FRANCESCO da Barberino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FRANCESCO da Barberino

Emilio Pasquini

Figlio di Neri di Ranuccio, nacque a Barberino Val d'Elsa, tra Firenze e Siena, nel 1264 da una famiglia nobile ma di censo modesto. Il padre, un austero ghibellino che aveva preferito il paese natio alla città, gli impartì la prima educazione. Fra il 1281 e il 1290 F. approfondì a Firenze lo studio delle arti liberali avvicinando forse Brunetto Latini; poi, nell'ultimo decennio del secolo, sollecitato dal padre soggiornò a Bologna, dove conseguì la licenza in diritto civile e divenne notaio (come attesta un documento del 1294 fatto conoscere dal Thomas). Entrò allora in contatto con gli ambienti letterari del tempo nei quali si andava diffondendo la fama di Guido Guinizzelli. Nel 1296, alla morte del padre, rientrò a Barberino ma poco dopo si trasferì a Firenze dove, dal 1297 al 1303, fu notaio episcopale sempre firmando gli atti da lui rogati col nome del luogo di nascita e mai con il patronimico. Verso il 1303 prese in moglie una donna (di essa non ci è noto il casato), dalla quale ebbe cinque figli.

A Firenze dovette certo avvicinare il gruppo degli stilnovisti e in particolare Dante e G. Cavalcanti. Dovette anche entrare in contatto con i pittori Cimabue e Giotto. A quest'epoca risale la sua prima produzione letteraria oggi perduta: le rime per una Costanza; una serie di "questioni d'amore", i Flores novellarum. Egli dovette inoltre allora avviare il cantiere delle opere principali. Condannato all'esilio in quanto ghibellino, lasciò Firenze nel 1304. A una significativa stagione padovana, durante la quale completò la sua preparazione giuridica e filosofica, seguirono un breve soggiorno a Treviso, forse al servizio del podestà Corso Donati, nel 1308, e poi un quinquennio transalpino tra il 1309 e il 1313, nel quale fu presso la Curia pontificia di Clemente V ad Avignone, e anche presso le corti di Filippo il Bello, a Parigi e di Luigi il Testardo, in Navarra. In Francia egli dovette svolgere il ruolo di consulente legale e di mediatore politico specie come incaricato di missioni diplomatiche nel quadro dei rapporti tra quelle potenze e Venezia. Si mantenne tuttavia fedele all'idealità ghibellina che vedeva nell'autorità imperiale la garanzia della pace universale, secondo il disegno divino: lo dimostra un'epistola latina dai toni danteschi che egli indirizzò a Enrico VII.

In Francia conseguì il dottorato in utroque iure riconosciutogli con bolla papale del 28 marzo 1313 presentata al vescovo di Firenze l'8 agosto successivo ma confermata solo cinque anni più tardi. Rimasto vedovo nel 1313, sposò in seconde nozze Barna di Tanuccio Rinieri, dalla quale ebbe altri figli. Rientrato in Italia, non poté ritornare a Firenze, a causa delle sue simpatie filoimperiali: il suo nome, infatti, figura in una lista di esuli fiorentini fatta conoscere dal Novati. Solo intorno agli anni 1314-1315, dopo un breve soggiorno a Venezia, fece ritorno a Firenze, dove, comunque, si fermò solo per un breve periodo, se poco dopo lo troviamo ancora ramingo in altre città dell'Italia settentrionale. Solamente intorno agli anni 1317-1318 rientrò a Firenze, dove si stabilì in via definitiva per dedicarsi alla professione di notaio, universalmente apprezzato per la sua competenza giuridica. Abitava, allora, insieme alla moglie "in populo sancti Florentii" (Novati). Nel 1322 e 1323 egli figura come esecutore testamentario del vescovo Antonio d'Orso. Nel 1327, come utriusque iuris doctor, partecipò ad un lodo, i cui atti vengono citati dal Novati. Se le antiche simpatie ghibelline gli preclusero per molto tempo ogni attività politica (solo nel 1345 venne eletto insieme con il figlio Filippo consigliere della Repubblica e solo ai primi del 1348 raggiunse il priorato), l'influenza da lui esercitata quale giurisperito nel mondo economico e finanziario è attestata da numerosi documenti nonché dalla sua nomina a console, insieme con Francesco Salviati, del Collegio dei giudici e dei notai, avvenuta nel 1347.

Circondato dalla stima dei contemporanei, F. morì di peste a Firenze all'inizio dell'aprile 1348. Il suo corpo fu tumulato in S. Croce.

La fama di F. è dovuta essenzialmente alla sua attività letteraria ed è legata a due opere di notevole mole, altamente significative per la storia della cultura italiana: Documenti d'amore e Reggimento e costumi di donna. Esse non ci forniscono soltanto le notizie più interessanti sulle vicende della sua vita, sulle caratteristiche della sua cultura e sull'ampiezza delle sue letture, che vanno dalla patristica alla scolastica; dall'Aristotele latino ai moralisti romani; dagli scritti del Latini e del Guinizzelli ai più recenti stilnovisti toscani; dai provenzali al cronista francese Jean de Joinville, conosciuto anch'egli direttamente. Esse ci consentono anche di farci un'idea della sua personalità. Grande viaggiatore, mosso a volte da un'irrequietezza che ricorda quella del Petrarca, F. percorse le terre di Francia acquistando "una pratica della letteratura provenzale, comprese zone ora perdute, quali non possedette nessun altro italiano", come osserva il Contini. Frequentò i grandi centri di cultura in Italia (Bologna e Padova, Mantova e Venezia) e in Provenza - grazie anche all'amicizia personale col cardinale Pietro Colonna -, le corti più importanti d'Europa. Ebbe inoltre frequenti contatti con intellettuali e artisti del suo tempo - quali Feo degli Amieri, con cui in gioventù tenzonò, alla maniera del Cavalcanti, sulla "rocca" d'amore; Baldo da Passignano e Albertino Mussato -, con pittori o scultori - quali, ad esempio, Tino da Camaino, cui egli suggerì le bizzarre allegorie e l'iscrizione in versi latini del monumento al vescovo Antonio d'Orso compiuto a Firenze nel 1321. Il che spiega la cura da lui posta nel commissionare la confezione delle miniature che adornano il ms. A dei Documenti d'amore e nel predisporre quelle che avrebbero dovuto arricchire il ms. BL del Reggimento e costumi di donna, nonché la strategia che guidò la sua penna nel vergare i molti disegni che costellano le sue opere per utilità degli "illetterati" (quello strato di pubblico intermedio, cioè, cui si rivolgevano i suoi testi in volgare).

L'attività letteraria di F. si sviluppò negli anni compresi fra la fine del Duecento e il 1315. I suoi esordi furono di poeta lirico sulla linea dei toscani di transizione (Guittone, Ugolino Buzzuola, lo Schiavo di Bari): ma nulla ci è rimasto dei suoi primi versi, ricostruibili, tuttavia, solo per congettura attraverso i testi inseriti nell'autografo dei Documenti: le canzoni "Io non descrivo in altra guisa Amore", "Se più non raggia il sol e io son terra", "Madonna, allegro son per voi piagere", e la ballata "Angeli, poi che 'l ciel s'averse a quella"; e nel Reggimento: il sonetto "I' son si fatto d'una visione". Fra tutte più notevole è la ballata, nella quale il poeta narra, in un colloquio con gli angeli, alla maniera di Dante della Vita nova, di avere visto la sua donna assunta nella gloria dei cieli.

Ci son giunte, invece, le sue opere complementari, la prima rivolta agli uomini, l'altra alle donne: Documenti (cioè insegnamenti) d'amore, cominciati in Italia prima del 1309 e terminati in Provenza prima del 1313; e Reggimento e costumi di donna, la cui stesura iniziò prima dei Documenti, ma che venne completata solo dopo il ritorno in Italia del poeta, fra il 1318 e il 1320. Conclude la prima delle due opere un Commento in latino, che comportò per F. due anni di lavoro e che contiene, tra l'altro, un passo di estremo interesse per la storia della letteratura italiana in quanto ci consente, da un lato, di datare con maggiore esattezza l'epoca della prima diffusione dell'Inferno di Dante, e, dall'altro, di riconoscere come la critica a lui contemporanea avesse già inteso nella sua interezza l'importanza della poetica di Virgilio per l'opera del grande fiorentino.

Si tratta di una nota redatta tra il 1313 e il marzo del 1314, nella quale F. afferma che "hunc [cioè Virgilio] Dante Arigherii in quodam suo opere, quod dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat, commendat protinus ut magistrum"; e prosegue sottolineando come a un lettore attento di quell'opera non poteva sfuggire che "ipsum Dantem super ipsum Virgilium vel longo tempore studuisse vel in parvo tempore plurimum profecisse".

I Documenti e il Reggimento rappresentano un anello importante nella tradizione allegorico-didattica del tardo Medioevo, oltre che nella storia delle forme metriche per l'uso di una variegata polimetria, sia pure a base endecasillabica, che invade ambiguamente anche il settore prosastico, di una prosa però "numerosa", cioè aderente alle norme delle artes dictaminum e in particolare dello stile isidoriano, "arte complessa che combina l'uso delle clausole ritmiche, degli omoteleuti e dei versi polimetrici" (Margueron).

Grazie all'autografo barberiniano (costato - rivela l'autore - sedici anni di lavoro), i Documenti si presentano come un monumento irripetibile della cultura medioevale, per la compresenza nel manoscritto del testo in versi variamente rimati (in un fiorentino "mescidato" con altri dialetti, secondo il programma esposto nel proemio del Reggimento), di una traduzione letterale in latino e di un amplissimo commentario, pure in latino, pullulante di aneddoti o di notizie sulla vita non solo culturale del tempo e sulla biografia dell'autore. Nei margini compaiono brevi postille latine di sapore esistenziale o attinenti a un orizzonte quotidiano. L'insieme è corredato da 27 splendide miniature e da disegni di mano dello stesso F. che interagiscono col multiplo blocco della scrittura. Di qui l'importanza, anzi l'unicità dell'opera, come organismo misto di prosa e versi, di codice scritto e codice figurativo, e in più collettore di un enorme materiale di cultura varia, a volte anche peregrina (specie in campo romanzo se le citazioni riguardano ben 21 trovatori provenzali, oltre che prosatori e rimatori italiani sconosciuti). Abbastanza scontata, viceversa, la tematica del testo poetico, mentre le continue personificazioni di entità astratte richiamano la prassi allegorica del Roman de la rose piuttosto che la concretezza realistica del simbolismo dantesco; più originali semmai le novelle, che qui come nel Reggimento costituiscono il miglior risultato della vocazione artistica dell'autore.

Difficile ne è la lettura per la varietà degli argomenti, non distribuiti secondo un ordine logico, ma contraddistinti da una sconcertante casualità, tutt'altro che unificati dal fatto di essere precetti d'amore dettati dallo stesso Dio, e di un amore lecito, sulla linea del "fin amor" dei provenzali e dell'elaborazione stilnovistica. Cosicché l'insieme si risolve, soprattutto nel commentario, in un "trattato di morale pratica e di buone maniere in servizio di uomini di tutte le condizioni" (Thomas): con un visibile scarto fra la scarna sequenza versuale del testo volgare, puntualmente riflessa nella traduzione latina, e l'espansiva efflorescenza del commentario prosastico, che (tranne rari casi) non coincide mai con l'asse tematico del testo in versi, assai meno vivace ed articolato, debordandone continuamente verso le più varie escursioni culturali.

La prima parte, all'insegna della Docilità, dopo un sotto-proemio, comprende 27 "documenti" su temi assai diversi: l'adolescenza, i vizi nel parlare, le buone maniere, l'ingratitudine e così via.

La seconda parte, posta sotto il patrocinio dell'Industria, comprende cinque "documenti": sulle virtù (ma anche le pene dell'inferno, nel commento), gli onori, l'onestà, ancora le virtù, e, infine, 150 regole d'amore che in forma di cobbole si succedono accompagnate da una fitta esemplificazione nel commento.

Sotto l'insegna di "donna Costanza" si apre la terza parte, più breve delle precedenti, costituita com'è di soli nove "documenti". La quarta, posta sotto l'egida della Discrezione, consta di appena tre "documenti", l'ultimo dei quali include la menzione di Dante; quattro ne annovera la quinta, dominata dall'icona della Pazienza. Sette sono i "documenti" della sesta parte, intitolata alla Speranza: il primo di essi presenta significativi tratti autobiografici. La settima parte raggruppa sotto l'insegna della Prudenza ben 21 "documenti".

L'ottava parte, sotto l'icona della Gloria, si esaurisce in 6 "documenti": in 2 la nona, nel registro della Giustizia; in 3 la decima, sottoposta a Innocenza. Nel commento a questa parte spiccano le pagine che rivelano la strategia compositiva dell'autore quanto alle glosse e alle figure, nel loro far parte integrante del testo. Il che trova conferma all'interno del primo fra i 2 "documenti" dell'undicesima parte, dedicata alla Gratitudine, nel quale F. rivela di aver lui stesso disegnato le figure del codice. Il secondo invece si suggella con un richiamo al passato: l'assunzione in cielo di madonna Costanza e la ballata dedicatagli dal poeta.

Di grande importanza il proemio e l'unico "documento" dell'ultima parte, la dodicesima, posta sotto l'egida dell'Eternità, sia perché in essa F. si pone di fronte a problemi esistenziali di rilevanza assoluta (i limiti della conoscenza umana, la scienza, il dolore, la creazione), sia perché egli inserisce nel commento la sua canzone di intonazione cavalcantiana "Se più non raggia il sol, e io son terra", sulla potenza e le angosce d'amore, corredandola di glosse puntuali. Ciò è tanto più significativo in quanto il poeta fa seguire la serie dei "documenti" da altre due sezioni, a mo' di appendice. Precede un Tractatus amoris et operum eius: dove, mentre si offre il senso morale delle cobbole in trobar clus e della canzone "Io non descrivo in altra guisa Amore", si esibisce anche un'altra canzone distesa, "Madonna, allegro son per voi piagere". Segue l'ultimo segmento, tutto in prosa latina, dove si parla della Circospezione, visualizzata in un'icona circolare e concentrica, vergata di pugno dell'autore, e si illustra la figura araldica della Lode.

Meno ligio alla tradizione il Reggimento, nonostante le indubbie affinità coi Documenti sul piano delle divisioni per ceti o per età e dell'impostazione pedagogica di base. Tutto in volgare e costruito secondo una continua interconnessione di versi e di prosa, esso appare concepito quale sezione staccata dell'opera maggiore, cui spesso rimanda per una più ampia trattazione del singolo problema. Tuttavia meglio dei Documenti esso si configura quale specchio della vita privata della borghesia fiorentina fra Due e Trecento, con le sue mode e consuetudini e le sue velleità di attingere certa aristocrazia di costumi, in assenza di un'elaborazione di propri miti. Il Reggimento appare inoltre quale riflesso del severo moralismo dell'autore che, in una fase di forti mutamenti, preferisce ancorarsi a un sistema ideale più fedele al buon tempo antico che ai fermenti libertari annuncianti l'età di Boccaccio.

Si tratta, ancora una volta, di un trattato scritto per ammaestramento, folto di personificazioni di entità astratte, al modo del Roman de la rose, ligio per il "genere" a una ben nota tradizione francese, ma, per i temi, legato anche ad altri modelli letterari (come lo stilnovo, quanto al "pregio" divino della donna). L'originalità consiste soprattutto nell'esaustiva latitudine dei precetti (dalla pratica religiosa all'allattamento dei neonati) e nella aderenza ad alcune dichiarazioni di poetica, come l'elogio della libertà metrica, nell'uso del verso senza rima (prevalenti gli endecasillabi, ma alternati a settenari), in concorrenza con la prosa.

Nel proemio, Madonna si rivolge a F., riferendo di un suo colloquio con Onestade e del comune invito a comporre un'opera sui "costumi ornati" delle donne.

Dopo l'entrata in scena di Eloquenza, l'autore passa a illustrare la struttura dell'opera, distinta in "venti partite", con ulteriori suddivisioni interne ("certi distinti gradi"), secondo uno schema generale che privilegia non le varie età delle donne, ma le rispettive condizioni sociali, non senza una fitta casistica che con graduale diminuzione d'interesse va dalle principesse di sangue reale alle lavoratrici dei campi.

La parte prima esordisce con la Fanciulla che dialoga con Innocenza; seguono gli ammonimenti dell'autore, che pronuncia un elogio del "tacere". Il breve aneddoto sulla fanciulla chiacchierona culmina in 2 versi di Ugolino Buzzuola, così come la lode del canto della fanciulla in 4 versi del Guinizzelli. All'aneddoto della fanciulla ballerina segue la celebrazione della bellezza naturale e non artificiosa, nella quale si innestano due versi dello Schiavo di Bari, mentre l'elogio del riso moderato svaria nell'aneddoto sulla donna che ride mostrando il dente mancante. Si inneggia alla cultura acquisita attraverso i libri come nutrimento dell'intelligenza e progressivo conoscere sé stessi (qui, ancora una citazione da Guinizzelli). Nella conclusione F. ricorre all'exemplum narrativo, con la novella savoiarda di Corrado e Gioietta.

Dedicata alla giovane da marito, la parte seconda esordisce con la prosopopea della Verginità, cui risponde, sempre in versi, la Donzella; segue, in prosa, una serie di ammonimenti dell'autore, distinti per livelli sociali a partire dalla "figlia d'imperadore o di re coronato", di cavaliere da scudo o di giudice, di lavoratore o artefice, e inframmezzati da battute dialogiche tra F. e Madonna, da aneddoti e addirittura da novelle. La parte terza riguarda le zitelle di tutti i gradi sociali, cioè la donna "che passa il tempo del maritaggio": gli ammonimenti si alternano al dialogo fra Pazienza e Donzella e a una novella.

La quarta concerne la zitella che finalmente si sposa, sotto l'icona della Speranza: notevole il riferimento ai Documenti, rispetto ai quali il Reggimento viene configurato come uno stralcio. Dopo una serie di battute, F. raggiunge il palazzo dove si cela la sua donna, protetta da Cautela e Cortesia, e può dialogare con lei, recitandole un proprio sonetto: "I' son sì fatto d'una visione". Alla ripresa degli ammonimenti rivolti alla sposa tardiva sul tenere "quella via del mezzo", segue la novella delle due sorelle, la bella e la savia. La quinta parte, rivolta ai portamenti della maritata, parte da un dialogo fra Castità e Donzella, per sviluppare una serie di moniti dell'autore secondo i vari gradi sociali.

La sesta parte, dedicata alle vedove, oltre a una novella, ai soliti rinvii ai Documenti, e a spunti di tipo metaletterario, intramezza agli ammonimenti specifici i dialoghi tra Vedova, che si lamenta per la perdita del marito, e Costanza, o tra F., Pietate, Cortesia e Madonna stessa. La parte settima, dedicata alla vedova che si risposa, inserisce una novella fra le istruzioni sul comportamento da tenere col secondo marito. L'ottava, che ha per argomento "quelle che 'n suo casa abito prende / e rilegione", punta - a parte una novella e un exemplum di penitenza continuata - su un colloquio fra la Donna e Contenenza.

La nona, per la monaca di clausura, fa dialogare Religione, Badessa e Donne, poi lo stesso autore e alcuni Cavalieri, prima del rinnovato incontro con Madonna al termine di una difficile quête. La decima parte - per la "remita sola", cioè la donna che conduce vita eremitica - fa leva su una novella e sul dialogato fra Donna e Fortezza. Assai più brevi l'undicesima (sulla "cameriera"), la dodicesima (sulle "servigiali"), la tredicesima (sulla "balia", con rinvio ai Documenti), la quattordicesima (sulla "schiava overo ancella") e la quindicesima sulle donne che esercitano attività di più basso rango: "barbiera", "fornara", "treccola", "tessitrice", "molinara", "pollaiuola o caciaiuola", "accattatrice", "mercivendola", "conversa di chiesa", "albergatrice o ostessa".

Assai più ampia la sedicesima parte, divisa in tre sezioni: "adotrinamenti", "ornamenti" e "aventure". Nel dialogo tra Prudenza e F., sempre alla ricerca di Madonna, prima dell'entrata in scena di lei, intervengono il Coro di tutti, Voluttà e il Banditore, con nuove battute scambiate tra F., Penitenza e Purità, alla presenza di Eterna Luce. Gli ammonimenti sono posti in bocca a Prudenza, ad Ardire e a Temperanza, tra numerosi exempla di vanità femminili, non senza citazioni dai Documenti. Sulla base di insigni auctoritates (da Gregorio Magno a Seneca), la diciassettesima parte instaura una serie di "consolamenti" dalle avversità; mentre la diciottesima enuncia, sotto la giurisdizione di Industria, 12 "questioni d'amore", riagganciandosi ai Documenti. La diciannovesima esibisce "contenzioni" e "mottetti" fra Donna e Cavaliere alla presenza di Iustizia; la ventesima verte sulla preghiera, sceneggiando un dialogo tra F. ed Eloquenza, poi anche con Carità, Amore, Speranza e Intelletto. L'opera si conclude con le lodi di F. a Madonna, che risponde accettando il dono del libro ed elargendo la "pietra" sapienziale. Si chiarisce così la natura profonda di Madonna, quale personificazione non tanto dell'averroistico Intelletto possibile, quanto piuttosto della suprema Intelligenza divina. Occorre ad ogni modo ribadire come questa ipotiposi resti lontana dalle prospettive gnoseologiche dell'allegorismo medievale e dantesco, proprio nel suo convergere verso nuovi valori borghesi, di morale pratica e di comportamento sociale: in modo dunque non diverso dai Documenti, nonostante certe venature stilnovistiche.

I Documenti d'amore sono conservati dai codici della Bibl. apost. Vaticana, Barb. lat. 4076, autografo (= A), Barb. lat. 4077, lacunoso e privo del commento latino e di molte miniature, solo parzialmente autografo, ma con disegni originali dell'autore, una delle prime copie esemplate in Provenza (= B), Barb. lat. 4028 (= C) e dal ms. Riccardiano 1060 della Bibl. Riccardiana di Firenze: gli ultimi due, dei secc. XIV-XV, assai scorretti; sono stati pubblicati a stampa da F. Ubaldini, a Roma nel 1640. L'edizione è preceduta da una pregevole biografia dell'autore e seguita da un copioso glossario. F. Egidi ne dette una edizione semidiplomatica - in quattro volumi, l'ultimo dei quali funge da prefazione (Roma 1905-27) - inclusiva dei disegni ma non delle miniature, corredata di un glossario italiano e latino, di un index nominum e di un puntiglioso sommario. Le miniature furono pubblicate a parte dallo stesso Egidi.

Il Reggimento e costumi di donna ci è stato conservato dai mss. vaticani Barb. lat. 4001, della metà del sec. XIV (= BL) e Capponiano lat. 50, copia del 1667 esemplata sul precedente (= Capp.); e dall'Alexianus I 3 del Collegio internazionale di S. Alessio Falconieri di Roma, del sec. XIV, portatore di excerpta rimaneggiati, nei quali si perde ogni traccia del cursus originario (= Al): non si tratta né di un testo parziale né di una prima redazione dell'opera. È stato pubblicato a Roma nel 1815 da G. Manzi che vi ha inserito anche la biografia di F. composta dall'Ubaldini, che compare egualmente nella successiva ristampa di Milano (1842). C. Baudi di Vesme ne dette una nuova edizione caratterizzata dal rispetto quasi feticistico "dell'antico testo a penna barberiniano" (Bologna 1875). La più recente edizione dell'opera, curata da G.E. Sansone (Torino 1957), fu accolta con molte riserve: si vedano in proposito le recensioni di C. Battisti, in Lingua nostra, XX (1958), pp. 30-32; F. Ageno, in Romance philology, XII (1958), pp. 20 s.; Id., L'edizione critica dei testi volgari, Padova 1975, pp. 103 s.; L. Caretti, in Letterature moderne, IX (1959), pp. 93-100; C. Margueron, in Erasmus, XIII (1960), pp. 100 s. Una buona scelta antologica delle due opere in N. Sapegno, Poeti minori del Trecento, Milano-Napoli 1952, pp. 657-743.

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