolizione della tassa sui cereali inferiori (consumati al Nord), ma pure l'immediata riduzione e la soppressione nel 1884 di quella sui cereali superiori (cioè delirano, principale alimento dei meridionali).

Il governo creato da Cairoli il 14 luglio 1879 (con due soli ministri non settentrionali) ha vita breve è sostituito a novembre da un altro ministero Cairoli con Depretis agli Interni. Il C., sebbene ancora pieno di rancore nei confronti dei compagni di partito, rivolge dapprima i suoi attacchi soprattutto contro la Destra, cosicché molti amici (fra i quali Bertani) pensano a lui come al capo di una Sinistra più intransigente di quella che è al governo, come al condottiero "della grande maggioranza del partito democratico" che vuol raggiungere il potere. Il ministero viene quindi colpito da feroci attacchi, spesso d'intonazione personalistica, del C., il quale, come presidente della Commissione per il bilancio, nega al governo la proroga dell'esercizio provvisorio e propone una mozione di biasimo. Durante la campagna elettorale della primavera del 1880, conseguente allo scioglimento anticipato della Camera, il C. conduce un'accesa, propaganda invocando il rinnovamento della corrotta classe di governo e afferma: "da due anni l'Italia è preda di una Destra mascherata da Sinistra".

Le elezioni del maggio danno al governo soltanto una maggioranza relativa perché forte è la Sinistra dissidente, mentre la Destra ha recuperato molti consensi ma il C. è aspramente criticato da C. Correnti, che lo accusa di avere assunto, per ambizione, posizioni gravemente dannose al partito e alla patria. Il C. respinge tali accuse, ma presenta nuovamente le dimissioni da deputato, che vengono respinte con calorose dichiarazioni di stima. Certo è che in quel periodo si dedica soprattutto alla professione forense (all'inizio dell'anno ha ottenuto una sentenza che permette a Garibaldi, annullato il legame con la contessina Raimondi, di sistemare la propria situazione familiare). Riprenderà gli attacchi al governo Cairoli nella primavera del 1881, quando gli avvenimenti di Tunisia confermano la sua antica diffidenza verso la Francia e l'ostilità, già da lui espressa nel 1878, alla politica estera del patriota pavese. Il crispino Damiani presenta quindi una mozione di sfiducia e il C. attacca con violenza il ministero, che tenta di salvarsi minimizzando la gravità degli avvenimenti africani ma il 14 maggio, giunta notizia del trattato del Bardo, il governo è costretto a presentare le dimissioni.

Il ministero Depretis, che governò dal 29 maggio 1881, ebbe Mancini agli Esteri e Zanardelli alla Giustizia. Il riavvicinamento di quest'ultimo a Depretis è fondato soprattutto sulla comune volontà di realizzare la riforma elettorale, che il C. appoggia insistendo sulla necessità di allargare il suffragio politico a tutti i maschi di almeno 21 anni che sappiano leggere e scrivere, nonché di uno scrutinio di lista, che, ricostruendo i partiti, possa essere di ostacolo al clientelismo e al trasformismo. Accetta anche, nel maggio 1882, la Triplice Alleanza, pure se l'accordo non dà ancora all'Italia sufficienti garanzie nei confronti della Francia e impone rinunzie a favore dell'Austria (che suscitano l'indignazione degli irredentisti e il sacrificio di Oberdan). Il C. non approva invece il rifiuto opposto da Depretis e Mancini alla proposta inglese del giugno di quell'anno per una occupazione anglo-italiana dell'Egitto il C. esprime personalmente a lord Granville il vivo desiderio di un intervento italiano in Egitto e pubblicamente manifesta la sua condanna per la decisione del governo, che rinuncia a cogliere un'ottima occasione per favorire l'espansione italiana sulle coste settentrionali dell'Africa.

Le elezioni svoltesi nell'ottobre 1882 secondo la nuova legge segnarono - contro le speranze del C. - l'avvio della pratica trasformista con l'adesione di molti moderati all'indirizzo politico di Depretis. Fra gli esponenti della Sinistra storica contrari al trasformismo, accanto a Cairoli, Zanardelli, Baccarini e Nicotera, fu il C., che con essi formò la cosiddetta pentarchia. Questa sembrò assumere notevole forza e mordente soprattutto in seguito al discorso pronunciato dal C. a Palermo il 3 nov. 1883 ("l'antica Sinistra si è ricostituita, ed è questa la buona novella che io vengo a darvi") ed al banchetto politico svoltosi a Napoli il 25 novembre con importanti discorsi di Cairoli e Zanardelli.

Fra i pentarchi è il C. ad estendere più esplicitamente e pesantemente la sua critica al governo dalla politica interna a quella estera e coloniale. Soprattutto il 25 giugno 1884 accusa Depretis e Mancini di proseguire l'"imbelle" politica estera dei moderati e di non comprendere la necessità per l'Italia di non rimanere assente dall'espansionismo coloniale che impegna tutti gli Stati europei ("L'Africa vi sfugge... "). Critiche come quella del C., ma forse ancor più l'esempio della Germania, inducono Mancini a modificare il proprio atteggiamento nello stesso anno: già nel dicembre 1884 progetta infatti un intervento in Libia e nel gennaio 1885 invia una spedizione militare nel Mar Rosso per l'occupazione di Massaua, che si aggiunge ad Assab acquistata nel 1882. Il C. deplora che l'espansionismo non si sia rivolto verso il Mediterraneo, ma afferma: "L'Italia è ad Assab, è a Massaua e in altri luoghi dell'Africa e deve restarci".

Intanto la pentarchia viene perdendo forza e compattezza anche per le divisioni riguardanti la perequazione dell'imposta fondiaria: il C. teme infatti che la legge 1º marzo 1886 per il nuovo catasto, voluta dai settentrionali, peggiori le già misere condizioni del Sud. Così, quando nel gennaio 1887 gli Abissini distruggono a Dogali un reparto italiano avanzante da Massaua a Saati, provocando le dimissioni del VI ministero Depretis, il C. (che nella campagna elettorale del 1886 ha sostenuto un programma radicale non privo di accentuazioni anticlericali e di motivi sociali a favore delle classi più povere) respinge le offerte di Saracco e del Rudinì per una partecipazione, da ministro della Giustizia, ad un governo di coalizione, ma finisce per entrare, come ministro dell'Interno (mentre Zanardelli va alla Giustizia), in un ottavo governo Depretis, che si costituisce nell'aprile 1887 con larga partecipazione della Sinistra, ma con l'inclusione dei moderati Bertolè Viale e Saracco.

Durante le trattative per il superamento della lunga crisi il C. si è dichiarato favorevole all'aumento delle tariffe doganali anche sul grano (che sarà attuato in quell'anno) non tanto, almeno inizialmente, per un convinto e sistematico protezionismo (seppure da tempo si batta per l'aiuto dello Stato agli armatori, fra i quali conta degli amici, come gli Orlando e i Florio, la cui ditta si fonde nel 1881 con la Rubattino per formare la Navigazione generale italiana), quanto per motivi fiscali e per compensare i proprietari meridionali danneggiati dalla perequazione fondiaria. Egli s'interessa però soprattutto alle questioni propriamente politiche ed ha voluto perciò un dicastero che gli permetta d'influire anche sulla politica estera, ch'egli vorrebbe più dinamica di fronte alla crisi bulgara ed alla nuova tensione fra Germania e Francia, ma è frenato dalla prudenza di Depretis spera quindi, trattando col benedettino abate L. Tosti, di ottenere la conciliazione fra Stato e Chiesa (auspicata da Leone XIII in un discorso del maggio), ma non vuol compiere alcun concreto passo verso un'intesa: la risposta da lui data alla Camera, il 10 giugno, ad una interrogazione Bovio sull'argomento certamente non contribuisce a rendere possibile un accordo.

Mentre lavora per una maggiore efficienza del ministero dell'Interno (regio decreto del 3 luglio, che include fra le quattro direzioni generali quella della sanità legge del 14 luglio, che formalizza la stretta dipendenza dei prefetti dal governo), è incaricato dal re, dopo la morte di Depretis (29 luglio), di assumere (primo fra i meridionali), anche la presidenza del Consiglio e (rifiutando Nigra di diventare ministro) l'interim degli Esteri. Concentra perciò nelle sue mani un grande potere politico e viene considerato come un dittatore. In politica estera, si dichiara pronto ad intervenire contro la Russia e favorisce incontri per un accordo militare con l'Austria-Ungheria e l'Inghilterra quando poi nella penisola balcanica si vanno attenuando i pericoli di guerra, raggiunge Bismarck a Friedrichsruh (1-3 ottobre) stabilendo un più stretto legame, anche sul piano militare, fra i governi italiano e tedesco. Dichiara di aderire alla volontà di pace del cancelliere, ma vuol rendere più attiva la Triplice, che il Robilant ha rinnovato in febbraio con miglioramenti a favore dell'Italia. Anche in Africa vuole pace, ma con "onore", e perciò invierà in novembre una spedizione comandata da Asinari di San Marzano, che rioccuperà Dogali e Saati.

Nel discorso pronunciato a Torino il 25 ottobre il C., che ha ormai rassicurato e conquistato molti dissidenti di Destra e di Sinistra, delinea un programma che prevede riforme tali da rendere più moderne in senso liberaldemocratico e più efficienti le strutture pubbliche. Nel novembre presenta al Parlamento molti progetti, che generalmente riprendono iniziative di Depretis (bloccato è però quello, sgradito al C., per l'abolizione dello scrutinio di lista), riguardanti, fra l'altro, l'amministrazione centrale, l'ordinamento comunale e provinciale e il Consiglio di Stato: sono tutti approvati entro il 1888. Sarà così stabilito che "il numero e le attribuzioni dei ministeri" siano fissati, non dal Parlamento, ma "con decreti reali" che la base dei governi sia allargata con l'istituzione dei sottosegretari di Stato che siano elettivi i presidenti delle deputazioni provinciali e i sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti (escludendo quelli dei centri minori per combattere il "pericolo nero") che sia esteso il corpo elettorale amministrativo facendo prevalere il criterio della "capacità" su quello del censo che la giustizia amministrativa sia affidata alle "giunte provinciali amministrative" (presiedute dal prefetto anche se con maggioranza di membri eletti) e ad una quarta sezione, giurisdizionale, del Consiglio di Stato. Con queste decisioni, e con quelle degli anni seguenti, lo Stato italiano completa e modifica l'ordinamento stabilito negli anni dell'unificazione, accompagnando, secondo le personali tendenze del C., l'indirizzo democratico-statalista a forme di garanzia care alla Destra di Minghetti e Spaventa e compensando una maggiore autonomia con forme nuove di controllo da parte dei prefetti e del potere centrale.

Forte di un largo consenso parlamentare, che abbraccia spesso anche il Centro, la Destra e l'Estrema Sinistra, il C. si mostra duro con la S. Sede (il 30 dic. 1887 destituisce Leopoldo Torlonia, sindaco di Roma, perché ha inviato auguri per il giubileo sacerdotale di Leone XIII) e vuol tener testa alla Francia (irritata per l'incontro tra il C. e Bismarck) anche sul piano economico in un momento in cui alla crisi agraria si è aggiunta quella industriale: l'interruzione, nel febbraio 1888, delle trattative italo-francesi per un nuovo trattato di commercio porta, dal 1º marzo, a quella "guerra delle tariffe" che danneggerà soprattutto l'agricoltura meridionale il mancato collocamento delle obbligazioni ferroviarie italiane sul mercato francese sarà invece compensato dalle sottoscrizioni tedesche.

Dopo aver tentato inutilmente di spingere Bismarck ad una comune guerra preventiva contro la Francia (missione Goiran dell'aprile 1888), il C. si fa promotore in Africa, per tramite del conte Antonelli, di un'azione diplomatica per l'alleanza con Menelik, re dello Scioa, contro il negus Giovanni IV, sottovalutando la prudente penetrazione nel Tigrè del nuovo comandante Baldissera, che obbedisce alle indicazioni del moderato ministro della guerra Bertolè Viale. Recatosi nuovamente in Germania nell'agosto 1888, il C. si accorda con Bismarck per una visita a Roma del nuovo imperatore Guglielmo II, che si svolgerà in ottobre in forme tali da costituire un riconoscimento tedesco dei diritti dello Stato italiano sulla città di Roma. Ciò delude e preoccupa il pontefice, ma conferma l'appoggio al governo da parte della massoneria, ch'è documentato dalle entusiastiche lettere indirizzate in giugno e in dicembre dal gran maestro Adriano Lemmi all'"Illustre Venerato e caro Fratello F. C. 33.".

Nel dicembre 1888 il C., poco curandosi di essere fermo e coerente in materie economiche da lui giudicate secondarie e strumentali, spera di tacitare le critiche alla "finanza allegra" del governo sostituendo il criticato ministro Magliani con Grimaldi alle Finanze e Perazzi al Tesoro ma la crisi è più vasta e richiede provvedimenti adeguati alla grave situazione economica, che dipende anche dal peggioramento dei rapporti con la Francia. Perciò il 28 febbr. 1889 l'intero governo è dimissionario nel nuovo ministero, formato dallo stesso C. mediante accordi trasformistici con diversi gruppi politici, entrano Giolitti (fautore di economie), Seismit Doda. Finali e Lacava. Considerando anche l'ingresso, avvenuto nel dicembre 1887, di Miceli come ministro dell'Agricoltura e del radicale Fortis come sottosegretario all'Interno, si può dire che la nuova amministrazione (pur con la presenza di Finali) sia più spostata a Sinistra e quindi più disposta a seguire le personali tendenze dei Crispi.

Mentre procede nella riforma dello Stato (del 31 marzo e del 1º maggio sono le leggi che regolano definitivamente la giustizia amministrativa), il C. accompagna Umberto I in Germania ed ha l'ultimo cordiale incontro con il grande cancelliere. Nel giugno si sente abbastanza forte per colpire, anche con accentuazioni autoritarie, tutti quei settori che ritiene ostili alla causa nazionale e complici della ormai nemica Francia (ordina all'ambasciatore italiano di lasciare Parigi al momento della inaugurazione dell'Esposizione universale per il centenario della Rivoluzione, alla quale il C. contrappone la gloria italiana del 20 settembre). I cattolici, accusati di seguire gl'indirizzi filofrancesi del segretario di Stato Rampolla, sono offesi dalla solidarietà espressa dal C. al promotori del monumento a Giordano Bruno, inaugurato a Campo dei Fiori in Roma con una clamorosa manifestazione anticattolica, e dall'approvazione del nuovo codice penale (legato al nome di Zanardelli), contenente articoli che colpiscono "abusi dei ministri dei culti".

Nello stesso tempo il C. proibisce i comizi irredentisti e scioglie i circoli Oberdan e Barsanti rispettivamente d'ispirazione radicale e repubblicana. Teme ormai in forma eccessivamente sospettosa e quasi ossessiva i pericoli di un improvviso attacco francese e perciò, mentre le spese per l'esercito e la flotta raggiungono cifre elevate, chiede aiuto ai Tedeschi (ma Bismarck rassicura il Cucchi appositamente inviatogli) e agli Inglesi, che spediscono una squadra navale a Genova per difendere La Spezia.

Il C. comprende che gli alleati non sono disposti a turbare la tranquillità dell'Europa accogliendo con facilità le proteste e le richieste di solidarietà del troppo eccitabile amico: cerca quindi, e sembra ottenere in larga misura, in Africa delle soddisfazioni alle proprie speranze di grandiosi successi. L'8 marzo il negus Giovanni è stato ucciso dai Dervisci a Metemma ora Menelik ha bisogno dell'aiuto italiano per imporsi come nuovo negus neghesti a ras Mangascià e agli altri oppositori perciò si lascia convincere da Antonelli a firmare nel maggio 1889 il trattato di Uccialli con il quale egli sembra riconoscere, in cambio di aiuti militari, il protettorato dell'Italia sull'Etiopia (art. 17) e nuovi confini del possedimento italiano sull'altopiano abissino. Intanto il ministro Bertolè Viale cede alle esortazioni del C. e ordina una avanzata nel Tigrè al generale Baldissera, che occupa Keren e Asmara, raggiungendo il Mareb. Già dal febbraio, con il protettorato sul sultanato di Obbia, si è iniziata la pacifica espansione dell'Italia nel territorio somalo (estesa, nello stesso anno, al sultanato di Migiurtini ed alla costa del Benadir).

Quando il 17 sett. 1889 è aggredito a Napoli dal giovane pugliese Caporali, il C. accusa dell'attentato gli estremisti ed accentua la propria intolleranza per le opposizioni, che durante il 1890 aumentano nel paese a causa delle difficoltà in economia (fallisce un tentativo crispino di attenuare la guerra delle tariffe con la Francia), in politica estera e coloniale. Infatti, dopo la sostituzione di Bismarck, il quadro internazionale viene cambiando il nuovo cancelliere Caprivi, l'austro-ungarico Kalnoky e l'inglese Salisbury appaiono insofferenti per l'eccitabilità e le pretese del Crispi. Questi, che pur ha dato uno stabile ordinamento (con dipendenza dal ministero degli Esteri) alla colonia sul Mar Rosso, che nel gennaio 1890 prende il nome di Eritrea, ed ha accolto la proposta di Franchetti per la sua colonizzazione agricola, sembra non poter cogliere buoni frutti dalla "politica scioana", perché Menelik, ormai saldo sul trono imperiale e irritato dall'occupazione di Adua da parte del generale Orero, non vuole accettare il protettorato (contrapponendo al testo italiano quello amarico dell'art. 17) e contesta i confini stabiliti a Uccialli.

Sebbene il governo porti all'approvazione (il 17 luglio 1890) la legge, d'ispirazione laicista, sulle "istituzioni pubbliche di beneficenza" (che non soltanto da clericali, ma pure da moderati, è accusata di eccessivo statalismo e di tradire l'originaria finalità di molte Opere pie), la maggioranza governativa sembra spostarsi a destra nel corso del 1890: ciò appare confermato dal fatto che l'8 giugno Fortis lascia il sottosegretariato agli Interni (dopo che in maggio i radicali, col "patto di Roma", hanno elaborato il programma di opposizione dell'Estrema) e dallo stesso risultato delle elezioni politiche di novembre, che, dopo un vivacissimo scontro fra il governo e i democratici irredentisti (violenti discorsi contrapposti del C. e di Cavallotti a Firenze preceduti dalla destituzione del ministro triestino Seismit Doda), portano in Parlamento parecchi moderati che si dichiarano governativi, ma non condividono a pieno il programma crispino. Il C. in dicembre dà ragione a Giolitti, che si oppone ad una spesa richiesta da Finali ma il piemontese ministro del Tesoro presenta egualmente le dimissioni, indebolendo il governo, che cade il 31 genn. 1891 (anche per il malcontento suscitato proponendo una riduzione delle prefetture e un'unica banca di emissione) in seguito ad uno scatto del C., il quale in Parlamento rimprovera alla Destra di non avere provveduto ai necessari armamenti e di aver fatto "una politica servile verso lo straniero", offendendo così "le sacre memorie" dei moderati, che tolgono l'appoggio al ministero.

Negli anni 1891-93 il C. conferma quell'indirizzo laicista e antipapale che già gli ha procurato l'ostilità, non soltanto dei cattolici intransigenti (guidati con maggiore energia, dalla fine del 1889, dal nuovo presidente dell'Opera dei congressi, Paganuzzi), ma pure dei conservatori nazionali capeggiati da Stefano Jacini, che lo ha tacciato di "megalomania". Il C. rivolge inoltre delle pesanti critiche, spesso in privato ma non di rado anche in pubblico, ai governi di Rudinì e Giolitti, che giudica incerti e vili. Lo scandalo della Banca romana, che sembra schiacciare definitivamente Giolitti (accusato anche direttamente dal C. in una intervista al Fanfulla del febbraio 1893), non danneggia per il momento il C. molti anzi pensano proprio a lui come al solo uomo politico che possa risollevare il prestigio dell'Italia all'estero (dopo i gravi fatti di Aigues-Mortes), ristabilire l'ordine nella Sicilia agitata dai Fasci dei lavoratori e porre rimedio alla gravissima situazione economico-finanziaria del paese e dello Stato.

Dopo un tentativo di formare un governo da parte di Zanardelli (che il re fece fallire opponendosi alla nomina del trentino Baratieri agli Esteri), l'incarico fu perciò quasi naturalmente conferito al C., che il 15 dic. 1893 si presentò alla Camera con un governo di coalizione comprendente uomini della Sinistra anche avanzata, del Centro e della Destra (a questi ultimi settori appartenevano gli autorevoli Sonnino, ministro delle Finanze con l'interim del Tesoro, e Saracco, ministro dei Lavori Pubblici), chiedendo e ottenendo da quasi tutti i parlamentari (anche dell'Estrema) una "tregua di Dio". Ritenne però che la situazione siciliana, ulteriormente peggiorata, richiedesse, prima delle riforme da lui promesse a Colajanni e Cavallotti, dei gravi ed energici provvedimenti: fece quindi proclamare dal gen. Morra di Lavriano lo stato d'assedio nell'isola (3 genn. 1894) per colpire i Fasci, che vennero sciolti il 10 gennaio lo stato d'assedio venne proclamato anche in Lunigiana in seguito a moti anarchici. Alla riapertura del Parlamento il C. ottiene da parte di una larga maggioranza (alla Camera 342 sì, 45 no, 22 astenuti) l'approvazione della sua politica interna, mentre soddisfazione si manifesta nel paese per le vittorie sui Dervisci, che sono stati sconfitti il 21 dic. 1893 dall'Arimondi ad Agordat e lo saranno nuovamente dal Baratieri, che il 17 luglio 1894 occuperà la sudanese Cassala.

Resistenze parlamentari, anche da parte di alcuni settori della maggioranza, incontra invece il governo quando propone provvedimenti finanziari e di riforma. Sonnino si era proposto, d'accordo col C., di raggiungere con forti misure il risanamento del credito e del bilancio statale. Per ciò che riguarda la crisi bancaria, aggravatasi per il crollo del Credito mobiliare e della Banca generale, egli, che aveva criticato l'insufficienza della legge del 1893 proposta da Giolitti, parte dall'applicazione di questa per andare oltre verso un maggiore controllo da parte dello Stato: afferma perciò che l'interesse pubblico deve prevalere su quello dei privati azionisti della Banca d'Italia, provocando a fine febbraio le dimissioni del direttore della Banca, Giacomo Grillo, e concludendo in ottobre con il successore Marchiori un accordo vantaggioso per lo Stato. La nascita, in dicembre, con prevalente apporto tedesco, della Banca commerciale a Milano e poi quella del Credito italiano a Genova porranno le basi per il decollo della grande industria. Circa il bilancio, Sonnino sostiene l'impossibilità di risanarlo seguendo la formula giolittiana "economie e non imposte" propone quindi: aumento del prezzo del sale, aumento del dazio doganale sul grano da 5 a 7 al quintale (anziché a 9 come richiesto dagli agrari), ripristino dei 2/10 dell'imposta fondiaria, aumento di 1/10 della tassa di successione, imposta generale sull'entrata ossia complementare progressiva sul reddito delle persone fisiche, aumento del 20% della ritenuta di ricchezza mobile (cioè riduzione della rendita) incontrando forti resistenze, nella stessa maggioranza, soprattutto riguardo alle proposte che colpivano i possessori di rendite (come l'imposta generale sull'entrata, che viene respinta). È soprattutto il rigore di Sonnino a suscitare allora un forte malumore antigovernativo, che è espresso anche dai fischi dei Milanesi contro il C. nel maggio 1894. Un rimpasto, che viene attuato in giugno, sebbene privi Sonnino dell'interim delle Finanze, che sono affidate a Boselli, il quale a sua volta è sostituito all'Agricoltura da Barazzuoli, assume un significato antiradicale.

Seppur con alcune concessioni agli agrari (come la rinuncia ai 2/ 10 dell'imposta fondiaria, oltre che all'imposta generale sull'entrata) ed ai fautori della politica delle economie, il nuovo governo ottiene infatti l'approvazione dell'"omnibus" finanziario di Sonnino (legge 22 luglio 1894). Si delinea nello stesso tempo la rottura con l'Estrema Sinistra resa definitiva dalla presentazione (dopo il fallito attentato Lega contro il C.) di tre progetti contro gli anarchici, che sono approvati in luglio dal Parlamento nonostante l'opposizione di socialisti, repubblicani e radicali, i quali, già preoccupati per la deliberata revisione delle liste elettorali politiche, considerano quei provvedimenti (che, tra l'altro, colpiscono l'apologia del terrorismo a mezzo stampa e creano commissioni composte da due magistrati e un consigliere di prefettura per inviare i sospetti a domicilio coatto) lesivi delle libertà personali e di opinione. La "tregua di Dio" in Parlamento è ormai finita. Il C. è quindi alla ricerca di nuovi consensi nel paese, che possano giovargli tanto nella politica estera e coloniale quanto all'interno tra l'estate del 1894 e la primavera del 1895 egli tenta infatti di attutire l'asprezza del contrasto fra Stato e Chiesa compiendo qualche passo verso una "conciliazione silenziosa" (anche tramite la mediazione del figlioccio, studioso e bibliotecario vaticano, mons. Isidoro Carini): in agosto si raggiunge un accordo che permette a molti vescovi di ottenere l'exequatur e porta alla costituzione di una Prefettura apostolica eritrea affidata a cappuccini italiani il 10 settembre il C. pronuncia a Napoli un discorso d'intonazione conciliatorista, che suscita preoccupazione nel gran maestro Lemmi (vecchio amico politico del C. e finanziatore de La Riforma).

L'opposizione dell'Estrema Sinistra si rafforzerà in ottobre dopo lo scioglimento da parte del governo delle organizzazioni socialiste, difese dai democratici che fondano la Lega per la difesa della libertà. E si rafforza anche l'opposizione di alcuni settori della Destra guidata dal Rudinì, che rimproverano al C., che già è riuscito a far approvare una legge sociale sui demani comunali, soprattutto la presentazione in luglio (quasi a compenso delle concessioni agli agrari) di un progetto di riforma del latifondo siciliano, che, nonostante l'impegno personale del C., non diventerà mai legge (come un progetto per il decentramento presentato in febbraio) a causa della resistenza in Parlamento anche di gruppi della maggioranza. Accanito diventa anche l'anticrispismo dei giolittiani, che rimproverano al C. le accuse e le insinuazioni contro il loro capo a proposito della Banca romana: il dicembre 1894 Giolitti consegna al presidente della Camera un "plico" con documenti, che, pur non contenendo gravi fatti nuovi a carico del C., sono tali da indurre quest'ultimo a prorogare la sessione della Camera, che infine verrà sciolta. Cavallotti, membro della commissione che ha esaminato il "Plico", inizia allora, con una "lettera agli elettori", una violentissima campagna contro il presidente del Consiglio. Questi tuttavia può, all'inizio del 1895, festeggiare con grande solennità (in quella occasione Carducci scrive dei versi di esaltazione del C.) il matrimonio della figlia col principe Bonanno di Linguaglossa e rallegrarsi per le vittorie di Baratieri su ras Mangascià a Coatit e Senafè (13 e 16 gennaio) e per il trionfo di una lista clerico-moderata a lui non ostile nelle elezioni amministrative milanesi del 10 febbraio. Apparentemente anche le elezioni politiche del 26 maggio e del 2 giugno (con liste ridotte, soprattutto nel Mezzogiorno, per l'avvenuta revisione) risultano per lui vittoriose, ma la rinnovata astensione dei cattolici (su invito di Leone XIII) e le adesioni che incontra la campagna di Cavallotti, che il 22 giugno pubblica una lettera agli onesti di tutti i partiti agitando la "questione morale" contro il C. (accusato anche di avere procurato per denaro una carica borbonica a un siciliano nel 1845 ed il gran cordone mauriziano all'uomo d'affari Cornelius Herz nel 1891), dimostrano quanto precarie siano le basi di quel consenso. Il C. cerca di consolidarlo in alcuni ambienti anticlericali facendo approvare in luglio la festività nazionale del 20 settembre, che quell'anno egli stesso celebra con un discorso antipapale inaugurando il monumento a Garibaldi sul Gianicolo spera di conquistarlo in più larga misura ottenendo una clamorosa vittoria in Africa.

Invece proprio sul terreno coloniale si pagano ora le conseguenze di errori compiuti. La politica scioana, ritentata fra il dicembre del 1893 e il maggio del 1894 dall'Antonelli, che fu in quei mesi sottosegretario agli Esteri, fallisce definitivamente, mentre l'avanzata italiana nel Tigrè, che ha portato all'occupazione di Adua, Axum e Adigrat, e poi alla penetrazione, nell'ottobre 1895, fino all'Amba Alagi, rende più solidali fra loro il ras tigrino Mangascià e il negus Menelik, che in quello stesso mese si muove con un forte esercito dallo Scioa per la riconquista del Tigrè. È incoraggiato da Francesi e da Russi (ormai alleati), mentre l'Italia non ottiene l'appoggio dell'Inghilterra (già irritata dall'occupazione di Cassala e diventata ostile alla Triplice per gli atteggiamenti filoboeri di Guglielmo II) e neppure quello della Germania e dell'Austria-Ungheria. Il 7 dic. 1895 l'esercito abissino sconfigge all'Amba Alagi le truppe italiane guidate dal maggiore Toselli e il 21 genn. 1896 costringe alla resa la guarnigione di Macallè comandata dal maggiore Galliano.

Incerte e contradditorie sono, in tale congiuntura, la direzione politica del C. e quella militare di Baratieri. Il primo deve tener conto delle preoccupazioni di bilancio ed antiespansionistiche di Sonnino e di Saracco, ma nello stesso tempo vuole una sollecita vittoria in Africa per chiudere la bocca alle opposizioni, le quali si propongono di affrontarlo alla riapertura della Camera, che ha dovuto promettere per far rientrare le dimissioni di Saracco. Baratieri, dopo avere assunto un prudente atteggiamento difensivo, è infine spinto all'azione dal C. (che, pur avendolo segretamente sostituito con Baldissera il 21 febbraio, gli rimprovera la "tisi militare" con telegramma del 25) e da quattro suoi generali ascoltati in un consiglio di guerra del 28 febbraio. Le colonne italiane avanzanti nei pressi di Adua sono quindi gravemente sconfitte il 1º marzo ad Abba Garima dall'esercito di Menelik. Soprattutto in quella Lombardia che già dirige l'opposizione settentrionalista alla sospensione dei lavori per il nuovo catasto si svolgono allora violente manifestazioni contro il governo e la sua politica africana: il 5 marzo il C. deve comunicare alla Camera che il re ha accettato le dimissioni del ministero.

Il C. trascorrerà gli ultimi cinque anni di vita prevalentemente a Napoli, nella sua villa Lina, ma continuerà a seguire con attenzione e dolore lo svolgersi degli avvenimenti politici. Esprime al re e alla regina la propria amarezza per essere stato "gettato in bocca al lupo", in pasto "ai suoi nemici", mentre l'intera Italia è in balia del "governo della piazza", che fa "voti per la repubblica sociale", ed accenna anche alla necessità di riforme istituzionali ben diverse da quelle accentuatamente democratiche, un tempo da lui proposte. Considera vile la politica interna, estera e coloniale dei governi diretti dal Rudinì ("non è là per governare, ma per fare i capricci dei radicali"), che accusa per "le diffamazioni e le calunnie" diffuse contro di lui per volere di Cavallotti, così come fa carico al ministro della Giustizia Costa dell'essere stato egli coinvolto in un processo, che si svolge a Bologna, contro il Favilla, direttore del Banco di Napoli. Del resto le elezioni politiche, anticipate al 1897 per ottenere una Camera anticrispina, fanno sì che dallo stesso Parlamento venga nel 1898 un "censura politica" contro il vecchio C., che in quell'anno deplora l'imprevidenza e gli errori del governo Rudinì-Zanardelli e poi giudica Umberto "mal consigliato" per avere affidato il governo a un Pelloux "abbastanza presuntuoso nell'assumere un ufficio superiore alle sue forze e alla sua intelligenza".

Sul piano politico-sociale vede allora con particolare amarezza progredire "il socialismo rosso e il nero" ma sa di essere "sull'orlo del sepolcro" e lamenta di non avere "tempo sufficiente per fare quanto occorre per restaurare le sorti del paese", di essere ormai "un albero secco, che non fa più frutto. Posso essere l'eco del passato - aggiunge -, ma non il verbo del momento presente".

I festeggiamenti che gli vengono tributati a Palermo nel 1899 (per quello che si ritiene il suo ottantesimo anno) lo confortano solo momentaneamente. Il continuo peggioramento della vista e dispiaceri familiari accrescono infatti la sua tristezza alla vigilia della morte, che lo coglie a Napoli l'11 ag. 1901.

Fonti e Bibl.: I principali nuclei di fonti documentarie riguardanti il C. si trovano a Roma. Nell'Arch. centrale dello Stato si conservano 6 serie di carte crispine di diversa provenienza e denominazione: Roma, Archivio centrale d. Stato, Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio di Stato di Palermo, Deputazione di storia patria di Palermo, Biblioteca nazionale di Palermo, Primo e secondo gabinetto (per le carte che erano a Palermo, ove, nell'Arch. di Stato, sono rimaste soltanto quelle carte relative allo studio legale del C., cfr.: E. Di Carlo, Le carte C., in Idea, XVII [1961], pp. 94 ss.). Altri fondi dell'Arch. centrale dello Stato con documenti crispini sono: G. C. Costa, A. Damiani, A. Depretis, A. C. Pisani Dossi, G. Giolitti, G. Palumbo Cardella, R. Pilo, G. Pinelli. Nel Museo centrale del Risorgimento, sempre a Roma, le buste 656-668 e 830-831 contengono carte del C. (cfr.: E. Morelli, I fondi archivistici del Museo centrale del Risorg., XLV, Le carte di F. C., in Rass. stor. del Risorg., LXVII[1980], pp. 436-39). Tra gli altri fondi del Museo che comprendono documenti crispini è quello delle Carte di A. Lemmi. Nell'Arch. storico del Ministero degli Affari Esteri si trovano documenti relativi alla direzione del ministero da parte del C. nel 1887-91 (cfr. Ministero degli Affari Esteri, Indice dell'Archivio storico, VII, Le scritture del gabinetto C. e le carte Sonnino, a cura di F. Bacino, Roma 1955) e le Carte di P. Levi. Per ciò che riguarda opuscoli, libri e giornali del C. (ma anche per le vicende dell'Archivio triennale e dei documenti crispini) cfr.: A. Nardecchia, Vendita all'asta pubblica della ricca biblioteca di F. C., Roma 1907 C. Cattaneo e l'Archivio triennale negli opuscoli della Biblioteca di storia moderna e contemp., Roma 1982 (particolarmente alle pp. 11-22 curate da R. Caffo). Utili raccolte di scritti o discorsi del C. sono: F. Crispi, Discorsi elettorali (1865-1886), Roma 1887 Id., Scritti e discorsi politici, Roma 1890. I Discorsi parlamentari del C. sono stati pubblicati dalla Camera dei deputati (I-III, Roma 1915). Volumi fondati sulle carte C. e curati dal nipote e segretario Tommaso Palamenghi Crispi: G. Mazzini, Epistol. ined. (1836-64), Milano 1911 F. Crispi, I Mille, Milano 1911 Id., Politica estera, Milano 1912 (2 ed. ampliata, Milano 1929) Id., G. Giolitti, Roma 1912 Id., Carteggi politici ined. di F. C. (1860-1900), Roma 1912 Id., Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901), Roma s. d. [ma 1913] Id., Questioni internazionali, Milano 1913 Id., La prima guerra d'Africa, Milano 1914 Id., Lettere dell'esilio (1850-1860), Roma 1918 Id., Pensieri e Profezie, Roma 1920 Id., Politica interna, Milano 1924 Id., L'Italia coloniale e F. C., Milano 1928. Per i documenti di politica estera si v., oltre ai Libri Verdi, Min. degli Affari Esteri, I docum. diplom. ital., s. 2, XXI (31 luglio 1887-31 marzo 1888), a cura di R. Mori, Roma 1968. Biografie e profili interpretativi sono: Un italien [E. Mayor des Planches], M. C., sa vie, son caractère, sa politique, in Revue internationale, VI (1889), t. 24, pp. 137-156, 265-293, 405-438, 549-583, 689-714 VII (1890), t. 25, pp. 60-82, 201-218, 453-468, 623-641 t. 26, pp. 44-63, 229243, 292-414 t. 27, pp. 362-374, 521-533 L. Fortis, F. C., Roma 1895 G. Arcoleo, C., Palermo 1905 G. Castellini, C., Firenze 1915 A. C. Jemolo, C., Firenze 1922 (2 ed., Firenze 1970) V. E. Orlando, C., Palermo 1923 M. Viana, C. l'eroe tragico, Milano 1923 G. Volpe, C., Venezia 1928 F. Ercole, La personalità stor. e il pensiero politico di F. C., in Pensatori e uomini d'azione, Milano 1935, pp. 297-389 N. Inglese, C., Milano 1936 (rist. Milano 1961) G. Ardau, F. C., Milano 1939 G. Bourgin, F. C., Paris 1949 P. E. 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