FRANCESCO IV d'Austria-Este, duca di Modena e Reggio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FRANCESCO IV d'Austria-Este, duca di Modena e Reggio

Marina Romanello

Nacque a Milano il 6 ott. 1779, terzogenito e primo maschio dei sette figli dell'arciduca Ferdinando d'Austria e di Maria Beatrice Ricciarda, ultima erede, dal lato paterno, di casa d'Este e, per parte di madre, dei Cibo Malaspina, di cui portava in eredità il Ducato di Massa, il principato di Carrara e i feudi imperiali della Lunigiana.

Il loro matrimonio era stato a suo tempo fortissimamente voluto dall'avo materno di F., il duca Francesco III d'Este, che era riuscito infine a imporre la propria scelta anche al figlio Ercole, padre, appunto, dell'unica erede Maria Beatrice; lo scopo dell'operazione era stato palesemente quello di garantire la continuità dei domini estensi appoggiandosi alla casa d'Austria.

In realtà la successione naturale degli avvenimenti sarebbe stata imprevedibilmente sconvolta dai rivolgimenti francesi di fine secolo: inevitabili le ripercussioni anche sulla vita stessa degli Austria-Este imparentati con la famiglia reale di Francia e non è affatto escluso che le potenze alleate, al momento della Restaurazione sancita a Vienna, avessero puntato con premeditazione, per ristabilire l'ordine, sulla figura di F., la cui esistenza era stata segnata precocemente dalle tragiche conseguenze della Rivoluzione.

F. aveva, infatti, quattordici anni quando la zia paterna Maria Antonietta saliva sul patibolo a Parigi. Poco dopo tutta la sua famiglia abbandonava frettolosamente Milano e l'Italia, ritenute insicure, e riparava alla corte di Vienna, dove soprattutto la madre, donna intelligente e superba, si sarebbe prodigata a preparare per i figli destini politicamente importanti a dispetto della palese ostilità - del resto ricambiata - del potente principe di Metternich. Per F., in particolare, aveva a lungo accarezzato il progetto di un matrimonio con l'arciduchessa Maria Luigia, primogenita dell'imperatore; costei, in realtà, sarà data in moglie a Napoleone Bonaparte, per volere soprattutto del ministro di casa d'Austria (1810). Al futuro duca di Modena - non dimentico dello smacco subito - non restò che ripiegare su Maria Beatrice di Savoia, sua nipote diretta perché figlia della sorella Maria Teresa Giovanna e del re di Sardegna Vittorio Emanuele I.

Le resistenze papali a concedere la necessaria dispensa furono piegate certo dalle instancabili pressioni della madre di F., per la sua riconosciuta pietà cattolica. Per mezzo del legame con i Savoia essa perseguiva il disegno di recuperare per il primogenito più ampie prospettive politiche, quelle stesse che - ancora una volta per opera del Metternich - gli sarebbero state definitivamente precluse nel 1814, quando l'Inghilterra e l'Austria si rifiutarono di attribuire a lui un integro Regno d'Italia.

F., esordendo non precocissimo sulla scena politica europea, vide il proprio destino mutare nel breve volgere di due anni a partire dal suo matrimonio celebrato il 20 giugno 1812: da utopico suscitatore di odi antifrancesi male accetto alla Realpolitik delle Cancellerie europee - che lo avevano visto pericoloso organizzatore di un'armata di liberazione della penisola, raccolta in Dalmazia e nei porti italiani sul Mediterraneo -, alla più realistica funzione di strumento - non privo di autonomia personale - delle grandi diplomazie, proiettate ormai verso il progetto di una restaurazione che si annunciava imminente dopo la battuta d'arresto subita da Napoleone in Russia.

Perfettamente funzionale, quindi, ai diffidenti disegni delle potenze, F. accettò il rientro a Modena dopo avere realisticamente abbandonato le mire sul Milanese.

Dopo un periodo di reggenza, gestito a partire dal 7 febbr. 1814 dal conte L. Nugent, il nuovo duca entrava finalmente in città il 15 luglio successivo accolto in modo prevedibilmente positivo dalla classe dirigente prerivoluzionaria e con comprensibile sollievo anche dalle popolazioni provate dal lungo periodo di guerre e incertezze.

Quella attuata da F. sin dall'inizio fu una cosciente, ideologicamente orientata e tutt'altro che sprovveduta restaurazione. In quest'ottica si devono già collocare i primi contatti avuti dal duca estense al suo arrivo: l'incontro del luglio 1814 con l'abate commendatario dell'abbazia di Nonantola; con Francesco Maria d'Este, vescovo di Reggio; con il vescovo di Modena Tiburzio Cortese; infine, con il pontefice Pio VII nel giugno 1815 a Modena. Così come pregno di valenze politiche oltre che simboliche appare il "convegno di famiglia" (Amorth, Modena capitale, p. 302) che riunì a Modena nel dicembre del 1815 oltre F., la sorella Maria Ludovica, moglie di Francesco I imperatore d'Austria, la madre Maria Beatrice d'Este, i fratelli arciduchi Ferdinando e Massimiliano. Che F. fosse già all'epoca conscio di porsi nell'alveo di una ben precisa tradizione familiare in senso lato e di continuità di governo con i predecessori lo testimonia la dichiarata intenzione di ricollegarsi all'esperienza di Ercole III e alla legislazione blandamente illuminata di cui i domini estensi avevano goduto sotto il governo di quello.

Comprensibili in questa prospettiva le scelte immediate del principe anche sul piano legislativo: egli ripristinò nelle cinque province di Modena, Reggio, Garfagnana, Lunigiana e Frignano il codice estense del 1771, abrogando invece la maggior parte delle normative emanate tra il 1796 e il 1814. Delle leggi emanate in periodo francese rimasero il regime ipotecario, l'abolizione della tortura, quella dei fedecommessi e l'abolizione delle autonomie amministrative. Accanto a tutto ciò fu reintrodotto l'uso delle investiture feudali, di una corte e del relativo organigramma di maggiordomi e scudieri, mentre vennero invece emarginati gli uomini nuovi emersi durante il Regno Italico; nel 1821 a Modena furono richiamati i gesuiti, e in generale si ricercò a ogni possibile livello il consenso cattolico e si ristrutturò lo Stato secondo una precisa e prevedibile organizzazione piramidale, di cui il principe era il referente ultimo e provvido custode del destino dei sudditi. Le non comuni capacità amministrative di F., del resto, erano state - con i loro precisi limiti - valutate correttamente dal Metternich quando l'aveva giudicato "piuttosto come un uomo ricco, un proprietario, un economista, che un sovrano" (ibid., p. 297).

Tutto ciò emerse, tra l'altro, durante la carestia che afflisse il Ducato, come il resto d'Italia, tra il 1816 e il 1817. Acquisti di grano all'estero, provvidenze per i panificatori, controllo dello stoccaggio delle materie di prima necessità onde evitare speculazioni sino a prevedere la distribuzione di un pasto caldo quotidiano agli indigenti: questi i principali provvedimenti presi tempestivamente dal duca che attinse spesso al suo patrimonio personale per farvi fronte. Gran parte della popolazione più indigente si sentì così indubbiamente più unita al suo principe mentre aumentava progressivamente la distanza tra il paternalistico sovrano e i ceti colti. La politica culturale di F. fu improntata a un diffidente controllo esercitato sulle nuove generazioni di intellettuali che si andavano formando nell'attivissima università di Modena: egli la teorizzò apertamente anche al congresso di Verona del 1822, come tendenza del resto comune ad altri Stati restaurati. Sul versante normativo tutto ciò si tradusse nella riduzione numerica, ove fosse possibile, delle sedi di istruzione universitaria o superiore, la loro dislocazione in luoghi diversi, soprattutto una diversa modalità di accesso ai vari corsi di studio: per cui si previde, ad esempio, il libero accesso ai corsi universitari di medicina, ma si controllò il numero dei laureati in giurisprudenza, fissati in non più di dodici all'anno.

Sul versante economico la liberalizzazione delle manimorte, il riconoscimento e l'indennizzo a nobili ed ecclesiastici dei beni loro confiscati dal 1796 costituirono, insieme con l'assegnazione di nuovi titoli feudali, le mosse più significative tese a identificare e a creare nei proprietari terrieri un grande ceto politicamente privilegiato. L'elargizione paternalistica di finanziamenti e benefici vari coinvolse marginalmente anche la piccola proprietà, favorita grazie a una serie di imposizioni indirette che finirono per gravare sugli abitanti della montagna e della pianura, mentre le risaie - da annoverare tra le poche realtà produttive dello Stato - aumentarono di numero e di estensione. Le attività economiche furono favorite, ma si cercò di smorzare ogni velleità imprenditoriale o commerciale innovativa che potesse alterare l'ordine economico e politico instaurato. Il duca, comunque, si considerò sempre al vertice anche della ristretta piramide economica dello Stato, e di fatto lo fu rappresentandone il più ricco proprietario immobiliare, attento controllore dei vari settori produttivi e curioso anche delle nuove tecniche come l'impiego del vapore applicato alle filande (1823-25) proprio da quel Ciro Menotti che sarà uno dei protagonisti politici del biennio 1830-31.

Già dal 1820, comunque, negli Stati estensi si contavano numerosi seguaci della carboneria, che sarebbero stati condannati dal duca con un editto del 20 settembre di quell'anno, in cui si invocava il delitto di lesa maestà. C'erano già state le insurrezioni nel Regno delle Due Sicilie e tra l'ottobre 1820 - a Troppau - e il gennaio del 1821 - a Lubiana - si erano riunite le potenze aderenti alla Santa Alleanza: F. era intervenuto di persona a perorare con convinzione non solo un'ovvia repressione ma un'opportuna prevenzione, convinto della missione quasi mistica di un sovrano più degli stessi portavoci delle grandi potenze, del resto, a partire dal 13 dic. 1821, confortate anche dalla scomunica formale promulgata contro i carbonari da Pio VII.

Proprio se si prende in attenta considerazione questa visione ideologica, risulta impensabile (ma la questione è stata a lungo dibattuta dalla storiografia) una qualche consonanza - e men che mai una complicità - tra il duca F., il Menotti ed Enrico Misley in un disegno riformistico o addirittura rivoluzionario. Questi ultimi due, all'epoca del conclave seguito alla morte di Pio VIII (dicembre 1830-febbraio 1831), peccarono certamente di ingenuità nel pensare che il duca potesse favorire il loro progetto cospirativo di un moto rivoluzionario nei Ducati e nelle Legazioni pontificie con l'obiettivo di creare uno Stato monarchico nazionale. F., da parte sua, con un atteggiamento molto ambiguo, mentre faceva credere al Menotti un suo benevolo interesse nei confronti della cospirazione, preparava nei fatti la repressione.

Troncato sul nascere il moto con l'arresto del Menotti (3 febbr. 1831), il duca si rifugiò momentaneamente con il prigioniero a Mantova e poi a Vienna, da dove fece ritorno un mese dopo, una volta ristabilito l'ordine grazie all'intervento delle truppe austriache.

L'inevitabile reazione questa volta fu molto dura, nell'intento dichiarato di essere esemplare, nonostante il parere contrario di alcuni ministri - come F. Molza e il conte F. Guicciardini - i quali sostenevano l'opportunità del ricorso alla clemenza.

Le condanne a morte, eseguite il 26 maggio 1832 nei confronti del Menotti, di V. Borelli, già compromesso negli episodi del '21, e di G. Ricci, comprovano le ineluttabili conseguenze, fino alla totale impoliticità, di una visione che attribuiva a Modena la funzione di scolta poliziesca posta a difesa dell'intera penisola rispetto a "le foyer du mal qui devore sourdement toutes les nations", e che "est en France" (cit. in Chiappini, p. 487), come ebbe occasione di esprimersi Carlo Alberto di Savoia proprio in quell'anno in una delle numerose missive che contrappuntarono il suo lungo rapporto epistolare con il duca di Modena.

In questo e in altri sensi i rapporti tra i due sovrani costituiscono un'illuminante traccia del clima ideologico che dovette caratterizzare alcune delle corti italiane dell'epoca. Cugini diretti in termini di parentela, fortemente affini per similare visione politica, legati da un rapporto di apparente intimità, a dispetto dell'obiettivo peso specifico dei loro rispettivi Stati in quegli anni fu F. a esercitare un notevole ascendente sul re di Sardegna che, da parte sua, vi trovava appoggio e amicizia in funzione ossessivamente antifrancese.

Indubbiamente i legami tra i Savoia e Modena toccarono, allora, il punto di più stretto contatto, soprattutto nel 1833 quando F. si recò a Torino a colloquio con quel sovrano e ne veniva fregiato con il collare dell'Annunziata. Essi proseguirono poi anche con il giovane Vittorio Emanuele, pure caratterialmente così diverso dal padre, per diradarsi quasi del tutto con l'avvento sul trono di Modena del figlio di F. e suo omonimo.

In realtà, a quel punto, l'evolversi della situazione italiana aveva messo in evidenza, accanto alla necessità di un'apertura sia pure condizionata alle idee liberali più moderate, la diversa capacità che le due case regnanti dimostravano nel tentativo di inserirsi o, almeno, di controllare a proprio vantaggio la rapida accelerazione degli avvenimenti che seguirono al '48.

A F. il destino - clemente - avrebbe risparmiato l'assistervi. Sopravvissuto di sei anni alla moglie Maria Beatrice di Savoia, mancata durante uno dei soggiorni nella prediletta villa del Cataio il 15 sett. 1840, era riuscito a vedere giunti all'età adulta i figli da lei avuti: Maria Teresa, nata nel 1817, sposa a Enrico di Borbone, conte di Chambord; Francesco Geminiano, nato nel 1819, suo erede al ducato e sposo dal 1842 ad Adelgonda di Baviera; Ferdinando, nato nel 1822, unitosi ad Elisabetta d'Austria; infine Maria Beatrice, nata nel 1824, sposa di Juan di Borbone-Spagna, figlio di Carlo (V) duca di Molina.

Alacre sino alla fine, parco nelle abitudini personali, buon amministratore almeno entro i limiti di un paternalismo governativo di cui era compiuto rappresentante, convinto assertore dell'identità quasi mistica di un sovrano con il suo Stato, sino alla fine aveva operato con l'intento di lasciare a suo figlio ed erede una situazione economicamente florida e territorialmente sicura.

Nel 1816 aveva potuto incamerare la Lunigiana per rinuncia della madre e, alla morte di questa, nel 1829, si aggregava anche il Ducato di Massa. Nella stessa direzione andava la stipula, nel 1844, del trattato di Firenze con il futuro duca di Parma, Carlo Lodovico di Lucca: Parma cedeva, così, il Ducato di Guastalla e alcuni territori sulla destra dell'Enza, ottenendone in cambio quelli sulla sinistra del fiume e i territori toscani della Lunigiana con Pontremoli; Modena cedeva alla Toscana Barga e Pietrasanta; la Toscana rettificava i confini del territorio lucchese. Il trattato, riconosciuto da Piemonte e Austria ma di cui la S. Sede - con mossa avveduta - era stata costituita garante, sarebbe andato in vigore alla morte di Maria Luisa, duchessa di Parma.

Quanto a F., predisposta in tal modo la sua successione, dopo una lunga malattia morì a Modena il 21 genn. 1846.

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