ORDELAFFI, Francesco di Sinibaldo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 79 (2013)

ORDELAFFI, Francesco di Sinibaldo

Alma Poloni

ORDELAFFI, Francesco (II) di Sinibaldo. – Nacque a Forlì, probabilmente all’inizio del secondo decennio del XIV secolo, da Sinibaldo e da Onestina Calboli.

Nella seconda metà del Duecento gli Ordelaffi, una delle più influenti famiglie della militia cittadina forlivese, furono tenacemente schierati su posizioni ghibelline. Dopo la morte di Maghinardo Pagani da Susinana, nel 1302, Scarpetta Ordelaffi gli subentrò nella signoria su Forlì e come punto di riferimento delle forze ghibelline e bianche romagnole e toscane. Uscito di scena Scarpetta nel 1311, perché imprigionato nella rocca di Castrocaro dal vicario di Roberto d’Angiò, in quel momento rettore pontificio della Romagna, negli anni successivi la signoria passò a suo fratello Cecco (Francesco I). Cecco morì nell’estate del 1331 senza eredi maschi, lasciando il potere nelle mani del nipote Francesco (II), figlio del fratello Sinibaldo. Più o meno in coincidenza con la morte di Cecco, tuttavia, Forlì, roccaforte delle resistenze antipapali in Romagna, fu posta sotto assedio dalle truppe del legato pontificio Bertrand du Poujet. Il 26 marzo 1332 Francesco fu costretto ad arrendersi, rinunciò alla signoria su Forlì e ricevette in cambio Forlimpopoli. Nel settembre 1332 gli Este, signori di Ferrara, promossero una lega contro il re Giovanni di Boemia e du Poujet, alla quale aderirono i Visconti, i della Scala, i Gonzaga e il Comune di Firenze, e in seguito anche tutti i domini romagnoli, che il legato aveva spodestato dalle loro signorie cittadine. Sostenuto da questa ampia alleanza, mentre la rivolta contro il legato dilagava in tutta la Romagna, nel settembre 1333 Francesco riuscì a rientrare a Forlì, e con i suoi sostenitori provocò una rivolta popolare che si concluse con la cacciata del rettore papale Tommaso Formaglini.

Pochi giorni dopo scoppiarono disordini anche a Cesena, in seguito ai quali il podestà e gli altri ufficiali lasciati da du Poujet si rifugiarono nella rocca cittadina. I cesenati elessero a podestà Ramberto Malatesta conte di Ghiaggiolo e a capitano del popolo Ordelaffi, che probabilmente aveva avuto un qualche ruolo nella rivolta. A gennaio 1334 anche la rocca, posta sotto assedio, capitolò. A febbraio Ramberto, accusato di cospirare per consegnare Cesena alle forze papali, fu allontanato dalla città e Ordelaffi assunse entrambe le cariche, di podestà e capitano del popolo, divenendo di fatto signore di Cesena.

Con Francesco il dominio degli Ordelaffi raggiunse la sua massima estensione. Si trattava infatti di una signoria pluricittadina, comprendente Forlì, Cesena, Forlimpopoli, Bertinoro, più vari centri minori. Nonostante l’assenza quasi totale di fonti documentarie, alcuni indizi suggeriscono che egli abbia introdotto importanti innovazioni nelle forme di esercizio del potere signorile e negli strumenti di legittimazione, abbandonando le cautele dei suoi predecessori, gli zii Scarpetta e Cecco, che avevano evitato forzature troppo evidenti degli equilibri istituzionali. Un documento conservato nell’Archivio di Stato di Firenze (edito in Balzani Maltoni, 1964, pp. 270-276) mostra che nel 1335 Francesco aveva assunto, certamente a Forlì, ma a quanto pare anche a Cesena e Forlimpopoli, il titolo di «capitaneus civitatis», rompendo con la prassi, a cui si erano attenuti i suoi predecessori, dell’adozione delle cariche pienamente comunali di podestà e capitano del popolo (con particolare predilezione per la seconda).

Per analogia con i casi romagnoli praticamente contemporanei di Ostasio da Polenta signore di Ravenna e Lippo Alidosi signore di Imola, si può ipotizzare che anche per Francesco Ordelaffi l’adozione del titolo di «capitaneus civitatis» si accompagnasse alla concessione di poteri speciali nell’ambito della ‘custodia’ della città, della protezione da attacchi interni ed esterni e della difesa del bonum et pacificum statum. Alcuni riferimenti nel documento del 1335 parrebbero andare in questa direzione. Sembra inoltre probabile che, come nel caso di Alidosi, l’abbandono da parte del signore dell’ufficio di capitano del popolo abbia di fatto coinciso con la scomparsa del riferimento al popolo nel sistema istituzionale di Forlì e forse anche di Cesena: di certo, a Forlì dopo Francesco il capitano del popolo non venne più reintrodotto, e anche gli anziani persero definitivamente la specificazione «del popolo».

L’anonimo autore della Vita di Cola di Rienzo, che pure tramanda un’immagine fortemente negativa di Francesco, irriducibile nemico della Chiesa, sottolinea il consenso del quale il signore godeva a Forlì: «era incarnato con Forlivesi, amato caramente. Demostrava muodi como de pietosa caritate. Maritava orfane, allocava poizelle, soveniva a povera iente de soa amistate» (1991, p. 255). Con scelta lessicale significativamente simile, Matteo Villani parla de «la fede e l’amore» che gli portavano «tutti i buoni uomini di Forlì» (Cronica, VII, 38). Il tema della pietas di Francesco compare anche in una fonte più asciutta ma più vicina agli avvenimenti, gli Annales Caesenates. Nel 1335, dopo avere occupato il castello di Bagnolo, soggetto all’arcivescovo di Ravenna, Ordelaffi, «solita pietate comotus», nelle parole del cronista, riscattò, pagando di tasca propria 200 lire, molte persone catturate da mercenari tedeschi presumibilmente al servizio del papato (2003, p. 156).

Gli atti di liberalità ricordati dalle cronache rimandano alla caratterizzazione del principe misericordioso e fanno pensare a un’attenzione specifica per la costruzione dell’immagine del signore, sulla base appunto di moduli principeschi, che non ha riscontri nei suoi predecessori, e nemmeno nei successori, fino alla seconda metà del Quattrocento. Le innovazioni riguardarono insomma anche la rappresentazione del potere signorile. Ciò, del resto, pare confermato dalla politica matrimoniale di Francesco. Fino a quel momento gli Ordelaffi avevano continuato a imparentarsi, come in passato, con altre famiglie della nobiltà forlivese, come i nemici Calboli, o con stirpi dell’aristocrazia rurale romagnola. Dei figli che Francesco ebbe con Marzia degli Ubaldini di Susinana, detta Cia, Ludovico e Giovanni sposarono le due sorelle Taddea e Caterina, figlie di Malatesta Guastafamiglia signore di Rimini, mentre Onestina sposò Gentile da Mogliano signore di Fermo. Con Francesco, dunque, ci troviamo ormai di fronte a una dinastia che rivendica il proprio spazio tra i signori dei territori della Chiesa. Secondo la tradizione storiografica, non suffragata da conferme documentarie, avrebbe poi ottenuto da Ludovico il Bavaro il vicariato imperiale nel 1342.

Nella seconda metà degli anni Trenta Francesco continuò a rappresentare un grave elemento di disturbo per il papato. In una sorta di ininterrotta azione di logoramento, egli, al comando di truppe forlivesi e cesenati, si impadronì di numerosi castelli e rocche controllate dalla Chiesa o dai suoi alleati, appoggiando nel frattempo ogni rivolta contro i rappresentanti papali e i loro fedeli.

All’inizio degli anni Quaranta in Romagna si creò una situazione di stallo. Le forze papali non erano in grado di contrastare Ordelaffi, le cui ambizioni espansionistiche erano tuttavia arginate dalle altre dinastie signorili romagnole. Nel 1347 il nuovo rettore papale Astorge de Durfort entrò a Faenza, la riportò sotto il diretto controllo della Chiesa, sottraendola alla signoria di Giovanni Manfredi, e vi fissò la propria base. Ma all’inizio del 1350 Giovanni riuscì a riprendere il potere, costringendo il rettore a fuggire. Durfort si trovava ora in una posizione di debolezza, mentre Ordelaffi aveva trovato in Manfredi un nuovo convinto alleato. Nei mesi successivi, con il figlio Ludovico, egli riprese un’energica politica espansionistica, con uno slancio paragonabile a quello degli anni Trenta. In breve tempo si impadronirono di fondamentali roccaforti del potere papale: Bertinoro, Castrocaro e Meldola. Nel frattempo l’arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano, aveva acquistato Bologna dai Pepoli e intensificava il suo impegno in Romagna, subito sostenuto da Manfredi e da Ordelaffi, nominati capitani generali delle milizie viscontee. Francesco e Ludovico si impadronirono di altri castelli. Nel 1351 con Giovanni Manfredi attaccarono Imola, retta da Roberto Alidosi, il più fedele alleato del papato in Romagna, e nuova sede del rettore, ma non riuscirono a espugnare la città. Durfort, ripetutamente sconfitto, fu costretto ad abbandonare la Romagna e a fare ritorno ad Avignone.

Nel 1353 il nuovo papa Innocenzo VI inviò in Italia come legato il cardinale Egidio de Albornoz, con il compito di restaurare l’autorità della Chiesa nei territori romagnoli e marchigiani, in mano a una pletora di signori locali sfuggiti a ogni controllo. Albornoz si rivolse prima contro Gentile da Mogliano, signore di Fermo dal 1345, alleato dei Visconti e genero di Francesco. Nel maggio 1355 Gentile si arrese al cardinale. Vinte rapidamente le altre resistenze nelle Marche, Egidio si volse contro Ordelaffi e Giovanni Manfredi, i quali, soli tra i signori romagnoli, rifiutavano di sottomettersi alla sua autorità. I due avevano perso anche il sostegno dei Visconti, che si erano visti riconoscere dal papato il dominio su Bologna.

Nel febbraio 1356 fu addirittura bandita una crociata contro il ribelle Francesco – che era già stato più volte scomunicato – e i suoi sostenitori; la crociata, rilanciata nel 1357 e ancora nel 1359, raccolse molte adesioni, grazie alla promessa di ampie indulgenze e di altri privilegi e concessioni. Una taglia di 1000 fiorini fu posta sul suo capo ma egli, pur sottoposto a un vero e proprio processo di demonizzazione da parte della propaganda papale e sempre più isolato, resisteva. Affidò la custodia di Cesena alla moglie per potersi concentrare nella difesa di Forlì. Le truppe del legato posero sotto assedio Faenza; Giovanni Manfredi fu costretto ad arrendersi e a rinunciare alla signoria sulla città, privando Ordelaffi del suo unico appoggio.

Secondo il racconto degli Annales Caesenates (2003, p. 192), nell’aprile 1357 a Cesena scoppiò un tumulto al grido di «vivat populus!» e «vivat populus et sancta Ecclesia!». La rivolta, quindi, fomentata dalle forze filoalbornoziane, era sostenuta dal partito popolare, o perlomeno attingeva alle parole d’ordine del popolo. Questo particolare parrebbe confermare l’impressione che anche a Cesena la signoria di Ordelaffi avesse rotto con la prassi, rispettata nei precedenti esperimenti signorili, di ricercare il consenso del popolo e preservare le istituzioni popolari. Cia, il figlio Sinibaldo e i nipoti Giovanni e Tebaldo, figli di Ludovico, si rifugiarono con i loro soldati all’interno della Murata. La cittadella fortificata fu espugnata dalle truppe di Albornoz, giunte in soccorso dei rivoltosi. Gli Ordelaffi ripararono allora nella rocca, che difesero strenuamente fino al 21 giugno, quando furono costretti ad arrendersi al cardinale. Cia e i suoi familiari furono imprigionati nella fortezza di Ancona.

L’esercito pontificio si apprestava a concentrare i suoi sforzi su Forlì. Dissidi tra Albornoz e Innocenzo VI provocarono tuttavia il rientro ad Avignone del cardinale, sostituito da Androino de la Roche, il quale non si rivelò all’altezza della situazione e consentì a Ordelaffi di recuperare terreno. Albornoz tornò allora in Italia, reintegrato nei suoi poteri. Le truppe pontificie, comandate dal nuovo capitano generale Francesco Calboli, recuperarono a una a una le fortezze riconquistate da Ordelaffi, e posero l’assedio a Forlì. Francesco fu costretto a cercare un accordo con il cardinale, che entrò in città il 4 luglio 1359. Assolto dalla scomunica, ottenne la liberazione dei familiari, ma dovette rinunciare, oltre che alla signoria su Forlì, a tutte le sue terre.

Trascorse i suoi ultimi anni come condottiero, combattendo soprattutto al servizio dei Visconti. Nel 1372 Venezia lo assoldò contro il signore di Padova Francesco da Carrara. Nel 1373, dopo la morte del capitano generale dell’esercito veneziano, Giberto da Correggio, Ordelaffi, già nominato vicecapitano durante la malattia di da Correggio, ne prese il posto.

Nelle fonti filopapali Francesco è rappresentato come un tiranno non solo antipapale, ma irriducibilmente anticlericale, capace di atti di inaudita crudeltà nei confronti degli uomini di Chiesa. Uno dei testi nei quali questa caratterizzazione emerge con particolare forza è la Vita di Cola di Rienzo (1991, p. 255): «era in Romagna un perfido cane patarino, rebello della santa Chiesia. Trenta anni stato era scommunicato, interditto sio paiese senza messa cantare. Moite terre teneva occupate della Chiesia […] tutte queste teneva e tiranniava, senza moite aitre castella e communanze le quale erano de paiesani. Era questo Francesco omo desperato. Avea odio insanabile a prelati […] non voleva de cetero vivere a descrezione de prieiti. Staieva perfido, tiranno ostinato». Il signore di Forlì è accusato, oltre che di numerose atrocità, di avere fatto bruciare in piazza dei fantocci imbottiti di carta e fieno fatti a somiglianza del papa e dei cardinali, con un atto a metà tra il pubblico ludibrio e il rito magico.

In effetti Ordelaffi adottò un atteggiamento spregiudicato, in particolare nei confronti del clero locale sostenitore delle posizioni papali, e non si può escludere che egli stesso abbia fatto dell’anticlericalismo una sorta di bandiera identitaria.

Nel 1334 allontanò da Cesena il vescovo Giovanni Acciaiuoli, fiorentino vicino al papa Giovanni XXII. L’anno dopo anche i canonici della cattedrale furono costretti ad abbandonare la città. Sempre nel 1335 il nuovo arcivescovo di Ravenna, il veneziano Francesco Michiel, entrò nel castello arcivescovile di Oriolo, nel Faentino, per riprenderne possesso dopo che gli abitanti si erano ribellati con l’appoggio degli Ordelaffi e dei forlivesi. Francesco irruppe nel castello e, catturato l’arcivescovo con tutta la sua familia, lo portò prigioniero a Forlì, dove il prelato subì gravi maltrattamenti. Episodi come questi avevano un’ampia risonanza, e Ordelaffi ne doveva essere consapevole. Essi alimentavano la libellistica filopontificia, ma probabilmente avevano anche l’effetto di esaltare i suoi sostenitori, consolidando la sua immagine di punto di riferimento della resistenza antipapale.

Rovesciata rispetto alla rappresentazione negativa di Francesco è invece l’immagine positiva della moglie Cia Ubaldini, dipinta come una donna sensibile alle arti e alla cultura, oltre che particolarmente coraggiosa. Le cronache coeve, anche non romagnole ne esaltano la strenua resistenza, descrivendola come donna virtuosa e perciò fedele al marito fino alle estreme conseguenze, durante l’assedio di Cesena da parte di Albornoz.

Francesco Ordelaffi morì a Venezia nel 1374.

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