FOSCARI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FOSCARI, Francesco

Giuseppe Gullino

Nacque a Venezia il 19 giugno 1373, primogenito di Nicolò di Giovanni e di Caterina Michiel, figlia della seconda moglie del nonno Giovanni. Nonostante il padre avesse diversi fratelli, la famiglia non fu (né mai sarebbe stata) troppo numerosa; era antica bensì e dotata a sufficienza: sin dal 1331, infatti, aveva ottenuto dal re di Boemia e Polonia il titolo comitale, con l'investitura del feudo di Noventa e Zelarino. Tuttavia fu il padre Nicolò a consolidare le fortune domestiche attraverso l'esercizio della mercatura.

Diversamente dal padre il F. non risulta essersi mai dedicato all'attività mercantile, neppur da giovane, preferendo disporre dei beni familiari per conseguire i fini che gli dettava una smisurata ambizione politica, che fu poi l'elemento qualificante, lo scopo stesso della sua esistenza, e che pertanto costituisce l'unico vero metro per seguirne le tappe. Appena ventiduenne, nel 1395, sposò Maria Priuli di Andrea di Lorenzo, del dovizioso ramo denominato "dal banco" (in una sua cedula testamentaria datata 1404, il padre del F. rammentava le ingenti spese sostenute nella circostanza), dalla quale ebbe diversi figli: Girolamo, Lorenzo, Bianca e Camilla; cinque anni più tardi e per quanto non avesse ancora l'età prevista dalla legge, nel 1400, con largo anticipo, il F. venne chiamato a far parte della Quarantia, e l'anno dopo (dicembre 1401) era giudice del Proprio.

Il 1402 fu un anno cruciale per il Comune Veneciarum. All'improvviso prendevano corpo due inimmaginabili avvenimenti: i Mongoli di Tamerlano annientavano in Asia Minore la potenza ottomana, mentre a Milano la peste si portava via Gian Galeazzo Visconti. In concreto, per Venezia sembravano dischiudersi nuovi orizzonti e grandiosi disegni a Oriente e ad Occidente divenivano ora possibili. I frutti migliori, si sa, lo Stato marciano li avrebbe colti nella Padania, dove con rapida successione, nel giro di pochi anni, i suoi confini giunsero sino alla cerchia alpina, fino al Mincio. Il F. visse in prima persona questa temperie, di cui fu ad un tempo artefice e vittima.

Nel 1403 fu per qualche mese savio agli Ordini, e in questa veste caldeggiò in Collegio la proposta di muover guerra a Francesco Novello da Carrara, che mirava ad assicurarsi le città venete che già erano state del Visconti; poi entrò nuovamente a far parte della Quarantia e fu avogador. Infine, allorquando Venezia, dopo aver ottenuto Vicenza nella primavera del 1404, decise di giocare fino in fondo la partita, passando decisamente all'azione contro il Carrarese per strappargli Padova e Verona, fu ancora il F. a distinguersi come autore di una guerra risolutiva, agendo peraltro in perfetta sintonia con le posizioni perseguite, in quel torno di anni, dal padre Nicolò e dal fratello di costui, Francesco. Le fonti, i registri del Senato e del Collegio, consentono di ipotizzare, a proposito di questi tre Foscari, la traccia di un'unica strategia politica, volta probabilmente all'affermazione di una famiglia che proprio allora si affacciava prepotentemente sulla scena della politica veneziana, quasi autocandidandosi alla guida dello Stato. Il disegno, per quanto ambizioso, riuscì, ma se ebbe il bagliore del fulmine non superò tuttavia la durata di una generazione, giacché nella successiva storia della Repubblica solo due o tre esponenti della famiglia riuscirono a distinguersi.

Convinzioni personali e calcolo politico probabilmente si sommarono, dunque, nell'ispirare la condotta del F., la cui affermazione nei settori più prestigiosi del Comune veneziano era tuttavia impedita, secondo le leggi del paese, proprio dalla concomitante presenza del padre Nicolò (che sarebbe morto nel 1412) e del fratello di costui e zio omonimo del F., Francesco detto Franzi. Perciò solo dopo il 1412 la carriera del F. avrebbe subito una svolta significativa, mentre prima di tale data sporadiche elezioni a cariche pur prestigiose si sarebbero alternate ad anni di latitanza dal mondo della politica attiva o, tutt'al più, ad incarichi di modesto rilievo. Tra questi sono da annoverare alcune legazioni affidategli tra il 1408 ed il 1414, ossia nel periodo in cui Venezia lanciava la sua sfida a Sigismondo d'Ungheria per il possesso della Dalmazia.

Il 7 febbr. 1408 il F. fu eletto, insieme con Giovanni Garzoni, ambasciatore al duca di Milano per facilitare un accordo tra quest'ultimo ed Ottone Terzi, signore di Parma e Reggio. Di lì a poco, tuttavia, la morte di quest'ultimo riconduceva il F. in patria, ma per breve tempo, poiché contro i figli ed eredi di Ottone, Giacomo e Francesco Terzi, si indirizzavano ora gli appetiti del marchese di Ferrara, Niccolò d'Este. Venezia allora guardava alla sponda balcanica dell'Adriatico, a Zara, e voleva perciò la pace nel retroterra padano. Il 1° giugno 1409 il Senato incaricava quindi il F. di ritornare a Brescello, per rafforzarne il presidio con 200 lance sotto il comando di Lorenzo Vallisnieri, e due giorni più tardi gli forniva commissione di recarsi di lì presso i Terzi, a Reggio, al fine di procurare un accordo tra costoro e l'Estense, operando d'intesa con Giorgio Corner, inviato con uguale incarico ambasciatore a Ferrara. Il F. venne provvisto di mezzi adeguati dai rettori di Padova e Verona e a metà luglio era a Brescello con 70 lance; colà lo raggiunsero risalendo il Po i provveditori Pietro Duodo e Delfino Venier, cui il Senato aveva ordinato di impadronirsi di Casalmaggiore e Colorno.

Non era lo spirito di conquista a muovere Venezia (sotto questo riguardo, come si è accennato, i suoi sforzi miravano alla Dalmazia), ma il timore che il dinamico maresciallo francese Jean Le Maingre, detto Boucicault, muovesse dalla base genovese per metter piede in Lombardia, approfittando del vuoto di potere seguito alla morte di Gian Galeazzo Visconti.

Il 27 luglio 1409 il F. ricevette l'ordine di recarsi a Cremona, prima di rimpatriare, per dissuadere il signore Cabrino Fondulo dall'aggredire Brescia, dove parimenti era stato inviato come ambasciatore Francesco Contarini. Una volta espletato l'incarico non gli fu però ancora consentito di rivedere la sua città, dal momento che il 5 settembre (dopo aver rifiutato, accollandosi una pena di 100 ducati, di andare provveditore nel Veronese) venne incaricato di un'ulteriore missione, insieme con Andrea Contarini: quella cioè di recarsi a Ferrara per indurre l'Estense a deporre le armi nei confronti dei suoi vicini per rivolgerle contro un più temibile avversario, in nome di una causa superiore, "pro exterminio Bucichaldi - così le commissioni - quod Francigenae expellantur de Lombardia". La legazione - uno dei tanti anelli che la Repubblica andava stringendo contro il Boucicault - ebbe rapida esecuzione e sortì buon fine, anche per il fortunato evolversi della situazione generale nel senso auspicato dal Comune veneziano (approfittando dell'assenza del francese, Genova si era ribellata), sicché a metà dicembre l'Estense poteva recarsi tra le lagune ed esservi accolto come "bonus filius".

Nell'aprile 1410 il F. era eletto savio agli Ordini, ma per non essere di ostacolo all'omonimo zio, chiamato a sedere fra i consiglieri ducali, preferì rinunciare all'ingresso nel Collegio optando per la nomina a provveditore di Comun, antica magistratura indubbiamente meno prestigiosa dell'altra dal punto di vista politico, però suscettibile di garantire immediati e concreti margini di manovra nel tessuto socioeconomico urbano. Da rilevare, a questo proposito, l'azione promossa dal F., in unione col collega Pietro Venier, nel settembre 1411, in favore di un allineamento dei dazi gravanti sulle lane inglesi all'aliquota corrisposta da quelle italiane: provvedimento che intendeva incentivare la produzione locale di panni e tessuti, per combattere le importazioni di manufatti esteri.

Con tutto ciò non è facile dar conto della rinuncia a far parte dei vertici dello Stato, operata da un uomo ambizioso qual era il F., se non ricordando, oltre a quella dello zio, la contemporanea presenza del padre Nicolò tra membri di quell'organismo, ove nel 1411 ricoprì l'importante carica di savio del Consiglio. La scomparsa del genitore nel 1412 (e la concomitante lontananza dalla patria di Franzi, che fu duca di Candia tra il 1411 ed il 1413) gli spianò finalmente la strada, tanto più che il riacutizzarsi del conflitto con Sigismondo di Lussemburgo per il possesso della Dalmazia e del Friuli significò per il giovane F. buone possibilità di far valere le proprie convinzioni, che sostanzialmente consistevano nell'imprimere alla guerra il maggior vigore.

Dal marzo al settembre del 1412 fu dunque tra i sei savi alla Guerra (magistratura nata proprio in quegli anni quale commissione speciale, e più tardi - resa permanente - destinata ad assumere la denominazione di savi di Terraferma); in quella veste il 19 aprile fu inviato, insieme col procuratore Pietro Loredan, al campo di Motta, sul Livenza, per verificare il grado di efficienza delle truppe veneziane che stavano per battersi contro gli Ungheresi di Pippo Spano. Due mesi dopo, quando il conflitto entrava nella fase risolutiva, il F. si fece promotore della creazione di una giunta di sette membri (due consiglieri ducali, due savi del Consiglio, altrettanti savi alla Guerra, ed un capo della Quarantia), che sedesse in permanenza a palazzo per lo spazio di una settimana, onde fronteggiare tempestivamente qualsiasi emergenza: evidentemente nei Veneziani era ancora ben vivo il ricordo dello spavento provato la notte dell'11 giugno, allorché le campane della città avevano suonato a stormo per il colpo di mano effettuato dagli Ungheresi, le cui imbarcazioni si erano spinte sino a S. Nicolò del Lido.

In luglio ebbe a verificarsi un episodio alquanto oscuro: il 20 di quel mese, infatti, il Consiglio dei cento alla Guerra, da poco istituito, su richiesta del capitano generale dell'esercito veneto, Carlo Malatesta, decideva di inviare al campo due ambasciatori per conferire su questioni attinenti all'ormai prossimo scontro: risultarono eletti il F. e Barbon Morosini, dopo molti tentativi tutti seguiti da altrettanti rifiuti. Senonché il procuratore Pietro Loredan si offrì e fu accettato volontario al posto degli eletti; questi era il migliore ed il più valoroso militare di cui Venezia disponesse: al comando della squadra del Golfo aveva conquistato Spalato e da poco ottenuto la resa di Sebenico, e alcuni anni più tardi, nella tarda primavera del 1416, sarebbe stato l'artefice della memorabile disfatta inflitta alla flotta ottomana presso i Dardanelli. È difficile dire cosa lo spinse, nel luglio 1412, ad un gesto che suonava gravemente offensivo, addirittura provocatorio nei confronti del F. e del Morosini. Forse si trattava di antipatia personale, disistima, avversione per una famiglia emergente e per un uomo - qual era il F. - abilissimo a manovrare in politica quanto inesperto nell'arte della guerra.

Di certo il F. reagì, ed il 30 luglio propose in Senato una "parte" (che venne accolta) onde modificare parzialmente la strategia perseguita dal Malatesta, il quale nella circostanza avrebbe dovuto evitare uno scontro diretto con lo Spano, limitandosi invece a fargli terra bruciata attorno; a tal fine i Veneziani avrebbero dovuto impadronirsi di tutti i luoghi fortificati posti tra Oderzo e Motta di Livenza. Fu il Loredan però, fautore di una condotta militare aggressiva e risoluta, a vincere il confronto con il F.: il 24 agosto si venne a una furiosa battaglia presso Motta e, quando già i Veneziani si davano alla fuga, Pietro Loredan e il Malatesta tornarono all'assalto e sconfissero gli Ungheresi. L'episodio, se non fu l'origine, costituì almeno una tappa importante della progressiva inimicizia che sarebbe insorta tra i Foscari ed i Loredan, e che tanto acerbamente avrebbe segnato la vita del futuro doge.

Dopo una breve permanenza tra gli avogadori di Comun tra l'autunno del 1412 e la primavera del 1413, il F. si sarebbe riaffacciato sulla scena della politica estera in seguito alla tregua quinquennale stipulata nell'aprile dell'anno successivo (1413) tra Venezia e Sigismondo.

A corollario della buona volontà reciprocamente dimostrata, il 6 giugno 1413 il F. era incaricato di concludere una tregua di pari durata col duca d'Austria e conte del Tirolo Federico IV, da cui dipendevano molti feudatari che s'erano dichiarati "aderenti", ossia confederati, con Venezia, tra i quali il vescovo di Trento. Tre giorni dopo, il 9 giugno 1413, il F., coadiuvato dal notaio Francesco della Siega, aveva già incontrato Sigismondo a Feltre. Constatata l'impossibilità di realizzare la pace, aveva ripiegato sulla stipulazione della tregua quinquennale col duca d'Austria, che venne poi solennemente pubblicata a Merano, il 3 agosto. In ottobre il F. entrava a far parte dei savi del Consiglio, ossia finalmente diventava uno dei responsabili della politica estera dello Stato. Aveva appena quarant'anni e non avrebbe più lasciato quella carica fino all'assunzione del dogato (con qualche breve interruzione dovuta alle legazioni affidategli).

Il 4 dic. 1413 veniva eletto ambasciatore al papa Giovanni XXXIII, che si trovava a Lodi per trattare con Sigismondo la convocazione del concilio di Costanza; ebbe per colleghi gli autorevoli Antonio Contarini ed il procuratore Tommaso Mocenigo, il quale venne eletto doge proprio nel corso della missione, il 7 genn. 1414. Anche il F., nonostante la giovane età, riportò alcuni voti nel corso delle ballottazioni tenute a palazzo ducale; la notizia pervenne ai tre diplomatici mentre si trovavano a Cremona. Il Mocenigo raggiunse subito Venezia, il F. e il Contarini seguirono invece il pontefice a Mantova, dove presero congedo.

Rimpatriato, il F. tornò a far parte del Collegio in qualità di savio del Consiglio. Ricopriva questa carica quando il 26 ott. 1414 rifiutò una nuova missione diplomatica onde dirimere, nella sede di Ferrara, l'ennesimo ostacolo che in Dalmazia opponeva il Comune veneziano a Sigismondo. La permanenza nel Collegio non fu peraltro da lui intesa come routine, giacché il F. disertò assai di rado le sedute e ne seguì con attenzione i lavori. La sua fu insomma una partecipazione assidua ed attiva che, se le statistiche facessero testo, potremmo definire esemplare.

Il 6 giugno del 1415 venne eletto a un'altra ambasceria, stavolta a Firenze, insieme col procuratore Marino Caravello, che gli fu compagno in tante missioni. Si trattava di inserire un altro tassello nella complessa politica che coinvolgeva i principi della penisola, componendone e scomponendone incessantemente rapporti ed equilibri. Nella circostanza l'intento veneziano era di volgere il Comune toscano contro Sigismondo, ma alla fine di luglio i due rimpatriavano col mero conforto di generiche attestazioni di amicizia e solidarietà.

Si collocano in questo periodo, tra la fine del 1415 e l'inizio del 1416, due importanti avvenimenti per la vita e la carriera del F.: il primo consiste in un nuovo matrimonio da lui contratto con Marina Nani del cavaliere Bartolomeo di Pietro, da cui ebbe sei figli: Domenico, Benedetta, Giacomo, Donato, Paola e Maria; il secondo nel conseguimento del titolo di procuratore de citra, che gli venne conferito il 26 febbr. 1416. Era assai giovane per aspirare ad un tale onore, tuttavia gli riuscì di ottenerlo sia pure come soprannumerario, in considerazione della manifesta incapacità del decrepito Giovanni Barbo: né sembra potersi escludere essere stato lo stesso F. a brigare per rendere possibile questa forzatura della legge.

Le incombenze legate alla dignità procuratoria consistevano soprattutto nell'amministrazione di legati e commissarie derivanti per lo più da disposizioni testamentarie: quasi una sinecura, insomma, che però consentiva la gestione di somme talvolta ingenti. Il F. ne fece l'uso politicamente più opportuno, perlomeno nei propri riguardi: distribuì, a quanto pare con prassi insolita, cospicue somme di denaro (forse 30.000 ducati) ai nobili poveri a titolo di dote per le loro figlie, guadagnandosene il favore, così da crearsi una sorta di clientela personale. Del resto disponeva già di fautori, poiché l'indirizzo della sua politica estera, volta all'espansionismo militare, interpretava soprattutto le aspirazioni dei patrizi meno abbienti, la cui affermazione economica e sociale dipendeva in larga misura dal servizio pubblico, ossia dagli impieghi nell'amministrazione statale, dal ruolo di rappresentanti o funzionari del Comune nei nuovi territori conquistati. Fu questo, con ogni probabilità, lo strumento decisivo della progressiva rapida affermazione politica del F., che lo avrebbe innalzato sino al dogato.

Nei sette anni che intercorsero tra la nomina a procuratore e quella a supremo rappresentante dello Stato, il F. si allontanò assai poco da Venezia, limitandosi ad espletare funzioni diplomatiche, spesso di mera rappresentanza: il 27 luglio 1416 fu così tra i testimoni dell'alleanza stipulata a palazzo ducale con il re di Napoli contro Sigismondo, nel marzo del 1417 rappresentò nuovamente il doge in occasione di analogo patto col duca d'Austria, sei mesi dopo presenziava ad alcune lauree presso lo Studio patavino. Maggior importanza ebbe invece l'ambasceria affidatagli insieme con i colleghi procuratori Antonio Contarini, Marino Caravello e Fantino Michiel, incaricati tutti di recarsi a Costanza per congratularsi con il nuovo papa Martino V e cercarne la mediazione, ora che stava per scadere la tregua quinquennale tra Venezia ed il re dei Romani. La missione sortì buon esito, grazie anche all'opera colà svolta dal cardinale veneziano Francesco Lando, e la tregua fu prolungata di un altro quinquennio, sicché agli inizi di luglio i quattro procuratori erano già rimpatriati.

Il F. riprese così il suo posto tra i savi del Consiglio, né lasciò più le lagune: eletto qualche mese dopo (30 ott. 1418) ambasciatore a Salisburgo, onde ratificare solennemente con Sigismondo proprio quella tregua che a Costanza egli aveva contribuito a realizzare, preferì rifiutare e sottostare al pagamento della prevista sanzione. Neppure la contemporanea prolungata permanenza dello zio Franzi tra i savi alla Guerra (1418, 1420) o i consiglieri ducali (1419) o addirittura fra i savi di Terraferma (1421-1422) costituì più un ostacolo per l'ininterrotta presenza tra i responsabili della politica estera veneziana, esercitata dal F. in qualità di savio del Consiglio. E neppure la manifesta ostilità del doge, che soleva chiamarlo "el nostro procurator zovene", valse a frenarne l'ascesa. Il Mocenigo rappresentava le casate vecchie e ricche, con forti interessi nel Levante; donde una politica isolazionistica nella penisola, incardinata su un atteggiamento fondamentalmente filovisconteo; il F. invece rappresentò la volontà espansionistica.

Attorno a queste posizioni si giocò un duro scontro all'inizio del terzo decennio del secolo, talché può forse parlarsi del costituirsi di due partiti, fenomeno assolutamente eccezionale nella storia della società lagunare. Il punto risolutivo fu rappresentato da Firenze. Già nella seconda metà del 1422, allorché i Fiorentini si rivolsero a Venezia per chiedere aiuto contro la minaccia viscontea, il F. si schierò apertamente in loro favore, esaltando nella loro indipendenza il cardine della "libertà" d'Italia (ne ebbe in cambio il plauso degli umanisti, a cominciare da Francesco Barbaro), mentre il Mocenigo continuava a sostenere la validità dell'opzione lombarda, dell'alleanza cioè stipulata con Milano appena qualche anno prima, nel 1414. Si spiega alla luce di questo contrasto l'impressionante quadro di opulenza e potenza consegnatoci dalla famosa lettera-testamento dello stesso doge nei primi del 1423 (vero o falsa che sia, è pur sempre una testimonianza eloquente), in cui Venezia appare il polmone del Mediterraneo: donde il monito a mantenere buoni rapporti con il Ducato milanese - le cui ricchezze avrebbero continuato comunque ad affluire nell'emporio realtino, attraverso il commercio e l'interscambio - e l'esplicito invito a non eleggere il F. quale suo successore.

Di lì a poco, il 4 aprile, Tommaso Mocenigo moriva e le procedure per eleggere il nuovo doge si aprivano in un clima inquieto, fra speranze e timori. Non era in gioco solo una scelta politica gravida di conseguenze, ma stava verificandosi anche un importante mutamento costituzionale, di cui il F. fu tra i protagonisti, nella sua qualità di correttore della Promissione ducale, cui venne eletto il 7 aprile.

I correttori deliberarono infatti un'innovazione che già da tempo si era tentato di introdurre nella struttura istituzionale dello Stato, e cioè la soppressione dell'arengo, antico simbolo del Comune medioevale; la riforma - peraltro accuratamente predisposta - venne accettata dal popolo senza contrasti, in sintonia del resto con il coevo mutamento della denominazione di "Comune" con quelle di "Serenissima Signoria" e "Dominio", che sempre più spesso comparivano ormai negli atti ufficiali: ma le guerre degli ultimi anni ed i grandi mutamenti intervenuti nella compagine stessa dello Stato avevano assuefatto alle novità.

Il 10 cominciarono le votazioni, alle quali partecipò il F., essendo entrato a far parte dei quarantuno elettori finali; era il più giovane, si era risposato con una donna ancora in grado di partorire ed aveva già numerosi figli; in teoria non poteva dunque considerarsi immune dalle tentazioni di combinare il pubblico con il privato interesse; contro di lui incombeva inoltre l'anatema del doge defunto. Queste ed altre obiezioni non mancarono di essere sollevate a danno del F. da molti, a cominciare da Pietro Orio, a mano a mano che venivano a cadere le candidature più autorevoli.

Favorito era senza dubbio il procuratore Pietro Loredan, l'eroe di Gallipoli, l'antico avversario del F., ma il partito che operava per quest'ultimo riuscì ad affossarne la candidatura per mezzo di Albano Badoer, che seppe abilmente far proprie le ragioni della parte avversa, dimostrando come la Repubblica non dovesse privarsi del suo miglior condottiero, ch'era appunto il Loredan. Dopo di che tutto riuscì facile per il F., che all'inizio pare disponesse di soli nove voti, giocati peraltro con grande perizia. Divenne doge al decimo scrutinio, il 15 apr. 1423, con sorpresa di molti dei quarantuno e l'approvazione del popolo, che ne festeggiò la nomina benché questa venisse a coincidere con l'instaurazione di un regime ormai dichiaratamente aristocratico. Una carriera brillante aveva portato il F. sul trono ducale alla soglia dei cinquant'anni. Il successo fu tuttavia adombrato da eventi luttuosi nella propria famiglia. Celebrato con grande solennità l'ingresso in palazzo, in breve tempo la peste si portò via quattro dei suoi figli.

Sicuramente, oltre alle considerazioni esposte sopra, molto devono aver contato, nell'elezione del F., il ricordo della prestigiosa carriera politica del padre ed il ruolo esercitato dallo zio Franzi, il quale avendo sposato l'albanese Sterina Bua Spatas, che gli aveva portato in dote il feudo di Dragomesto, presso Lepanto, veniva in un certo qual modo a fornire al F. la necessaria copertura riguardo agli interessi mediterranei tanto cari agli operatori realtini. Ancora, l'immagine stessa dell'uomo non fu priva d'importanza. Nell'orazione funebre Bernardo Giustinian ne avrebbe rammentata "la forma ben fatta ed eminente del corpo, la grazia del volto, la maestà e la salute prospera", e poi l'eloquenza sorretta da una cultura aperta agli influssi della prediletta cerchia di umanisti dei quali il F. amò circondarsi.

Uomo di forte temperamento, il F. si trovò ad operare in uno snodo politico di eccezionale importanza per Venezia; né si deve credere che il suo nuovo ruolo abbia comportato un'immediata accelerazione nell'opzione espansionistica della Repubblica. Non va dimenticato, infatti, che la prima guerra contro i Milanesi ebbe a verificarsi nel 1426, dopo che Filippo Maria Visconti ebbe conquistato Faenza e Imola e inflitto ai Fiorentini, nell'estate-autunno del 1425, ben tre successive sconfitte; allora, e soltanto allora, il F. si pronunciò decisamente in favore della guerra, operando abilmente la sostituzione di Venezia a Firenze nella funzione di baluardo della "libertas Italiae".

Nei mesi seguenti il suo insediamento sul trono ducale il F. accolse la dedizione di Salonicco, ma poi ripresero con maggior vigore le guerre, sia in Levante (fu subito chiaro che i Turchi non erano affatto rassegnati alla perdita di Salonicco, che infatti avrebbero riconquistato nel 1430), sia nella Terraferma. Qui, dopo uno sforzo trentennale, caratterizzato da uno stato di belligeranza pressoché ininterrotto (1426-33; 1434-41; 1446-54), Venezia dovette rinunciare per sempre alla sua marcia verso Milano; contemporaneamente scompariva in Levante l'Impero bizantino.

Le avvisaglie di questo duplice scacco non avevano tardato a manifestarsi, sin da quando era apparso chiaro che il duello con i Visconti non si sarebbe concluso con una trionfale cavalcata attraverso la pianura lombarda; in una Venezia trascinata nel vortice della guerra cominciarono ad affiorare inquietudini e tensioni. Un primo sintomo del malessere s'era avuto nel novembre del 1430, con l'attentato del folle Andrea Contarini, che aveva cercato di accoltellare il doge; poi, il 26 giugno 1433 (dopo la conclusione di una precaria pace con Milano, seguita all'eliminazione del Carmagnola), era stato lo stesso F. a chiedere di poter lasciare la carica, ma la concorde opposizione dei consiglieri ne aveva vanificato l'intento. Erano trascorsi dieci anni dall'assunzione della corona, ed il F., che al suo conseguimento aveva dedicato la vita, ora si dichiarava disposto a rinunciarvi (ci avrebbe riprovato nel 1442 e poi ancora nel 1446): se queste non furono semplici mosse politiche, significano che nell'uomo evidentemente qualcosa si era logorato, nonostante continuasse ad adempiere puntualmente alle sue funzioni, nonostante la gloria personale e le affermazioni di prestigio dello Stato ch'egli rappresentava.

Nel 1430 aveva appoggiato Ludovico Barbo nell'opera di riforma dei benedettini di S. Giorgio Maggiore, che vennero uniti alla Congregazione di S. Giustina di Padova; nell'agosto del 1434 la Signoria ottenne dall'imperatore Sigismondo l'investitura di gran parte dei suoi domini di Terraferma; nel 1438 iniziò la costruzione dell'arco Foscari a palazzo ducale e giunse a Venezia l'imperatore di Bisanzio, Giovanni VIII Paleologo; la stessa figura del doge era fatta oggetto di plauso ed ammirazione da parte di letterati e umanisti: al F. il celebre Lauro Quirini avrebbe dedicato la sua opera principale. Nel gennaio 1441, infine, suo figlio Jacopo sposava Lucrezia Contarini di Leonardo, con nozze che parvero piuttosto feste pubbliche che private.

Era costui l'ultimo dei figli maschi del doge; le figlie, tranne Maria che rimase nubile, erano state tutte accasate: Camilla con Pietro Bernardo e poi, restata vedova, con Andrea Donà; Bianca con Marco Ruzzini; Benedetta con Andrea Trevisan; Paola con Girolamo Michiel. I maschi invece se li era portati via la peste uno dopo l'altro: da ultimo era toccato a Domenico, nel 1437, e il padre l'aveva vegliato tutti i giorni, nonostante gli ammonimenti dei consiglieri, che temevano il contagio. Dunque non gli restava che Jacopo, al quale la moglie diede ben presto due femmine ed un maschio, Nicolò, cui sarebbe toccato di continuare questo ramo dei Foscari. Jacopo era un giovane colto e brillante, ma amante del fasto e, quel che più conta, leggero. Il 17 febbr. 1445 fu accusato dai capi del Consiglio dei dieci (fra i quali sedeva Francesco Loredan, nipote di quel Pietro che il F. era riuscito a superare nell'elezione ducale) di aver accettato doni dal duca di Milano, contravvenendo a uno dei dispositivi previsti dalla Promissione ducale.

Il doge fu totalmente escluso dall'azione intrapresa contro il figlio, ma riuscì in qualche modo a farlo riparare a Trieste, in territorio imperiale. Nonostante i Dieci gli avessero comminato l'esilio a Nauplia, in Grecia, e per quanto fossero emerse prove certe della sua colpevolezza, Jacopo riuscì dapprima a procrastinare la partenza, poi a commutare Nauplia con il Trevigiano. Colà la famiglia possedeva il feudo di Zelarino, presso Mestre; pertanto è verosimile che il giovane Foscari abbia trascorso il suo esilio ai margini della laguna. Si possono formulare diverse ipotesi per spiegare tanta inconsueta arrendevolezza da parte del Consiglio dei dieci, ma certamente un peso preponderante dovettero avere le pressioni alternate alle suppliche del doge e della moglie, ch'era stata incoronata dogaressa e di cui Jacopo era il figlio minore; sicché quando il vecchio F. chiese la grazia, il 13 sett. 1447, i Dieci finirono per accordarla, considerata la necessità - come vollero puntualizzare - "di aver un principe che abbia la testa libera e serena, atta a ben servire alla Repubblica, la qual cosa ora gli viene impedita dal sapere il suo figlio ammalato del corpo e della mente".

Si intendeva comunque porre una pietra sul passato, chiudere l'episodio negandogli valenza politica per relegarlo nei limiti di una giovanile imprudenza; senonché il discorso doveva riaprirsi tre anni dopo, in seguito all'omicidio di Ermolao Donà, ferito a morte da uno sconosciuto la sera del 5 nov. 1450. I sospetti caddero proprio su Jacopo Foscari (il Donà aveva fatto parte del Consiglio dei dieci che l'aveva condannato), il quale venne arrestato il 2 genn. 1451 e torturato, quindi esiliato a Candia. Non è affatto certo che sia stato il Foscari l'autore del delitto, che diverse fonti (tra cui il Sanuto) indicano invece nella persona di Nicolò Erizzo di Stefano; sicuramente l'accaduto, nella sua realtà effettiva e virtuale, era frutto del clima di odio e di sospetto che caratterizzò gli ultimi anni del dogato del Foscari.

I capi del Consiglio dei dieci (tra i quali Giacomo Loredan) nel giugno 1456 riaprivano ancora una volta il processo contro Jacopo, accusato di aver cospirato contro la patria pur dal lontano esilio. Convocato a Venezia, venne ribadito il confino a Candia - aggravato però del carcere perpetuo alla Canea - e le fonti riportano il presunto straziante commiato del figlio dal genitore ormai ottantaquattrenne, che gli avrebbe ingiunto di partire in obbedienza alla legge. Tornato a Candia, Jacopo morì di lì a poco, precedendo il padre nella tomba.

L'ultimo periodo del dogato del F. è racchiuso in questo dramma personale. Il 19 ott. 1457, trovandosi ancora tra i capi del Consiglio dei dieci Giacomo Loredan, il magistrato poneva all'ordine del giorno l'opportunità di imporre al doge l'abdicazione da lui stesso tante volte richiesta e sempre negata, adducendo a motivo l'incapacità del vecchio doge di intervenire ai Consigli e di svolgere le altre sue incombenze, con grave detrimento della politica e dell'amministrazione statale. Senonché il F. oppose un diniego: secondo la legge, egli non poteva abdicare se non dietro proposta dei consiglieri ducali, previo assenso del Maggior Consiglio. Formalmente l'obiezione era ineccepibile, semmai verrebbe da interrogarsi sulle precedenti dichiarazioni del F. di voler abbandonare la carica, che in fondo potrebbero essere state abili manovre per svuotare l'opposizione, giocando d'anticipo; né tuttavia può escludersi che alla radice del rifiuto manifestato dal doge vi sia stato il desiderio di non concedere al Loredan la soddisfazione di una facile vittoria.

Qualche giorno dopo, tuttavia, i Dieci ribadivano l'ingiunzione in termini perentori: doveva andarsene, in cambio avrebbe ottenuto un appannaggio di 1.500 ducati all'anno. Era il 22 ottobre: il F. lasciò il palazzo l'indomani, dopo che gli era stato spezzato l'anello e tolte le insegne ducali; volle discendere per quella stessa scala di pietra donde era salito trentaquattro anni prima, e lo fece circondato dai soli familiari, appoggiandosi al fratello Marco.

Morì pochi giorni dopo, all'alba del 1° nov. 1457, in una sua abitazione nella parrocchia di S. Margherita, essendo in corso di restauro il palazzo sul Canal Grande ch'egli aveva da poco acquistato. Gli vennero tributate esequie regali, nonostante la fiera opposizione della vedova, Marina Nani, che non voleva avallare un tardo calcolato atto riparatorio da parte di quel potere che le aveva incarcerato, torturato, esiliato il figlio, offeso ed umiliato il marito; il feretro fu accompagnato dal nuovo doge Pasquale Malipiero, che si mostrò al popolo in semplice veste senatoria.

Il F. fu sepolto nel presbiterio della basilica dei Frari, e il mausoleo gotico-rinascimentale che ne ricopre il sepolcro riporta un'iscrizione celebrativa del grande evento cui il suo nome rimane tuttora legato: la conquista della Terraferma.

"Dopo il 1457 - scrisse Trevor Roper - la Repubblica non temerà più il doge": effettivamente mai come nel caso del F. l'uomo e la temperie che lo circondò suscitano rispetto, ma anche sgomento; si avverte, dietro essi, la dimensione di un'epopea febbrile e a tratti oscura. I turbinosi eventi che si susseguirono nel corso del lungo dogato del F. si intrecciano con la sua forte personalità in un rapporto di causa-effetto a volte inestricabile; anche le singolari (e facilmente enfatizzabili) vicende che ne segnarono la vita privata contribuirono alla nascita di un alone di tragedia attorno alla vicenda che vide protagonista il figlio, presunto strumento della vendetta dei Loredan. Donde l'attenzione di certa letteratura romantica (si pensi a The two Foscari di Byron, ed all'opera lirica verdiana), incline a identificare il dramma personale con l'immagine tenebrosa di una Venezia dominata dall'occhiuta spietatezza del Consiglio dei dieci.

Eppure, nonostante le numerose testimonianze a nostra disposizione, per quanto molti si siano occupati del F., a ben vedere su quest'uomo restano non pochi dubbi, forse per la mancanza a tutt'oggi di uno studio specifico: davvero fu l'odio dei Loredan a provocare la rovina di Jacopo, onde colpirne il padre? E perché si volle l'abdicazione di un vegliardo ormai allo stremo? Ancora, il doge trascurava veramente i suoi doveri per lo strazio causatogli dalla sorte del figlio?

A questo proposito si rammenti che nel 1452 il F. aveva acquistato lo splendido palazzo gotico "in volta de Canal", che proprio negli ultimi anni di vita fece orgogliosamente sopraelevare rispetto alle contigue case dei Giustinian delle quali l'immobile aveva fatto parte; soprattutto, nell'estremità superiore della facciata tuttora campeggia, tra due stemmi Foscari, un elmo in foggia di celata, con preciso e singolare riferimento (del tutto eccezionale nella Venezia quattrocentesca) al feudo di derivazione imperiale posseduto dalla famiglia, e al titolo comitale che v'era annesso. Era un messaggio. Potrebbe trattarsi di un'esibizione di fierezza, ma anche di un grido di protesta.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi…, III, cc. 505, 507, 510; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, cc. 16v-19v; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 16 (=8305): G.A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, II, cc. 87v-88r; Arch. di Stato di Venezia, Archivio Gradenigo rio Marin, b. 333: P. Gradenigo, Lavoro storico cronologico biografico sulla veneta famiglia Foscari, pp. 35-48; sull'attività politica sino all'elezione al dogato: Ibid., Segretario alle Voci. Misti, reg. 13, cc. 21v, 36r, 171v; Ibid., Maggior Consiglio Deliberazioni, regg. 21, c. 194r; 22, cc. 18r, 33r, 44r, 55v, 58v; Ibid., Senato. Misti, regg. 48, cc. 92v, 101v, 106r, 140v, 157r, 166r; 49, cc. 54r, 106v e passim; Ibid., Senato. Deliberazioni. Secreta, regg. 3, c. 89r; 4, cc. 21v-23r, 24v, 26v-27r, 29v-30r, 31r, 32v, 36v, 38v-39v, 41r, 42rv, 54v-55r; 5, cc. 9v, 10v, 15v, 19v, 24v, 30v, 39r, 49v, 54r, 136r-137v, 139v, 140v-142v, 155r, 167v-171v, 174r, 175v, 178r, 186v; 6, cc. 2r, 18v, 33v, 52r, 54v-55v, 59r, 60r, 61v, 65r, 83v, 86r, 88r, 113v e passim; 7, cc. 2r-6v, 12v, 15v-19r, 32r, 39v, 57v, 70v, 90r, 104r, 119r, 128v, 138r, 175r, 177v, 209r; 8, cc. 4r, 31r, 38r, 41r, 49r, 66r, 75v, 87r, 98v e passim; Ibid., Collegio notatorio, regg. 4, c. 129r; 5, cc. 72r, 139r, 164r; in particolare sugli avvenimenti successivi all'assunzione del dogato: Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 3418: Famiglie venete, sub voce (dettagliata esposizione delle vicende relative alla deposizione del F.); Arch. di Stato di Venezia, Sez. notarile. Testamenti, b. 1149/2 (testamento del 29 ott. 1457; quello del padre, ibid., b. 1255, cc. 191v-192r); sulla tomba ai Frari cfr. Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 2009/23; per i rapporti con i letterati: Ibid., ibid. 3526: G.P. Gasperi, Catalogo della Biblioteca veneta…, II, pp. 113 s.; sul patrimonio familiare (non esattamente privo di macchia, giacché buona parte delle rendite immobiliari veneziane erano garantite ai Foscari dal "castelletto", ossia il più antico e rinomato bordello di Rialto): Arch. di Stato di Venezia, Corporazioni religiose. Scuola di S. Maria del Rosario, b. 29: Commissaria Girardi. Cfr. inoltre: M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 966-969, 1163 ss.; B. Giustinian, Orazione recitata… nell'esequie del doge F. F., in Orazioni, elogi e vite… in lode di dogi, ed altri illustri soggetti…, a cura di G.A. Molin, I, Venezia 1795, pp. 21-59; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, Venezia 1883-1901, III, pp. 296, 370, 378, 382; IV, pp. 12, 15 s., 20, 32, 42, 49-308; V, pp. 2-132, 134 s., 230; R. Sabbadini, Centotrenta lettere inedite di Francesco Barbaro…, Salerno 1884, p. 17; Diplomatarium Veneto Levantinum…, a cura di G. Thomas - R. Predelli, II, (1351-1454), Venetiis 1899, ad Ind.; Nunziature di Venezia, VI, a cura di F. Gaeta, Roma 1967, p. 315. Cfr. inoltre: M.A. Sabellico, Historiae rerum Venetarum…, in Degl'istorici delle cose veneziane…, I, Venezia 1718, pp. 465, 468, 483-486, 522, 714; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, I, Venezia 1752, pp. 51, 158 s., 222, 224; II, ibid. 1754, pp. 16 s., 54, 89, 194, 411 s.; F. Corner, Opuscula quatuor quibus illustrantur gesta… Francisci Foscari ducis Venetiarum…, Venetiis 1758; E.A. Cicogna, Delle inscriz. veneziane, Venezia 1827-1853, II, pp. 54, 132, 137, 142; III, pp. 383 ss., 389; IV, pp. 159, 257, 259, 448, 484; V, pp. 70, 89, 92, 123, 229, 483, 666; VI, pp. 25, 41, 49, 63, 100, 106, 129, 556, 574 s., 584, 632, 733, 735 s.; Id., Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, pp. 104 s., 283, 325, 362, 366, 653, 780, 788; F. Berlan, I due Foscari, Torino 1852; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IV, Venezia 1855, pp. 265-301 (tuttora la più completa ricostruzione del dogato e abdicazione del F.); Il palazzo Foscari, in La R. Scuola superiore di commercio in Venezia…, Venezia 1871, pp. 84-88; C. Cipolla, Storia delle signorie italiane dal 1313 al 1530, Milano 1881, pp. 334, 448 ss., 731; V. Lamansky, Secrets d'État de Venise…, Saint-Pétersbourg 1884, pp. 12, 681, 753; V. Lazzarini, I Foscari conti e signori feudali, Padova 1895, pp. 16 s.; L'elezione a doge di F. F. (1423) da documenti dell'Archivio di Stato e della Marciana, a cura di M. Cappello - G. Bernardi, Venezia 1898; E. Vecchiato, I Foscari ed i Loredano, Padova 1898, pp. 5-13; G. Dalla Santa, Documenti per la storia della cultura in Venezia…, I, Venezia 1907, p. 237; C. Manfroni, La marina veneziana alla difesa di Salonicco. 1423-1430, in Nuovo Archivio veneto, n.s., XX (1910), 1, p. 14; L. von Pastor, Storia dei papi…, I, Roma 1910, pp. 553, 637, 645, 647, 663; G.B. Picotti, La dieta di Mantova e la politica de' Veneziani, Venezia 1912, pp. 34, 38, 40, 303; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, pp. 331-336, 363-366; Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1406 ad annum 1450…, a cura di G. Zonta - G. Brotto, Patavii 1922, pp. 173 s.; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata…, Bergamo 1922-1925, I, pp. 189, 207, 263, 326; II, pp. 3, 193, 358; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori. Studio bio-bibliografico, Roma 1927, p. 25; V. Marchesi, Il più illustre doge veneziano, in Rivista letteraria, IX (1937), 4-5, pp. 17 ss.; M. 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