GONZAGA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GONZAGA, Francesco

Isabella Lazzarini

Secondogenito di Ludovico III, secondo marchese di Mantova, e di Barbara di Hohenzollern, nacque a Mantova il 15 marzo 1444. Destinato sin dalla nascita alla carriera ecclesiastica, forse per evitare che sorgesse fra lui e il fratello Federico, più vecchio di tre anni, una rivalità simile a quella che aveva diviso Ludovico e il fratello Carlo la generazione precedente, il G. trascorse i primi anni di vita circondato, con i fratelli e le sorelle, da attenti precettori, fra i quali vanno annoverati Ognibene Bonisoli, negli anni tra il 1449 e il 1453, e Bartolomeo Sacchi, noto come il Platina, negli anni tra il 1453 e il 1457. Pur non eccezionalmente dotato, si distinse tra i fratelli per una certa predisposizione agli studi classici: Francesco Filelfo, che aveva composto in occasione della Dieta papale a Mantova nel 1459 un'orazione latina fatta recitare al giovane G., lo riteneva più attratto dalle belle lettere rispetto al fratello maggiore Federico. Chiamato dal padre, sin da bambino, il "prete nostro", venne nominato da Niccolò V protonotario apostolico nel febbraio del 1454. Nel 1460 si recò a Pavia per seguirvi i corsi di diritto canonico, spesso ospite dei duchi di Milano, legati ai Gonzaga dal contratto di matrimonio in quel momento in corso fra Galeazzo Maria Sforza e la sorella del G. Dorotea. Lo accompagnavano, come membri della sua familia, alcuni personaggi che ebbero ruoli di rilievo nella sua vita, fra cui in particolare il prete Bartolomeo Marasca, poi vescovo di Terni, maestro di casa, e il cancelliere Giovan Pietro Arrivabene (protonotario nel 1488, vescovo di Urbino nel 1491), proveniente da una famiglia di origine cremonese.

Il G. era stato preceduto nella carriera ecclesiastica dallo zio Giovan Lucido, per il quale si prevedeva una brillante affermazione in Curia di Roma e che era però scomparso prematuramente nel 1448. A seguito di ciò, le pratiche per l'elevazione del G. alla porpora vennero condotte con determinazione dai marchesi per tutti gli anni Cinquanta. Dopo la Dieta indetta da Pio II a Mantova nel 1459 per coalizzare gli Stati europei contro il Turco, i Gonzaga potevano vantare un grande credito presso il papa. Un problema era però rappresentato dalla giovane età del G., che nel 1459 era appena quindicenne: dopo una prima tornata di cardinali, fra cui non figurava, il G. fu elevato a cardinale diacono del titolo di S. Maria Nuova il 18 dic. 1461. L'età non canonica venne con qualche imbarazzo dissimulata dalla ribadita maturità fisica del giovane prelato, che gli permise sovente di equivocare sulla sua età effettiva.

Nella primavera del 1462, dopo essere tornato trionfalmente a Mantova da Pavia, incontrando in gennaio a Bozzolo il padre Ludovico, che in quell'occasione disse di volergli essere padre "sicom al mondo", ma figlio "sicom a Dio" (secondo una recente interpretazione di Rodolfo Signorini questo sarebbe l'incontro immortalato nella camera picta del Mantegna), il giovane cardinale si recò a Roma, dove giunse il 23 marzo, con una scelta compagnia di gentiluomini mantovani fra cui spiccavano lo zio Alessandro (cui dobbiamo un vivace dossier sul viaggio e sugli onori tributati al nipote) e il fratello Gianfrancesco. Il G. si trattenne nel Lazio e in Umbria per tutto quell'anno e buona parte dell'anno successivo, prendendo confidenza con l'ambiente di Curia e stabilendo la propria residenza in città nei primi mesi del 1463 in prossimità della chiesa di S. Agata dei Goti, residenza cui avrebbe affiancato nel 1468, per concessione pontificia, il palazzo presso S. Lorenzo in Damaso dove aveva abitato il patriarca di Aquileia, il cardinale Ludovico Scarampo. Nell'estate del 1462, recatosi a Viterbo e a Pienza, aveva posto mano, dietro esortazione del pontefice, a un palazzo a Pienza, i cui lavori procedevano peraltro a rilento, anche perché costituivano, per il neoeletto cardinale, una spesa imprevista: mai terminato, l'edificio venne infine venduto nel 1468-69 al cardinale Iacopo Ammannati Piccolomini.

Nell'autunno 1463 il G. fece ritorno a Mantova, secondo quanto scrive lo Schivenoglia, "per avere la decima da i christianij, la ventexima da i zudeij, la trigiexima dai mondanij de Mantoa dicendo volire questi dinari per meterse in ordene per andare contra el Turcho" (p. 160): il G., sia per la giovane età, sia per il rapporto peculiare che legava la dinastia gonzaghesca e la città di Mantova all'ideale della crociata di Pio II, fu tra i cardinali più coinvolti nell'impresa. Nella primavera del 1464 fece vela verso Ancona per partecipare alla crociata, ma la morte di Pio II lo fermò in viaggio. Dopo l'elezione di Paolo II, per cui aveva espresso un voto favorevole, seppure tardivo, la mobilità e l'intraprendenza del G. vennero diminuendo: il cardinale infatti non si mosse da Roma e dal Lazio, se non per tornare a Mantova, praticamente sino alla sua nomina a cardinale legato di Bologna, Romagna e Ravenna che sarebbe avvenuto nel 1471.

In questi anni prese parte, seppur senza ruoli di primissimo piano, alla vita curiale, sia da un punto di vista liturgico (cantando l'officio nella cappella pontificia il Natale del 1464, comminando l'indulgenza plenaria nella domenica delle palme del 1467), sia da un punto di vista cerimoniale e politico, come durante il viaggio a Roma per l'incoronazione compiuto dall'imperatore Federico III nell'inverno tra il 1468 e il 1469 o la visita del duca di Ferrara, Borso d'Este, nella primavera del 1471. In particolare, i legami, familiari e politici, con l'Impero e i Principati tedeschi ne fecero una sorta di cardinale protettore per i paesi germanici. Fra i doveri spirituali che gli vennero assegnati si annovera il protettorato dell'Ordine benedettino degli olivetani, legati a S. Maria Nuova, chiesa cui non prestò peraltro in generale grandi cure: nel 1467 prese parte alla celebrazione della "festa de una certa beata de la quale hanno lì il corpo li frati", probabilmente Francesca Romana (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga [indi Arch. Gonzaga], b. 843, l. 421); fra il 1475 e il 1482 fu inoltre membro della commissione per la canonizzazione di Bonaventura da Bagnoregio.

Negli anni Sessanta si definirono anche le linee portanti dei suoi rapporti con i marchesi e la città di Mantova, in un complesso equilibrio fra la propria personale gratificazione e la nitida volontà del padre di controllare, anche per mezzo suo, gli enti ecclesiastici e i principali benefici della città e del territorio mantovano. Nel 1459, non ancora cardinale, alla morte del protonotario Guido Gonzaga gli era subentrato nella gestione della prepositura di S. Benedetto in Polirone, che era stata scorporata dall'abbazia (il più grande e antico ente monastico mantovano, di fondazione canossiana) nel 1419, allorché questa era entrata a fare parte della Congregazione riformata di S. Giustina di Padova; nel 1463 divenne commendatario dell'abbazia benedettina di Acquanegra e nel 1467 di quella di Felonica. Nel 1466, alla morte del vescovo di Mantova, Galeazzo Cavriani, il G. ottenne il vescovado della città: nominò un vescovo suffraganeo e non risiedette se non saltuariamente nella diocesi; le cinque visite che vi compì non raggiunsero i due anni sui diciassette complessivi di episcopato.

Si trattava di una questione delicata, su cui si è soffermato con finezza di recente David Chambers: il G. era infatti un cardinale-principe, il primo di quella che si sarebbe rivelata una serie innumerevole; era cioè un esponente di punta di quella aristocrazia italiana che veniva nella seconda metà del Quattrocento monopolizzando le cariche di Curia e insieme ridefinendo i rapporti fra il papa e i principi italiani sulla base di una serie di mediazioni e di accordi nuovi rispetto al passato. Il G. era dunque un principe della Chiesa, ma era anche membro di una dinastia principesca radicata in uno Stato indipendente, e si trovava perciò a servire, oltre ai propri interessi, due diverse e superiori autorità: come ebbe a dire il padre Ludovico in un momento di insofferenza, "la beretta nostra ha dato el capello a lui, ma non il suo capello ha dato la beretta a nui" (Arch. Gonzaga, b. 2891.65, c. 73v). Gli interessi del marchese e della città di Mantova non erano sempre e necessariamente coincidenti con quelli personali del cardinale e generali della Chiesa, come emerse con evidenza proprio a proposito della designazione del vescovo di Mantova: Ludovico avrebbe infatti preferito che la carica andasse a Carlo Uberti, arcidiacono della cattedrale e consigliere marchionale, che garantiva la propria residenza a Mantova, e dunque, sul lungo periodo, un maggior controllo da parte del principe dell'episcopato e dei benefici mantovani (il marchese di Mantova in questi anni venne conquistando il giuspatronato sulle massime dignità ecclesiastiche cittadine). Il G., che usciva da una contrastato biennio in cui, attribuitogli il vescovato di Bressanone, si era trovato ad affrontare l'aperta ostilità del capitolo della cattedrale, oppose al volere del padre tanto motivi ideali (la non liceità da parte sua del rifiuto di un incarico spirituale di tale portata), quanto più pragmatiche argomentazioni, sia protestando la massima attenzione nell'amministrazione del vescovado e nella tutela dei benefici mantovani dai curiali, sia sottolineando l'oggettivo vantaggio che sarebbe venuto alla città nell'avere un rappresentante di altissimo livello nella Curia di Roma. Le insistenze del papa, della marchesa Barbara, dello stesso G., alla fine piegarono il marchese. Un caso in cui gli interessi del marchese e del figlio cardinale furono a grandi linee convergenti fu rappresentato dalla lunga e controversa trasformazione del monastero benedettino urbano di S. Andrea in collegiata secolare di cui il cardinale divenne primicerio. Caduto in uno stato di quasi abbandono e sin dagli anni Cinquanta oggetto privilegiato dell'interesse di Ludovico, nel 1472 (dopo che nel 1470 era morto l'abate Ludovico Nuvoloni) S. Andrea venne infine trasformato in collegiata: il marchese ebbe la possibilità di edificare, su progetto originario di Leon Battista Alberti, al posto dell'antico convento una grande chiesa che, ospitando le reliquie del sangue di Cristo rinvenute a Mantova a più riprese tra l'alto Medioevo e il Quattrocento, divenisse un santuario dinastico di grande prestigio.

Con la nomina del G. a cardinale legato di Bologna, ruolo di responsabilità e di rilevante peso politico, la figura del giovane prelato si arricchì di uno spessore politico e pastorale nuovo: egli stesso ebbe occasione di dire, a proposito del suo incarico bolognese, che "dove fin qui ne reputiamo essere stato forse indigni del capello rosso, ce pareria puoi haverlo meritato, et haverne facto honore a la casa che ce lo procuroe" (Arch. Gonzaga, b. 1141, l. 529). Scelto probabilmente per questa carica anche a cagione del peso politico della dinastia gonzaghesca nella regione e per i buoni rapporti fra i Gonzaga e i duchi di Milano, il cardinale si trovò a giocare un ruolo delicato fra i diversi organi del reggimento bolognese e i Bentivoglio (la sua posizione in città venne rafforzata dall'elezione a vescovo della città nel 1476), e ad affrontare situazioni internazionali di grande tensione, sia in occasione della crisi relativa al controllo di Imola (finita poi a Girolamo Riario, nipote del nuovo papa Sisto IV), sia in occasione della guerra del Papato contro Firenze (tenendo conto che il fratello Federico, dal giugno 1478 marchese di Mantova, e i cadetti Gianfrancesco e Rodolfo militavano al soldo di Milanesi e Fiorentini). Di questo periodo resta testimonianza in particolare in due registri personali del cardinale, conservati fra i copialettere dei Gonzaga, di grande interesse per l'amministrazione e il governo della legazione. Nel 1480, dopo un anno - il 1479 - reso particolarmente difficile sul piano locale dall'insurrezione di Cento, il G. si recò a Mantova, dove rimase sino all'inverno. Venne poi inviato, in qualità di legato, a Ferrara nel 1482, allo scoppiare della guerra contro Venezia: si trovò qui in un certo qual modo a controllare e in parte a dirigere l'operato del fratello Federico, capitano sforzesco. Nonostante le sfumature divertite del tono delle lettere tra i due fratelli, il G. prese molto sul serio il suo ruolo: "quella haverà ad stare sotto la obedientia nostra […] et bisognerà che vui obediate o voreti o no […]. Hor assai habiamo motezato" (Arch. Gonzaga, b. 544, l. 112).

Nonostante le precarie condizioni di salute, il G. si recò alla Dieta di Cremona nel febbraio 1483, proponendo di assumere poteri legatizi sull'operato della lega in tutta l'Italia. Le fatiche della guerra lo logorarono però rapidamente: dopo qualche mese trascorso immobilizzato a Bologna, il G. vi morì il 21 ottobre dello stesso anno, assistito sino all'ultimo dal fratello, il protonotario Ludovico.

Il G. non fu, nella Curia di Roma, un personaggio di rilievo particolare: per quanto avesse fama di grande accaparratore di benefici, fu soprattutto il peso politico della dinastia gonzaghesca a consentirgli di accumulare prebende e benefici, la cui quota più consistente, come si è già osservato, era dislocata nel Mantovano e nei territori limitrofi. Dopo avere tentato di ottenere una ricca sede episcopale (Pavia dapprima, poi Trento e Bressanone), riuscì ad avere quella di Mantova, cui si aggiunse Bologna grazie alla carica legatizia che rivestì nella città felsinea. A Roma amministrò S. Maria Nuova, S. Agnese e S. Lorenzo in Damaso; fuori d'Italia ricavò rendite di modeste proporzioni da alcune diaconie, presbiterati e benefici ultramontani (in Francia, nella regione di Angers, in Scandinavia, grazie ai legami di parentela che lo univano alla regina Dorotea di Danimarca, sorella della madre Barbara, in Germania, a Bamberga, Ratisbona, Württemberg, Worms). Il suo asse patrimoniale venne arricchito, nel 1478, dall'appannaggio territoriale riservatogli, insieme con il fratello Gianfrancesco, dalla spartizione del Marchesato successiva alla morte del padre. Come è noto, il testamento di quest'ultimo, morto il 14 giugno 1478, non venne trovato: la madre Barbara, sostenendo di essere a conoscenza del testamento e dopo colloqui "ochulti" con i figli laici, procedette alla divisione del Marchesato riservando il titolo e il corpo centrale dello Stato al primogenito Federico, e cedendo alle due coppie dei cadetti (il cardinale e Gianfrancesco, Rodolfo e il protonotario Ludovico) alcuni grandi comuni rurali nei territori di più recente acquisizione, lungo i confini della diocesi mantovana. Al G. e al fratello Gianfrancesco vennero destinati Bozzolo, Isola Dovarese, Sabbioneta, San Martino dell'Argine, Rivarolo, Viadana, Gazzuolo: dopo alcuni aggiustamenti di confine con il nuovo marchese, l'imperatore Federico III nel giugno 1479 confermò la situazione, con la clausola che gli ecclesiastici (il G. e il protonotario Ludovico) alla loro morte avrebbero lasciato agli eredi dei fratelli la loro quota (la questione della composizione dei lasciti e dei debiti del cardinale si trascinò, per Gianfrancesco, sino alla metà degli anni Novanta).

I rapporti del G. con la sua famiglia furono un elemento fondamentale nella vita del prelato, e non solo per motivi politici o patrimoniali: il G. sentì fortemente la responsabilità di rendere onore alla propria dinastia e alla carica che ricopriva, spinto a ciò sin dai primi anni dagli ammaestramenti del padre, che non nutriva grande fiducia nella vocazione del secondogenito alla vita ecclesiastica e che dunque lo esortava soprattutto a ricordare che "né natura de gentil sangue per gran dignità se insuperbisse, imo se fa più graciosa e più benigna" (Arch. Gonzaga, b. 2097). Ebbe sempre ben presente l'interesse della sua casata: come scriveva al fratello Federico nel luglio 1478, poco dopo la morte del padre, "voressemo più presto subire mortem propriam che veder in lo stato e casa un minimo disturbo" (ibid., b. 1141, l. 522). Era sinceramente legato ai genitori e ai fratelli, tanto i cadetti, che aiutò e ospitò frequentemente a Roma, quanto il maggiore, per cui fu per lo più un sostegno presente e affidabile, e alle sorelle, per le cui vicende ebbe spesso nelle lettere accenti toccanti e sinceri. Ebbe un figlio naturale, a sua volta chiamato Francesco e detto spesso il "cardinalino", nato probabilmente nel 1477 da una giovane donna di nome Barbara, più tardi sposata a Francesco di Antonio da Reggio, un ingegnere dei Gonzaga. Si occupò della sua legittimazione e del suo sostentamento, alloggiandolo nel palazzo che possedeva in città (dopo la morte della marchesa Barbara, che si era occupata del piccolo, rifiutò cortesemente l'offerta del fratello Federico di farlo allevare a corte), assegnandogli proprietà in città e nel contado (la corte di Bigarello) e facendo in modo che gli fosse conferito il titolo di cavaliere.

Raffaele Maffei nel 1506 dipinse il G. come un "vir iocis et ocio natus: luxu regio, ac praeter facultates alioquin verax, et [in]ter patres consilio aliquando haud inutilis", morto giovane per intemperanze: si tratta di un ritratto in parte esatto, certo severo.

Fonti e Bibl.: Per una ricognizione esaustiva dei fondi archivistici e bibliotecari in cui è conservato materiale inerente al G. si rimanda alla monografia di D.S. Chambers, A Renaissance cardinal and his wordly goods: the inventory of F. G. (1444-1483), London 1992. 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