BORRI, Francesco Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 13 (1971)

BORRI, Francesco Giuseppe

Salvatore Rotta

Nacque a Milano il 4 maggio 1627 da Branda e da Savina Morosini, che morì nel 1630 poco dopo aver dato alla luce il secondogenito, Cesare.

I Borri vantavano una nobiltà antichissima: "dai Borri di Roma si possono credere originati" (G. P. de' Crescenzi, Amfiteatro romano, I, Milano [1648]; F. Calvi, Famiglie nobili milanesi, Milano 1882, tav. VI). Discendevano - si diceva - da Afranius Burrhus, l'infelice amico di Seneca (Gentis Burrhorum notitia, Argentorati 1660). In età comunale avevano contato qualcosa. Esautorati politicamente, si erano avviati con onore verso le professioni liberali. Il padre, Branda, era un medico di fama, dalle quasi divine (correva voce) capacità diagnostiche; lo zio Cesare era dottore collegiato e professore primario di leggi nell'università di Pavia.

Fu probabilmente il padre a destare, e precocissimamente, in lui l'interesse per gli "arcana naturae". Certo è che seguì molto da vicino le ricerche alchimistiche del figlio, appassionandosene egli pure. Finché il giovane, accortosi "qu'il étoit porté par un desir d'avarice" smise di metterlo a parte dei suoi segreti (B. de Monconys, Voyages, Paris 1695, II B, p. 292). Non corrisponde invece a verità la notizia divulgata da L. Fumi (L'Inquisizione romana e la storia di Milano, in Arch. stor. lombardo, s. 4, XIII [1910], pp. 402 s.) che Branda avesse preceduto il figlio sulla strada dell'eresia.

Per compiere l'educazione dei figlioli Branda, che non mancava di mezzi, scelse uno dei maggiori istituti educativi dell'Italia del tempo: il Seminario romano. Creato da Pio IV il 10 febbr. 1565 e affidato ai gesuiti, era stato una della primissime fondazioni destinate ad attuare le norme del concilio tridentino in materia di educazione del clero. Non preparava però soltanto futuri sacerdoti: se da esso uscirono molti cardinali e perfino un papa, Innocenzo XII, assai più numerosi furono gli uomini d'arme che, in qualità di convittori, vi ricevettero la prima formazione. Rigorosamente classista il criterio di ammissione: i giovani dovevano essere "figli di persone nobili, e delle prime case non solo d'Italia, ma di tutta la cristianità". I Borri furono ammessi in questa società cosmopolitica di poco più che un centinaio di giovani aristocratici, i quali, assistiti giorno e notte dai buoni padri, per uno spazio di almeno otto anni venivano educati a un tempo nella pietà e nelle lettere. Nel Seminario però non si tenevano corsi: vi si ripetevano, sotto la guida di assistenti, le lezioni ascoltate nel Collegio Romano.

Negli anni '40 del sec. XVII, quando giunsero a Roma i due B., si avvicendavano sulle sue cattedre alcune delle personalità più in vista della compagnia: Sforza Pallavicino, Théophile Raynaud, Athanasius Kircher. Nel triennio 1646-1649ne fu rettore Nicola Zucchi. È difficile precisare quanto la formazione culturale - scientifica e religiosa - del B. debba a questi uomini, quanto alla specifica pietà gesuitica. Si può pensare che la devozione della Vergine, promossa in tutti i modi dai padri nell'ambiente del Collegio, fosse all'origine della mariolatria borriana. Ma è bene ricordare che, diciamo così, col veleno essi avevano anche fornito l'antidoto. Proprio uno di quei professori, il Raynaud, era tra i teologi del tempo il più instancabile nel ricordare ai troppo zelanti assertori del privilegio mariano che Maria era pur sempre una creatura e che le era di conseguenza dovuto soltanto un culto di dulia. Quanto all'alchimia, si sa che il Kircher, pur giudicando chimerica la ricerca del lapis philosophorum, non riteneva impossibile la trasmutazione dei metalli.

È un fatto, a ogni modo, che i maestri gesuitici avevano caro il B. e lasciavano che desse libero corso alle sue inquietudini intellettuali. Lo ascoltavano anzi compiaciuti: "motivava dubii di fede - così lo ricordava il p. Evangelista Matutino, che era stato suo tutore - e scioglievane a suo capriccio le difficoltà con tale incanto di errore, e di franchezza, che appariva egli nel medesimo tempo e riprensibile, e giocondo, con quel gran misto d'Idee..." (D. Bernino, Hist. di tutte l'heresie, IV, Roma 1709, p. 641). Gioco pericoloso. Ma era difficile sfuggire al fascino di quell'adolescente impetuoso, alla forza magnetica dei suoi splendidi occhi verdi "dagli occhi, come da due stelle, brillavagli fuori uno Spirito quasi superiore all'humano"). Ancor più dei maestri, ne subivano l'ascendente i condiscepoli. Quei pochi di cui sappiamo il nome rimasero tutta la vita suoi amici ed estimatori grandissimi: Paolo Negri, ministro piemontese a Roma, e il conte Bartolomeo Canali, che a Temi nel 1670 accorse a visitare e festeggiare in compagnia di altri gentiluomini del luogo il prigioniero dell'Inquisizione. L'uno e l'altro erano stati di quei trentuno che nel marzo 1649 avevano solidarizzato vivamente con lui ribellatosi ai modi autoritari del rettore del collegio, al punto di occupare per tre giorni l'istituto. A liberare i gesuiti sequestrati dagli studenti avevano dovuto accorrere, chiamati dalla casa professa, gli sbirri armati. Il rettore era stato rimosso. Ma naturalmente colui che aveva dato l'occasione a quell'esplosione di collera studentesca fu cacciato di collegio.

Il B. continuò per suo conto gli studi intrapresi: alchimia, medicina, un po' di tutto. Non mancavano nell'ambiente romano gli amici e i protettori. Tra questi, il cav. Cassiano Dal Pozzo, che già da tempo per incarico del padre sorvegliava i suoi progressi, e Paolo II Giordano Orsini, duca di Bracciano.

Per interessamento forse di qualcuno dei suoi amici romani il B. trovò lavoro in una legazione secondaria: nel 1653 era segretario del marchese Mirogli, residente del conte del Tirolo, l'arciduca Ferdinando Carlo. Di lì a poco si produsse l'evento decisivo della sua esistenza. Coinvolto in una rissa e costretto a cercare asilo in S. Maria Maggiore, fu visitato da una visione celeste. Preceduti da un terremoto, s. Paolo e l'arcangelo Michele si mostrarono a lui e gli annunziarono grandi turbamenti nella Chiesa: "multa dissonantia venient, omnia tamen ad maiorem Dei gloriam". Era il 23 luglio 1654.

Ormai il B. si crederà investito dall'alto di una grande missione: risanare la cristianità corrotta ed estendere a tutta la terra il regno di Dio. Sarà il difensore del Cristo, il "Prochristus", come a lui piaceva chiamarsi. Cercherà discepoli capaci di dar vita a una comunità perfetta e con l'aiuto dei quali sterminare i peccatori, all'occorrenza il pontefice stesso.

Stragi ingenti dovevano essere compiute, anche in Roma; e per la città dovevano essere portate in giro le teste mozze dei giustiziati. Unica concessione ai peccatori: prima dell'esecuzione sarebbe stato loro permesso l'uso dei sacramenti. Non era che il primo passo: l'obiettivo finale era la riduzione di tutta la terra sotto il segno del Cristo. Sapeva ormai vicinissimo - così confidò a qualche intimo - il tempo "ut unum in orbe fieret ovile, cuius caput futurus sit Pontifex". Il Calvari si entusiasmò per questo messaggio irenico: "La formazione di un solo ovile con un sol Pastore, l'unione dei fedeli cogli infedeli, la venuta del Regno di Dio sulla terra, ecc.... il sogno audace di questo moderno eresiarca". Aveva però dimenticato un particolare: l'unificazione religiosa del genere umano doveva farsi, secondo il B., con la forza delle armi. Chi avesse resistito alla conversione doveva essere soppresso: "omnes delendos vocationi refractarios". Il mondo avrebbe in seguito goduto mille anni di pace perfetta. Annientare il mondo peccatore: era stato ben il programma degli anabattisti di Münster, di Jan Matthijs e Jan van Leiden. Se ne avvidero i contemporanei: Constantijn Huygens, il Bernino, l'Arnold.

L'unione di fedeli e infedeli avrebbe segnato la maturità dei tempi alla rivelazione delle uguali prerogative di Maria e del Cristo. Figlia unigenita di Dio "ante conceptionem verbi", concepita "sine hominis semine" nel ventre di S. Anna, la deipara non diversamente da Gesù era un'incarnazione dello Spirito Santo: una dea. Le parole della salutazione angelica "gratia plena" dovevano dunque intendersi "spiritu sancto plena"; e al canone della messa andava aggiunta la formula: "uninspirata filia". Nell'eucarestia non era contenuto e adorato solo il corpo del Cristo, ma anche quello della Madre. Il Misson ripensò a un'antica eresia: quella delle colliridiane del IV secolo (E.-M. Misson, Nouveau voyage d'Italie, La Haye 1702, II, p. 138). In realtà, nei dogmi borriani si ritrovano, spinte al limite, certe tendenze (si pensi al "voto sanguinario") della devozione popolare dell'epoca (H. Cherot, Louis XIV et l'Immaculée Conception en 1657, in Etudes, XCVIII [1904], pp. 803 s.), nonché gli echi delle controversie teologiche più vive in quegli anni. È del 1653 la Theologia mariana di Cristoval de Vega, dov'è affermata la permanenza di un elemento di Maria nell'eucarestia; è di dieci anni dopo l'operetta del francescano Zephirin de Someire dov'è sostenuto "Virginis carnem, sanguinem, & lac in sacramento altaris adesse" (La devotion à la Mère de Dieu dans le très-saint sacrement de l'autel, Narbonne 1663; Benedetto XIV, De servorum Dei beatificatione, Romae 1749, IV, parte II, c. XXXI, 32); è dell'8 dic. 1661 la prima definizione formale del privilegio mariano. Così pure sono risposte borriane a problemi dell'epoca le sue opinioni sulla grazia ("Deum obligatum esse ex Iustitia non ex misericordia ad auxilia gratiae iustis concedenda") o sulla trasmissione di colpevolezza ("infantes in peccato generatos maculari in anima non originali solum culpa, sed etiam actuali"). Il B., come si vede, traeva tutte le conseguenze dal traducianismo dei Padri ("Filios natos parentibus bonis faciliores esse ad virtutem quam natos malis").

Ai suoi "nationalistae Evangelici" (ma i contemporanei li chiamano anche "ragionevoli" o "apostolici") egli impose sei voti: unione fraterna, segreto inviolabile anche con i confessori, povertà, obbedienza al Cristo e agli angeli, devozione totale sino al martirio alla causa di Dio. Il ritorno alla semplicità evangelica sarebbe stato reso visibile dopo la grande epurazione nell'abito stesso della nuova "religione": una pelle di candido agnello l'estate, due l'inverno; un cappuccio con una croce e un collare ferreo con la scritta: "Ovis mancipium pastoris agni". Gli utensili e i vasi sacri sarebbero stati di terra o di paglia. Motivi pauperistici ben adatti a far presa sulla mentalità popolare. Una parte di primo piano il B. riservava naturalmente a se stesso: era lui l'ispirato che aveva ricevuto il dono delle rivelazioni celesti, in commercio assiduo con gli angeli. Tale sapienza infondeva nei discepoli (ch'egli voleva "rudes" come gli apostoli, "ut opera eorum opera divina clarius haberentur") con la sola imposizione delle mani.

Il testo della sentenza presenta la "conversione" del B. come improvvisa e - non occorre dirlo - finta. Per quanto ne sappiamo, egli era stato invece tormentato sin dai suoi giovani anni da dubbi e preoccupazioni religiose. Coloro che lo conobbero un po' intimamente ricevettero tutti l'impressione di un'intensa vita interiore. Dopo aver discorso a lungo con quest'uomo che la voce pubblica presentava come un ateo e un impostore, il consigliere di Stato Johann Monrath fu costretto a riconoscere ch'egli era acceso da una grande devozione a Dio e da una grande passione per la vita virtuosa. Altrettanto ammise un ministro luterano di Danzica, Andrea Kuehner. Allo stesso Bernino, che s'incontrò due volte con lui al tempo della sua carcerazione, fece l'impressione "d'ingannato, più tosto che d'ingannatore". Le ricerche alchimistiche, nelle quali andò sempre più inoltrandosi, avevano senza dubbio esaltato le sue tendenze mistiche. Soltanto chi avesse raggiunto un'assoluta purezza interiore sarebbe stato capace della "grande opera". Lo studio non bastava; poteva essere anzi sviante. Al Monconys disse "qu'on ne pouvoit être bon Philosophe sans etre bon Chrétien; & qu'on ne consideroit pas que les Prophetes, & Apotres avoient tous eu de cette science par la voye de la Religion, & qu'on quittoit ce bon chemin pour en prendre un autre de l'étude, qui n'y arrivoit pas". Ed era, senza dubbio, sincero.

Cominciò a dar prova dei doni soprannaturali ricevuti durante gli ottanta giorni che durò il conclave dal quale uscì eletto il 7 apr. 1655 Alessandro VII Chigi, componendo settimanalmente gli Avvisi di Roma per la corte d'Innsbruck. Compromesso da quell'attività politica, avvenuta l'elezione del nuovo pontefice, avrebbe precipitosamente abbandonato Roma. In realtà, vi si trattenne ancora un anno buono, fintanto che da Napoli non giunsero i primi segni della peste. Al Sorbière, che aveva raccolto la voce calunniosa che egli si fosse trovato a Napoli durante la pestilenza e che ne avesse profittato per saccheggiare le abitazioni abbandonate il B. rispose sdegnato di non aver mai visto questa città (Ep. ad Th. Bartholinum, p. 58).

Tornato a Milano, trovò una Lombardia in pieno fermento religioso. I tribunali dell'Inquisizione avevano il loro da fare a reprimere le manifestazioni di quietismo, che andavano serpeggiando un po' dovunque: nelle valli bresciane e bergamasche, nella stessa Milano. Particolarmente profonda l'influenza di Giacomo Casolo, un laico analfabeta dalla santissima vita, e su di lui e sui suoi collaboratori si era abbattuta la repressione ecclesiastica. Nel giugno del 1656 il Casolo era morto nelle carceri dell'Inquisizione di Brescia: nell'aprile del 1657 l'arciprete M. A. Recaldini era stato relegato in perpetuo a Udine. Benché non vi fossero sostanziali punti di contatto tra la pratica dell'orazione mentale e le sue idee religiose, il fatto è che il B. fece i suoi primi proseliti proprio nell'ambiente "pelagino" (i seguaci del Casolo solevano riunirsi nell'oratorio filippino di S. Pelagia). Egli stesso sembra che nutrisse grande devozione verso il Casolo: "in conventu huius novae religionis - si legge nella sentenza - collocatum iri deinde ossa Iacobi Philippi de Sancta Pelagia, utpote qui praecursor fuerit huius regni altissimi" (Tractatus et codic. publici ad Historiae Chr. A. Thvldeni Partem Quartam pertin., Coloniae Agrippinae 1663, p. 309). E in una cronaca anonima della cerimonia romana dell'abiura: "si nomina Giacomo Filippo, che era dai seguaci del Borri stimato precursore del Regno di Dio... et che Giacomo Filippo hora si trova in Paradiso sopra s. Ignazio" (Magnocavallo, 1902, p. 383).

II B. non limitò la sua azione a Milano, ma la estese largamente in tutto il territorio lombardo. Dei suoi discepoli, B. Gabrieli era chierico regolare di Paruzano, diocesi di Novara; C. Mangino era chierico di Voghera; A. Brusati era sacerdote di Assola. Di Milano erano gli altri: L. F. Pontio, sacerdote secolare; A. Bonardo, chierico; P. Schilizino, cercante per il monastero di S. Pelagia; F. Pirola. Su otto di cui sappiamo il nome (i condannati furono in tutto dieci) uno soltanto dunque - il Pirola - era laico. È evidente che il B. reclutava di preferenza nel basso clero. Ebbe anche addentellati in qualche monastero di monache. Al Monconys raccomandò di visitare a Pavia la celebre cappuccina suor Maria Domitilla Galluzzi del monastero del S. Sacramento.

L'attività della conventicola non sfuggì al vigilante inquisitore di Milano. Nel 1658 due degli "evangelici" borriani, arrestati, fecero il suo nome. A suo carico venne aperta inoltre nel 1659 in Roma un'indagine sotto accusa di veneficio: si cercava in tutti i modi di perderlo, di comprometterlo. Il sospetto di veneficio si aggiunse a quello, più grave, di eresia. Il 20 marzo 1659 gli fu intimato di comparire in giudizio entro 90 giorni. Il B. (che aveva già abiurato a Innsbruck) non si presentò. Il 2 ott. 1660 fu citato ad ascoltare la sentenza. Fu letta, lui contumace, il 2 genn. 1661 nella chiesa della Minerva: il rogo. Venne arso in effigie, il giorno seguente in Campo de' Fiori. Dei suoi seguaci, quattro abiurarono a Roma; gli altri sei di lì a poco, il 26 marzo, a Milano. Uno di questi ultimi, il Mangino, negò e con alta voce ciò che aveva di già confessato" (Memorie storiche milanesi di Marco Cremosano dall'anno 1642 all'anno 1691, a cura di G. Porro Lambertenghi, in Arch. stor. lomb., VII [1880], pp. 293 s.). Fu imbavagliato, ammanettato, e trascinato via per ordine dell'inquisitore. Le pene variarono tra il carcere perpetuo e la detenzione di qualche anno. Prontamente, l'inquisitore di Milano cercò d'impadronirsi della parte toccata al B. dell'eredità paterna (Branda era deceduto il 18 agosto del 1660). Ma le autorità civili agirono con fermezza ed assicurarono il passaggio dell'intero patrimonio al fratello Cesare, dottor collegiato.

Il B. intanto era riparato a Innsbruck, presso Ferdinando Carlo. Invano Roma si adoperò per la sua estradizione: l'arciduca e sua moglie lo avevano troppo caro. Il B. dirà di aver eseguito in loro presenza delle "proiezioni", di aver cioè trasmutato i metalli in oro; in realtà aveva ottenuto soltanto un po' di olio di talco e di "oro potabile" per l'arciduchessa (Monconys, II B., pp. 293, 297 s.; III, p. 377). Ricorderà con riconoscenza quel principe generoso. Difficile tuttavia resistere alla lunga alle insistenze del nunzio. Con i mezzi fornitigli dall'arciduca il B. si trasferì, alla metà del 1659, a Strasburgo, mettendosi sotto la protezione del Senato di quella libera città. Lo precedeva la fama di uomo portentoso, che ormai correva largamente in Europa, dalle corti principesche ai più remoti villaggi. In un borgo sulla strada di Augsburg un ebreo raccontava di lui cose meravigliose: "Burium ex quatuor qui sint in Europa Cabalistis maximum dicebat; atque maiora ractabat, quae alii de ipso vel scribunt, vel loquuntur". Il residente di Francia a Strasburgo, Giovanni Frischmann, pubblicò per il capodanno del 1660 un Sacrum in suo onore dove egli era poco meno che "deificato". Il "mito" borriano è ormai, a questa data, cristallizzato definitivamente. A Strasburgo il B. riuscì in una difficile operazione della cataratta servendosi dello strumentario messo a punto per lui a Innsbruck dal chirurgo Rocco Mattioli.

Trovò estimatori tra i medici pratici, qual era Giovanni Kueffer, archiatra di molti principi tedeschi; ma incontrò fierissime ostilità nel mondo universitario. Il più in vista di questi professori, Melchior Sebisch jr., lo giudicò senz'altro un ciarlatano. Gioirono quando di lì a poco il Senato intimò a quell'eretico sospetto di allontanarsi dalla città. Holstenius, che da Roma seguiva i movimenti del pessimo soggetto, applaudì al provvedimento.

Da Strasburgo volse i passi in terra tedesca: a Francoforte prima, poi a Dresda (dove si dice che l'elettore gli donasse oltre 3.000 talleri); di qui a Lipsia. Soggiorni brevi o brevissimi. Finalmente nel dicembre del 1660 mise piede in Olanda. Vi rimarrà sei anni e vi godrà una certa tranquillità (se sarà inquietato, non sarà per causa di religione) e una discreta agiatezza. Possedeva una casa del valore di 15.000 scudi in un bel quartiere di Amsterdam; vestiva alla francese; offriva di tanto in tanto "quelque collation aux Dames"; dispensava larghe elemosine ai poveri della città. Ma non era ricchissimo come si diceva. La testimonianza non è sospetta, essendo del Sorbière (S. Sorbière, Voyage d'Angleterre, Paris 1664, p. 158). Qual era la fonte di quella, sia pure non ingentissima, ricchezza, visto che il B. esercitava la medicina senza mercede? Il giovane Ole Borch fece propria l'opinione dei più creduli: "In metallicis credibile est illum sive sua sive (ut sunt qui existiment) aliena dexteritate eo esse provectum, ut de paupertate securus triumphet" (Th. Bartholinus, Epist. medicinalium Cent. III, Hagae Com. 1740, p. 410). II Ménage, per parte sua, era convinto "qu'il avoit un secret pour faire les perles et que c'étoit là son revenu". (Menagiana, Paris 1729, III, p. 188). Molto più credibile è che il B. l'avesse formata con il ricavato della vendita dei suoi medicamenti e, naturalmente, con i doni dei suoi protettori e dei suoi pazienti.

Di qui il sospetto che se la fosse procurata principalmente raggirando vecchi incapaci. In effetti le apparenze erano in certi casi contro di lui. Uomini creduti ricchissimi che erano stati nei loro ultimi giorni in commercio con lui si rivelarono dopo la morte possessori di ben modeste fortune: G. Demmer, direttore della Compagnia delle Indie e condirettore della colonia della Guiana; P. Messert, celebre stampatore di carte da gioco. Assolto nel 1662 da ogni sospetto nella causa intentatagli dagli eredi Demmer, fu invece condannato nel genn. 1665 in quella mossagli dagli eredi Messert: a pagare 5.000 fiorini dietro giuramento di non aver ricevuto la somma di 100.000 fiorini o a pagare la somma intera qualora si fosse rifiutato di discolparsi. Segno che, tutto sommato, le prove a suo carico non erano schiaccianti.Ad Amsterdam la sua fama di medico andava rapidamente oscurando quella degli altri. Poco dopo il suo arrivo vi aveva ottenuto due guarigioni straordinarie; e aveva in seguito continuato a mostrarsi all'altezza, di quei primi successi. Da Leida il 31 marzo 1661 il Borch ne scrive al Bartholin nei termini più entusiastici. Gli incontri che ha con lui ad Amsterdarn a partire dal 23 maggio successivo lo confermano nella sua grande opinione: "Sagax ille ingenium, prudentia Itala, locuples crumena". Nei consulti cita spessissimo Ippocrate, ma si serve anche di rimedi galenici; solo raramente di chimici. Ha attorno a sé discepoli e assistenti, che visitano per lui i pazienti ("aegros... per vicarium plerumque & gratis sanat"). Uno di costoro, giunto di lì a poco a Copenaghen, faceva molto sperare di sé. Numerosi coloro che vogliono mettersi alla sua scuola, a cominciare dal Borch, che ne resta però un po' deluso: "Nemo tamen facile speret se in adyta secretorum elus penetraturum, ita tecte, circumspecte, occulteque loquitur, ut Oedipo opus est coniectore" (Bartholinus, p. 410). Ancor più deluso il giovane Kerckring: "laetior aliquando, numquam doctior ab eo recessi" (T. Kerkringius, Spicilegium anatomicum, Amstel. 1670, p. 200). La considerazione pubblica crebbe allorché nel 1662 cominciò a sperimentare sopra animali la sua tecnica per la rigenerazione degli umori oculari.

Ormai il B. è divenuto un personaggio socialmente cospicuo. - L'aristocrazia gli apre volentieri le sue case: i Brederode, gli Huygens (Constantia - "Tante Dewill" - ne era infatuata). Due gentiluomini sul punto di duellare sono riconciliati da lui (C. Huygens, Oeuvres, IV, La Haye 1891, pp. 350 s., 356). Posa per uno dei più famosi autori di ritratti: Jürgen Ovens. La visita a questo "libero filosofo" è, per i viaggiatori inglesi soprattutto, un rito d'obbligo.

Verso la metà del 1661 è Roberto Southwell, reduce dal grand Tour, a rendergli omaggio. Con soddisfazione reciproca i due si scambiano segreti chimici (Ep. ad Bartholinum, pp. 38 s.).Di lì a poco, nel luglio, l'Oldenburg. Il futuro segretario della Royal Society non si scandalizza affatto di trovarlo invaghito della pietra filosofale. Quella conversazione di qualche ora gli dà anzi (com'egli stesso gli dirà nel suo italiano) un "gusto così penetrante" che l'impressione gliene rimase "fresca nel cuore" ancora per anni (H. Oldenburg, Corresp., Madison, Wisc., 1965, II, p. 416).Ne riparte con una lettera del "grand Lulliste" al Digby unita a un campione del suo legno incombustibile. Una comunicazione del B. sull'argomento sarà letta alla Società nel meeting del 28 agosto (Th. Birch, The Hist. of the R. Society, London 1756, I, p. 42).I "virtuosi" d'Inghilterra avrebbero giudicato senz'altro quell'impresa impossibile - gli assicurerà - "ni artem tuam penitius et specialius cognoverint" (Oldenburg, I, p. 417). E gli chiederà in tutta confidenza la sua opinione "de liquore illo mirabili Alkahest": se il modo migliore di prepararlo fosse quello di Paracelso o quello di van Helmont.

Furono proprio l'Oldenburg e il Digby a presentargli due anni dopo il "virtuoso e cosmopolita" Monconys. Sarà il suo più attento e paziente intervistatore. Tra il 4 e il 26agosto avrà ben nove lunghi colloqui con lui, sia all'Aja in compagnia di Constantijn Huygens, sia ad Amsterdam. Voleva strappargli a ogni costo il segreto di fabbricazione della pietra filosofale, fino a riuscire seccante. Tutto quel che il B. seppe dirgli fu "que la pierre se devoit faire en un instant, si elle étoit faisable, repetant plusieurs fois, si elle étoit faisable". Già gli aveva parlato del "centre de chaque chose, qui n'étoit pourtant qu'un & unique; qu'à moins de pouvoir concevoir ce que c'est qu'unité, on ne peut étre Philosophe, & pour me faire entendre, comme ce centre qui est en chaque chose n'est pourtant qu'une seule unité, il me fit la comparaison du centre d'un petit cercle, qui sera le même d'une infinité d'autres, qu'on feroit par lui, mais dont les diamètres seroient divers" (Monconys, II, p. 290).Da buon alchimista voleva installarsi nel cuore delle cose. In uno dei suoi ultimi scritti citerà Anassagora: "Omnia in uno, in omnibus unum adesse" (De degeneratione vini..., 1697).

Il B., per parte sua, cercava, in tutti i modi, di riuscir gradito ai suoi amici inglesi. Al primo manifestarsi della peste a Londra, nell'agosto 1665, inviò "de son propre mouvement" all'Oldenburg un suo rimedio antipestilenziale, buono - così gli assicurava - tanto per prevenire quanto per guarire, già sperimentato l'anno prima ad Amsterdam e a Emden. Né il Boyle né il Moray, per quanti tentativi facessero, riuscirono a scoprirne la composizione. Da parte inglese non gli venne mai meno la stima e l'interessamento. Hooke si protestava suo amico (si rammaricherà del suo arresto, che lo allontanava dalla "philosophy"). Lo stesso Newton raccomandava vivamente all'amico Aston nel maggio 1669 di ricercare in Olanda quel personaggio che si credeva depositario di gran segreti (Corresp., Cambridge 1959, I, p. 11; II, p. 304).

Ma il B. aveva da circa tre anni abbandonato il suo rifugio olandese. Già al Monconys aveva confidato, in preda a grande ansietà, di non sentirvisi sicuro. Al principio del 1667 lo troviamo a Wolfenbüttel, ospite del duca Rodolfo Augusto di Brunswick. Di qui passa ad Amburgo, dove rimane due mesi al servizio di Cristina (Diarium Europaeum, nov. 1667, p. 665). Incerto del futuro, pensa all'Inghilterra. Attraverso il residente inglese invia un dono sontuoso a Carlo II, singolarissimamente interessato - si sa - alle ricerche chimiche. Nel settembre-ottobre viene invece chiamato a Copenaghen da Federico III.

Vi fu accolto generosamente. A Rosenborghaube, nei giardini del re, ebbe modo d'impiantare un laboratorio ch'era la meraviglia di quanti lo visitavano. Vi trovò a festeggiarlo vecchi e nuovi amici: il Borch, appena ritornato dal suo viaggio italiano e salito sulla cattedra di chimica e botanica nell'università di Copenaghen, felice di riavere accanto a sé quell'"inclutus Naturae thesaurarius", quel "medicorum, choryphaeus", quell'"Hermes saeculi", quella gloria della scienza europea ("phenicem Naturae et gloriam non tantum Hesperiae suae, sed Europae"); il Bartholin, che finalmente poteva avvicinare quell'uomo dottissimo ("multiscius") e profittare della sua "Naturae inexausta scientia". La sua musa ne fu eccitata: "Hospes adest magnus, patrii gaudete penates..." (Carmina, p. 91). Il B. ricambiò tutti quegli applausi poetici con un epigramma di quattro versi (Ep. ad Bartholinum, p. 68), che furono probabilmente gli unici usciti dalla sua penna (non è certamente suo il sonetto per le pubbliche difese di filosofia [1684] del Vallisnieri che si legge in B. Brunelli, Figurine e costumi nella corrisp. di un medico del '700, Milano 1938, p. 202).

Il Bartholin, in particolare, non si stancava d'interrogarlo. Il Magliabechi si stupiva col Panciatichi che fosse così candido uomo: "Che 'l Borri sia tristo da dar ad intendere cose stranissime, non mi apporta meraviglia alcuna, ma mi arrecca bene stupore il vedere, che lo stesso Bartolini gliene crede di quelle, che non si darebbe a bere a Calandrino" (Racc. di prose fiorentine, V, Venezia 1735, parte III, 1, p. 107).

Costretto a restarsene nella sua villa di Hagested, continuò per lettera la conversazione interrotta. Per volontà del sovrano quel commercio epistolare, durato dal 10 marzo 1668 al 14 febbr. 1669, venne subito mandato alle stampe per le cure dello stesso Bartholin. Le tre riviste scientifiche dell'epoca ne riferirono prontamente con parole di lode (Journ. des Sçavans, 2 sett. 1669, ed. di Amsterdam, II, pp. 540-544; Giorn. de' lett., 27 nov. 1669, pp. 130-132; Phil. Trans., n. 64, ott. 1670, pp. 2081-2082). Ma già avevano cominciato a farsi sentire le voci degli oppositori: primo fra tutti il celebre autore della Chirurgia infusoria, J. D. Major (Consideratio physiologica occurrentium quorundam in nuper editis epist. duabus dn. F. J. B., Kilonii 1669). La sua disistima del B. era totale: "auri & gemmarum avidissimus vir" - dirà anni più tardi -, era bravo solo a mungere le borse dei ricchi.

Argomento della prima lettera era la questione, fino allora insoluta, se la sostanza cerebrale fosse o no "pingue". Il B. ne confermò l'alta componente lipidica adducendo a prova il fatto che egli ne aveva ricavato una quantità considerevole di olio combustibile dotato altresì di virtù terapeutiche (analgesico per uso locale nei podagrosi). Quanto all'anima razionale, essa aveva sede in certo liquido sottilissimo e di odor piacevole che si formava nel cervello e al cui "temperamento" piuttosto che alla costituzione cerebrale si doveva la sottigliezza dello spirito. Una personale teoria sulla differenziazione embriogenetica degli organi reggeva tutto il discorso. Ciascuno di essi sarebbe formato "ex motti vivificante" impresso al duplice seme dei genitori da una "virtus immortalis", che era "quasi sigillum Dei" manifestazione particolare del moto rapidissimo e sottilissimo governante l'universo.

La seconda riguardava la possibilità di rigenerare, oltre l'umor vitreo e l'acqueo dell'occhio (cosa ormai assodata), l'umor cristallino. Il problema, al centro di molti tentativi dei chirurghi dell'epoca, sembrava essere stato felicemente avviato a soluzione dal B. con le sue acclamatissime operazioni. Svuotati completamente i bulbi degli umori, il B. vi iniettava un liquido bianchiccio ma trasparente da lui preparato. Si trattava - spiegava ora il B. - di acqua di chelidonia e di un certo flemma di vitriolo di Marte. Di lì a una settimana l'animale riacquistava la sensibilità agli stimoli luminosi. In appendice descriveva accuratamente lo strumentario di cui era solito servirsi.

La lettera ravvivò l'interesse per quegli esperimenti. Il B. stesso lo rifece in presenza del Borch e del Bartholin, che ormai non ebbe più dubbi: "Ex quibus luce meridiana clarius apparet - comunicò il 30 settembre al collega Ph. J. Sachs - possibile esse arte restitui posse humorem quoque cristallinum" (Miscell. curiosa, I, Lipsiae 1670, p. 38). L'esperimento venne di lì a poco ripetuto in presenza del sovrano. Questa volta le manualità dell'intervento furono praticate dal chirurgo del re, Henrik Skriver. Più accorto degli altri, in quest'ultimo sorse il dubbio che la restituzione degli umori e della vista fosse opera della stessa natura. Ripeté l'esperimento "in bianco" e ottenne risultati altrettanto eccellenti. Il liquido del B. era evidentemente superfluo (Acta medica et philos. an. 1671 & 1672, Hafniae 1673, pp. 264-267). Il B. (ormai partito da Copenaghen) era stato "smascherato". Uomo dei tempi nuovi, lo Skriver aveva fatto una scoperta memorabile. Al B. restava al massimo il merito di averla provocata.

Recentemente però il Belloni ha voluto attribuirgli quello di aver istituito una verifica sperimentale della teoria cartesiana della visione. In breve: il B. si sarebbe reso conto "che il cristallino non è indispensabile alla visione, e non costituisce l'organo centrale di questo processo, come allora fermamente si credeva". L'animale privato del cristallino riacquistava però imperfettamente la percezione dello stimolo luminoso. L'artificio borriano non si applicava quindi all'uomo; e infatti il B. si guardò bene dal farlo. Egli avrebbe taciuto sulla vera portata delle proprie scoperte soltanto per meglio sfruttarle a fini personali. Un uomo geniale, dunque; ma ciarlatano.

Più semplice è però supporre che il B. credesse quello che allora tutti credevano; e che fosse sinceramente convinto di aver trovato il modo di rigenerare l'umor cristallino a condizione che il nervo ottico fosse illeso. Constatatane la lesione nei due soggetti umani infortunati che fu invitato a curare con la propria acqua, giudicò inutile l'intervento. In altri casi però, a sentir lui, era intervenuto felicemente: "brutorum hominumque oculos ad pristinum statum... restitui" (Ep. ad Bartholinum, p. 36). Il sospetto di ciarlatanismo avrebbe miglior fondamento se avessimo prove certe del suo cartesianismo. Disgraziatamente, i testi "cartesiani" del B. sono dei falsi belli e buoni. L'unica volta che il B. accennò a Cartesio non diede a vedere alcuna stima di lui: "Il n'estime ni M. des-Cartes, ni M. Vossius, mais un peu M. Hudde..." (Monconys, II, pp. 350 s.).

Nel settembre 1669 il B. trasportò il proprio laboratorio da Rosenborghaube a Christianshavn. Ma già la sua popolarità di medico onnipotente cominciava a essere intaccata. Non si sentiva più sicuro quella corte: "hic lubricum est" confidava all'Hanisius. La malattia e la morte del re, nel febbraio 1670, lo indussero ad abbandonarla. Si era, tra l'altro, inimicato il vecchio Simon Paulli e gli altri medici di corte, sconsigliando - in contrasto con loro - il salasso dell'ultrasessantenne sovrano (Hyppocrates chymicus, p. 155). Cristiano V graziosamente gli concesse il congedo, pur desiderando continuare a servirsi della sua opera (nel 1692 ricorrerà a lui per la cura di uno dei suoi figlioli colpito da un malore rimasto misterioso agli altri medici). Esitante tra Svezia e Turchia, il B. si risolse finalmente per quest'ultima destinazione: un suo vecchio progetto. Degli anni spesi a Copenaghen accanto ai fornelli rimase, unico risultato tangibile, un granello d'oro "alchimico", che ancora figura tra i cimeli reali del castello di Rosenborg.

Con il benservito del sovrano danese, il B. se ne passava dunque nell'aprile 1670 nell'Ungheria superiore diretto a Costantinopoli, quando fu fermato da una pattuglia: si cercavano i complici di una congiura contro la vita dell'imperatore. Credutosi scoperto, il B. prese un partito disperato: sparò un colpo di pistola sul capitano. Ma lo mancò. Vistosi perduto, prese il veleno. Lo indussero a prendere il contravveleno, facendogli sperare della clemenza cesarea. Sotto buona scorta fu condotto quindi a Vienna. Vi giunse il 4 maggio.

Il nunzio Pignatelli dispiegò subito tutto il suo zelo: innanzi tutto affinché il prigioniero fosse ben custodito; quindi affinché fosse a lui consegnato. Ottenne, ma "con grandissimi stenti", soddisfazione alla prima richiesta. Era incredibile - confidava al segretario di Stato il 1º giugno - la protezione che il B. godeva a corte anche dai "principali ministri": a tal segno che "intendevano di lasciargli godere ogni libertà". Di metterlo quindi a disposizione del papa non volevano eppure sentirne parlare. Per un motivo o per l'altro - "chi per venirgli raccomandato da principi forestieri, e chi per proprio interesse o allettato dalla speranza di poter ricavare da lui segreti di grandissima importanza" - cercavano di tenerselo a Vienna. Leopoldo era, al solito, "dispostissimo": erano i ministri, il principe di Lobkowitz soprattutto, a non volere. Le ragioni addotte non erano che pretesti; in realtà, erano tutti illusi dal miraggio di arricchire e di aver allungata la vita. Non per nulla lo avevano trasportato in un quartiere "dove si trovano fornelli ed altre commodità". Ci volle l'intervento personale del sovrano per superare tante opposizioni. Il prigioniero venne finalmente consegnato al Pignatelli la sera del 20 giugno. Scortato da una squadra di trenta soldati, fu avviato a Roma per la strada di Graz e Lubiana. Due servitori fidati dovevano prendersi cura che egli giungesse vivo nelle mani degli inquisitori. Compito delicatissimo, dato che il prigioniero rifiutava ostinatamente cibo e bevanda. Con mille stenti, a causa delle pessime strade e delle acque grosse trovate, il convoglio giunse finalmente il 20 luglio a Lubiana; di qui a Trieste. A misura che andava avvicinandosi a Roma, il B. si faceva sempre più tetro. A Fano, per fargli toccar cibo, dovette accorrere il vicelegato mons. Bentivoglio con mille lusinghe. A Terni, il desinare gli fuservito, già trinciato e su piatti d'argento, dal governatore in persona. Tutta Terni accorse a visitarlo: gentiluomini, dame, gesuiti. Con tutti fu compitissimo.

A Roma, contrariamente a quanto si aspettava, non fu mandato al rogo. Molti si mossero in suo favore: il principe Borghese, lo stesso card. Borromeo. Tutt'altro che incorruttibile, il card. Altieri fece riaprire il processo e lo ammise a nuove difese. Molto giovò al B. il fatto di aver scritto di suo pugno, mentre era fuori d'Italia, due lettere al tribunale, nelle quali si era umiliato riconoscendo e confessando il suo errore, e domandando perdono "sebene - dice la sentenza - volessi patteggiare circa del modo con cui saresti trattato". Altro punto a suo merito: "tu non hai mantenuto e predicato i tuoi errori in quelle parti, nelle quali hai dimorato, né meno hai predicato e discorso contro la Fede Cattolica". Venne perciò assolto dalla scomunica maggiore e la pena del rogo gli fu commutata in quella del carcere a vita. Pallido, canuto innanzi tempo, moralmente abbattuto, secondo alcuni testimoni; intrepido, quasi baldanzoso e punto pentito, secondo altri, il B. ascoltò nella chiesa della Minerva il 25 sett. 1672 la sentenza e fece la sua abiura.

A richiamare l'attenzione sulla sua persona sopravvenne nel 1675 la malattia del duca d'Estrées. Clemente X concesse al B. di uscire dal carcere per visitare il diplomatico francese nella sua residenza di palazzo Farnese. Moltissimi romani accorsero a vederlo. Il 6 luglio il B. fu costretto a mostrarsi dalla loggia del palazzo alla folla plaudente. Di lì a poco, il 20 luglio, anche il card. Nerli ricorse alle arti del prigioniero. L'anno dopo, il 14 ag. 1676, il card. Orsini, ma troppo tardi: il poveretto era già stato "abbrugiato dentro" dai medicamenti somministratigli. La cosa si ripeté, sotto il pontificato di Innocenzo XI, almeno altre due volte. Per i buoni uffici del duca d'Estrées fu concesso al prigioniero - pare - di continuare con qualche agio le sue ricerche alchimistiche (M. Borgatti, Guida generale delle mostre retrospettive di Castel S. Angelo, Bergamo 1911, pp. 68-70) e di essere visitato (sono sue parole) da "tutti quelli che volevano". Ma è assolutamente falso che egli potesse lasciare il carcere quando gli piacesse andandosene in carrozza in giro per la città e che avesse addirittura preso parte in qualità di attore a rappresentazioni teatrali in qualche salotto. Nel 1694, del resto, questa libertà gli fu tolta da Innocenzo XII, quel Pignatelli che se lo era fatto consegnare a Vienna.

Nel 1681 uscirono a Ginevra con la falsa data di Colonia due opere sotto il suo nome, in realtà un'opera unica in due volumi: La chiave del gabinetto del cav. Borri e le Istruzioni politiche al re di Danimarca. La prima era una raccolta di dieci lettere inviate dal B. al tempo dei suoi vagabondaggi europei, un po' dappertutto (a Roma, a Napoli, a Firenze, a Milano, a Torino, a Padova) a destinatari sconosciuti (un principe e una principessa romani, un dottore di Milano, un professore di Padova, ecc.) e che l'editore assicurava di essersi procurate, "con stento", spendendo addirittura qualche somma. L'altro volumetto era invece un'opera sistematica, che rivelava nel B. un buon discepolo dei trattatisti italiani della ragion di Stato.

Ma a un esame un po' attento l'una e l'altra opera si rivelano dei falsi: le prime due lettere della Chiave sono una versione del Comte de Gabalis di Montfaucon de Villars, e l'ultima - una lunga lettera-trattato sull'anima dei bruti - è una traduzione fedele di De l'âme des bêtes di A. Dilly, uscita a Lione nel 1676. Quanto alle Istruzioni politiche, sono una spregiudicata manipolazione dei Discorsi sopra C. Tacito di Scipione Ammirato. Autore del falso era l'avventuriero libertineggiante Girolamo Lamberti Arconati.

Nel 1695 il B. si ammalò di febbre malarica. Conobbe il proprio male e chiese il rimedio adatto: la corteccia di china, il cui uso si andava allora diffondendo in Europa. Ancora una volta, il B. aveva dato prova d'intelligente empirismo. Ma il farmaco richiesto non fu trovato a Roma o non fu cercato con sollecitudine. Il 13 agosto cessò di vivere.

Come i maggiori scienziati del secolo, aveva egli pure cercato di decifrare il gran libro della natura. Quello e quello solo - aveva detto al Monconys - era il libro che si doveva studiare. Ma era rimasto nello spirito un uomo d'altri tempi: in breve, dell'epoca prescientifica. Manipolatore segretissimo della natura, ne aveva cercato non le leggi, ma le confidenze. E aveva atteso fiducioso la luce dell'intuizione che installa, d'un balzo, nel cuore della realtà. La nuova scienza sperimentale amerà la chiarezza e sarà soprattutto più modesta nei suoi propositi. E vorrà essere per prima cosa affare degli uomini di scienza, della comunità scientifica. Il B., quanto a lui, aveva preferito come compagni delle proprie ricerche i principi: "Unam in eo notam limis adspicio - aveva detto con ragione Jacob Holste -: contemnit viros quosvis doctos. Principibus se immiscet aliisque illustribus personis quanivis rudibus". Tuttavia i contemporanei non marcarono con la nettezza che ci si attenderebbe la distanza che separava le sue dalle loro ricerche. Non tutti almeno: Huygens - il cartesiano Huygens - sì; ma non, per esempio, Newton, non Hooke, non Oldenburg, non in genere gli uomini della R. Society. Non si trattava - si badi - di un equivoco: sapevano benissimo che cosa egli cercasse. Il fatto è che erano posseduti dalle stesse ambizioni. La scienza dei fenomeni e delle leggi era un ripiego; la speranza di aggredire la realtà nella sua essenza, di portarsi al centro di tutte le trasformazioni, non li aveva ancora abbandonati. Troppo facilmente si dimentica il rovescio mistico della "rivoluzione scientifica". La curiosità che svegliò l'operare occulto del B. in alcuni dei maggiori autori di questa rivoluzione vale a ricordarlo.

Opere: a)Apocrife o erroneamente attribuitegli: Gentis Burrhorum notitia, Argentorati 1660; La Chiave del Gabinetto del Cavagliere G. F. B., Colonia [Ginevra] 1681; Istruzioni politiche date al Re di Danimarca, ibid. 1681.

b)Autentiche o presunte autentiche: Lettera di F. B. ad un suo amico circa l'attione intitolata: La virtù coronata, Roma 1643; Iudicium... de lapide in stomacho cervi reperto, Hanoviae 1662; Epistolae duae. I. De Cerebri ortu & Usu medico, II. De Artificio oculorum homores restituendi. Ad Th. Bartholinum, Hafniae 1669; Hyppocrates Chymicus seu Chymiae Hyppocraticae Specimina quinque a FJ.B. recognita et... Olao Borrichio dedicata. Acc. brevis Quaestio de circulatione sanguinis, Coloniae 1690; De virtutibus Balsami Catholici secundum artem chymicam a propriis manibus F. I. B. elaborati, Romae 1694; De vini degeneratione in acetum,& an sit calidum,vel frigidum decisio experimentalis, in Galleria di Minerva, II, Venezia 1697, p. 25s. (rist. in A. Vallisneri, Opere, Venezia 1733, I, pp. 382-384).

Bibl.: P. Bayle, Dict., IV, Amsterdam 1730, pp. 615-618;G. M. Mazzuchelli, Gli Scritt. d'Italia, II, 3, Brescia 1762. p. 1790 s.; F. Cancellieri, Dist. epist. di G. B. Visconti e F. Waquier de la Barthe sopra la statua del Discobulo scoperta nella villaPalombaria, Roma 1806, pp. 42-49;E. C. Werlauff, Efterretninger om Italieneren J. F. B's Ophold ved det danske Hof i Aarene 1667-1670, Kiovenhavn 1817;E. Ferrario, La vita di F. G. B., Milano 1858;A. Ademollo, Un precursore di Cagliostro, in Il Fanfulla della Domenica, 13 giugno 1880;G. Di Castro, Un precursore milanese di Cagliostro, in Arch. stor. lombardo, s. 3, II (1894), pp. 350-89;A. Magnocavallo, Notizie e docc. inediti intorno all'alchimista G. B.,ibid, XVIII (1902), pp. 381-400; Id., Ancora intorno all'alchimista G. B.,ibid., XX (1903), pp. 483-490; D. Calvari, F. G. B. di Milano,filosofo ermetico del sec. XVII, Milano 1907; K. K. K. Lundsgaard, B.,Th. Bartholin,H. Skriver, in Janus, XXIII (1918), pp. 41-47; D. Provenzal, Un avventuriero eretico del Seicento, in Bilychnis, marzo 1925, pp. 3 ss.; G. D'Amato, B.: uno Stawisky del sec. XVII, Roma 1934; L. Thorndike, A Hist. of magic and experimental Science, VIII, New York - London 1958, pp. 242 s.; 383-385; L. Belloni, La medicina a Milano sino al Seicento, in Storia di Milano, XI, Milano 1958, pp. 643-646; R. De Mattei, Un plagiario di S. Ammirato, in Acc. e Bibl. d'Italia, XXX (1962), pp. 289-301; L. Belloni, Il ciarlatano F. G. B. e la rigenerazione degli umori oculari, in Simposi clinici, II (1965), 4, pp. XLIX-LVI; S. Rotta, Materiali per la biografia di F. G. B., di pross. pubbl. in Bibl. d. Corpus Reformatorum Ital.

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