FRANCESCO I de' Medici, granduca di Toscana

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FRANCESCO I de' Medici, granduca di Toscana

Gino Benzoni

Primo dei cinque figli maschi di Cosimo I, allora duca di Firenze, e d'Eleonora di Toledo, nasce a Firenze il 25 marzo 1541. "Cavalca ogni giorno ed è fresco come una rosa" si registra di lui ancor prima che arrivi ai 10 anni, mentre, già alla fine del 1550, un suo pedagogo, Pasquale Bertini, assicura che se la cava nel comporre, che sa qualcosa di latino, che ha una buona predisposizione a "imparar a mente". E successivamente al latino s'aggiunge, pare, una spruzzatura di greco accompagnata da una certa qual facilità per l'apprendimento delle lingue moderne e da un incipiente appassionamento per "anticaglie" e curiosità naturali. Stentato, però, stando alla sua corrispondenza, il suo volgare e, insieme, piuttosto piatto il contenuto delle sue lettere. E la tendenza a straniarsi, lo star "sempre pensativo", il propendere "forte nel melanconico" del fanciullo già anticipano i tratti costanti d'un'esistenza non risolta alla luce del sole, ma strattonata tra il sussiego della veste pubblica e l'umoralità del temperamento. Certo che, fattosi adolescente, F. s'è immeschinito nel corpo e - non senza preoccupazione del padre - incattivito nel carattere. A Lucca nel carnevale del 1559, a Ferrara nel febbraio del 1560, accompagnatore della sorella Lucrezia sposa ad Alfonso d'Este - e ne approfitta per una puntata a Venezia donde, colmo d'autentico entusiasmo, scrive esultante a Cosimo che la "città è in vero cosa maravigliosa", - se viaggiare lo diverte, non altrettanto avviene cogli impegni che il padre vorrebbe imporgli. È colma d'amarezza rimbrottante la lettera del 6 ag. 1561 dell'"amorevol padre" da Camaldoli: F. - così Cosimo - sta conducendo una "vita stracurata et poco conveniente" a principe "ereditario", sta dimostrando scarso discernimento, poco "iuditio"; non è più un ragazzo, è ormai "grande", epperò immaturo quanto al senno, incapace "a saper governare" se stesso da "solo". Attorniato da "servitori" non selezionati cui dà troppa confidenza, sta passando per "poco prudente", per "persona stracurata" con vistosa perdita di "reputatione". Per avviarlo ai "negotii" di Stato Cosimo l'ha ben preposto all'esame di "tutte le suppliche di gratia". Ma si sta diffondendo screditante l'"opinione" - e poco importa se "vera o falsa": è il suo stesso propagarsi che toglie "l'honor a noi", a Cosimo e "a te", a F., "la reputatione per sempre" - dette grazie siano decise e sinanco vendute dai "servitori". Disattesa la pretesa di Cosimo d'un F. esaminante personalmente ogni singola pratica per personalmente decidere sul merito di ciascuna. Sin offeso nell'intimo il duca dal figlio che non ricalca scrupolosamente il modello paterno. Donde la riassunzione, da parte sua, della materia delle grazie. "Non ti meravigliare - così ruvidamente a F. - se non hai più da fare", poiché "da te stesso", lasciando intervenire sull'argomento i "servitori", dando loro voce in capitolo, "te lo sei levato". Se F. vorrà, in futuro, aver "da fare", ciò avverrà, e in misura superiore ai suoi stessi desideri, solo quando dimostrerà consapevolezza dell'"honore et utile" di principe, solo quando geloso della sua "riputatione" non la sminuirà dando spazio all'intervento d'una cricca interessata e adulatrice. Se "fare" significa governare, suo dovere è attenersi al "modo che tiene et ha tenuto tuo padre".

Opportuno, pel momento, che F. non sia ulteriormente corresponsabilizzato negli affari di Stato. Meglio lasci Firenze e le cattive compagnie foriere di male abitudini. Di qui il soggiorno romano dell'autunno e l'imbarco, a fine maggio dell'anno dopo, a Livorno alla volta di Roses per di qui portarsi alla corte spagnola. Dispendioso, in questa, il tenor di vita di Francesco. Sicché i soldi di cui dispone non bastano, sicché ben presto s'indebita, sicché è costretto a inviare il proprio segretario Neri Repucci da Cosimo perché questi lo rimandi a lui con un robusto sostegno. Sollecito il duca gli spedisce la "straordinaria somma" di 25.000 scudi non senza approfittarne per accompagnarla con una lettera - scritta da Livorno in data 30 maggio 1563 - commentante e ammonente. Per "onoratamente… comparir", riconosce Cosimo, occorre spendere. Tuttavia bisogna guardarsi dai debiti, ché così ci si dà "alla mercé d'altri". E, fatti salvi il decoro e la distinzione, il principe non deve, in ogni caso, esagerare, sperperare. "Aggravar li popoli non è la sicurtà delli stati"; "pelare" il gregge dei sudditi non suscita, in questi, "amore". Schiantato dalla recente perdita, alla fine del 1562, di due figli e della moglie, Cosimo, logorato dalle fatiche del governo, malandato di salute già sta pensando d'affidare a F. - che in cuor suo non stima gran che - il disbrigo degli affari correnti. E, poiché F. continua a dimostrarsi immaturo, il duca abbonda in consigli che, se fosse assennato, suonerebbero superflui. Tuttavia è F. il primogenito e come tale - rientrato dalla Spagna il 17 settembre - viene nominato, il 1° maggio 1564, reggente, ché il padre si defila dal governo quotidiano riserbandosi, a ogni buon conto, facoltà di controllo e d'intervento e mantenendo nelle proprie mani tanto la direzione della politica estera quanto il disegno degli obiettivi marinari. Inalveato, così, da coordinate prefissate il trapasso a F. dell'esercizio del potere, nel quale egli più che tanto non s'identifica travolto com'è, nei sensi e nella mente, dalla relazione - iniziata pochi mesi dopo l'assunzione della reggenza - con Bianca Cappello. È un amore ossessivo non circoscrivibile con frettolosi incontri, con rapidi convegni. Alla bella veneziana F. pensa di giorno e da lei si reca di notte. Preoccupatissimo Cosimo, all'inizio del 1565, interviene con una lettera. "L'andar voi solo per Fiorenza di notte - scrive crucciato a F. - non sta bene", specie perché sta diventando "un abito", "una continuatione", un'abitudine che fanno spettegolare, con disdoro di F., l'intera città. Egli - fa presente il padre - dovrebbe guardarsi da siffatte scorribande notturne e per dignità e, anche, per ragioni di "sicurtà". Ma non è che F. si preoccupi di prestargli ascolto, di diventare più avveduto e cauto. Forse Cosimo spera F. rinsavisca con le nozze. Di sua competenza la politica estera che è anche politica dinastica, strategia dell'apparentamento. E F. il matrimonio non può schivarlo. La sposa destinatagli è la diciassettenne Giovanna d'Asburgo, figlia dell'imperatore Ferdinando I e sorella dell'imperatore Massimiliano II. Festa "superbissima", a detta dei cronisti del tempo, gli sponsali a Firenze del 13 dicembre enfatizzante - nel percorso segnato dagli apparati in corrispondenza colle pitture della sala dei Cinquecento a palazzo Vecchio all'uopo tempestivamente ultimate - la gloria medicea e il fondersi delle due casate. Ma sin squallido, in tanto tripudio figurativo, l'effettivo aspetto della coppia. Decisamente, irrimediabilmente brutta Giovanna, mingherlina, afflitta da un evidente rachitismo e per di più non scampata al deturpante timbro, proprio degli Asburgo, del prognatismo della mascella inferiore. Quanto a F. - così impietosamente nel 1566 l'inviato veneto Lorenzo Priuli - "è di statura piccola, magro, negro di faccia e di cera malancolica". Né si può dire la "virtù", da lui "poco" coltivata, lo riscatti. È "molto immerso nell'amor delle donne", precisa severo Priuli, peraltro evitando di specificare quanto F., piuttosto che donnaiolo, sia preda dell'esclusiva passione per la Cappello. Né si può, pure, dire brilli per doti d'"ingegno": impacciato "nelle proposte e risposte", non sa decidere con prontezza, è "tardo ed irresoluto". E "per tale" lo giudica Cosimo che, comunque, l'ha preposto al "governo" sperando l'"esperienza" nel quotidiano "esercizio" di questo lo trasformi, coll'andar del tempo, in "principe prudente". Campeggiante e sovrastante Cosimo su di un F. costretto - per risalire la china della disistima paterna, per accreditarsi - all'imitazione del padre. Si crea di fatto, tra i mugugni disapprovanti di Cosimo e gli scatti d'insofferenza di F. una situazione conflittuale, di reciproca ostilità non senza contrapposizione, a corte, tra i fedeli del padre e i fedeli del figlio. E questa s'appalesa crudamente allorché, il 24 maggio 1566, Cosimo, in un impeto d'ira, uccide il domestico Sforza Almeni che sospetta infedele e informatore del figlio specie relativamente alla sua scomposta vita privata. Disdicevole, indubbiamente, il protrarsi palese della relazione di F. colla Cappello - e responsabile questa, non senza il tacito consenso dell'amante, dell'eliminazione, nell'agosto del 1572, del pur compiacente marito Pietro Bonaventuri -, ma non sta a Cosimo che, una volta vedovo, in fatto di donne s'è scatenato, dare al figlio lezioni di comportamento. È il padre, a un certo punto, specie quando s'ostina, per scrupolo di coscienza, a sposare Camilla Martelli, a essere giudicato insensato da un F. con lui adiratissimo. Ma ormai Cosimo sta barricandosi nella più appartata separatezza. Convinto della positività del proprio prodigarsi per la costruzione dello Stato, ritiene d'aver diritto a una privata intimità non disturbata dalle intromissioni di F. e di sua moglie. Purtroppo non può goderne più che tanto, costretto dall'"infermità", sul finire dell'esistenza, a una vita "più tosto da pianta che da uomo", come ricorderà l'ambasciatore veneziano Andrea Gussoni nella sua relazione del 1576. Meno grande, nella sua penosa decadenza fisica e mentale degli ultimissimi tempi il granduca - tale era divenuto Cosimo in seguito al conferimento papale del titolo del 27 ag. 1569 seguito dall'incoronazione del 5 marzo 1570 - e meno piccolo conseguentemente F., anche se, a giudizio di Gussoni, non "di così vivo, alto e machinato ingegno come il padre". Comunque, morto questi il 21 apr. 1574, è F. il "prencipe assoluto". Stroncata, nel 1575, la velleitaria congiura d'Orazio Pucci (e atroce - checché dica Gussoni il quale giudica F. "molto continente" nella punizione del "delitto" - l'accanimento persecutorio: torturati e impiccati gli arrestati e trucidati da sicari quelli in un primo tempo fuggiti), è anch'egli, come il padre e più del padre, derivando il titolo dal decreto imperiale di Ratisbona del 2 nov. 1575 e rafforzato, nel 1576, in virtù del riconoscimento del re di Spagna, granduca. "Assoluto padrone", insiste Gussoni, detentore del "diretto dominio" su "ogni cosa". Ma laddove il padre, "principe nuovo", a suo tempo, di tutto s'è personalmente occupato, F. non occorre faccia altrettanto. Ora che il regime è consolidato, la fatica del governo quotidiano può essere delegata a un ristretto "numero di consiglieri", soprattutto a Bartolomeo Concini cui, nel 1576, subentra il genero Antonio Serguidi, mentre il figlio di quello Giovanbattista a sua volta, sempre nel 1576, subentra a Lelio Torelli. Fermo restando che "le deliberazioni" sono formulate per "voler del prencipe" e vigono in virtù di questo, che il "peso e la soma" del "maneggio" dello Stato non siano fatti propri in prima persona da F. non lo sminuisce. Se lo può permettere a prescindere da quelle che sono le sue propensioni del momento proprio perché beneficiario d'una struttura trasmessagli dal "principe nuovo" ormai collaudata sicché il "principe" ereditario, in questa saldamente insediato, ha, semmai, il compito d'assecondare lo svolgimento dallo Stato-persona allo Stato-apparato tramite la competente solerzia d'un funzionariato fedele che si sta sagomando nell'articolazione dei compiti. E così F. ha l'agio di promuovere lo "splendore" della corte, d'inorgoglirsi dell'"ampliato palazzo di piazza", del rinnovo di palazzo Pitti, dell'avviata costruzione della villa di Pratolino.

Attivatore d'un'intensificata edilizia F., sollecitatore di fasti e pompe cortigiani, epperò nel contempo da questi straniantesi nella ghiribizzosa originalità di chi s'apparta, di chi si nasconde quasi preferisca avvolgersi nell'oscurità misteriosa piuttosto che essere investito dalla luce. Tenebroso, in effetti, lo studiolo a palazzo Vecchio, impenetrabile al chiarore solare, senza finestre, nelle cui volte l'affresco centrale associa l'allegoria della natura e l'energia creativa dell'uomo simboleggiata da Prometeo. Valga, in questo, la mirata luce artificiale a guidare nel buio la concentrata attenzione dello strano principe che s'entusiasma fondendo "cristallo di montagna" lavorato poi, a mo' di vetro, da specialisti attirati da Murano. Ne sortiscono - riconoscono i contemporanei - vasi di pregio, "nobili e vaghi". Leggiadra altresì la trasparenza sottile della "porcellana d'India" da F. ottenuta. Ammaliato F. da rubini, smeraldi, zaffiri, gemme, perle. Una gioia, per lui, lavorare pietre preziose e ancor più felice se, gareggiando colla natura, riesce a "formare delle gioie false" che, ingannando gli esperti, passano per autentiche. E ottenibili, trafficando cogli "alambicchi", "acque terapeutiche", "ogli sublimati" medicamentosi. E fiero F. d'un antidoto - sorta d'unguento oleoso a uso esterno - di sua confezione valido contro i veleni, adoperabile, ne è convinto, contro le epidemie. Di gran diletto, altresì, l'invenzione di mirabolanti fuochi artificiali. Incoraggiante l'esito dei ripetuti suoi tentativi volti a ritrovare "un modo di moltiplicare il salnistro". E senza tregua, simultaneamente, il suo "gusto" d'intenditore e collezionista d'arte che lo sospinge all'accaparramento di quadri, sculture, miniature, anticaglie, monete, medaglie. "Spende quasi tutto il suo tempo" - annota perplesso Gussoni - e valutando attento manufatti artistici e assiduamente presente nel "casino", fervido laboratorio dove s'affannano artefici, dove distillano i suoi amati "alambicchi", dove sono a sua disposizione materiali e strumenti. Qui trascorre pressoché per intero la sua giornata dal mattino all'ora di colazione e da "doppo desinare" all'imbrunire sovrintendendo all'altrui lavoro, azzardando colle proprie mani, rimuginando possibili combinazioni e sorprendenti accostamenti. Né, tuttavia, è a tal punto dimentico degli affari di Stato da trascurarli del tutto: magari senza muoversi dal "casino", ne tratta pur sempre coi "segretari", fornendo indicazioni di massima, dando "espedizione" alle suppliche e di "grazia" e di "giustizia". Non privo d'una certa qual saviezza F.: come fa sprigionare dalla natura scrutata e manipolata la virtualità dell'intervento artificiale, come, insomma, s'addentra nelle possibili mescidanze di naturalia e artificialia, così, per quel che concerne la propria esistenza, sta, in fin dei conti, mescolando le curiosità del naturalista e del collezionista coi "negozi" granducali, quasi sia possibile conseguire un'armoniosa contemperanza tra doveri e diletti, tra ingessatura della presenza pubblica e privati abbandoni. Divaricanti, di per sé, obblighi e "piaceri", ma anche felicemente armonizzati laddove, nel 1584, la smobilitazione dello studiolo e il trasferimento dei suoi già segreti tesori alla luce della Galleria fa diventare, a gloria del principe, patrimonio pubblico quel che è stato il suo spazio privato.

Ben più arduo, però, conciliare l'empito del desiderio che lo sospinge alla volta delle accoglienti braccia della Cappello - dall'amore con la quale nasce, il 29 ag. 1576, Antonio, che F. legittimerà come proprio figlio naturale nel 1583 - e l'uggia che l'invade assolvendo ai doveri coniugali colla poco attraente consorte, dalla quale nascono, comunque, a disdetta della prima "opinione" riscontrantela troppo magra per "generare", nel 1567 Eleonora, nel 1568 Romola, nel 1569 Anna, nel 1571 Isabella, nel 1572 Lucrezia, nel 1575 Maria. Ben sei femmine, di cui tre vivono pochissimo e una, Anna, muore quindicenne. Ma la primogenita e l'ultimogenita bastano - la prima sposando Vincenzo Gonzaga e l'ultima sposando Enrico IV di Borbone - ad assecondare il prosieguo della politica matrimoniale medicea. E salutata con gioia la nascita, del 20 maggio 1577, di Filippo - indicativo il nome di piaggeria nei confronti del re di Spagna accompagnata, si può ipotizzare, da un rifiuto, da parte di F., di riprodurre nel figlio il nome d'un padre non amato - l'erede purtroppo destinato a morire a nemmeno 5 anni, il 29 marzo 1582. Grande allora il dolore di F., che, invece, allorché il 9 apr. 1578 muore tra atroci sofferenze - è incinta dell'ottavo figlio - la moglie, non riesce nemmeno a fingere, nel volto, dispiacimento. Non più vincolato da un matrimonio per tanti versi opprimente, si sente libero. E approfitta della vedovanza per regolarizzare - col matrimonio segreto del 5 giugno, a nemmeno due mesi dalla scomparsa di Giovanna d'Asburgo - il rapporto colla Cappello. Da passar, di per sé, sotto silenzio - se non altro per non urtare la corte cesarea - queste seconde nozze di Francesco I. Solo che il bisbiglio in proposito dilaga ben presto - non senza responsabilità della nuova sposa interessata a garantirsi per tale e a deporre la meno rispettabile qualifica d'amante - a mo' di rumorosa certezza. E, una volta certo, il Senato veneziano - dimentico dell'antecedente condanna scagliata contro la fuggitiva - il 16 giugno 1579 non esita a proclamarla con enfasi figlia della Repubblica marciana. Col che - nobilitata da una riabilitazione che ricalca, per lei, la formula a suo tempo adoperata per Caterina Cornaro - la veneziana diventa sposabile a pieno titolo, non più soltanto morganaticamente. Sicché - di contro agli ostacoli frapposti dal cognato card. Ferdinando de' Medici che per lei nutre un'avversione furente - il 12 ottobre, le nozze vengono ripetute ufficialmente e solennizzate dalla conseguente incoronazione. "Granduchessa", a questo punto, agli occhi della Serenissima, la sua "vera e particolare figliola" e "granduca" senza più riserve - sino allora Venezia s'era ben guardata dal profondersi in riconoscimenti per un titolo già ritenuto abusivo - F. è come tale omaggiato da Giovanni Michiel e Antonio Tiepolo espressamente inviati dalla Repubblica per presenziare alla cerimonia. Trattati i due come "due re", rientrati a Venezia, il 9 novembre riferiscono, grati di tanta accoglienza, che mentre Bianca si proclama "obbligatissima serva et schiava" della Serenissima F. risulta - alla superficie, ché di fatto la moglie veneziana non lo disancora dalla dipendenza da Filippo II - "benissimo affetto", al contrario del padre, nei confronti di Venezia. Una "pronta" e ben "disposta volontà" che - per quanto più verbale che sostanziale - a sua volta ben dispone nei propri riguardi Michiel e Tiepolo, sì da indurli non già a ripetere che F. è impari al padre bensì da porsi sullo stesso piano. E ciò a cominciare dall'aspetto: "è di faccia grave - così i due ambasciatori marciani - … con occhi grandi simili a quelli del padre, al quale anco nel resto… va ogni dì più… assomigliando". Né la somiglianza si limita al sembiante, visto che è estendibile al comportamento politico. F., sempre a detta dei due, è "pazientissimo nelle udienze", "assiduo alli negozi", accentratore. "Non tratta né tiene mai consiglio di alcuna sorte", ossia non vi sono commissioni speciali, ma si limita, se "ha alcun dubbio", a sollecitare il "parere d'alcuno" ma sempre limitatamente a un argomento preciso, sempre coll'avvertenza di consultarsi, di volta in volta, ora "con uno" ora con "un altro", mai sottoponendo al giudizio d'"alcuno" il "tutto". F., insomma, a veder dei due, proseguirebbe il metodo paterno: "questo è stato uso del padre" e ora F. "fa il medesimo" lasciando le "cose civili" alle "vie ordinarie de' magistrati" - tutti "confidenti e dependenti" da lui e tali per sua "nominazione" - mentre "le criminali" comportanti l'"utile grande" delle condanne "pecuniarie… assolutamente passano tutte per mano sua" e di Lorenzo Corboli. Laddove, nella relazione di Gussoni, proprio la constatazione del molto tempo trascorso da F. a "intagliar gioie" e a "lavorare di lambicchi", sospinge a intuire il funzionamento dello Stato a mo' d'embrionale meccanismo virtualmente automatico nella misura in cui non abbisogna dell'esclusiva dedizione del principe, nella posteriore relazione di Michiel e Tiepolo, un sussulto d'intensificato attivismo di F. viene assunto come suo tratto costante. Poiché sta dando prova d'"industria e diligenza" assidue, ecco che - anziché differenziarsi da Cosimo - si presta, per tal verso, a essere a questi assimilato, in termini di continuità, sin di medesimità. "Gran maestro del'ordine di san Stefano", ad esempio, non trascura, "ad imitazione del padre", d'"ampliare" il più possibile quest'"ordine" nel 1562 appunto "istituito da Cosimo".

Proseguimento, altresì, d'iniziative paterne la ristrutturazione di palazzo Pitti, l'ultimazione della Galleria degli Uffizi. Ma decisione innovatrice di F. la destinazione museale di quest'ultima e, pure, suo esclusivo "parto, edificato da lui fin dalla prima pietra" Pratolino, "a giudizio universale" il più bello tra i "luoghi" medicei, superiore persino ai pur "bellissimi" Poggio e "Castello". Colle sue fontane composte di pietre rare quasi a campionatura mineralogica, colle sue grotticelle, coi suoi sassi sparsi, colle sue artificiali elevazioni, colle sue sculture, col suo parco cinto da alto muro, coi suoi giochi idraulici, col suo sciorinare sorprendenti meraviglie, col suo mescidare bellezza e bizzarria è l'autentica "delizia del granduca", come la definiscono Michiel e Tiepolo. Se non altro con questa villa F. - che vanta una "cappella" stipata di "musici", che accumula rarità, che fa venire tre alci pel serraglio granducale dalla Svezia, che fa ristrutturare l'orto botanico pisano, che asseconda la stampa del Decameron sia pure purgato, che istituisce la Crusca, che s'avvale di Giambologna e Buontalenti, che ricorre ad Ammannati - va oltre Cosimo. E se, con Cosimo, la brunelleschiana cupola di S. Maria del Fiore è affrescata da Vasari, morto questi nel 1574, è Federico Zuccari a salire - per volontà di F. - sui ponteggi dal 1575 al 1579, con viva irritazione degli artisti locali e con gran sconcerto di Borghini, il meticoloso estensore del programma iconografico del Giudizio universale. Ardimentosamente estroso il pittore marchigiano non si preoccupa certo di sintonizzarsi coll'algido manierismo del suo predecessore. Ma già F., in sede di committenza, scegliendo Zuccari non s'è preoccupato d'allinearsi con quel che era stato l'orientamento di Cosimo. "Amicissimo e fautore de' virtuosi d'ogni qualità" - così Michiel e Tiepolo nella loro relazione del 1579 - la consapevolezza che motiva le sue scelte figurative che l'inducono a volgersi a un Allori e a un Barocci non è estendibile all'ambito letterario, visto che s'accontenta d'uno storico scadente come Natale Conti. Comunque ai due inviati veneti appare principe colto, "intendente" di lettere, di filosofia, di "matematiche". E se a Priuli, nel 1566, è parso incapace d'un discorso argomentato, ora, nel 1579, il suo stesso parlare rado assurge a laconica saggezza: "poche parole" le sue, "ma quelle tutte a proposito".

Da dedurne che - coll'andar del tempo, col venir meno dell'ingombrante sovrapposizione del padre - F. s'è maturato, ha assunto un proprio autonomo profilo. Spartite ora tra lo svago mattutino della caccia praticata soprattutto a Pratolino e la "gran pazienza" delle "molte ore" trascorse con "segretarii e ministri" le sue giornate. E avvertibile, per l'inviato veneto Alvise Buonrizzo, una tripartizione delle competenze: la cura dei rapporti colla S. Sede e colla Spagna, del governo di Siena e della flotta spetta ad Antonio Serguidi, quella delle relazioni coll'Impero, con la Francia, con gli Stati italiani a cominciare da Venezia è propria di Belisario Vinta, mentre Corboli continua a occuparsi delle "cose criminali". Balugina una sorta di ristretto consiglio dei ministri e si configurano gerarchie. Prospero Colonna è, ad esempio, "capo da guerra principale". Ma senza effettiva autonomia decisionale i "secretari", dal momento che la benché minima loro "parola" dev'essere da F. "espressamente" autorizzata. Sicché il governo - impegnato durante il regno di F. nella lotta al banditismo, nell'estensione della coltivazione del gelso e nel correlato incremento del setificio, nell'avvio, colla deposizione della prima pietra del 28 maggio 1577, dell'urbanizzazione dello scalo livornese risente di quelli che sono i convincimenti, le preferenze e sin gli sbalzi d'umore del principe. Appassionato di minerali, questi. Donde le grandi speranze in vene, in giacimenti e la conseguente apertura di cave il cui sfruttamento - una volta esaurito il minerale di superficie - nella inadeguatezza delle tecniche d'estrazione si rivela ben presto antieconomico. E, allora, s'abbandona il filone da poco scoperto. Ed è lo stesso F. a dover disporre la chiusura della cava che pareva promettente. Senza deviazioni dalla sostanziale dipendenza asburgica - premiata coll'onorificenza spagnola, elargita a F. nel giugno del 1585, del Toson d'oro - la politica estera, epperò agitata dalle impuntature di F. per questioni di titoli, di precedenze, immeschinita da brighe e beghe (specie coi Gonzaga e gli Estensi) per le quali si mobilita, con gran spreco di energia e intelligenza, tutta la diplomazia granducale. Cocciuto, F. non demorde, non transige, si irrigidisce. Se s'intestardisce - così Buonrizzo - non c'è modo d'indurlo alla ragionevolezza. Lo prova la caparbietà per la quale non ammette deroghe alla stabilizzazione del corso della moneta aurea da lui voluta ancora quand'era reggente. Il "prezzo" dello scudo dev'essere di "lire 7 soldi 10". Una sottovalutazione imperiosa la quale - dal momento che l'"aumento dell'oro non piace a sua altezza", dal momento che F. non accondiscende a una ragionevole rivalutazione - finisce col provocare l'esodo dell'oro verso piazze più convenienti, il rarefarsi a Firenze del circolante aureo. "Di presente non si trovano qui pochi scuti d'oro et costano assai", è costretto ad ammettere F., nel giugno del 1585, col rappresentante spagnolo don Pedro de Mendoza che sta insistendo per un prestito in oro a Filippo II.

Nel frattempo la presenza, ora legittima, di Bianca Cappello al suo fianco si sta rivelando positiva, e allora vanno quanto meno ridimensionate le reiterate colpevolizzazioni della veneziana effigiata a mo' di devastante ignominia per la figura del granduca. Alla cerimoniosità della vita di corte preferisce l'intimità coniugale dei prolungati soggiorni a Pratolino, così assecondando il marito che, nella villa prediletta, coltiva una "ritiratezza" ormai "solita", abitudine costante. Unita la coppia granducale, solida, avvinta da autentico affetto. Già intrigante la veneziana quando doveva difendersi nella sua rischiosa situazione d'amante chiacchierata e malvista, una volta "granduchessa", paga della conseguita rispettabilità, non nutre particolari ambizioni, non pretende d'esercitare una qualche influenza politica. Invisa al cognato card. Ferdinando, non si vendica inasprendo il già difficile rapporto tra lui e F.; s'adopera, invece, per frenare le ire di questo contro il fratello. Se discretamente suggerisce, è solo perché sollecitata da F. che di lei si fida pienamente. E perciò con lei si consulta, specie in merito a ciò che conviene in fatto di matrimoni: c'è, allora, anche il parere favorevole della moglie a che Eleonora, figlia di F. e di Giovanna d'Asburgo, sposi Vincenzo Gonzaga il 29 apr. 1584 e Virginia, figlia di Cosimo e di Camilla Martelli e quindi sorella di F., sposi Cesare d'Este il 6 febbr. 1586. Tormentoso cruccio, invece, specie dopo la scomparsa del piccolo Filippo, titolare della diretta successione a F., quello della nascita d'un altro erede. Impensabile - e, ad ogni buon conto, il card. Ferdinando s'è già garantita l'opposizione spagnola a eventuali tentativi d'addivenire a una soluzione del genere - la nobilitazione a tal punto d'Antonio, il figlio naturale riconosciuto da Francesco I. Debilitato e sfiancato - a detta dello spettegolare della corte raccolto, morto F., dall'ambasciatore veneto Tommaso Contarini - dagli "spessi e immoderati abbracciamenti della moglie", epperò senza frutto tanto ardore coniugale. Non sterile in età giovanile Bianca - tanto che ha avuto dal primo marito Virginia e da F. Antonio - ora pare irreparabilmente tale. Inutili i consulti dei luminari della medicina, vani i farmaci, le diete, gli accorgimenti caldeggiati. Disperata Bianca si circonda di maghe e fattucchiere. E a mano a mano esasperato F. dalla loro presenza. Intollerabile gli è, soprattutto, una vecchia ebrea sempre dappresso alla moglie, sinché un giorno, nel 1583, fuori di sé, s'avventa su di lei finendola a colpi di pugnale. Un delitto di cui non deve rispondere, come a suo tempo suo padre non ha dovuto rispondere dell'assassinio del domestico. Né è il primo perpetrato da F., già committente d'omicidi a prezzolati sicari, già complice, nel 1576, dell'assassinio della sorella Isabella e della cugina nonché cognata Eleonora di Toledo trucidate dai rispettivi mariti perché adultere. "Amante dell'alchimia e delle arti meccaniche" come lo definisce Montaigne, promotore del concorrere di parola e musica alla volta del melodramma e del sorgere del primo teatro stabile a Firenze, ha di che distrarsi, a tacitare eventuali accenni di rimorso, cogli apparati idraulici di Pratolino. Né smette d'amare la moglie col trasporto alimentato dalla speranza di renderla incinta. Sovente "travagliata da qualche incidente" - così l'agente di Francesco Maria II Della Rovere, le cui lettere costituiscono una sorta di continuato resoconto sulla vita di corte inclusivo dei "fastidiosi" e "strani accidenti" che affliggono la granduchessa nonché dei disordini alimentari con relative conseguenze di F. - l'ingrossamento accompagnato da malesseri dei primi mesi del 1586 finisce coll'illudere il granduca sì da ritenere certa la gravidanza della moglie, come sostiene l'agente al duca d'Urbino il 14 giugno. E - a dispetto della ragionevolezza - all'illusione caparbiamente s'aggrappa sino a fine anno, mentre fioriscono "satire" in proposito e s'infittisce il maligno "cicalare" della corte. Bisogna attendere l'inizio del 1587 e il ristabilimento della granduchessa perché F. sia costretto ad ammettere che "il gonfiamento del corpo sia stato infermità et non gravidezza". Il che, a ogni modo, non insidia la tenuta del matrimonio e, semmai, accentua la propensione dei due coniugi a prolungare i soggiorni in villa, specie a Pratolino, lontani dalla corte.

A Poggio a Caiano, il 7 ott. 1587, reduce da una partita di caccia F. s'ammala in forma a tutta prima non preoccupante se l'11 pare rimettersi al punto da ricevere i segretari. Ma il miglioramento dura poco, ché il 16 l'aggredisce una febbre violentissima. Inefficaci le cure, senz'esito i salassi, sicché alle 4 del 20 ott. 1587, muore. E spira, pure, alle 15 dello stesso giorno la moglie, anch'essa di febbre malarica. Questa la risultanza desumibile dal referto del 28, sottoscritto da tre "fisici" autorevoli.

Da escludere, a ogni modo, il veleno di cui - sezionati i cadaveri per disposizione del successore Ferdinando, deciso a stroncare sul nascere dicerie di veneficio a suo carico - non v'è traccia. Solenni, il 15 dicembre, le esequie di F., ma non della moglie ché, per ordine di Ferdinando, il suo corpo è già stato sepolto; e vengono pure cancellate in tutta la città le sue armi, per sostituirle con quelle di Giovanna d'Austria. Tranquillo il subentro di Ferdinando, il quale - a sventare eventuali pretese d'Antonio - s'accinge a farlo passare per "figlio supposto" e non effettivo di Francesco I.

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