GENALA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GENALA, Francesco

Mario Di Napoli

Nacque suddito asburgico a Soresina, nel Cremonese, il 6 genn. 1843, in una famiglia di piccoli proprietari, da Zeffirino e Diamante Previ. Rimasto orfano di entrambi i genitori a tredici anni, fu accolto nella vicina Soncino da alcuni parenti; quindi si recò dapprima a Milano e poi a Cremona per compiere gli studi superiori.

Allo scoppio della guerra contro l'Austria, ancora sedicenne, tentò invano di sconfinare in Piemonte; riuscì invece a raggiungere Massa, dove poté arruolarsi coi volontari dei Cacciatori della Magra. Dopo l'armistizio di Villafranca, fu inquadrato nell'esercito del governo provvisorio dell'Emilia e acquartierato a Modena, dove gli fu consentito di iscriversi al primo anno della facoltà di giurisprudenza. Accorso a Genova all'indomani della partenza della spedizione dei Mille, si imbarcò con l'avanguardia del generale G. Medici, affidata al maggiore C. Corte. Ma la nave fu intercettata dalla flotta borbonica e condotta a Gaeta: trattenuta in quel porto per oltre venti giorni, poté riprendere il largo solo perché batteva bandiera statunitense, e a seguito di una protesta diplomatica cui il governo napoletano non seppe resistere. Giunto finalmente in Sicilia, il G. fece in tempo a partecipare alla battaglia di Milazzo e a risalire l'Italia meridionale sino alla definitiva vittoria del Volturno, cui contribuì combattendo ai Ponti della Valle di Maddaloni.

Tornato nel dicembre 1860 a Modena per proseguire gli studi, l'anno successivo si trasferì a Siena e vi si laureò il 24 nov. 1862. Per svolgere la pratica legale scelse Firenze, forse attratto dal richiamo culturale della città, che gli consentì di perfezionarsi anche negli studi letterari. Abilitato anticipatamente all'esercizio dell'avvocatura per prendere parte alla guerra del 1866, si arruolò nel 4° reggimento dei volontari garibaldini, comandato da G. Cadolini, distinguendosi il 4 luglio 1866 nel combattimento presso Vezza d'Oglio in Valcamonica, dove salvò la vita al futuro deputato C. Pellegrini.

Al termine del conflitto, affrontò un penoso viaggio per ritrovare un giovane suo compaesano risultato disperso, Antonio Ponzetti, per debito di riconoscenza verso la madre Luigia Vertua, che si era occupata di lui dopo la morte dei genitori. Solo nel gennaio 1867 gli riuscì di identificarne il cadavere e di riportarlo a Soresina, dopo aver girato in Austria, Ungheria, Croazia nella speranza che fosse stato fatto prigioniero.

Un altro viaggio, stavolta a scopo formativo, intraprese subito dopo, visitando la Francia, il Belgio, l'Olanda per poi fermarsi per circa un anno e mezzo a Berlino, dove ebbe la possibilità di approfondire gli studi giuridici ed economici, conoscere grandi maestri come A.F. Berner e R. Gneist, legarsi a numerosi uomini di cultura. Un successivo soggiorno di sei mesi a Londra gli permise di completare la preparazione politico-giuridica e di innestare sulle competenze amministrative e finanziarie acquisite in Germania i valori caratterizzanti della tradizione britannica, a cominciare dal bipartitismo.

Ne nacque il saggio Della libertà ed equivalenza dei suffragi nelle elezioni, ovvero Della proporzionale rappresentanza delle maggioranze e delle minoranze (Milano 1871), che segnalò il G. al mondo politico-culturale aprendogli l'accesso al comitato promotore dell'Associazione per lo studio della rappresentanza proporzionale, a fianco di nomi illustri come R. Bonghi, E. Broglio, L. Luzzatti, T. Mamiani, P.S. Mancini, A. Messedaglia, M. Minghetti. La sua preoccupazione per il sistema elettorale era ispirata a una complessiva visione della società italiana, volta ad "annodare con vincoli politici, morali ed economici i cittadini di tutto lo Stato, a radicare e svolgere le libertà fondamentali". Il metodo proporzionale gli appariva, infatti, il solo capace di garantire a ogni cittadino elettore il diritto di sentirsi partecipe del governo del paese, per il tramite del suo deputato che "siede alla Camera non per diritto proprio, ma per mandato altrui" e "deve trattare gli interessi nazionali in modo non opposto a quello pensato da coloro che l'elessero". A suo avviso, il voto sarebbe dovuto risultare da una libera scelta personale, sottratta all'influenza di criteri di appartenenza territoriale e sociale oppure di un partito politico ridotto a "un mezzo di oppressione sull'individuo, una cagione di odio tra i cittadini, uno strumento di utilità pei suoi condottieri e di cattivo governo per il paese", mentre sarebbe dovuto essere "una difesa per l'individuo, un ravvicinatore dei particolari interessi, un elemento di nazionalità, un ausilio del governo".

Frequentatore apprezzato dei salotti intellettuali milanesi e fiorentini, il G. fu accolto da U. Peruzzi nella Società Adamo Smith (1872), nel cui ambito si occupò della questione ferroviaria, destinata a rappresentare l'oggetto principale della sua successiva attività di governo. Due anni dopo l'Accademia dei Georgofili lo eleggeva socio ordinario e la natia Soresina lo designava a proprio rappresentante alla Camera. Benché in stretti rapporti con la Destra fiorentina, il G. si schierò con la Sinistra, forse per l'ascendenza garibaldina e il legame con il conterraneo A. Bargoni, ma senz'altro per adesione al suo programma di allargare le basi delle istituzioni liberali e di ampliarne il respiro.

All'attività parlamentare, che lo vide lungo sette legislature (1874-93) membro di numerose commissioni speciali (fra cui quella incaricata di esaminare il nuovo codice di commercio e in particolare della giunta di bilancio), si unì ben presto quella accademica: l'Istituto di scienze sociali Cesare Alfieri, che si era appena costituito a Firenze da una costola di quell'ambiente intellettuale di cui il G. era divenuto autorevole esponente (per il tramite della Società di educazione liberale), lo chiamò alla cattedra di diritto internazionale pubblico (1876), cui si aggiunse quella di diritto costituzionale (1877). Partecipe dell'importante progetto pedagogico del nuovo istituto universitario, egli ne fu anche vicedirettore e amministratore.

Lo stretto legame con la città di Firenze e con la sua classe dirigente è attestato anche dallo studio che il G. compì per il ripianamento dell'ingente debito contratto dal Municipio per far fronte alle opere pubbliche richieste dal trasferimento della capitale, affermando il "principio che delle opere intraprese e degli oneri assunti dal Comune nell'interesse nazionale la nazione risponde", quale applicazione del più generale "principio di giustizia che deve essere fondamento degli Stati" (La questione di Firenze e il modo di risolverla, in Nuova Antologia, 1° nov. 1878, pp. 7-48). Al convincimento che lo Stato dovesse farsi carico di una responsabilità morale se non civile verso Firenze il G. aggiungeva la richiesta di promuovere lo sviluppo cittadino con opifici, opere idrauliche e soprattutto istituti di istruzione ed educazione, "non essendovi per certo in Italia altra città propizia agli studi quanto lo è Firenze, per la sua storia, le sue tradizioni, il ricco materiale scientifico, la lingua, la quiete ed il gentile costume". Questo impegno gli valse l'elezione a consigliere comunale (1879) e la concessione della cittadinanza onoraria (1880).

La carriera politica, parlamentare e governativa del G. si incentrò sui nodi della riforma elettorale e della rete ferroviaria, due direttrici indissolubilmente legate per lo sviluppo e l'ammodernamento del paese, perseguito perché "più che con la forza delle armi, uno Stato libero deve, con utili e civili riforme, meritarsi la verace gloria e la gratitudine del popolo" (tornata del 10 maggio 1881 della Camera dei deputati). Egli diede, infatti, un decisivo apporto all'elaborazione della nuova legge elettorale politica, varata nel 1882, profondendovi la competenza dimostrata sin dal suo primo studio di circa dieci anni prima e l'esperienza maturata in seno alla costituita associazione proporzionalista, e battendosi per la tutela delle minoranze, impedita dal sistema elettorale uninominale. Tale obiettivo poggiava su una aperta professione di fede nel più puro spirito del parlamentarismo, pronunciata nella già citata tornata: "C'è una bella differenza tra il manifestare le idee proprie in un giornale più o meno letto e venir alla Camera e, presenti gli altri deputati, nella discussione di una legge o della politica dello Stato, al cospetto della nazione, proclamare in quest'aula, e non solamente come individui, ma come deputati, quelle idee che ancora non sembrano verità ma possono essere tali. La discussione è come un crogiuolo: prova le idee". Fautore del governo rappresentativo e dell'alternanza bipartitica fra moderati e progressisti, e insieme assertore del diritto di ciascun elettore di veder rispecchiato nel proprio rappresentante il suo orientamento politico, sociale, religioso, il G. si batté per introdurre il collegio plurinominale ma con l'espressione di un unico voto, in modo da ampliare il ventaglio dei potenziali candidati che sarebbero risultati eletti raggiungendo un quorum anche ridotto. In subordine, proponeva l'adozione del voto limitato. Prevalse l'opzione dello scrutinio di lista, da lui osteggiato perché tale da comprimere le minoranze o da costringerle a innaturali coalizioni, a detrimento del principio bipartitico.

La sensibilità del G. ai problemi istituzionali si riflette anche nella relazione alla Camera in cui espresse parere contrario all'automatica sospensione dal mandato del deputato condannato o comunque sottoposto a misure restrittive della libertà personale: la garanzia dell'immunità sancita dallo statuto albertino (art. 45) imponeva piuttosto una previa deliberazione parlamentare da affidare comunque a una giunta piuttosto che all'aula, nella "ferma opinione che di giustizia astratta non sia da parlare nelle umane società, e men che mai in questa materia mezzo giuridica e mezzo politica". Sembra quasi un presagio l'espressione della consapevolezza che "anche nelle società moderne si agitano poderose forze, che potrebbero minacciare o sovvertire la libertà" (Del deputato condannato, in Rassegna di scienze sociali e politiche, X [1892], pp. 322-338).

La questione ferroviaria, di cui pure il G. si era occupato da studioso prima che da politico, fu invece all'origine dapprima della sua partecipazione in qualità di relatore alla Commissione d'inchiesta sulle ferrovie presieduta dal senatore F. Brioschi, quindi della sua chiamata al ministero dei Lavori pubblici da parte di A. Depretis nel maggio 1883, in coincidenza con l'estromissione di A. Baccarini e la formazione ostile della "pentarchia". Il G. apparve allora come colui "il quale per il suo passato e per il suo carattere era designato a ritenersi il più adatto a fare un ultimo ma serio ed energico tentativo" per risolvere l'annoso problema della contrapposizione fra i sostenitori dell'esercizio governativo e quelli dell'esercizio privato. Il G., che aveva rifiutato lo stesso incarico quando gli era stato offerto da B. Cairoli e da G. Zanardelli, lo ricoprì invece fino all'aprile 1887, lungo un quadriennio che vide susseguirsi il quinto, il sesto e il settimo gabinetto depretisino. Il suo nome restò perciò legato al disegno di legge sulle convenzioni ferroviarie, che fu approvato nel luglio 1885 al termine di un acceso dibattito parlamentare, durato alla sola Camera ben sessantacinque sedute e conclusosi con un'approvazione di misura. Il suo contributo tecnico-legislativo fu indispensabile ad A. Depretis per portare finalmente a termine un progetto che rifletteva gli interessi dell'alta finanza.

Sviluppando le conclusioni della commissione d'inchiesta favorevoli all'esercizio privato della rete ferroviaria, il G. si mosse in stretta intesa con il presidente del Consiglio e presentò al Parlamento un articolato già integrato dei capitoli contrattuali con le tre costituende società (Mediterranea, Adriatica, Sicula), in modo da anticipare i tempi e spiazzare gli oppositori. Criteri ispiratori erano l'economicità della gestione privata e il risanamento della finanza statale: venivano, infatti, sottratti all'Erario gli oneri di esercizio rivelatisi insopportabili, mentre era a esso riservata una quota prestabilita dell'utile lordo, come entrata libera da ogni spesa. Tuttavia, allo Stato restava un incisivo potere di controllo, con particolare riferimento agli orari, alle tariffe, al personale. Quanto alle nuove costruzioni ferroviarie, i lavori erano assunti dalle medesime società, grazie all'emissione di un prestito obbligazionario garantito dal governo, al tasso del tre per cento, ammortizzabile in novant'anni. All'affare, che si giovò del contributo di capitali stranieri, soprattutto tedeschi, parteciparono i principali gruppi finanziari italiani, e in particolare la Banca generale di Roma.

Nell'incarico ministeriale il G. ebbe anche a occuparsi di bonifiche, poste e telegrafi, porti e linee di navigazione. Particolare fu il suo impegno a favore delle popolazioni terremotate di Ischia e Diano Marina, in occasione dei sismi che segnarono l'inizio e la fine del suo dicastero (1883-87).

Ritornato semplice deputato, non cessò di occuparsi della questione ferroviaria, riferendo alla Camera sul disegno di legge per le nuove costruzioni presentato dal suo successore G. Saracco (1888). Gli fu inoltre affidata la commissione per studiare la questione della conservazione o della demolizione del palazzo di S. Giorgio in Genova, le cui conclusioni furono favorevoli alla prima ipotesi, salva la riduzione alla forma originaria e quindi l'abbattimento dei corpi aggiunti (1889). La relazione fu elogiata per la sua imparzialità e per aver contemperato il sentimento storico con le esigenze urbanistiche.

Dopo aver rifiutato di sostenere il governo Di Rudinì accettando il dicastero del Tesoro, fu ancora ministro dei Lavori pubblici nel primo gabinetto Giolitti (1892). La sua influenza politica era crescente e, secondo quanto ricorda lo stesso G. Giolitti nelle Memorie, fu determinante nella scelta di ricorrere allo scioglimento anticipato della Camera. Fu particolarmente apprezzato da Umberto I e il suo nome circolava fra i possibili candidati alla successione di Giolitti, sempre più invischiato nello scandalo della Banca romana, quando, di ritorno da un viaggio di studio compiuto in Savoia, Svizzera, Germania, Danimarca, il G. poco più che cinquantenne venne a morte a Roma l'8 nov. 1893.

Per disposizione di una sorella, le esequie si svolsero poi nel paese natale, in forma religiosa. Un suo lascito fu impiegato nella costituzione di un'opera pia per gli orfani poveri di Soresina, forse in ricordo della sua personale vicenda e in coerenza con la sensibilità assistenziale che aveva attraversato tutta la sua vita.

Fonti e Bibl.: Le carte del G. sono conservate presso il Museo Francesco Genala, a Soresina (Cremona). A. Bargoni, F. G., in Nuova Antologia, 16 dic. 1893, pp. 609-634; G. Giolitti, Memorie della mia vita, I, Milano 1922, p. 67; G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956, pp. 354-356.; R. Perna, Scritto commemorativo di F. G., s.l. 1972; A.A. Mola, F. G., in Il Parlamento italiano. Storia parlamentare e politica dell'Italia (1861-1988), VI, Milano 1989, pp. 581, 617; V. Gazza, F. G. a cent'anni dalla morte. Ricordo del suo impegno politico e umano, Soresina 1995; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Terni 1890, pp. 503 s.; Enc. biografica e bibliogr. "Italiana", A. Malatesta, Ministri, deputati e senatori d'Italia dal 1848 al 1921, p. 22.

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