GATTILUSIO, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GATTILUSIO, Francesco

Enrico Basso

Primo di questo nome nacque a Genova nella prima metà del XIV secolo (secondo alcune fonti nel 1326). Non sono noti i nomi dei genitori anche se, sulla base dei nomi successivamente imposti ai suoi figli, è possibile ipotizzare che il padre potesse chiamarsi Domenico.

Il G. apparteneva al ramo principale della famiglia che da lungo tempo si era guadagnata un posto di rilievo negli ambienti politici genovesi: suo nonno era infatti il celebre Luchetto Gattilusio - trovatore e mercante nonché ambasciatore alla corte di Bonifacio VIII e podestà di Bologna, Milano e Cremona -, mentre suo zio Oberto (Obertino) per ben due volte, nel 1341 e nel 1351, era stato ambasciatore a Costantinopoli.

Forse proprio per influenza di Oberto, il G. decise di cercare nel Levante, come altri giovani aristocratici genovesi suoi contemporanei, il modo di aumentare il proprio patrimonio. Armate due galee, nel 1354 fece quindi vela verso l'Egeo, dove la confusa situazione politica determinata dall'espansione ottomana e il continuo passaggio di navi mercantili sull'importante rotta commerciale che collegava i porti del Mar Nero al Mediterraneo occidentale offrivano le migliori prospettive per una fruttuosa attività di corsaro. Nell'isola di Tenedo, all'imboccatura dei Dardanelli, il G. entrò in contatto con il giovane imperatore Giovanni V Paleologo, deposto ed esiliato dall'usurpatore Giovanni VI Cantacuzeno, il quale gli promise la mano della sorella Maria e un cospicuo premio in cambio dell'aiuto per recuperare il trono. Raggiunto un accordo, i congiurati organizzarono un audace colpo di mano: penetrati nel Corno d'Oro con il favore delle tenebre, riuscirono a sopraffare con l'inganno il corpo di guardia della porta di S. Maria di Blachernae e ad attestarsi nelle torri vicine; quando sorse l'alba, il G., dopo aver lasciato l'imperatore in una delle torri con un numeroso gruppo di guardie, si spinse con i suoi uomini in città chiamando il popolo alla rivolta in favore del Paleologo. Di fronte al successo di questa iniziativa e ai tumulti scoppiati in diverse parti della città di Costantinopoli il Cantacuzeno, il cui regime aveva perso gran parte del consenso popolare dopo aver inutilmente tentato di cacciare i Turchi da Gallipoli (dalla quale essi potevano minacciare la stessa capitale) giudicò impossibile la resistenza e preferì rinunciare spontaneamente alla corona ritirandosi in un monastero, mentre il G. scortava Giovanni V al palazzo imperiale.

Reinsediato sul trono, il Paleologo mantenne puntualmente gli impegni assunti a Tenedo, dando in moglie sua sorella al G., il quale ricevette, come dote della sposa, la signoria dell'isola di Lesbo, uno dei più importanti scali commerciali dell'Egeo tanto per la sua posizione quanto per la presenza delle ricche miniere di allume nella zona del golfo di Kaloni, dove il 17 luglio 1355 il G. si insediò ufficialmente.

A differenza della maggior parte dei principi latini dei territori appartenuti all'Impero bizantino, il G. giungeva a Lesbo non come un conquistatore straniero, ma come il legittimo titolare di un appannaggio territoriale conferitogli dall'imperatore regnante, una differenza sostanziale - soprattutto per quanto attiene ai rapporti con i suoi sudditi greci - che ebbe una notevole importanza nella successiva affermazione ed espansione del potere della dinastia da lui fondata. Ad accattivare le simpatie dei sudditi contribuirono notevolmente la tolleranza e il rispetto dimostrati dal nuovo signore - che pure rimase sempre dichiaratamente cattolico - nei confronti della Chiesa ortodossa e delle sue gerarchie locali, alle quali egli si limitò ad affiancare, senza intaccarne i diritti, un arcivescovo cattolico, che si trovò ad amministrare una comunità del resto abbastanza poco numerosa riunita intorno alla chiesa di S. Giovanni Battista, fondata dallo stesso G. nel castrum della capitale Mitilene.

Il G., che rapidamente imparò anche a esprimersi in greco, ebbe ben presto più occasioni per confermare la propria lealtà nei confronti dell'imperatore, ribadita anche con l'inserimento dell'arma dei Paleologi nelle proprie insegne araldiche, assistendolo sia nella campagna per la repressione della rivolta del governatore di Focea Vecchia, Giovanni Kalothetos, nella primavera del 1357, sia nelle successive operazioni in Tracia contro il ribelle Matteo Cantacuzeno, figlio di Giovanni VI; in seguito, durante la prigionia di Giovanni VI a Vidin, in Bulgaria, il G. prese parte alla spedizione di soccorso guidata da Amedeo di Savoia, partecipando nel 1366 alle operazioni per la liberazione di Gallipoli dai Turchi e di Mesembria dai Bulgari.

Lo stretto legame stabilito con l'Impero bizantino non allentò tuttavia i suoi rapporti con la madrepatria genovese (gli interessi politico-economici della quale traevano indubbio vantaggio dall'insediamento del nuovo dinasta nell'Egeo) dove ancora deteneva proprietà immobiliari in comune con altri parenti, nonché il giuspatronato della chiesa di famiglia di S. Giacomo di Sestri Ponente.

L'occasione del primo contatto in forma ufficiale fra Genova e il signore di Mitilene (nessuno dei Gattilusio assunse mai il titolo di "duca", con il quale sono talvolta menzionati nella storiografia successiva, limitandosi a quello di dominus) fu dovuta però a una formale protesta diplomatica inoltrata dall'ambasciatore veneziano Rafaino Caresini per l'attività di una zecca impiantata a Mitilene dal G., nella quale venivano coniati ducati veneziani contraffatti, con un titolo aureo sensibilmente inferiore a quelli autentici; il doge e il Consiglio degli anziani della Serenissima ammonirono dunque ufficialmente il G. a sospendere questa attività, minacciando in caso di inadempienza gravi sanzioni, che non risultano essere state tuttavia mai messe in atto, pur di fronte al perdurare dell'attività della zecca mitilenese, la quale in seguito continuò a produrre una serie di monete ispirate a quelle veneziane anche se recanti le insegne dei Gattilusio.

La scarsa attenzione prestata dalle autorità genovesi alle proteste diplomatiche veneziane per un'attività che a Genova era considerata tra i crimini più gravi può facilmente essere spiegata sia con una tacita approvazione nei confronti dell'azione del G., il quale con questi mezzi e con l'attività piratesca delle sue navi danneggiava gli interessi economici della Repubblica rivale, sia con l'importanza politico-strategica che il G., principe cattolico imparentato con la casa imperiale bizantina e signore di un dominio a diretto contatto con i territori controllati dai Turchi, andava assumendo non solo agli occhi di Genova, ma anche del pontefice romano.

Già nel 1356, infatti, gli inviati di papa Innocenzo VI diretti a Costantinopoli per un ennesimo tentativo di composizione dello scisma orientale avevano ricevuto dal pontefice specifiche istruzioni di cercare l'appoggio del signore di Mitilene, al quale erano stati raccomandati, e tredici anni dopo, nel 1369, il G. accompagnò personalmente il cognato nel suo viaggio in Occidente, come attesta la sua sottoscrizione in qualità di testimone della solenne confessione di fede cattolica prestata in Roma da Giovanni V Paleologo il 18 ottobre di quell'anno di fronte a papa Urbano V. Egli era diventato perciò uno dei principali referenti della politica orientale dei papi del tempo, come dimostrano l'invito solennemente rivoltogli nel 1372 da papa Gregorio XI a prendere parte alla riunione di principi cristiani convocata in Tebe per il 1° ott. 1373 allo scopo di discutere i provvedimenti da adottare contro la minaccia turca, e ancora l'appello rivoltogli dallo stesso pontefice nel 1374 affinché desse tutto l'aiuto possibile per la riuscita della missione degli emissari papali inviati a Costantinopoli per consolidare l'unione delle Chiese, considerata più efficace anche degli aiuti militari per porre un freno all'avanzata turca.

Più che alla minaccia ottomana, però, in quegli anni il G. dovette prestare preoccupata attenzione alla grave situazione determinata dai contrasti interni alla famiglia imperiale dei Paleologi e dal risorgere dell'antica rivalità tra Veneziani e Genovesi a essi connessa. L'appoggio dato dai Genovesi al principe usurpatore Andronico IV, da questo ricompensato con la cessione dell'isola di Tenedo, aveva infatti portato i Veneziani a sostenere Giovanni V e suo figlio Manuele, dai quali speravano di ottenere la stessa fondamentale posizione strategica per il controllo degli Stretti. In tale situazione, il G. veniva a trovarsi in una posizione politicamente imbarazzante, in quanto la sua perdurante lealtà nei confronti del cognato lo poneva in uno schieramento anti-genovese, rischiando di coinvolgerlo a fianco di Venezia nella guerra contro la sua città natale scoppiata nel 1377 e destinata a passare alla storia come "guerra di Tenedo" o "di Chioggia". Giostrandosi con grande abilità fra le parti in lotta, il G. riuscì a mantenersi ufficialmente neutrale nello scontro, ma il suo atteggiamento suscitò forti sospetti e risentimenti nei Veneziani, come risultò evidente dopo la conclusione del trattato di pace a Torino nel 1381: in quell'occasione il governatore insediato da Venezia a Tenedo, Zanachi Mudazzo, rifiutò di applicare - ufficialmente di propria iniziativa - le disposizioni concernenti l'evacuazione dell'isola e lo smantellamento delle fortificazioni, giustificando il proprio atteggiamento con le manovre di Raffaele di Quarto, inviato per scopi rimasti misteriosi nell'isola dal G., dietro alle quali si può forse ipotizzare un tentativo di quest'ultimo di estendere a Tenedo la propria signoria, tentativo che sarebbe stato probabilmente visto di buon occhio tanto da Genova quanto dallo stesso Giovanni V. Fallita la manovra, il G. non esitò tuttavia a prestare assistenza alla flotta veneziana incaricata di imporre con la forza l'applicazione dei capitoli del trattato di pace, che trasformò Tenedo in un deserto deportandone la popolazione.

Se il probabile tentativo di insignorirsi di Tenedo era fallito, il G. riuscì comunque ad ampliare i domini della propria casata ottenendo dai propri parenti imperiali il riconoscimento dell'insediamento di suo fratello Niccolò nella baronia di Enos, sulla costa della Tracia, della quale quest'ultimo risulta titolare già dal 1° maggio 1382. La conquista dell'importante avamposto sulla costa balcanica fu però l'ultimo successo dell'avventuroso signore di Mitilene. Poco più di due anni dopo, il 6 ag. 1384, egli rimase infatti vittima, insieme con i propri familiari, di un terribile terremoto che provocò il crollo del castello da lui edificato alcuni anni prima; al disastro scampò solo uno dei figli del G., Jacopo, che venne chiamato a succedergli, mentre il corpo del G. veniva sepolto insieme con quelli di altri due suoi figli, Andronico e Domenico, in un grandioso sarcofago marmoreo, posto nella chiesa di S. Giovanni Battista, identificabile probabilmente con quello, trasformato in epoca turca in un abbeveratoio, che ancor oggi si staglia isolato fra le rovine del castrum di Mitilene.

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