FERRUCCI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FERRUCCI, Francesco

Irene Cotta Stumpo

Nacque il 14 ag. 1489, come risulta dalle Ricordanze del padre, a Firenze nel "popolo" di S. Frediano, da Niccolò di Antonio e da Piera Guiducci.

La famiglia ebbe quattro gonfalonieri di Giustizia e venti priori tra il 1299 e il 1515. Il nonno Antonio era stato sostenitore dei Medici. Il padre Niccolò fu invece antimediceo.

All'abbondanza di notizie sul F. per gli ultimi due anni della sua vita fa riscontro per gli anni precedenti una conoscenza estremamente lacunosa, e comunque non documentata con precisione.

Il primo dato certo di cui disponiamo è che il F. fu estratto nel 1519 come podestà di Larciano; sappiamo però che non poté risiedervi essendo il suo nome inserito quell'anno nei libri dei Divieti (Arch. di Stato di Firenze, Tratte, 175, c. 20v). Tenne invece la podesteria di Campi dal 30 maggio al 30 nov. 1523 e quella di Radda dal 14 febbr. 1527 (1526, stile fiorentino), al 14 agosto dello stesso anno. Nel 1528 troviamo il F. a Napoli come pagatore delle Bande nere che la Repubblica aveva mandato a combattere a fianco dei Francesi di O. de Foix, visconte di Lautrec. Preso prigioniero dopo la sconfitta del Lautrec, il F. fu liberato dietro pagamento di un riscatto.

Tornato comunque a Firenze, nel giugno 1529 il F. ebbe l'incarico di recarsi a Pesaro e di qui negli Abruzzi con la somma di 4000 fiorini necessaria per assoldare, insieme con Venezia e con la Francia, 1500 lanzichenecchi per ritentare l'impresa del Regno di Napoli. Ma la conclusione della pace di Cambrai mise fine a questo impegno della Repubblica e di conseguenza alla missione del Ferrucci.

Nei mesi seguenti il commissario in Valdichiana T. Soderini, avendo bisogno di un uomo di fiducia, si servì in più occasioni del Ferrucci. Rimase poi a collaborare col successore del Soderini, Z. Bartolini, e in particolare servì come collegamento con i Dieci di balia a Firenze e con M. Baglioni a Perugia, per portare lettere, istruzioni, denari.

Nel 1529, iniziata la campagna degli Imperiali e dei Pontifici contro la Repubblica, a M. Baglioni, governatore generale delle forze fiorentine, assediato in Perugia, i Dieci di balia inviarono a più riprese il F. con lettere di istruzioni e il 31 agosto con 900 ducati per poter arruolare nuovi soldati. Nonostante ciò il Baglioni reputò impossibile resistere all'assedio dell'esercito imperiale e il 10 settembre, con l'autorizzazione dei Dieci, concluse un accordo con il principe d'Orange e abbandonò la città dirigendosi su Arezzo e subito dopo su Firenze. Anche il F. rientrò a Firenze, dove restò momentaneamente privo di qualsiasi incarico. Fu D. Giannotti, allora segretario dei Dieci, che lo segnalò per un compito questa volta di maggior rilievo, come commissario a Prato a fianco di L. Soderini, il cui comportamento suscitava molte lamentele. L'incarico fu però di breve durata (dal 4 al 12 ottobre) perché il Soderini non apprezzò di dover condividere la responsabilità del comando e il F. per parte sua si trovò in totale disaccordo col collega, in particolare nel definire i criteri di disciplina dei soldati. I Dieci richiamarono quindi il F., ma avendo avuto modo di sperimentarne le capacità lo mandarono come commissario a Empoli, con pieni poteri in campo militare.

Il F. si rese subito conto dell'importanza della città e con grande energia si diede a rafforzarne le difese con bastioni e terrapieni. Dedicò poi particolare impegno alle truppe di cui curava l'addestramento, la disciplina e l'armamento. Per questo nelle sue lettere ai Dieci insisteva sempre sulle richieste di denari, per le paghe dei soldati e degli informatori, e sull'invio di munizioni e di altri armati.

Pur con gli scarsi mezzi a sua disposizione il F. intraprese una serie di scorrerie nel territorio circostante per disturbare le forze nemiche e, quando possibile, per riconquistare quei luoghi che erano passati agli Imperiali. Primo ad essere ripreso fu Castelfiorentino, il 25 ott. 1529, poi la spedizione più importante il 10 novembre fu contro San Miniato al Tedesco. Si trattò di una spedizione in piena regola con 400 fanti e tutti i cavalli disponibili; il F. stesso assunse il comando, guidò l'assalto e fu tra i primi a scalare le mura. Dopo un'accanita difesa gli Imperiali si arresero e la città restò presidiata da una guarnigione comandata da Goro da Montebenichi.

La volontà del F. di non dare tregua al nemico lo portava a presidiare incessantemente la valle dell'Arno ma anche a organizzare spedizioni più lontano, come a Certaldo. E intanto continuava a ragguagliare i Dieci sul proprio operato e a chiedere quei rinforzi che gli avrebbero consentito di riconquistare il controllo sul Valdarno, allentando di conseguenza la pressione nemica su Firenze. Ma le sue insistenti richieste restavano per lo più inascoltate: i soldi arrivavano con tale ritardo che più volte dovette contrarre debiti per pagare i soldati. Anche il suo piccolo esercito fu più volte assottigliato per provvedere di uomini Pisa e Fucecchio. Così dopo un ultimo successo riportato ai danni di Pirro Colonna, nei pressi di Montopoli, per il resto dell'inverno il F. dovette sospendere le azioni militari. Le conseguenze negative di questa politica non tardarono a manifestarsi: gli Imperiali intensificarono i loro sforzi e, forti di una netta superiorità numerica, ripresero gradualmente le posizioni perdute. San Miniato si arrese ai primi di febbraio 1530, seguita da Pomarance e da Montecatini.

Contemporaneamente a questa avanzata nemica un nuovo duro colpo alla Repubblica fiorentina veniva da Volterra, dove la popolazione si accordava col commissario del papa, T. Guiducci, e abbracciava la causa medicea. Solo la fortezza in cui si era chiusa la guarnigione guidata dal commissario B. Tedaldi restava fedele a Firenze, da cui aspettava soccorsi. La perdita di Volterra, dopo Pisa la città più importante rimasta ai Fiorentini, era particolarmente grave e di conseguenza la Signoria decise di fare ogni sforzo per riprenderla. Dell'impresa fu dato il comando al F., cui fu conferito il titolo di commissario generale di campagna delle genti dei Fiorentini.

Per consentire al F. di compiere la spedizione senza lasciare Empoli sguarnita di uomini e priva di comando, da Firenze gli furono inviate cinque compagnie insieme col commissario A. Giugni che lo avrebbe sostituito in città. Il 26 aprile il F. lasciò Empoli con 2000 fanti e 150 cavalli; giunto a sera a Volterra, riuscì a entrare nella fortezza e subito, senza dare tempo al commissario pontificio di organizzare la difesa, fece prendere d'assalto l'abitato. Si combatté accanitamente fino a notte inoltrata; il mattino seguente prevalse tra la popolazione il parere di venire a un accordo per evitare una totale distruzione. Il F. pretese e ottenne una resa a discrezione e d'accordo col commissario Tedaldi e dietro precise richieste dei Dieci di balia impose ai Volterrani severe misure fiscali.

La reazione degli Imperiali alla conquista di Volterra non si fece attendere. Il capitano F. Maramaldo che già da tre mesi era in Toscana con le sue soldatesche, predando e saccheggiando tra Pienza, San Quirico e Buonconvento, si portò sotto la città e l'8 maggio forzò la cinta esterna di mura, molto ampia, e pose il campo nel borgo di San Giusto, dalla parte opposta rispetto alla fortezza. Ma constatando che, contrariamente alle sue aspettative, non era sufficiente la sua sola presenza per far ribellare i Volterrani, si limitò a qualche scaramuccia senza osare un attacco deciso. Questa situazione di stallo, provvidenziale per il F. che ne approfittò per migliorare e potenziare le difese della città, si protrasse fino al 12 giugno quando D. Sarmiento e Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, arrivarono da Empoli con un esercito forte di 5000 uomini tra Spagnoli e Italiani. Due giorni dopo iniziarono un intenso bombardamento che aprì nelle mura una breccia tale da consentire alle truppe cesaree di entrare in città. Sembra che una disputa per la precedenza tra il marchese del Vasto e il Maramaldo ritardasse l'assalto e permettesse ai difensori di richiudere la breccia e di riorganizzarsi. Infatti, per quanto violento, l'attacco imperiale fu respinto e il bilancio delle perdite fu per gli assalitori di 300 0 400 uomini, mentre tra i Fiorentini caddero solo una ventina. Tra i feriti fu anche il F., colpito mentre guidava i suoi uomini.

Nei giorni seguenti gli Imperiali ritentarono, ma ancora senza risultato, nonostante il consistente impiego di artiglieria e 400 morti; il 29 giugno, spinti dalla mancanza di viveri e ormai anche di munizioni e dalla preoccupante indisciplina dei soldati, abbandonarono il campo, dopo aver riportato la più bruciante sconfitta di tutta la guerra.

Questo brillante successo non mutava pero la drammatica situazione della Repubblica che aveva perso tutti i suoi possedimenti (ultimo e importantissimo Empoli) tranne Volterra e Pisa, dove erano radunati gli uomini comandati da G. Orsini.La Signoria concepì a questo punto un piano audace: far convergere sulla città tutte le forze disponibili e spezzare il blocco degli assedianti, e decise di affidarne l'esecuzione al Ferrucci, nominato commissario generale per l'esercito esterno, con autorità assoluta per tutto quanto riguardava la guerra Il F., lasciando a Volterra una guarnigione sufficiente a difenderla, doveva raggiungere a Pisa le forze di G. Orsini e messi così insieme circa 4000 uomini muovere su Firenze. Al suo arrivo, dalla città si sarebbe fatta una sortita generale, prendendo tra due fuochi gli Imperiali.

Nella notte del 15 luglio il F. si mise in viaggio per Pisa lungo la strada di Rosignano e Livorno; il Maramaldo, che non era in grado di fermarlo, si limitò a sorvegliare le mosse inviando pattuglie in tutte le località che il F. avrebbe attraversato nella sua marcia su Firenze. Il 18 luglio il F. entrava in Pisa, dove si dava febbrilmente inizio ai preparativi per la spedizione, perché dalla rapidità di questa poteva dipendere il successo. Ma la speranza di far partire subito il F. non poté realizzarsi, perché questi, ancora sofferente al ginocchio per una brutta caduta da cavallo avvenuta a Volterra, fu colto da una febbre persistente di cui i medici pisani non riuscirono a venire a capo se non dopo parecchi giorni.

Effettivamente la sosta forzata del F. a Pisa ebbe gravi ripercussioni sull'esito della spedizione, compromettendone la già problematica riuscita. Infatti il principe d'Orange, informato dei piani del F. e della Signoria da numerose lettere intercettate, aveva avuto modo di organizzare la controffensiva che consisteva nel sorprenderlo a mezza strada con il suo esercito molto superiore numericamente e con in più la sicurezza alle spalle garantitagli dagli accordi presi nel frattempo col Baglioni.

Finalmente il 31 luglio il F., guarito, fu in grado di partire alla testa di 3000 fanti per la maggior parte armati d'archibugio e di 300 cavalli leggeri. La mattina del 2 agosto proseguì per Calamecca, come informa l'ultima lettera da lui inviata ai Dieci. Il 3 agosto arrivò a Lari e da qui deviò verso il villaggio fortificato di San Marcello, aderente alla fazione nemica dei Panciatichi, che assalì e prese senza eccessiva difficoltà. Dopo una sosta per rifocillarsi proseguì verso Gavinana. Il Maramaldo, che aveva seguito a distanza il F. per tutto il cammino di montagna, riuscì a raggiungerlo e a portarsi sul suo fianco sinistro, mentre A. Vitelli con le sue truppe si teneva sulla destra e la fazione dei Panciatichi, con circa 1000 uomini, era alle spalle. Il principe d'Orange, che si era mosso da Firenze il 1º agosto con circa 4500 uomini, era giunto nel frattempo sulle alture che dominano Gavinana. Il piano del F. basato sulla sorpresa era già fallito: in effetti gli si stava chiudendo intorno la trappola preparata dalle preponderanti forze nemiche.

Lo scontro avvenne il 3 ag. 1530 a Gavinana (San Marcello Pistoiese) e nei boschi circostanti, dove si combatté aspramente e con alterne vicende. In una prima fase le forze del F. riportarono un netto successo sulla cavalleria dell'Orange che, dopo la morte del principe, che aveva combattuto in prima fila, si sbandò e si diede alla fuga. Nel paese invece lo scontro fu più duro e di esito più incerto: a parecchie riprese i fanti del F. e quelli del Maramaldo, combattendo con le picche, con le spade, con gli archibugi, perfino con i sassi in un crudele corpo a corpo, si impadronirono dell'abitato, respingendo fuori delle mura l'avversario.

Il tempo però era dalla parte degli Imperiali, che nonostante le forti perdite potevano contare su truppe non ancora logorate dal combattimento. Invece l'unico soccorso che poteva venire al F. era la retroguardia dell'Orsini, rimasta però a lungo bloccata dall'attacco del Vitelli e giunta a Gavinana quando ormai le sorti della battaglia erano decise. Dopo ore di combattimento le truppe del F. erano allo stremo: moltissimi i morti e i feriti, molti i dispersi, molti infine coloro che si arresero e furono fatti prigionieri. Il F. continuò a combattere fino all'ultimo senza volersi arrendere; infine, fatto prigioniero e condotto in presenza del Maramaldo, fu da questo ferito e poi abbandonato ai soldati perché lo uccidessero.

Il comportamento spietato del Maramaldo fu del tutto inconsueto negli usi militari del tempo. Forse nella sua ostilità si potrebbe leggere quella dell'uomo d'armi, del condottiero di professione, contro il semplice mercante e cittadino che nella guerra vedeva solo l'ideale difesa della patria. E così in effetti l'intesero molti contemporanei, tra cui D. Giannotti, il quale nel suo elogio del F. ("ha mostrato più perizia nell'arte della guerra che qualunque altro capitano de' tempi nostri") vide in lui la dimostrazione che "ogni cittadino che abbia nelle altre cose prudenza si può intendere della guerra ed amministrarla molto meglio e con maggior frutto pubblico che qualunque altro capitano mercenario" (in Opere...,a cura di F. Polidori, Firenze 1850, I, p. 303).

Fonti e Bibl.: Presso l'Archivio di Stato di Firenze si conserva un'ampia documentazione: le Ricordanze del padre Niccolò in Archivio Galletti, 39; in Tratte, 988 sono documentati i primi incarichi pubblici; in Otto di pratica. Responsive, 42 e Dieci di balia. Responsive, 122 alcune lettere in cui il F. rende conto della sua attività come podestà. Per la missione in Abruzzo l'istruzione è in Dieci di balia. Legazioni e commissarie. Istruz. e lettere a oratori, 47, cc. 9 s. Per l'azione di collegamento del F. tra il Baglioni e il commissario in Valdichiana si hanno notizie dalle lettere ai Dieci del Soderini e poi del Bartolini e del Baglioni: cfr. Ibid., 48, passim. La patente per la missione a Perugia del 31 ag. 1529 è in Dieci di balia. Missive, 108, c. 111v. Le patenti per l'incarico prima a Prato (4 ott. 1529) e poi a Empoli (12 ottobre) ibid., cc. 122, 124v. Da questo momento la documentazione aumenta considerevolmente perché le lettere del F. ai Dieci sono molto frequenti: cfr. Dieci di balia. Responsive, 146-149, 151, passim. Un altro gruppo di lettere è indirizzato a C. Tosinghi, commissario a Pisa, in Strozziane, s. 1, 65 e 66, passim. Per le lettere da Volterra cfr. Otto di pratica. Responsive, 53, passim; in Signori. Dieci Otto. Legazioni e commissarie. Responsive, 27, c. 288rv le copie di due lettere del F. da Pisa del 20 e 22 luglio (tra le ultime quindi inviate) non pubblicate in F. F. e la guerra di Firenze del 1529-1530. Raccolta di scritti e documenti rari, Firenze 1889. In Balie, 53, c. 241bis v, in una nota di spese sostenute dai Dieci durante l'assedio, la provvisione del F. dal 5 ott. 1529 al 3 ag. 1530. La bibliografia sul F., della quale vanno comunque ricordate le biografie cinquecentesche di D. Giannotti, Sulla vita e sulle azioni di F. F., Pisa 1818 e F. Sassetti, Vita di F. F., con centoventi lettere del F. al magistrato dei Dieci, ed altre, a cura di C. Monzani, in Arch. stor. ital., s. 1, IV(1853), 2, pp. 422-683, e che comprende anche studi sull'assedio di Firenze e sulla fine della Repubblica fiorentina, è molto vasta. Storici, cronisti, anche semplici contemporanei testimoni di tali vicende ne lasciarono memoria anche in poesia: cfr. ad esempio M. Roseo da Fabriano, Lo assedio di Firenze, Perugia, 1530. Una ripresa degli studi, accompagnata per lo più dalla pubblicazione di documenti inediti, si ebbe nell'Ottocento, con un'accentuata finalità celebrativa: si rimanda al cit. F. F. e la guerra di Firenze... per la bibliografia fino al 1889. Per quella successiva cfr. F. Ferrucci, Le lettere, a cura di A. Valori, Roma 1938; Brevi cenni sulla vita di F. F., a cura di G. Romagnoli, Firenze 1897; C. Roth, The last Florentine Republic, London 1924, passim; A. Valori, La difesa della Repubblica fiorentina, Firenze 1929, passim; E. Mazzoni, F. F. nel racconto dei contemporanei, Firenze 1930; C. Masi, Empoli nella gesta fiorentina del 1529 e del 1530, in Miscell. stor. della Valdelsa,XXXVIII(1930), pp. 119-154, e ibid., pp. 155-172: G. Pilastri, Le spoliazioniferrucciane in Volterra; P. Pieri, Rassegna ferrucciana, in Riv. stor. ital., XLVIII (1931), pp. 208-220; Id., Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, pp. 585-593.

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