Francesco di Assisi, santo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Francesco di Assisi, santo

Stanislao da Campagnola

È posto da D. nella candida rosa dell'Empireo di faccia a Maria, nel gradino immediatamente inferiore a quello occupato da s. Giovanni Battista, seguito da s. Benedetto, s. Agostino e altri non nominati che, di gradino in gradino, formano la linea di confine fronteggiante quella delle sante donne dell'Antico Testamento. Tale collocazione di Francesco, Benedetto e Augustino (Pd XXXII 35) indica il luogo riservato ai fondatori degli ordini religiosi più rappresentativi dell'occidente cristiano. Se il non aver menzionato s. Domenico non significa che D. non includesse tra questi l'ordine dei predicatori, la disposizione regressiva non sembra obbedire a un ordinamento cronologico bensì estimativo. Il contesto di Pd XXXII 35 è comunque diverso da quello di Cv IV XXVIII 9, in cui si accenna a quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d'abito e di vita simile, ove pur non essendo rispettata la successione cronologica, il passo ha valore puramente enumerativo. Va notato subito, però, come lo stretto abbinamento tra F. e Domenico stabilito, forse per ragioni contingenti, nel dettarne le biografie poetiche in Pd XI e XII, non abbia avuto sviluppo fuori di quei due canti, nonostante il monito di s. Bonaventura in Pd XII 34-36 Degno è che, dov'è l'un, l'altro s'induca: / sì che, com'elli ad una militaro, / così la gloria loro insieme luca.

Diversità di sviluppi e di tonalità distingue del resto la presentazione dantesca di F.: anche il tutto serafico in ardore (Pd XI 37) dell'esordio biografico non ha sviluppo narrativo e poetico nel canto XI (Bosco); s. Benedetto in Pd XXII 90, in un canto dalla struttura non molto diversa da quella di Pd XI, parla dell'umiltà delle origini del movimento suscitato da F., mentre in Pd XI gl'inizi francescani sono mantenuti costantemente su di un registro di energia e di grandezza; né è da trascurare la presenza muta e impotente di F. davanti alla beffarda sottigliezza del diavolo che gli contende l'anima di Guido da Montefeltro (If XXVII 112-120). Quel tanto che D. ha visto del santo lo troviamo tuttavia in Pd XI 43-117, ove la vita di F., nella somma di eventi e di significati che si accumula in ognuna delle sue vicende, è inquadrata in uno schema allegorico-biografico intensamente esemplare: la nascita in Assisi (1181-82), la vittoria sulle resistenze del padre nell'atto dei mistici sponsali con la Povertà, mediante il gesto della restituzione di ogni suo avere davanti al vescovo di Assisi Guido II (1206), il proselitismo e la prima approvazione di Innocenzo III al modo di vivere da lui instaurato (1210), la conquistatrice efficacia del suo messaggio e la nuova solenne approvazione di Onorio III (1223), la sete del martirio e la predicazione davanti al sultano d'Egitto al-Malik al-Kāmil (1219), il ritorno alle missioni apostoliche italiane, le stimmate (1224), la morte (1226).

La figura dantesca di F., che dagli antichi commentatori fu interpretata in consonanza con i testi francescani noti a tutti, dopo gli studi di Sabatier, Tocco, Cosmo, Bertoldi, Barbi, che hanno contribuito validamente non solo alla conoscenza di nuove fonti ma a trarre fuori la personalità di F. dai ristretti quadri tradizionali dell'agiografia avviandone la piena inserzione nella storia generale del suo tempo, ha trovato nella critica corrente un metodo ermeneutico più corrispondente al temperamento del poeta e alla struttura generale del suo poema. Il Donadoni, puntando sulla non francescanità del temperamento di D. e sulle divergenze tra il personaggio da lui creato e il F. quale appare nei Fioretti e nelle vite di Tommaso da Celano, fu portato a vedere nel F. dantesco caratteri sostanzialmente antifrancescani: non lo spirito di umiltà e di obbedienza, ma " la coscienza di dominio che accompagna i santi eroici ". Anche se tale interpretazione ha ricevuto un contributo nuovo dal Papini, a ben guardare, essa segue una direzione estremista ed esasperata, non suffragata da argomentazioni di carattere strutturale, né da attenta analisi testuale. Che l'interpretazione testuale permetta tuttavia di affermare un'incontestabile autonomia del personaggio dantesco rispetto alle fonti tradizionali francescane, lo hanno mostrato, tra i commentatori recenti, il Grabher, il Momigliano, l'Auerbach, il Chimenz, il Bosco. Ciò non solo in rapporto alla povertà come elemento centrale e quasi unico del messaggio francescano in D., ma anche, come hanno messo bene in luce specialmente il Grabher e il Momigliano, per l'elemento eroico, per la forza di volontà del santo, la sua dignità interiore e disadorna, il suo essere non il " poverello ", ma il " grande della povertà ". Per il Bosco il F. dantesco è anzitutto un " combattente "; poiché per D. la santità è sempre battaglia, il suo accento batte quasi esclusivamente sull'eroico con termini bellicosi e cavallereschi. L'Auerbach, oltre che sugli elementi realistico-simbolici nei quali è come immerso il F. dantesco, si è soffermato anche sulle sue " conformità " con Cristo, cedendo forse alla suggestione di un tema così attentamente messo in rilievo dai francescani, ma che in D. è marginale. Bruno Nardi ha insistito invece sul significato della povertà di F. nel contesto di un ritorno della Chiesa alla povertà evangelica, idea che sarebbe fondamentale nel poema dantesco. E prima ancora del Chimenz, fu il Casella a sottolineare il sostanziale non misticismo di D. e a interpretare, in opposizione al bonaventuriano Gilson, il F. dantesco secondo le linee basilari di s. Tommaso.

Ciò che emerge chiaro da una preliminare interpretazione testuale è che il F. dantesco prende vita dalla scelta e adattamento di fonti francescane, ma conserva della sua realtà storica quel che esige la funzione rappresentativa che il poeta gli assegna in una chiastica ma polemica celebrazione dei due principali ordini religiosi mendicanti.

L'abbinamento con s. Domenico. - La mirabil vita / del poverel di Dio (Pd XIII 32-33) è infatti narrata da D. per bocca di s. Tommaso nella prima corona degli spiriti sapienti, nel cielo del Sole (Pd XI 43-117), rielaborando idee e immagini proprie della letteratura francescana, ma in stretto parallelismo con la vita di s. Domenico, raccontata a sua volta da s. Bonaventura. Se questa chiastica celebrazione sembra riflettere una tradizione dei due ordini mendicanti di scambiarsi nelle loro chiese i panegiristi dei loro fondatori, l'idea di una missione provvidenziale che unì i due santi è pure tradizionale, presente già nella Vita seconda di Tommaso da Celano, sviluppata particolarmente dall'anonimo autore della Legenda s. Clarae in versi e da Salimbene nella sua Cronica, ma resa plurivalente da quello sfondo storico che si rischiara delle luci di alba messianica che Gioacchino da Fiore aveva immaginosamente profetato. F. e Domenico sono perciò due principi (in Pd XII 43 sono detti due campioni) ordinati dalla Provvidenza perché guidassero verso Cristo, sorreggendola l'uno da un lato l'altro dall'altro, la sposa di lui, la Chiesa, secondo la predizione gioachimita entrata nel patrimonio francescano (" erunt duo viri, unus hinc, alius inde "): però che andasse ver' lo suo diletto... / in sé sicura e anche a lui più fida, / due principi ordinò in suo favore, / che quinci e quindi le fosser per guida (XI 31-36).

Accolta questa tradizione, messa bene in luce dal Cosmo, D. vi rimane coerente: i canti XI e XII del Paradiso appaiono concepiti unitariamente, in stretta corrispondenza " nella bilanciata architettura, nell'equilibrio degli elogi, nella distribuzione della materia e persino nel numero dei versi esattamente uguale dato nei due canti a determinati temi " (Bosco), com'è stato ripetutamente osservato dai commentatori. I due canti, e quindi i due santi, si rapportano perciò in stretta complementarietà, nella quale la contingenza del racconto va ricercata in una tradizione che il poeta accetta come materiale grezzo di poesia. Ma va notato che tale accettazione, come anche il troppo stretto contatto con le fonti francescane, specie con la Legenda maior di s. Bonaventura, l'anonima allegoria del Sacrum commercium b. Francisci cum domina Paupertate e l'Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale, ben documentato dal Bertoldi, dal Tocco e dal Cosmo, concorrono più all'importanza storica che al valore estetico dell'elogio poetico di F., il quale nondimeno ha trovato nel commento del Momigliano una valutazione letteraria di rilievo.

L'associazione dei due santi sopra un piedistallo di valore universale, anche se accolta da una tradizione, pone comunque il quesito di che cosa significhi per l'interpretazione della personalità di F. il fatto che D. lo abbia tenuto così strettamente unito a s. Domenico. La critica corrente vi vede una parificazione dei due personaggi; il Salvatorelli, ragionando da un punto di vista storico, parla più espressamente di parificazione religiosa e, aggiunge, anche storica delle due figure, deducendo che D. non ha avvertito l'eminenza della personalità e dell'operato di F. rispetto a Domenico. Ma potrebbe trattarsi più di un'associazione alla gloria celebrativa che di una stretta parificazione religiosa e storica, poiché a D. non dovette sfuggire l'eccezionale distinzione della personalità di F., né l'etica della sua sublime santità. Di fatto, come il racconto della vita di F. precede in ordine di narrazione quello di Domenico, così sembra precederlo anche nella gloria celeste. Più che insistere perciò su tale parificazione ci pare utile rilevare il fatto che gli elogi poetici dei due santi sono larghissimi preludi alle polemiche contro i loro ordini, i quali, nonostante i momentanei contrasti, procedevano da tempo abbinati: abbinamento e polemiche che colorarono necessariamente di sé anche le biografie dei due fondatori. Le accese discussioni sulla povertà che, quando D. scriveva, già da decenni dilaniavano non solo l'ordine francescano ma tutta la cristianità, e che proprio nell'età piena del poeta avevano assunto aspetti particolarmente aspri e drammatici con le condanne e persecuzioni degli spirituali (Bosco), influirono ovviamente sulla concezione e stesura dei canti XI e XII; ed è appena il caso di ricordare i nomi di Pietro di Giovanni Olivi e di Ubertino da Casale, che insegnarono in Santa Croce, a Firenze, dove D. poté conoscerli, soprattutto conoscere le loro opere.

Nonostante il serrato contatto con le fonti e le tradizioni francescane, D. ha colto comunque in F. un'energia spirituale che mostra com'egli, senza riproporre una narrativa tradizionale e pur senza cedere alle deformazioni degli spirituali, abbia concepito in modo autonomo la grandezza del santo di Assisi, in un dettato letterariamente studiatissimo, in contrasto con la candida ingenuità, autentica o apparente che sia, e con il fervido misticismo di tali fonti e tradizioni. Aderenza e tuttavia contrasto, che si profila già nell'iniziale abbinamento di F. e Domenico (vv. 37-39 L'un fu tutto serafico in ardore; / l'altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore), in cui D. parafrasa un noto passo dell'Arbor vitae di Ubertino da Casale: " Franciscus et Dominicus singulariter claruerunt, quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore caelico inflammatus totum mundum incendere videbatur. Secundus vero et cherubinus extentus et praetegens lumine sapientiae... et verbo praedicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit " (V III, fº.1r). Ma, l'abbiamo già osservato, l'ardore serafico di F. non avrà sviluppi, poiché sarà la povertà l'elemento centrale della biografia dantesca del santo. Come ha notato il Bosco, solo una lettura fuorviata dalla forte carica estetica ed emotiva, per così dire, insita nella figura di F. in sé, quale la conosciamo attraverso testi a tutti noti, non permette di avvertire tale contrasto e tale autonomia, che hanno le loro radici nel sostanziale non misticismo del poeta, sul quale ha insistito il Chimenz. Si può dire, anzi, che in questo senso il contatto con le tradizioni francescane abbia nuociuto a D. poeta, non mistico, sostanzialmente estraneo alle esperienze di F., e tuttavia costretto a entrare in qualche modo nel di lui mondo e indotto a mutuare il corposo linguaggio dei mistici per tesserne una biografia poetica che, nelle sue parti essenziali, va di simbolo in simbolo.

I simboli. - Di notevole interesse esegetico, appunto per il simbolismo, sono i vv. 43-54 (dodici versi, esattamente quanti sono usati per indicare il luogo di nascita di s. Domenico), nei quali la descrizione letterariamente ricca e solenne di un ben circoscritto paesaggio umbro si risolve nelle immagini di Francesco-Sole e Assisi-Oriente. La situazione di Assisi (vv. 43-45 Intra Tupino e l'acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo, / fertile costa d'alto monte pende) è descritta in modo particolarmente riposato (si veda al confronto l'incisiva rapidità della descrizione della Verna [v. 106]: nel crudo sasso intra Tevero e Arno), anche se l'indugio sulle condizioni climatiche di Perugia, Gualdo Tadino e Nocera attarda il congiungersi del verso fertile costa d'alto monte pende con quello della terzina seguente: Di questa costa, là dov'ella frange / più sua rattezza, ecc., ingenerando qualche oscurità. Assisi quale fertile costa del monte Subasio era già stata celebrata da Enrico d'Avranches nella Legenda s. Francisci in versi (I 29-30 " Assisium... / pendet oliferae convexa cacumine rupis ") e dall'anonimo autore della Legenda s. Clarae in versi (v. 172 " fertilis Asisii tellus generosaque vitis "). Avvertire in questo minuzioso esordio paesistico un sentimento subcosciente del poeta, che avrebbe posto un legame tra il paesaggio umbro, e più precisamente assisiate, e la figura di F., la sua religiosità e spiritualità personale (Salvatorelli), sarebbe un dare troppo peso a un fattore geografico, a cui è più sensibile lo spirito moderno che il medievale, più attento invece a cogliere i significati simbolici. Tale esordio si chiarisce infatti nelle immagini simboliche di Francesco-Sole e Assisi-Oriente, allo stesso modo che la descrizione del luogo di origine di s. Domenico tende parallelamente a illustrare che questi invece procedeva dall'Occidente. Poiché ad Assisi nacque al mondo un sole (v. 50), cioè F., ecco che D., sempre per bocca di s. Tommaso, ammonisce (vv. 52-54): Però chi d'esso loco , fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vuole.

La successione genetica delle immagini secondo Porena, Sapegno, Chimenz, risulterebbe dal giuoco di Ascesi-ascendere, sul gusto delle interpretazioni etimologiche che abbondano nel canto XII (Domenico, Felice, Giovanna). Il fatto però che il poeta, lungi dal trovare significativo il nome di Ascesi (forma allora più comune rispetto ad Assisi), lo consideri poco soddisfacente (direbbe corto), induce a cercare una genesi diversa. Anche l'interpretazione corrente che, rifacendosi a Benvenuto, cerca sostanzialmente nella posizione orientale di Assisi rispetto a Perugia il suggerimento dell'idea Assisi-Oriente, ci sembra poco valida. In essa ogni riferimento alla tradizione agiografica francescana che vede in F. l'" alterum angelum ascendentem ab ortu solis, habentem signum Dei vivi " (Apoc. 7, 2) o un " quasi sol oriens in mundo " (Bernardo da Bessa, Liber de laudibus b. Francisci, c. 1), rimarrebbe puramente marginale e complementare, utile solo a ribadire l'equivalenza Francesco-Sole: " Si ergo Franciscus est appellandus Sol, bene Assisium est appellandum Oriens " (Benvenuto). Ora i simboli dell'Oriente e del Sole riferiti a F. appariscono troppo di frequente nelle fonti francescane, per considerarli qualcosa di sussidiario e marginale e ritenere che le immagini dantesche abbiano altra derivazione. L'identificazione di F. con l'angelo dell'Apocalisse che reca in sé il signum Dei vivi e procede ascendens ab ortu solis, si ritrova già nel Prologo della Legenda maior di s. Bonaventura ed è poi ripetuta da lui a proposito delle stimmate (XIII 10), nelle quali era evidentemente agevole riconoscere il signum Dei vivi. Come Bonaventura si esprime in modo da non farsi autore di questo riferimento, ma ritenendolo già affermato con fondamento (" sub similitudine Angeli ascendentis ab ortu solis signumque Dei vivi habentis adstruitur [Francesco] non immerito designatus ", Prologo), così si può pensare che anche D., confortato dalla diffusa tradizione francescana, accolga tali immagini, di là tuttavia dalle interpretazioni ecclesiali da parte dei gioachimiti e degli spirituali, poiché anche in questo caso il riferimento rimane senza un autentico sviluppo narrativo e poetico. Del resto in stretta complementarietà con il procedere dall'Oriente di F., nel canto XII D. si diffonde parallelamente a illustrare l'occidentalità di s. Domenico. Egli vuole probabilmente sottolineare che i due campioni muovono uno dall'Oriente e l'altro dall'Occidente, per indicare l'universalità del loro campo d'azione; ma anche qui risuona forse l'" unus hinc, alius inde " della profezia gioachimita (Bosco).

Il simbolo Francesco-Sole che sorge da Assisi-Oriente rimarrebbe in ogni caso specifico del rapporto Francesco-alter Angelus, e non comporterebbe direttamente l'idea della sua conformità con Cristo, come ha voluto vedere l'Auerbach basandosi sull'espressione biblica di Sol oriens, attribuita di frequente a Cristo. Il tema della conformità e il rapporto Francesco-Cristo, così centrali e determinanti nella tradizione francescana e tradotti nell'altra espressione di Francesco-alter Christus, appariscono infatti lontani e quasi estranei al contesto del poema, e si possono intravvedere soltanto, e sempre sullo sfondo, nei vv. 64-66, ove si parla della Povertà come mistica sposa di Cristo e di F.; senza dire che neppure le stimmate del santo, il signum Dei vivi dell'alter Angelus apocalittico, sono interpretate da D. come una testimonianza o un riconoscimento di tale conformità, bensì come l'approvazione diretta della regola francescana da parte di Cristo.

Il simbolo Francesco-Sole agisce, del resto, soltanto nei primi versi dell'elogio poetico, cedendo il posto alla grande allegoria centrale dell'amore e delle mistiche nozze di F. con la Povertà che permea di sé tutto il racconto biografico, ma il cui interesse esegetico è notevole soprattutto nei vv. 55-72 che tendono a introdurre e sviluppare il rapporto Francesco-Povertà. Il brano si articola in due atti, entrambi dominati da un plastico e quasi tragico linguaggio simbolico: lo sposalizio mistico di F. con la Povertà, dopo aver vinte le resistenze del padre carnale, e l'esaltazione dell'allegorica Povertà; ma è evidente la ferma unità poetica di tutti gli elementi che lo compongono e che, analogamente al risolversi della minuziosa descrizione dell'esordio nelle immagini di Assisi-Oriente e Francesco-Sole, concorrono alla presentazione dei due amanti i cui nomi vengono palesati soltanto ai vv. 73-75 Ma perch'io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso.

Il racconto prende l'avvio dagli anni in cui Francesco-Sole (v. 55 Non era ancor molto lontan da l'orto), dopo una giovinezza trascorsa negli agi della casa paterna e nei piaceri delle allegre brigate, maturando i germi di un rivolgimento interiore, resi fecondi da una malattia e da una serie di delusioni, iniziò un lento processo d'intensa ricerca spirituale, tradotta inizialmente in una serie di atti esemplari. Di tali atti con i quali egli cominciò a far sentir la terra / de la sua gran virtute alcun conforto (vv. 56-57), D. sceglie senza dubbio il più drammatico: la vittoria sulle opposizioni del padre, il ricco mercante di stoffe Pietro Bernardone, con il solenne distacco dai vincoli familiari, mediante il gesto della restituzione di ogni suo avere, fino all'ultimo indumento. La scelta di questo episodio (nel Testamento quale atto creativo della sua prima esperienza religiosa F. addita però la vittoria riportata sulla ripugnanza verso i lebbrosi), permette al poeta, oltre che di qualificare subito l'esperienza pauperistica di F., di abbandonare l'allegoria del Sole per collegarsi con quella del Sacrum commercium, il cui contenuto appare mediato dall'Arbor vitae di Ubertino da Casale. È comunque su questa allegoria, coerente nei suoi elementi realistico-simbolici fino al punto di rottura, che il poeta fonda il suo personaggio; e il primo atto di santità di F. è per lui un atto di guerra contro il padre per seguire la Povertà, ormai personificata in donna (ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra, vv. 58-60); ma il passo corrispondente della fonte bonaventuriana, scandito da " fremens ", da " cucurrit ", da " verberibus et vinculis " (Legenda maior II 2-3), costituisce il miglior commento al racconto poetico dominato da corse e da guerra.

Se la narrazione dei mistici sponsali di F. con la Povertà (e dinanzi a la sua spirital corte / et coram patre), non ha rispetto alle fonti rilievo poetico particolare, l'esaltazione dell'allegorica Povertà che segue nei versi 64-72 ha del retorico e del forzato, dovuto a un linguaggio figurato che conserva un notevole interesse storico, ma nel quale non è altrettanto agevole sentire, oggi, spontaneamente la poesia. Come sposa di Cristo, conformemente a tutta la tradizione cristiana, D. presenta costantemente la Chiesa. Accingendosi a tessere l'elogio di F., parla ancora di essa come della sposa di colui ch'ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto (vv. 32-33); e in Pd X 140: ne l'ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l'ami. Nel v. 64 del canto XI viene detto invece che primo mistico sposo della Povertà è stato Cristo; dopo di lui ella era stata millecent'anni e più dispetta e scura, senza richiesta di nozze (sanza invito) fino a F.; in altre parole, il culto della povertà da Cristo in poi sarebbe per primo stato rinnovato da Francesco. Questa esaltazione della Povertà come sposa di Cristo e di F. (a parte il riferimento estraneo di Amiclate, derivato da Lucano Phars. V 515 ss.), è ispirata ancora una volta a testi francescani, che D. trasforma ed esaspera, conferendo loro la " plasticità della sua fantasia " (Bosco). S. Bonaventura (Legenda maior VII 1) aveva scritto: " hanc paupertatem Filio Dei vir sanctus [Francesco] familiarem attendens, et iam quasi toto orbe repulsam, caritate sic studuit desponsare perpetua ". Ma Bonaventura aveva qualificato la povertà come " familiare ", non propriamente come sposa di Cristo, ma di F.; disprezzata e senza invito, la Povertà era stata presentata con maggior incidenza dal Sacrum commercium, che ci mostra F. e i suoi in cerca di lei; la ritrovano sulla vetta di un alto monte e da lei ascoltano la sua storia da Adamo a Cristo, e da Cristo agli ordini monastici ora decaduti e corrotti. Contrariamente al prevedibile, il Sacrum commercium (commercium è riduzione francescana di contubernium del De Paupertate dello pseudo Seneca) non conclude in celebrazione nuziale, ma rattiene il racconto in termini di servizio cavalleresco. È dal Sacrum commercium comunque che Ubertino da Casale prende, elaborandolo, il passo che ha fornito a D. la plastica immagine della Povertà più ferma e coraggiosa della stessa madre di Cristo: sì che, dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce (vv. 71-72). Ubertino si rivolge infatti a Cristo con queste parole: " ipsa matre propter altitudine crucis, quae tamen te sola tunc fideliter coluit, et affectu anxio tuis passionibus iuncta fuit, ipsa inquam tali matre te non valente contingere, domina paupertas cum omnibus suis penuriis tamquam tibi gratissimus domicellus, te plusquam unquam fuit strictius amplexata et tuo cruciatu praecordialius iuncta " (Arbor vitae V III, fº. 3v). Ma anche in questo caso " domina paupertas " non ha il carattere di sposa di Cristo, ma di " tamquam gratissimus domicellus ". Dall'affermazione dantesca, risultata dalla trasformazione di queste fonti francescane, Cristo è invece il primo mistico sposo della Povertà, scaturendone una significativa conformità tra lui e F., tanto più significativa, in quanto per stabilirla D. ha dovuto dimenticare l'esercito d'innamorati della povertà, che fiorirono tra Cristo e Francesco (Bosco). Ed è questo forse l'unico luogo del racconto dantesco nel quale vediamo profilarsi sullo sfondo la figura dell'alter Christus. La concentrazione dell'interesse del poeta non è tuttavia rivolta su tale conformità, bensì sulla povertà come carattere essenziale dell'esperienza di F. e del suo messaggio. In tal senso tutto l'allegorismo del racconto biografico appare come diretto a stabilire l'indissolubile rapporto tra F. e la povertà, un rapporto nel quale né il Francesco-alter Angelus, né il Francesco-alter Christus della tradizione francescana, hanno un peso determinante.

La persona. - Su questo sfondo allegorico, l'opera e la personalità di F., articolate in uno schema biografico che segue da vicino l'ordine espositivo della Legenda maior di s. Bonaventura, sono interpretate da D. in una dimensione unica, quella della povertà (v.). Che la povertà di F. non sia per D. una privazione ascetica, rinuncia o passività, ma affermazione di vita, illuminata di poesia e di verità, lo dimostra già la scena in cui il santo s'impone al padre carnale per seguire la sua mistica sposa. Il proselitismo francescano appare al poeta come naturale conseguenza del comportamento dei due amanti (vv. 76-78 La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi), in una terzina senza dubbio un po' dura e oscura, e di cui non è facile definire la struttura sintattica, ma nella quale è evidente che sono sentiti e rilevati gli effetti spirituali della povertà volontaria, la lietezza e la liberazione di spirito, quale intimo contenuto di un modo di vivere che trasfigura e trascina. L'incalzare gioioso e scandito di questo primo proselitismo, distanziato soltanto dall'esclamazione del v. 82 Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!, segue da vicino la traccia della Legenda maior, che enumera soltanto Bernardo da Quintavalle, Egidio e Silvestro, tra i discepoli di F., che non furono cronologicamente i primi, giacché Bonaventura dice espressamente di Egidio che fu il terzo, e Silvestro venne dopo molti altri (Legenda maior III 3-5); ma gl'indugi e le resistenze frapposte in Bonaventura da costoro nell'associarsi a F., e che rispecchiano i turbamenti che l'esempio del figlio di Pietro Bernardone aveva provocato negli animi (v. 78 facieno esser cagion di pensier santi), sono travolti in D. dal rapido susseguirsi dei fatti (tanto che 'l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo... / Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro a lo sposo, sì la sposa piace, vv. 79-83).

L'aggregazione dei primi discepoli eleva F. da sposo della Povertà, in padre e maestro: vv. 85-87 Indi sen va quel padre e quel maestro / con la sua donna e con quella famiglia / che già legava l'umile capestro. F. si scalzò e si cinse dell'umile capestro probabilmente il 23-24 febbraio 1208, quando dopo aver ascoltato alla Porziuncola il vangelo della " missio Apostolorum... solvit proinde calceamenta de pedibus... reiecta corrigia, pro cingulo funem sumit " (Legenda maior III 1). Dall'estensione del gesto a tutta la primitiva famiglia francescana, come anche dall'orientamento della forma verbale sen va, che indica il viaggio che F. fece a Roma nel 1210 per sottoporre all'approvazione di Innocenzo III la sua forma di vita, si comprende che l'atto dello ‛ scalzarsi ' e di cingersi l'umile capestro designa una maniera religiosa di vivere (cfr. If XXVII 92, Pd XII 132). Non va dimenticato né sottovalutato il senso di fervida, spontanea convinzione della validità della sua esperienza che F. esprime scrivendo nel suo Testamento: " Et postquam Dominus dedit michi de fratribus, nemo ostendebat michi, quid deberem facere, sed ipse altissimus revelavit michi, quod deberem vivere secundum formam sancti evangelii. Et ego paucis verbis et simpliciter feci scribi, et dominus papa confirmavit michi ". Questa spontaneità organizzativa, sia pure sommaria, delinea il profilarsi di una coscienza di essere padre e maestro di un movimento destinato a diffondersi nello spazio e durare nel tempo, e dissipa in D. il dramma di quegli storici che hanno veduto nelle fonti francescane una ripugnanza di F. alla stesura di una regola e un'insistenza coercitiva della curia romana per una sistemazione canonica della sua fraternita in singolare sviluppo. Anzi il poeta coglie F. in un atteggiamento che s'impone alla stessa suprema autorità ecclesiastica (Né li gravò viltà di cuor le ciglia / per esser fi' di Pietro Bernardone, / né per parer dispetto a maraviglia, XI 88-90), nell'atto di chiedere in Roma la prima approvazione della sua " forma vitae " (ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe / primo sigillo a sua religïone, vv. 91-93), ove al dispetto a maraviglia, che richiama l' " incognitus et despectus " e più ancora il " modicus et despectus " di s. Bonaventura (Legenda maior II 6, III 10), fa contrasto il regalmente del v. 91.

Questa regale dignità con la quale F. dichiara a Innocenzo III la sua dura intenzione, ha permesso al Momigliano e al Grabher di scrivere che il F. dantesco non è il " poverello " ma il " grande della povertà ". La concezione di D. non sembrerebbe discostarsi molto dal racconto bonaventuriano; più ancora del passo ove F. parla della povertà come " dignitatem regalem " (Legenda maior VII 7), è l'inserzione della parabola del re ricco e della donna bella e povera raccontata da F. a Innocenzo III, che può aver suggerito a D. quel regalmente che dà tanta dignità alla terzina, oltre che alla scena. Bonaventura scrive comunque che davanti al papa F. " exposuit suum propositum, petens humiliter et instanter, supradictam sibi vivendi regulam approbari " (Legenda maior III 9): chiede dunque l'approvazione umilmente e con insistenza. D. invece fa battere il suo accento sulla regalità di F., e il regalmente è preceduto e confermato dalla magnanimità (Né li gravò viltà di cuor le ciglia) con cui sta di fronte al pontefice, lui figlio di Pietro Bernardone. Il F. dei francescani diventa così il F. dantesco (Bosco).

Licenziando F., dopo averne approvata oralmente la norma di vita, Innocenzo III aveva promesso maggiori concessioni qualora il movimento da lui iniziato avesse incontrato successo. Constatata la crescita del movimento (Poi che la gente poverella crebbe, v. 94), D. passa perciò subito alla solenne approvazione della regola francescana (Regula bullata), concessa da Onorio III il 29 novembre 1223 con la bolla Solet annuere. Questa rapida associazione delle due approvazioni papali, rispettivamente del 1210 e del 1223, rompe naturalmente la successione cronologica dei fatti, ma è dovuta anch'essa al racconto bonaventuriano; né si discosta da esso la narrazione poetica della missione intrapresa da F. tra i musulmani. Secondo la narrazione bonaventuriana (Legenda maior IX 5 e 7) F. era stato dapprima insultato, percosso e incarcerato dai soldati del sultano, ma poi ammesso alla presenza di al-Malik al-Kāmil, che lo aveva ascoltato volentieri (" libenter "), invitandolo a trattenersi presso di lui e facendogli doni. D. tende invece a fare del sultano un fermo avversario di F., mettendo in evidenza la presenza del Soldan superba (v. 101) e mostrando, per contrapposto, il granitico coraggio del santo. Infatti, sia che si voglia vedere in superba un riferimento al " bestia crudelis " con cui Giacomo da Vitry definisce il sultano (ma non è sicuro che D. abbia avuto qui presente l'Historia orientalis II 32, dello scrittore francese), sia che, più ovviamente, si voglia dargli il senso di " altera ", " orgogliosa ", emerge dal contesto la risolutezza del santo. Né superba può intendersi semplicemente " fastosa ", come qualche commentatore ha proposto, poiché qui si parla della volontà di martirio di F. (v. 100 E poi che, per la sete del martirio, che traduce il " desiderio martyrii flagrans " bonaventuriano), e la sua povertà e umiltà, in contrasto con il fasto orientale, sarebbe nota aliena e fuor di posto, come ha osservato il Bosco. Se nei vv. 103-105 è giustificato il ritorno di F. in Italia (e per trovare a conversione acerba / troppo la gente e per non stare indarno, / redissi al frutto de l'italica erba), seguendo ancora una volta da vicino la Legenda maior (" videns... se non proficere in conversione gentis illius nec assequi posse propositum, ad partes fidelium divina revelatione praemonitus remeavit ", IX 9), il redissi (" remeavit " bonaventuriano) al frutto de l'italica erba del v. 105 non è espressione generica e inerte, ma indica un ritorno di F. alla missione apostolica italiana, lasciando nel sottinteso un'esperienza precedente positiva, alla quale il poeta non aveva ancora accennato. Sul rupestre monte della Verna (v. 106 nel crudo sasso intra Tevero e Arno), alla fine di settembre 1224, F. vedeva apparire nelle sue mani, piedi e costato le piaghe di Cristo crocifisso, cioè le stimmate. Era l'ultimo sigillo, dopo le due approvazioni papali, che autenticava da parte di Cristo stesso (v. 107 da Cristo prese l'ultimo sigillo) la bontà e santità della forma di vita intrapresa. Una suprema sanzione, senza riferimento alla conformità del santo con Cristo. Del resto già s. Bonaventura aveva parlato delle stimmate " tamquam bulla summi Pontificis Christi ad confirmationem omnimodam Regulae et commendationem auctoris " (Legerda maior IV 11); e in un passo che, come osserva il Bosco, è ancor più vicino per il testo e per il luogo del racconto nel quale è collocato: " summi... Regis signacula per modum sigilli corpori eius impressa " (XII 12).

Anche nella scena del transito di F. (avvenuto la sera del 3 ottobre 1226) domina la povertà (v. 113 la donna sua più cara), raccomandata dal santo a' frati suoi, si com'a giuste rede (v. 112), cioè come a eredi legittimi, e comandò che l'amassero a fede (v. 114). Nel racconto bonaventuriano (Legenda maior XIV 5), che anche qui D. piega alle sue esigenze, F. parlò a lungo (" sermonem protraxit ") non solo sulla povertà, ma sulla necessità di continuare anche per l'avvenire a sopportare i mali, ad aver fede nella Chiesa romana, consolando i frati della sua morte imminente, ed esortandoli all'amore divino. Sulla fedeltà alla regola e alla Chiesa, come anche sulla povertà, F. insiste nel suo Testamento, documento da lui lasciato ai suoi come " recordacio, ammonitio, exhortatio et meum testamentum... ut regulam quam Domino promisimus melius catholice observemus ". Di tutto ciò in D. non c'è che la povertà; ed è dal grembo di lei che la sua anima si muove verso il cielo, e al suo corpo non volle altra bara (v. 117); che è quanto dire nessuna bara assolutamente, poiché come apprendiamo da s. Bonaventura il santo volle morire nudo sulla nuda terra. Questo verso con il quale si chiude l'elogio poetico di F., ha, come ha osservato il Momigliano, l'andatura solenne, scandita, definitiva di parecchi altri versi conclusivi (per es. If XXVI 142, Pg V 129, ecc.), ma è pure una decisa, definitiva celebrazione della povertà di F., in perfetta consonanza con la concezione che D. aveva di lui, con i limiti inevitabili di quando cose mistiche sono pensate e figurate come reali e concrete. V. anche GIOTTO.

Sarebbe inutile ricordare quel che il poeta ha tralasciato, concentrando il suo interesse sulla povertà: pensiamo particolarmente all'operosità da cui derivò pacificazione e concordia tra parti avverse, allo spirito di non resistenza, all'avversione al privilegio, agli esempi di umiltà e di castità, alla perfetta letizia nelle sofferenze e negl'insulti, all'amore per tutte le creature e al considerarsi loro fratello, da cui sgorgò il Cantico delle creature, al suo essere un alter Christus, ecc., aspetti che conferiscono un'eccezionale distinzione alla personalità di F., che erano ben presenti nella Legenda di s. Bonaventura e che ricevono singolare luce se messi a riscontro con quanto D. ha sentito e colto. Il Bosco ha notato come anche un confronto tra il dettato dantesco e le storie di F. che qualche anno prima erano andati affrescando ad Assisi Giotto e i suoi aiuti, partendo dalla stessa Legenda di s. Bonaventura, delle quali tuttavia una sola, e marginalmente, si riferisce alla povertà, quella della rinuncia all'eredità paterna dinanzi al vescovo, permette di rilevare meglio questa preferenza assoluta data dal poeta al tema della povertà. La ragione e il significato storico di tale preferenza sono in ultima analisi da ricercarsi in una posizione polemica implicita, connessa senza dubbio con la grande questione della povertà di Cristo e degli apostoli e alimentata dall'opinione cara a D. che la cupidigia umana e della Chiesa in particolare fosse la causa di ogni male; ma tale atteggiamento polemico è rivolto più immediatamente contro gli ordini mendicanti, e trova nel contesto dei canti XI e XII un'esplicita formulazione. Ma se da una parte la concezione dei mali derivanti dalla cupidigia e dal dominio contribuì a portare l'interpretazione dantesca di F. lontano dalla Legenda di s. Bonaventura, verso le posizioni degli spirituali, in una presentazione sostanzialmente rigorosa, anche se serena e non estremista del suo messaggio pauperistico; dall'altra le gravi implicazioni d'ordine anche morale contenute in quel rigorismo che nella grande polemica sulla povertà arrivava a negare alla Chiesa il diritto di possedere, dovettero ingenerare perplessità in Dante. L'elogio poetico di F. risente perciò di una posizione intermedia, nella quale sono rigettate le restrizioni dei rigoristi, impersonate dal poeta in Ubertino da Casale, come anche gli accomodamenti della comunità, impersonati in Matteo d'Acquasparta (Pd XII 124-126). È in questo contesto che la figura di F. acquisisce in D. la sua autonomia, sia rispetto alla Legenda bonaventuriana che rispetto alle posizioni degli spirituali, in una dimensione equilibrata, nonostante i limiti imposti non solo dai simboli e dalle allegorie, ma dalla stessa funzione rappresentativa che il poeta assegna alla di lui povertà, oltre che dall'abbinamento con s. Domenico. Limiti che sembrano avvertiti là dove è detto che la mirabil vita di F. meglio in gloria del ciel si canterebbe (XI 95-96), espressione che secondo il Bertoldi indicherebbe che la vita di F., meglio che quaggiù, come si usa nei cori dei frati, sarebbe ‛ cantata ' (non ‛ detta ' come fa il poeta nel cielo del Sole) nell'Empireo, in faccia a Dio stesso, come l'esaltazione più degna dell'umana virtù. Ben due volte, del resto, parlando di F. il poeta usa l'espressione mirabil vita (Pd XI 95 e XIII 32; in Pd XII 65, s. Domenico è detto mirabile frutto), lasciando intravvedere che la sua ammirazione per la persona del santo va oltre a quello che il suo ingegno poetico ha saputo esprimere.

Bibl. - Per F. le fonti essenziali sono: Opuscula s. Francisci, ediz. L. Lemmens, Quaracchi 1904 (1949³); Analekten zur Geschichte des Franciskus von Assisi, ediz. H. Boehmer, Tubinga 1904 (1961³); Thomas De Celano, Vita prima, Vita secunda, Tractatus de miraculis s. Francisci, e s. Bonaventura, Legenda maior s. Francisci, in " Analecta franciscana " X: Legendae s. Francisci Assisiensis saeculis XIII et XIV conscriptae, Quaracchi 1926-41; s. Francisci legenda trium sociorum, a c. di M. Faloci Pulignani, Foligno 1898; Le Speculum perfectionis ou Mémoire de frère Léon, a c. di P. Sabatier e G. Little, Manchester 1928-31. Tra le numerosissime biografie moderne: P. Sabatier, Parigi 1894 (ediz. definitiva ibid. 1931); J. Jörgensen, Copenaghen 1907 (2ª ediz. ital. Assisi 1968); L. Salvatorelli, Bari 1926. Un vasto e aggiornato orientamento bibliografico si ha in R. Brown, A Francis of Assisi research bibliography, in appendice a O. Englebert, Saint Francis of Assisi. A biography, Chicago 1965, 493-601. Una bibliografia ragionata e completa per gli anni 1929-1963: Relationes de s. Francisco, in Bibliographia franciscana I-XII, Roma 1931-68.

Sui rapporti fra D. e F. la bibliografia è abbondante: Felice da Mareto, Bibliografia dantesco-francescana, in " Collectanea franciscana " XXXVI (1966) 111-185. Studi specifici: U. Cosmo, Le mistiche nozze di frate F. con madonna Povertà, in " Giorn. d. " VI (1898) 49-82, 97-111; ID., Noterelle francescane, ibid. VII (1899) 63-70; VIII (1900) 163-182; IX (1901) 41-49; Barbi, Problemi I 323-357; F. Tocco, I primordi francescani nella D.C., in " Giorn. d. " XI (1903) 162-171 (e anche in Studii francescani, Napoli 1909, 164-190); J. Huck, Ubertin von Casale und dessen Ideenkreis, Friburgo in Br. 1903, 70-107; P. Sabatier, Saint François d'Assise et D., in Dante: Mélanges de critique et d'érudition françaises publiés à l'occasion du VIe centenaire de la mort du Poète, Parigi 1921, 23-35; Z. Lazzeri, Fonti bonaventuriane dell'XI e XII canto del Paradiso, in " Studi francescani " VII (1921) 56-68; É. Gilson, La conclusion de la D.C. et la mystique franciscaine, in " Revue d'Histoire Franciscaine " I (1924) 55-63; G. Mestica, San F., D. e Giotto, Macerata 1926; D. L. Douie, The nature and the effect ect of the heresy of the Fraticelli, Manchester 1932, 120-124; G. Papini, D. vivo, Firenze 1933, 41-43, 277-282, 382-386 e passim; E. Auerbach, Studi su D., Milano 1963, 227-240; ID., in Lett. dant. 1565-1581 (già in Neue Dantestudien, Istanbul 1944, 72-90); M. Casella, Nel cielo del sole: l'anima e la mente di s. Tommaso, in " Studi d. " XXIX (1950) 5-40; E. Buonaiuti, La prima rinascita, Milano 1952, 75-253; A. Chiari, Tre canti, Varese 1954, 57-78; G. Pischedda, Tematica dantesca, Roma 1955, 73-84; G. Nencioni, Note dantesche, in " Studi d. " XL (1963) 7-56; L. Salvatorelli, D. e s. F., in " Boll. Deputaz. St. Patria Umbria " LXII (1965) 235-247. Un elenco delle letture del canto XI, tenute dal 1921 al 1951, si ha presso A. Vallone, Studi sulla D.C., Firenze 1955, 108-128; tra le più notevoli letture: A. Bertoldi, Firenze 1904; B. Nardi, Roma 1964; U. Bosco, Firenze 1965 (poi in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 316-341).