FERRARA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 46 (1996)

FERRARA, Francesco

Riccardo Faucci

Nacque a Palermo il 7 dic. 1810, da Francesco e Rosalia Alaimo. Protetto da Carlo Cottone principe di Castelnuovo, al cui servizio era il padre, poté attendere agli studi come i giovani delle classi superiori, studiando da chierico presso l'antico collegio dei gesuiti di Palermo (corsi di umanità e retorica), e frequentando assiduamente l'oratorio dei filippini. Secondo alcuni, la concezione ferrariana di una provvidenza che tempra l'uomo facendolo progredire attraverso il dolore, sarebbe da considerare eredità di questa educazione cattolica. Comunque il F., pur prendendo gli ordini minori, svestì presto l'abito sacerdotale. Per tutta la vita sarebbe stato un convinto liberale laico, e insieme un fermo credente.

Nell'ottobre 1832 il F., che non aveva concluso gli intrapresi studi di medicina, partecipò a un concorso per dieci posti di commesso presso la Direzione centrale di statistica di Palermo; concorso nel quale arrivò terzo, ma che fu annullato (il direttore della Statistica, Saverio Scrofani, avrebbe prevaricato sugli altri commissari). Nella ripetizione, avvenuta nel giugno 1833, il F. arrivava primo, nonostante che la nuova commissione avesse imposto come testo di esame la Filosofia della statistica del protezionista e statalista Melchiorre Gioia, un autore nei cui confronti il F. manifestò sempre dissenso. Fin da allora si era legato di amicizia con i giovani liberali siciliani: Michele Amari e suo fratello Emerico, Raffaele Busacca, Vito d'Ondes Reggio, Francesco Perez, amicizia destinata a durare per tutta la vita. All'Ufficio palermitano di statistica il F., pur non divenendone mai il capo, dette grande impulso, soprattutto con scritti teorici e metodologici che videro la luce, a partire dal 1836, sul Giornale di statistica, promosso da lui e da Emerico Amari.

Già in Dubbi sulla statistica (Palermo 1835, ora in Opere complete, I, a cura di B. Rossi Ragazzi, Roma 1955, pp. 3-34) era entrato in polemica con la concezione gioiana della statistica come congerie di informazioni, dalle quali è impossibile ricavare nessi causali che solo la teoria economica può fornire. Tanto più contrario è il F. all'idea gioiana, secondo cui la statistica deve servire da guida all'azione dell'amministratore. Osserva il F. che i principi primi dell'azione pubblica debbono essere desunti dalla scienza economica, non dalla statistica, il cui ruolo è successivo e implicitamente ancillare. Il collegamento indissolubile fra teoria e politica economica è qui già presente. Nel successivo Sulla teoria della statistica secondo Romagnosi (in Giorn. di stat., I [1836], 1, ora in Opere complete, I, pp. 37-88) il F. ricollega le erronee concezioni della statistica alla nozione di incivilimento data da Giandomenico Rornagnosi, che egli critica in quanto assume un modello astratto di società, lo "stato ideale", a cui lo "stato attuale" (effettivo) di una società dovrebbe avvicinarsi attraverso un'azione di intervento economico governativo. Il carattere autoritario di questa concezione - su cui il F. tornerà più volte negli anni Settanta, nel corso della polemica con la scuola "lombardo-veneta" - è qui per la prima volta rilevato. Di argomento storico-metodologico è invece il saggio Iperiodi della economia politica. Economia politica degli antichi (in Giorn. di stat., VI [1841], 18, ma uscito nel 1846; ora in Opere complete, I, pp. 383-433) in cui il F. sposa la concezione puristica della scienza economica, che progredisce per forza di logica interna, senza che l'ambiente circostante influisca in modo decisivo. Corollario di questa impostazione - che doveva avere dei seguaci in M. Pantaleoni e in L. Einaudi - è che la storia dell'economia politica è, e non può non essere, storia delle verità scoperte dai grandi economisti, e non storia degli errori e dei tentativi non riusciti di questo o quel precursore. Per es., in polemica con Adolphe Blanqui che considera Platone un anticipatore di Adam Smith, il F. si propone di dimostrare che la divisione del lavoro nell'autore della Repubblica non dà luogo a una teoria economica, ma solo a un progetto politico utopistico. La polemica antiutopistica sarà sempre viva in lui. In Malthus, i suoi avversari, i suoi seguaci, le conseguenze della sua dottrina (in Giorn. di stat., VI [1841], 18, stampato di seguito al preced., ora in Opere complete, I, pp. 437-489) èemblematica la contrapposizione fra l'utopista W. Godwin, sostenitore di una società egualitaria in cui la popolazione si sarebbe potuta espandere senza freni, e lo storicista e realista Th. Malthus. Questi figura sin d'ora come l'eroe ferrariano, il pensatore che ha saputo rappresentare non già una legge demografica, ma la stessa dialettica del progresso umano, in cui l'assillo delle risorse spinge l'uomo a migliorare costantemente, con il lavoro e l'invenzione, la propria condizione economica e civile. Tutti questi motivi saranno costantemente ripresi. Accanto a questi scritti teoretici, il F. pubblicò studi di politica economica, fra cui quello sul Cabotaggio fra Napoli e Sicilia (in Giorn. di stat., II[1837], ora in Opere complete, I, pp. 91-169), che proponeva l'adozione per la Sicilia di una politica liberoscambista incondizionata, e difendeva la legge sul commercio fra l'isola e la parte continentale del Regno dalle critiche del protezionista Ferdinando Malvica.

Negli stessi anni - nel 1840 si era sposato con Maria Bracco Amari (Marietta), da cui ebbe due figli e quattro figlie - iniziava una intensa attività giornalistica. Oltre a figurare fra i "soci corrispondenti" della Ruota. Giornale per la Sicilia (1840), nel 1844 - nominato segretario della Camera consultiva di commercio di Palermo - dava vita alla nuova serie del Giornale del commercio, organo di quella istituzione, trasformandolo da semplice bollettino di informazione economico-finanziaria in portavoce della propaganda liberista. L'anno seguente la pubblicazione però cessava: primo dei numerosi incidenti della carriera del F. pubblicista militante.

Il F. manifestò le proprie idealità liberali e risorgimentali nella prolusione del dicembre 1847 al liceo "Tulliano" di Palermo, intitolata L'economia politica è una nuova fase del bisogno della libertà, il cuitesto non ci è pervenuto; e soprattutto nell'anonima Lettera di Malta, stampata in realtà a Palermo nel medesimo mese.

In questo documento, in cui l'autore si rivolge a un non identificato "Lorenzo", si ammoniva a non confondere "il governo di Napoli colla nazione napolitana" e si esortava a rovesciare i Borboni, come prima condizione per una battaglia autonomistica e separatistica siciliana.

In seguito alla diffusione di un manifesto che proclamava l'insurrezione di Palermo per il 12 genn. 1848, il F. fu incarcerato a scopo preventivo nella fortezza del Castellammare insieme con altri dieci patrioti, fra cui Emerico Amari. La prigionia durò dal 9 gennaio fino al 4 febbraio, allorché la rivoluzione siciliana si affermò (cfr. l'articolo del F., Altre particolarità sugli undici detenuti al Castello, in L'Indipendenza e la Lega, 4 marzo 1848, rist. in Opere complete, VI, a cura di F. Caffè-F. Sirugo, Roma 1965, pp. 173-178).

Dal febbraio all'ottobre 1848 il F. fu direttore e proprietario dell'Indipendenza e la Lega, ilfoglio dove espose per la prima volta organicamente le tesi federalistiche e autonomiste di cui è nutrito il suo liberalismo. Si muove lungo tre direttrici: la polemica con chi ritiene che l'autonomia siciliana possa essere conciliata con il mantenimento dei Borboni sul trono di Napoli; l'esigenza di una stretta intesa fra patrioti napoletani e siciliani; e la priorità della creazione di istituti autenticamente autonomistici in Sicilia, nel quadro di una confederazione italiana, anche rispetto alla stessa questione istituzionale. Ancora nel maggio il F. proclamava che se la monarchia dei Savoia non fosse stata disposta a riconoscere alla Sicilia sufficiente autonomia, allora la strada repubblicana sarebbe stata la migliore per tutta l'Italia.

Tuttavia, quando il Parlamento siciliano, di cui il F. faceva parte in seguito alle elezioni del marzo, offrì l'11 luglio 1848 la corona al secondogenito di Carlo Alberto, Amedeo duca di Genova, il F. accettò di far parte della delegazione che doveva andare a Torino a ottenere l'accettazione. Solo il 27 ag. 1848 la delegazione fu ricevuta dal re, ma ormai il rovescio di Custoza e i rischi di guerra con Napoli fecero cadere l'offerta. Il F. scelse di restare in volontario esilio a Torino.

Si apriva la seconda e ricca fase della sua vita. Come federalista, il F. promosse il congresso nazionale federativo, che si tenne a Torino il 10 ott. 1848, con la partecipazione di V. Gioberti e di molti esponenti delle regioni d'Italia. L'iniziativa federalista naufragò con il precipitare della situazione politica, oltre che per contrasti di fondo fra il F. e il Gioberti, che ebbero risvolti negativi anche sulla carriera universitaria che il F. aveva intrapreso. Il 16 ottobre egli era stato infatti nominato professore di economia politica nell'università di Torino, come successore di Antonio Scialoia, rientrato a Napoli; ma il 15 genn. 1849 il ministro della Pubblica Istruzione Carlo Cadorna revocava la nomina, adducendo come motivo l'ingiustificata dilazione dell'inizio delle lezioni richiesta dallo stesso F., ma in realtà per ragioni politiche: le critiche dell'economista al governo Gioberti. Il Risorgimento diCavour prese vivacemente le difese del F., che il 21 ott. 1849, grazie al nuovo governo d'Azeglio, fu reintegrato nell'insegnamento.

La prolusione del F. al corso, dal titolo Importanza dell'economia politica e condizioni per coltivarla, fuda lui tenuta il 16 nov. 1849; essa uscì per l'editore Pomba e fu commentata entusiasticamente da Cavour sul Risorgimento (cfr. i due testi in Economisti italiani del Risorgimento, a cura di A. Garino Canina, in "Nuova collana di economisti stranieri e italiani", II, Torino 1933, pp. 239-261 e 262-280). In essa l'intreccio fra definizione della scienza, esaltazione della libertà e polemica antisocialista e antidispotica si fa più stretto. L'economista viene presentato come sacerdote della verità, nemico di ogni compromesso e quindi inviso al potere. Di lì a pochi anni, questo ritratto si caratterizzerà sempre di più come un autoritratto.

La collaborazione con Cavour e con il suo Risorgimento durò dal settembre 1848 al gennaio 1850; i motivi della rottura non sono dei tutto chiari, ma debbono essere stati anche di tipo personale, riguardanti le ambizioni del F. ad avere un ruolo preminente nel giornale di Cavour, come si evince da una lettera dello stesso F. alla Croce di Savoia del 28 genn. 1852 (ora in Opere complete, VII, a cura di F. Caffè-F. Sirugo, Roma 1970, pp. 286-289). La rottura con lo statista è quindi precedente all'assunzione del portafoglio dell'Agricoltura da parte di questo, assunzione salutata peraltro con una certa simpatia dal F. sulle colonne del suo nuovo giornale (La nomina di Cavour a ministro, in La Croce di Savoia, 11ott. 1850, rist. in Opere complete, VII, pp. 672-675). Comunque, la politica economica di Cavour ministro e poi presidente del Consiglio fu sempre severamente criticata dal F. in quanto non sufficientemente liberista, se non apertamente interventista. Lasciata anche la Croce di Savoia, ilF. fondò nel gennaio 1853 IlParlamento insieme con altri esuli (P. S. Mancini, L. C. Farini, A. Scialoja), dimettendosene nel novembre per dissensi sulla linea da tenere nei confronti del governo Cavour. Nel dicembre 1855 dette vita all'Economista, impostato in maniera diversa dai precedenti, e aperto alle notizie e ai problemi economici internazionali; senza peraltro trascurare di attaccare, così come in passato, Cavour per l'incoraggiamento da questo dato alla concentrazione industriale (fusioni di società ferroviarie), finanziaria (legge sulle società per azioni e le mutue assicuratrici) e bancaria (privilegi alla Banca nazionale), e soprattutto per aver favorito la speculazione attraverso un progetto di colonizzazione della Sardegna affidata a un'unica società, la Bolmida (cfr. Colonizzazione della Sardegna, in L'Economista, 24febbraio - 4 maggio 1856, rist. in Opere complete, VII, pp. 551-603). Non meno battagliero fu sempre il F. nel difendere la libertà di stampa e d'insegnamento, compreso quello confessionale (cfr. Non toccate la stampa!, in La Croce di Savoia, 29 ag. 1850; Non avvilite la stampa!, ibid., 31 ag. 1850; Le eccezioni alla libertà, in IlParlamento, 8 genn. 1853; La libertà dell'insegnamento, ibid., 16 e 19 genn. 1853, rist. in Opere complete, VII, rispett. pp. 41-46, 47-51, 302-307 e 311-322). L'eccessivo polemismo finì con l'alienargli le simpatie degli ambienti politici piemontesi. Un suo primo tentativo di farsi eleggere deputato per il collegio di Sassari, nel settembre 1850, andò a monte con soddisfazione del d'Azeglio (cfr. Opere complete, VII, p. 61 n.). Nel 1853, quando gli fu offerta per la seconda volta la candidatura, declinò l'invito (cfr. la lettera all'allievo Giuseppe Todde del 24 nov. 1853, in F. F. a Torino, pp. 62 s.). Finalmente, quattro anni dopo accettò di candidarsi per il collegio sardo di Villacidro, ma nel ballottaggio prevalse per pochi voti il barone Domenico Melis (lettere al Todde del 6 e 18 ott. 1857, ibid., pp. 137-142). L'11 maggio 1856 aveva dovuto cessare le pubblicazioni anche l'Economista, che non era riuscito a trovare sufficienti lettori nella capitale subalpina (cfr. la lettera al Todde del 19 genn. 1856, ibid., p. 105).

Ormai il F. sentiva sempre più a lui ostile l'ambiente torinese. Al Todde scriveva che gli sarebbe piaciuto emigrare in Svizzera, o meglio ancora negli Stati Uniti, "corne Dupont de Nemours" (le era senza data ma del maggio 1856, ibid., p. 120). La misura fu colma allorché, il 27 ott. 1858, il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione (in pratica, il ministro G. Lanza) decise nei suoi confronti la sospensione per un anno dall'insegnamento per avere in una lezione "eccitato la gioventù studiosa all'inosservanza dei Regolamenti", e quindi per "irriverenza al Governo e alle leggi dello Stato". Il ministero non accolse una sua ispirata Difesa ... avanti il Consiglio sup. di pubblica istruzione (Torino 1858;rist. in Opere complete, VIII, a cura di R. Faucci, Roma 1976, pp. 25-87).

L'anno seguente il F. si trasferì alla cattedra di economia sociale della facoltà giuridica dell'università di Pisa, riaperta dal governo provvisorio toscano di Ricasoli e Ridolfi dopo la chiusura disposta dai Lorena nel 1851.Si apriva una nuova fase della sua vita.

Se numerose furono le amarezze conosciute nel decennio torinese come giornalista e politico, grande successo ebbe l'iniziativa della "Biblioteca dell'economista", che lo consacrò come il principale economista del Risorgimento. Della collana, edita da Giuseppe Pomba di Torino, il F. diresse le prime due serie, di tredici volumi ciascuna (1850-1868), rispettivamente dedicate ai "Trattati generali" (cioè alle opere complessive e ai manuali) e ai "Trattati speciali" (cioè alle monografie su singoli aspetti dell'economia pofitica). Il F. scrisse per ciascun volume una prefazione (nel caso della Ricchezza delle nazioni di A. Smith, un semplice Avvertimento), salvo per gli ultimi quattro, usciti quando egli era ormai impegnato nell'attività parlamentare a Firenze.

Nella collana trovarono collocazione, in traduzioni accuratamente rivedute dallo stesso F., i grandi maestri dell'economia classica, dai fisiocratici a Smith, a Malthus, a D. Ricardo, a N. W. Senior, a J. Stuart Mill, accanto ad autori, specie francesi e americani, che già rappresentano un primo distacco dalla tradizione classica, come J.-B. Say, F. Bastiat, P. Rossi, J. Rae, H. Ch. Carey. Nelle prefazioni, ancora oggi ritenute un modello forse insuperato, il F. non si limitò a inquadrare i vari autori, ma fece opera di robusta ed efficace critica analitica. Ne risulta così una preziosa storia dell'analisi economica, che nelle intenzioni dell'autore doveva essere completata da un lavoro storicocritico di sintesi complessiva, che non vide pero la luce (cfr. B. Rossi Ragazzi, Nota introduttiva a Opere complete, II, Roma 1955, p. XVI).

Fondamentale opzione scientifica del F. è l'adozione: di una teoria soggettivistica del valore, in contrapposizione a quella oggettivistica di stampo classico-ricardiano. Il valore non è un carattere intrinseco della merce, ma il risultato di un giudizio mentale del soggetto che della merce ha bisogno. L'economia politica si fonda su di una psicologia sensista. L'uomo senziente confronta l'utilità che la merce gli apporta con la disutilità (il "travaglio") che gli comporta il procurarsela. La lezione di J. Bentham e degli idéologues francesi, come A. Destutt de Tracy, è determinante. Ne deriva una concezione del sistema economico come tendente a raggiungere situazioni di equilibrio. Anche il consumo è visto come tendente all'equilibrio fra il piacere che dà il bene e la pena relativa (anche il masticare è un travaglio). Nel baratto ciascun soggetto raffronta il costo di produzione (in termini di capitale e lavoro impiegato) della merce da lui posseduta con il costo di riproduzione (anche qui, in termini di capitale e lavoro che dovrebbe impiegare) della merce posseduta dall'altro soggetto e che il primo desidera avere. Se il costo di riproduzione della merce altrui supera, nel raffronto, il costo di produzione della propria merce, vi e convenienza nel baratto. Lo stesso ragionamento, naturalmente in termini invertiti, compie l'altro scambista. Il F. dimostra che lo scambio effettivo avverrà sulla base dei due costi di riproduzione. Questa impostazione ricorda da vicino quella della scuola austriaca, in particolare di Carl Menger. L'impostazione soggettivistica data alla teoria del valore ispira anche la teoria della distribuzione, in cui il F. nega l'esistenza di un sovrappiù netto di tipo fisiocraticoclassico, per affermare invece che nel processo produttivo si ha soltanto trasformazione, e non creazione netta, di utilità. Ciascun detentore di fattore produttivo lo impiegherà tenuto conto degli usi alternativi. Fra il lavoratore e il capitalista vi è simmetria; il capitale non è che lavoro passato, il lavoro non è altro che "travaglio" presente. Non è possibile distinguere nettamente il salario dalla rendita o dal profitto, perché il reddito di ciascun fattore è un tmiscuglio di tutte le specie" (La teoria delle mercedi [1863], rist. in Opere complete, IV, a cura di B. Rossi Ragazzi, Roma 1956, p. 321). Inoltre non c'è una tendenza storica alla crescita di un tipo di reddito a spese degli altri (come insegnavano Ricardo e anche Smith), se mai alla crescita dei redditi da lavoro aiutati da sempre maggiori quantità di capitale che ne accresce la produttività.

In questa impostazione, che possiamo considerare neoclassica ante litteram, ilF. mostra tutta la propria distanza da Ricardo. Oltre alla teoria del valore come costo di produzione, il F. respinge la teoria ricardiana della rendita, sia per motivi analitici, in quanto basata sul concetto di sovrappiù netto che per il F. non esiste, sia per motivi ideologici ("in una parola si sarà giudicata, quando si sia già detto che essa è bastata per convertire l'opera di Ricardo in una specie di testo sacro ad uso del socialismo d'ogni gradazione e sembianza": Prefaz. a Ricardo [1856], rist. in Opere complete, III, a cura di B. Rossi Ragazzi, Roma 1956, p. 327). Altro elemento del classicismo che il F. respinge è la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo, e quindi fra beni materiali e servizi immateriali. Qui perfino i prediletti Adam Smith e Jean-Baptiste Say - l'economista francese a cui il F. si sentiva più vicino - sono criticati per non aver riconosciuto che qualsiasi attività che crea utilità è produttiva.

La concezione del sistema economico nel F. non esclude il verificarsi di crisi, sia per errori di previsione da parte degli operatori, sia per il difettoso intervento del credito, il cui ruolo dovrebbe essere quello di superare le difficoltà create alla circolazione dal fattore tempo, mobilitando il capitale esistente e rendendo disponibili per attività produttive risorse altrimenti inutilizzate (Perri, 1980, pp. 433-439). Va ricordato, infine, che egli non condivise né la legge degli sbocchi (o di Say), né la teoria quantitativa della moneta. Posizione, questa, che lo caratterizzò come voce a sé nel panorama economico del suo tempo.

Accanto alle Prefazioni, ilF. diffuse alcune dispense litografate dei suoi corsi universitari che, insieme con testi manoscritti e con singole lezioni che il F. stesso pubblicò su giornali e riviste, danno l'idea della robustezza del suo disegno teorico complessivo, quale egli venne svolgendo in un decennio. Egli concepiva l'economia politica come ripartita in tre branche: l'economia individuale, riguardante il soggetto consumatore, il valore e le risorse produttive (popolazione, capitale e terra); l'economia sociale, che tratta della divisione del lavoro, dello scambio, della distribuzione; l'economia internazionale, comprendente sia le forme di colonizzazione sia la teoria del commercio internazionale; a queste si aggiunge l'arte economica, comprendente l'istruzione come fattore di sviluppo, le istituzioni economiche, la moneta e il ruolo dello Stato nell'economia. Un'ampia trattazione a parte era riservata alla teoria dell'imposta, definita "mero cambio d'utilità", mediante il quale "il contribuente cede una parte de' suoi valori, per avere dalle mani del governo que' tali beni che, in società e per l'azione complessiva della società, è unicamente possibile avere" (cfr. Lezioni di economia politica, a cura di G. De Mauro Tesoro, I-II, Bologna 1934-35, con le lezioni del periodo torinese e veneziano; citaz. dal vol. I, p. 639. Cfr. anche Opere complete, XI, a cura di P. Barucci - P. F. Asso, Roma 1986, con le lezioni del 1856-57).A Pisa si trattenne dal novembre 1859 all'agosto 1860. Le difficoltà di ordine burocratico-politico, per lui ormai tristemente consuete, gli impedirono di svolgere regolarmente il corso. Risulta aver tenuto soltanto la prolusione, pronunciata nel gennaio 1860 e che ebbe grande successo (ma il F. dichiara in una lettera di aver distrutto il testo per timore che fosse usato contro di lui per accusarlo di sovversivismo), e inoltre un breve ciclo di lezioni, da aprile a giugno, riservato agli allievi della Scuola normale superiore. Svolse però una intensa attività a sostegno dell'insurrezione siciliana del 1860, facendo parte di un comitato per i sussidi agli insorti costituito alla vigilia della partenza dei Mille da Quarto. La spedizione garibaldina gli sembrava però piena di ambiguità. L'antico federalista si ridestava in lui: "Oltre alla rivoluzione così eroicamente fatta dai nostri compatriotti, vi è la conquista, così abilmente e risolutamente voluta dal governo sardo. Io non posso morire col rimorso di avervi contribuito. La Sicilia si troverà rovinata se ciecamente segue l'esempio della Toscana e dell'Emilia. Essa dovrebbe ... coniugarsi all'Italia e alla gran causa italiana, senza cadere nell'agguato che il partito piemontese le tende" (lettera al cognato Giuseppe Bracco Amari, del 20 giugno 1860, riportata in R. Faucci, Nota introduttiva a Opere complete, VIII, p. XXIX). Il 1º luglio vietava al figlio Francesco (Ciccillo), che era con Garibaldi in Sicilia, di seguire il generale nella sua conquista del Napoletano: "Garibaldi può seguire i suoi grandi piani, e lo trovo degno di ammirazione in ciò: ma che un siciliano vada a portare la libertà a coloro che l'han tolta a noi, che si son battuti tanto per impedire l'emancipazione della Sicilia, questo è per me un orrore" (lettera a G. Bracco Amari, in Faucci, 1986, pp. 323 s.).

Ma il F. non poteva assistere da lontano allo svolgersi di avvenimenti così rilevanti per la sua terra. L'8 luglio, da Torino, inviava a Cavour - dal quale si era accomiatato nel 1859 con una nobile lettera - il testo di un progetto, Brevi note sulla Sicilia, inteso ad assicurare l'autonomia dell'isola nel quadro di una struttura federale, in cui la Sicilia avrebbe demandato al Parlamento e al governo del Regno dell'Italia superiore le materie di interesse comune, come la politica estera, le dogane, la disciplina dei trasporti, ecc., mentre si sarebbe amministrata con proprie istituzioni e con un proprio potere esecutivo sotto un viceré per tutte le materie di proprio interesse. Cavour commentò in modo raggelante, scrivendo al conte Amari: "Se l'idea italiana non ha nessuna influenza in Sicilia, se l'idea di costituir una forte e grande nazione non è ivi apprezzata, i Siciliani faranno bene ad accettar le concessioni del Re di Napoli e di non unirsi a popoli che non avrebbero per loro né simpatia né stima" (testo e lettere in Carteggi di C. Cavour, I, pp. 296-305). Il F., arrivato a Palermo, non se la senti più di diffondere lo scritto, forse rendendosi conto che le prospettive federaliste erano tramontate. Il testo rimase inedito fino al 1921 (Cenni sul giusto modo d'intendere l'annessione della Sicilia all'Italia, in Opere complete, VIII, pp. 89-100).

A Palermo, nel settembre 1860, fu nominato direttore delle dogane e dei dazi indiretti (il ministro della Pubblica Istruzione sardo T. Mamiani lo fece figurare dimissionario dalla cattedra pisana con una lettera clamorosamente apocrifa: cfr. M. F. Gallifante, 1990, p. 686). Fece parte del Consiglio straordinario di Stato, istituito dal prodittatore A. Mordini il 19 ott. 1860 per elaborare uno schema di ordinamento amministrativo, che però rimase lettera morta (Ganci, 1968, pp. 226 ss.). Nel febbraio 1861 si presentò come candidato in due collegi siciliani. Fu eletto dal collegio di Caccamo, ma la sua elezione venne annullata stante la carica pubblica ricoperta (cfr. F. Caffè, Nota introduttiva a Opere complete, IX, Roma 1972, p. IX).

L'anno seguente il ministro delle Finanze del gabinetto Rattazzi, Quintino Sella, lo nominò consigliere della Corte dei conti del Regno d'Italia, insediata il 1º ott. 1862.

Aveva inizio un periodo di fecondo rapporto fra i due, durato circa otto anni, il cui prodotto più consistente fu la redazione ad opera del F. del progetto per l'introduzione dell'imposta sul macinato, presentato dal Sella il 13 dic. 1865 e ripresentato identico dal F. ministro delle Finanze l'11 giugno 1867 (cfr. il testo in Opere complete, IX, pp. 347-432). La redazione del progetto, che dette luogo a una fitta corrispondenza di carattere tecnico del F. con lo statista biellese, fu preceduta da una serie di articoli scritti dal F. per l'Opinione in risposta a una lettera di Gioacchino Pepoli, contrario all'introduzione dell'imposta. Il F. - che nella corrispondenza con il Sella definì "demagogo" il Pepoli - replicò che l'imposta sulla macinazione dei cereali realizzava l'ideale di un tributo a larga base imponibile e ad aliquota tenue, tale da non frenare i consumi popolari ma da provocare al contrario una benefica spinta in su dei salari monetari (cfr. La tassa sul macino. Lettere al direttore dell'Opinione, settembre 1865, rist. in Opere complete, VIII, pp. 101-136). Nella relazione presentata al Parlamento, dopo un'ampia esposizione dei precedenti storici dell'imposta, chiarì i vantaggi del metodo del contatore meccanico applicato ai mulini rispetto a metodi di esazione alternativi, come quelli basati sull'appalto; e assicurò che l'imposta avrebbe osservato una sostanziale equità di pressione fra le varie classi di contribuenti.

L'imposta doveva essere varata dal nuovo ministro delle Finanze L. G. CambrayDigny il 7 luglio 1868. Tre anni dopo il F. tornò alla carica per difendere il macinato dalle accuse di essere una tassa iniqua (nel 1870 la sua riscossione aveva dato luogo a tumulti) e criticò le proposte di sostituire al "metodo del riscontro meccanico" metodi amministrativi e coattivi (La tassa sul macinato: deve ella abolirsi mantenersi o riformarsi?, Firenze 1871, ora in Opere complete, X, a cura di F. Caffè, pp. 711-837).

Nel 1876, quando la "rivoluzione parlamentare" aveva ormai scavato un fossato fra lui e la Destra, rivendicò la propria posizione a favore del macinato, accusando Sella di aver imposto ai mugnai "di consegnare ogni sera agli agenti della finanza la chiave" dei mulini (tornata dell'11 maggio 1876, ora in Opere complete, IX, p. 312).

Dal gennaio 1866 usciva, a Firenze capitale, la Nuova Antologia, diretta dall'economista Francesco Protonotari, a cui il F. collaborò per quasi vent'anni. In tal modo egli rafforzava i suoi rapporti con la cultura fiorentina, intrapresi fin dagli anni Quaranta con il gruppo di Vieusseux (Faucci, 1983). Con il suo moderato autonomismo, oltre che con il suo liberismo economico, il ceto politico toscano rappresentò per lui un'alternativa al centralismo della classe politica piemontese, come poi allo statalismo e "vincolismo" dei Lombardo-Veneti. Sulla rivista egli scrisse dense rassegne di finanza per i mesi da gennaio a luglio-agosto 1866, commentando i provvedimenti presi dal ministro delle Finanze A. Scialoja, e criticando la tendenza dello Scialoja a gravare la produzione anziché il consumo ("nulla vi sarebbe ... che possa gareggiare coi macinato; ma poiché potenti ragioni conducono a rigettarlo, si avrà almeno come modello, e si terrà per fermo che le due o tre tasse da poterglisi sostituire tanto meno riusciranno sensibili, quanto più implicheranno la diffusione di quello": Finanza. Rassegna del mese di marzo 1866, in Nuova Antologia, rist. in Opere complete, X, p. 183). Importanza a parte riveste l'ampio studio sul Corso forzato de' biglietti di banco in Italia (in Nuova Antologia, maggio e giugno 1866, ora in Opere complete, X, pp. 265-323), a commento del provvedimento preso il 1º maggio 1866 per fronteggiare le esigenze straordinarie della guerra d'indipendenza, ma che si sarebbe mantenuto per un quindicennio. Il F. si schiera contro i sostenitori della teoria quantitativa della moneta; posizioni esemplificate dall'economista francese J. Courcelle Seneuil. Per il F., invece, è la fiducia del pubblico, e non la quantità di circolante, che determina il valore della carta moneta, che è un bene come tutti gli altri, sottoposto alla legge del costo di riproduzione. Negando che l'aumento della quantità di circolante avrebbe di per sé generato inflazione, il F. negava altresì che il corso forzoso avrebbe potuto costituire una forma di protezione per le esportazioni, perché l'aggio che, secondo lui, si sarebbe creato si sarebbe ripercosso anche sul prezzo delle materie prime di importazione. Peraltro non disconosceva gli effetti distorsivi che l'operazione avrebbe prodotto sui prezzi e sulle aspettative degli operatori. Ma soprattutto criticava il metodo che si era seguito, attribuendo alla Banca nazionale il privilegio dell'inconvertibilità dei suoi biglietti, laddove, secondo lui, sarebbe bastato emettere "carta governativa" la quale "sarebbesi insinuata bel bello nella circolazione, mescolandosi al denaro esistente, e compiendo senz'urti il breve giro occorrente perché, dalle mani del governo, debitore di stipendi e di prezzi, tornasse a lui medesimo, creditore d'imposte" (art. cit., in Opere complete, X, p. 311). In questo modo, invece, si spacciava per "carta bancaria" quella che era "carta governativa" nei fatti, perché rappresentava un debito dello Stato nei confronti della Banca nazionale (cfr. Del corso forzato e della maniera d'abolirlo, in Nuova Antologia, marzo 1868, rist. in Opere complete, X, p. 453). Era la vecchia polemica contro la politica cavouriana di rafforzamento di un istituto di emissione che riviveva, allorché il F. poneva come modello di sistema bancario quello in cui vigesse piena libertà di emissione per qualsiasi istituto, con altrettanto piena convertibilità della moneta, come nella Scozia del XVIII sec. (La questione de' banchi in Italia, in Nuova Antologia, novembre 1873, rist. in Opere complete, X, spec. pp. 505 s.).Divenuto - ancorché non deputato - ministro delle Finanze del gabinetto Rattazzi, il 9 maggio 1867 presentò la sua esposizione finanziaria, in cui indicava nella vendita dei beni ecclesiastici la principale risorsa per colmare il disavanzo del bilancio dello Stato, ammontante a 500.000-000.

Il F. proponeva di affidare la vendita dei beni a una società privata, che avrebbe funto da esattrice per conto dello Stato di un'imposta straordinaria sui beni ecclesiastici di 600.000.000, di cui 430 da versarsi in quattro rate annuali. Quanto al corso forzoso, intendeva proclamarne la fine a decorrere dal 1ºgenn. 1868, rimborsando il debito verso la Banca nazionale mediante una parte dei proventi dell'imposta sui beni ecclesiastici. Altre misure: l'introduzione dei macinato a partire dal 1ºgenn. 1869; la concessione delle dogane e dei tabacchi a due regie cointeressate, ritenute più affidabili di un semplice appalto; la cessione ai Comuni e alle Province dei dazi di consumo, e il passaggio all'Erario delle sovrimposte dirette (cfr. Esposizione finanziaria del ministro per le Finanze, 9 maggio 1867, in Opere complete, IX, pp. 3-35).

Misure, come si vede, che non potevano sfuggire all'accusa di un certo semplicismo, anche se erano perfettamente coerenti alla sua concezione liberale. Egli in effetti si proponeva di introdurre uno stile amministrativo nuovo, in cui i rapporti fra pubblico e privato fossero disciplinati da poche norme chiare, con reciproco vantaggio. La sua aspirazione a un'amministrazione trasparente incontrò le critiche dell'influente quotidiano L'Opinione. Questo trovò inopportuna l'iniziativa del ministro di presentare il 3 giugno alla Camera i retroscena dei negoziati intervenuti "prima con il sig. Brasseur, rappresentante del sig. Langrand Dumonceau" (banchiere cattolico belga, già in trattative con il ministro Scialoja nel precedente gabinetto Ricasoli), "poscia colla Banca Nazionale e il Credito Mobiliare italiano, infine (e specialmente) coi signori Frémy, direttore del credito fondiario di Parigi e il barone di Rothschild" - che all'ultimo momento però si ritirarono per timore di essere coinvolti in un conflitto fra Stato e Chiesa - per arrivare a un'intesa con il gruppo anglo-franco-tedesco ErlangerSchroeder (cfr. R. Faucci, Nota introduttiva a Opere complete, VIII, pp. XLVII s.). Avuto sentore del malcontento della maggioranza di fronte alla procedura seguita, il 4 luglio il F. si dimetteva. Come è noto, l'alienazione dei beni ecclesiastici avvenne direttamente da parte del demanio (cfr. G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, V, Milano 1968, pp. 320 ss.). Invece l'altro progetto di costituire una regia dei tabacchi fu ripreso e condotto a compimento, nel 1868, da L. G. Cambray-Digny, attraverso una convenzione con la Società generale di credito mobiliare di D. Balduino, ma a condizioni che il F. stesso censurò, in quanto troppo lucrose per la compagnia (cfr. La regia cointeressata nella privativa de' tabacchi, in L'Opinione, 1868, nn. 193 e 195, rist. in Opere complete, VIII, pp. 137-152). Tale regime durò fino al 1884. Un altro progetto ferrariano svolto e realizzato, nel 1869, dal Cambray-Digny fu quello della riforma della contabilità di Stato, nel quale figurava il ragioniere generale.

Come semplice deputato - era stato eletto nel 1867 nel collegio di Caccamo - il F. manifestò da allora una progressiva insofferenza verso la Destra, di cui non condivideva lo statalismo economico, impersOnato, seppure con diversi accenti, sia da Minghetti sia da Sella. Con motivazioni caratteristiche del suo liberismo estremo, si dichiarò contrario alla legge che disciplinava il marchio dei metalli preziosi (tornata del 14 genn. 1868, ora in Opere complete, IX, pp. 65-94). Presentò una relazione contraria al progetto Cambray-Digny di affidare alla Banca nazionale il servizio di tesoreria dello Stato (tornata del 15 giugno 1869, ora ibid., IX, pp. 447-501), contribuendo a bocciare il provvedimento, che venne adottato solo nel 1895. Si oppose al progetto Minghetti di abolizione del corso forzoso attraverso una riforma degli istituti di emissione, in quanto - secondo il F. - si sarebbe creata "una oligarchia di banchi..., una consorteria bancaria" avente il monopolio dell'emissione, con conseguente limitazione per la libertà di credito, che il F. vedeva strettamente legata alla prinia (cfr. Intervento sul progetto di legge inteso a regolare la circolazione cartacea durante il corso forzoso, tornata del 13 febbr. 1874, ibid., pp. 273-296). Il progetto Minghetti divenne legge il 30 apr. 1874. Infine attaccò duramente il Sella a proposito del suo progetto di istituzione delle Casse di risparmio postali, concludendo il suo intervento così: "Tostoché avrete piantate le vostre casse postali, non vi lusingate di vedere mai più che un uomo, un Raffaele Lambruschini, un prete semi-ignoto, sorga a scrivere su due fogli di carta le parole: Chi s'aiuta, Dio l'aiuta, e con ciò solo, come per incantesimo, veda il giorno appresso costituita una Cassa di risparmio, accettata con entusiasmo, e messa a profitto da tutta una popolazione di contadini" (tornata del 20 apr. 1875, ora ibid., p. 307).

II biennio 1874-1876 rappresenta l'ultima fase di grande fervore giornalistico e politico del Ferrara. Egli si è ormai investito del ruolo di sacerdote della verità economica e insieme di una sorta di religione della libertà ("libertà in tutto e per tutti" era del resto il motto dell'Economista di Torino). Rispetto agli anni Cinquanta gli assalti alla cittadella della scienza non sono più mossi soltanto dai socialisti "della piazza" - avversari tradizionali, ai quali il F. riconosceva il merito della lealtà e in certo senso rendeva l'onore delle armi - ma provengono soprattutto dai "vincolisti" o socialisti di Stato, cioè da quei transfughi del liberalismo che per debolezza di carattere o incertezza di programmi minano la società libera e spianano di fatto il terreno ai primi.

Già sulla Nuova Antologia egli presentò le opere, apparentemente innocue, di economisti come Vito Cusumano, Emilio Nazzani, Giuseppe Toniolo e Fedele Lampertico come un segno di resa della scienza economica a un empirismo e pragmatismo senza principi, e insieme a un fumoso storicismo. Si trattava, giudicava il F., di una moda proveniente dalla Germania: un hegelismo mal digerito, che confondeva "il governo, cioè il gruppo di uomini che comandano", con lo Stato, dipinto come un "ente reale" da "deificare" (Ilgermanismo economico in Italia, in Nuova Antologia, agosto 1874, rist. in Opere complete, X, p. 588). Né d'altra parte quella del socialismo di Stato (o della cattedra) era l'unica insidia proveniente dalla nuova Germania. Il F. additava all'attenzione il fenomeno Marx: "Non sarà con quattro frasi declamatorie, che si giungerà a denudare il sofisma di Marx. Proudhon, di fronte a lui, è un pigmeo. Chi legga il Capitale di Marx si guardi bene sin dalle prime parole: se non ha la lira di Orfeo, si assopirà fatalmente sotto le melodie di questa rude Sirena, e romperà sugli scogli" (ibid., p. 557).

II fitto carteggio di quei mesi con il Protonotari testimonia della speranza del F. che il periodico di questo potesse diventare l'organo ufficiale del liberismo. Speranza destinata a cadere, perché la Nuova Antologia ospitò allo stesso modo degli scritti del F. anche quelli di suoi avversari scientifici e politici, come Luigi Luzzatti e Alessandro Rossi (contro quest'ultimo, industriale protezionista, il F. scrisse L'americanismo economico in Italia, in Nuova Antologia, novembre 1878-gennaio 1879, rist. in Opere complete, X, pp. 592-685). Alla fine dell'estate il F. promosse la fondazione della Società Adamo Smith, che ebbe aderenti soprattutto in Toscana e in Sicilia. Dal canto loro gli avversari del F. fondarono l'Associazione per il progresso degli studi economici - forse ispirata al Verein fuer Sozialpolitik tedesco -, la cui circolare di lancio, diramata da Padova da F. Lampertico l'11 sett. 1874, raccolse importanti adesioni specie nell'Italia settentrionale (Luzzatti, Messedaglia, Minghetti, Sella); talché apparve ancor più giustificato l'appellativo di "lombardo-veneti" con cui il F. aveva definito i suoi avversari (cfr. Ilgermanismo, p. 568).

Per avere un organo di stampa a disposizione in questa sua ultima battaglia, si servì di un nuovo settimanale fiorentino, L'Economista, fondato nel maggio 1874 ma di cui il F. divenne magna pars solo a partire dal settembre. Qui l'antico polemista dette libero sfogo al suo estro. Ne fece più volte le spese Luigi Luzzatti, dal F. cordialmente detestato per la sua pretesa di spacciarsi per economista (cfr. Lettera al sig. Eugenio Forti, in L'Economista, I, 22 sett. 1874, rist. in Opere complete, VIII, pp. 195-201; La Società di economia politica e il negoziatore italiano in Parigi, in L'Economista, II, 26 dic. 1875, rist. in Opere complete, VIII, pp. 337-343). Ma anche Lampertico fu preso di mira, per il suo apprezzamento, secondo il F. eccessivo, degli economisti statalisti italiani del sec. XVIII (cfr. L'italianità della scienza economica, in L'Economista, II, 31 ottobre e 14 nov. 1875, rist. in Opere complete, VIII, pp. 295-319: ma il Lampertico in realtà si era limitato a postulare una "italianità nella scienza economica"). Una decina di anni dopo, con una vis polemica ormai affievolita, se la prese lungamente con il Messedaglia, per aver questi sostenuto una teoria statalista della moneta (Introduzione al volume di Tullio Martello: "La moneta e gli errori che corrona intorno ad essa", Firenze 1883, in Opere complete, X, pp. 843-947). Corrispondentemente il F. gettò sarcasmo sulle proposte di politica sociale dei "vincolisti", in particolare sui primi tentativi di introdurre in Italia la legislazione sul lavoro minorile (cfr. Ilcongresso di Milano, in L'Economista, II, 7 febbraio-7 marzo 1875, rist. in Opere complete, VIII, pp. 255-294). Posizioni, queste del F., che suonano retrive e difficilmente compatibili con un sincero liberalismo.

Partecipò attivamente alla "rivoluzione parlamentare" del 18 marzo 1876 che consentì, tramite il distacco dalla maggioranza dei moderati toscani, alla Sinistra di assumere il potere. Ma i suoi entusiasmi per questa svolta furono di breve durata. Nel 1880 non fu confermato dai suoi elettori di Palermo, ai quali si era rivolto l'8 maggio con un appello in cui tratteggiava la sua delusione per la politica della Sinistra e indicava nel trasformismo il principale male della vita politica (cfr. Agli elettori del I collegio di Palermo, in Nuova Gazzetta di Palermo, n. 128, rist. in Opere complete, VIII, pp. 345-351). Il 12 giugno 1881 fu nominato senatore, ma non prese più la parola in Parlamento.

Dal 1868 era diventato direttore della scuola superiore di commercio di Venezia, la prima del genere in Italia. A questa istituzione dedicò le restanti energie, ritornando per breve tempo a insegnare (187-273). Ma ormai si sentiva un sopravvissuto. Non mostrò interesse per la rivoluzione nella scienza economica introdotta dall'avvento del marginalismo, come non rendendosi conto che il suo indirizzo ne era stato anticipatore. In questo atteggiamento giocò la prevenzione verso l'uso della matematica nell'economia politica, che il F. disapprovava - forse non presentendo che il rigore del suo ragionamento ne avrebbe tratto vantaggio - perché l'economia aveva a oggetto l'uomo e non la natura. Il suo misoneismo giunse al punto che, quando il giovane Maffeo Pantaleoni venne a Venezia per insegnare, il F. lo ammoni a dar prova "delle sue doti, quando si trattasse, non più di speciali dispute pratiche, bensì di una esposizione dottrinale completa di tutto il corpo della materia da insegnarsi" (lettera del 10 febbr. 1885, in R. Faucci, Introduzione a F. F. e il suo tempo. Catalogo documentario, 1988, p. 17).Questo, nonostante che il Pantaleoni avesse già pubblicato un'opera impegnativa come la Teoria della traslazione dei tributi.

Qualche soddisfazione dovette provenirgli, negli ultimi anni, dalla pubblicazione dei suoi scritti giovanili di statistica per impulso di Luigi Bodio, direttore generale della Statistica del Regno d'Italia.

Scrivendo a quest'ultimo, giustificava il proprio "isolamento dall'umano consorzio, col deplorabile spettacolo del mondo che delira e col vivo desiderio di uscirne al più presto"; e poiché il Bodio gli aveva chiesto il consenso per la ristampa di quegli scritti, gli rispondeva che del consenso non c'era bisogno, perché la proprietà letteraria non aveva diritto di esistere, stante la non separabilità del libro e delle idee in esso contenute. Idea e materia sono un tutto indisgiungibile (lettera del 16 luglio 1890, rist. in Opere complete, I, p. XXXI). Un'ultima lezione di economia "ferrariana".Il F. morì quasi novantenne a Venezia il 22 genn. 1900. Nel 1906 la salma fu traslata, a spese dello Stato, nella chiesa di S. Domenico di Palermo e tumulata accanto a quelle di Emerico Amari, Ruggero Settimo e Francesco Crispi.

Il F. presenta molti aspetti di interesse per lo storico del Risorgimento e dell'Italia liberale oltre che per lo storico del pensiero economico. Sotto l'aspetto politico, è indubbiamente uno dei grandi sconfitti del Risorgimento. Non solo il suo federalismo non trovò spazio - è da notare, del resto, che egli non si collegò con Cattaneo, che non compare mai nei suoi scritti -, ma prevalse appunto quell'accentramento "piemontese" da lui sempre paventato. Anche la sua concezione rigorosa del liberalismo politico, basata su una dialettica fra i partiti, fu umiliata dalla pratica del trasformismo, da lui denunciata fin dai tempi di Cavour. Sotto l'aspetto del pensiero economico, il F. è un autore fortemente originale, almeno nel panorama italiano dell'Ottocento, dominato da indirizzi statalistici e/o storicistici (Gioia, Romagnosi, Cattaneo nella prima metà del secolo; Messedaglia, Lampertico, Cossa nella seconda). Egli è da collocarsi in un'epoca di passaggio dal classicismo, ormai in fase di esaurimento, al marginalismo, di cui anticipò taluni motivi, come il rilievo dato all'individuo consumatore, il ruolo dell'utilità e della domanda nel determinare il valore, il carattere "arinonioso" della distribuzione del reddito. Il mancato uso dell'analisi matematica gli impedì di formulare il principio dell'utilità marginale. D'altra parte, singoli aspetti del suo pensiero, come la teoria delle crisi economiche e della funzione del credito nell'economia, presentano motivi eterodossi e tuttora di sorprendente freschezza. Per stile letterario, il F. fu senza dubbio fra i migliori prosatori politici del Risorgimento, grazie a un'eloquenza che non scade mai in retorica, alla brillante vena polemica e sarcastica, alla ricchezza di esemplificazione che non disdegna frequenti riferimenti letterari. Come critico del sistema di potere affermatosi in Italia, egli anticipò le posizioni del liberalismo elitario e antidemocratico della generazione successiva, i cui capofila furono Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto.

Fonti e Bibl.: Principali fondi archivistici: Palermo, Società siciliana di storia patria; Roma, Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari "L. Einaudi"; Biella, Archivio Quintino Sella; Cagliari, Biblioteca universitaria; Cosenza, Biblioteca civica; Firenze, Biblioteca nazionale; Roma, Archivio centrale dello Stato; Palermo, Biblioteca comunale; Trapani, Biblioteca Fardelliana; Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti; Filadelfia, Historical Society of Pennsylvania. Cfr. inoltre Carteggi di C. Cavour, I (gennaio-luglio 1860), Bologna 1961, pp. 296-305; Il carteggio del m.se di Roccaforte, a cura di N. Giordano, Palermo 1973, ad Indicem; F. F. a Torino. Carteggio con G. Todde, a cura di L. Neppi Modona, Milano 1979;R. Faucci, L'economista F. F. patriota e organizzatore di cultura: alcune lettere inedite, in Studi in onore di G. Barbieri, II, Pisa 1983, pp. 860-866;Id., F.F. a Pisa (1859-1860): da un carteggio inedito, in Quad. di st. dell'economia pol., IV (1986), 1-2, pp. 309-25. La principale bibliografia ferrariana è M. M. Augello-G. Pavanelli, Primo inventario della letteratura su F. F. (1848-1988), in App. a F. F. e il suo tempo. Catalogo documentario, a c. di P. F. Asso-A. Calcagni Abrami, Palermo 1988, pp. 103-132. Profili biografici, necrologi e altri scritti in occasione della morte: S. Cognetti de Martiis, F. F. all'università di Torino 1849-1859, in Giorn. degli econ., VII (1893), 12, pp. 521-550;A. Bertolini, La vita e il pensiero di F. F., in Giorn. degli econ., VI (1895), 10, pp. 1-44 (con append. bibliogr.); G. Todde, La scuola di economia politica nella università di Torino, corsi 1850-53. Ricordi di uno studente, ibid., XII (1896), I pp. 1-31;G. Montemartini, In memoria di F. F., in Il Monitore dei tribunali, s. 2, III, 24marzo 1900, pp. 221-226;R. Dalla Volta, L'opera scientifica di F. F., in Nuova Antologia, 1ºapr. 1900, pp. 452-465;E. Sella, La posizione di F. F. fra gli economisti, in Giorn. degli econ., XX (1900), 2, pp. 111-123; T. Martello, Commemorazione di F. F., ibid., XXII (1901), 4, pp. 323-354;A. Cabiati, La dottrina del valore in F. F., in La Riforma sociale, XI (1901), pp. 645-660; V. Tangorra, La dottrina economica di F. F. in relazione alla scienza contemporanea, in Riv. italiana di sociologia, I (1901), pp. 25-93.

Altri studi critici ed estensioni di temi ferrariani: T. Martello, L'abolizione del corso forzoso: Magliani e F., Venezia 1881; G. Pinna Ferrà, Della libertà secondo il F., in Giorn. degli econ., VIII (1894), 1, pp. 24-39; T. Fornari, Giudizi di F. F. intorno ad alcuni economisti italiani, ibid., 3, pp. 261-280; 4, pp. 379-400; D. Berardi, La dottrina politico-economica di F. F., ibid., IX (1894), 9, pp. 225-265; 10, pp. 331-375; Id., Utilità limite e costo di riproduzione, ibid., XIX (1899), 10, pp. 307-325; II, pp. 427-451; 12, pp. 538-561; XXII (1901), 5, pp. 225-256; 6, pp. 545-574; Id., Per la difesa di un testo: la teoria del costo di riproduzione e la critica, ibid., XXXIII (1906), 5, pp. 318-344; A. Loria, Appunti critici alla teoria del costo di riproduzione, ibid., 3, pp. 218-228; G. Scherma, Ilpensiero economico di F. F., Palermo 1906; A. De' Stefani, Gliscritti monetari di F. F. e Angelo Messedaglia, Verona 1908; G. Prato, Pagine disperse di F. F., in Atti della R. Accad. delle scienze di Torino, LVI (1921), pp. 97- 112 (comprendente il testo di una lezione del F.); Id., F. F. a Torino (1849-59), in Mem. della R. Accad. delle scienze di Torino, s. 2, LXVI (1923), 2, pp. 1-43; Id., Ilregime delle banche di emissione in una polemica di settant'anni fa. F. F. contro Camillo Cavour, in Rivista bancaria, IV (1923), 6, pp. 391-399; C. Battistella, F. F. nella scienza e nella politica economica, Roma 1924; G. Del Vecchio, Ritorni alla teoria ferrariana del credito [1930], in Id., Ricerche sopra la teoria generale della moneta, Padova 1967, pp. 1071 18; C. Arena, La dinamica della popolazione secondo F. F., in Giorn. degli econ. e Riv. di statistica, XLVIII (1933), 5, pp. 293-333; 6, pp. 430-458; L. Einaudi, F. F. ritorna, in La Riforma sociale, XLII (1935), pp. 214-226; Id., Viaggio fra i miei libri, ibid., pp. 227-243; Id., Rileggendo F. A proposito di critiche recenti alla proprietà letteraria ed industriale, in Rivista di storia econ., V (1940), 12, pp. 217-256; R. Fubini, F. F. e David Ricardo, in Giorn. degli econ. e Riv. di statistica, L (1935), 2, pp. 85-101; Id., F. e Henry Dunning MacLeod, ibid., 6, pp. 469-487; Id., F., Marx e i fisiocrati, ibid., II, pp. 958-971; Id., Rileggendo F. F. e Proudhon, ibid., LII (1937), 2, pp. 1-17; G. H. Bousquet-J. Crisafulli, Introduction. La vie et l'oeuvre de F. F., inF. Ferrara, Oeuvres économiques choisies, Paris 1938, pp. 9-49; D. Jarach, Considerazioni sulla teoria generale della finanza di F. F., in Giorn. degli econ. e Riv. di stat., LIII (1938), 7, pp. 536-552; O. Weinberger, The importance of F. F. in the history of economic thought, in Journal of political economy, XLVIII (1940), pp. 91-104; D. Novacco, G. Montanelli e F. F. (Considerazioni in margine ad una lettera e ad un incontro), in Rassegna storica toscana, III (1957), pp. 51-56; G. Frisella Vella, F. 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