LEMMI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 64 (2005)

LEMMI, Francesco

Roberto Pertici

Nacque a Poggio di Camporgiano, in Garfagnana, il 29 giugno 1876 da Pietro e da Teresa Musettini. Intorno ai dieci anni si trasferì a Massa presso lo zio sacerdote Andrea Musettini. Nel 1895, si iscrisse all'Istituto di studi superiori di Firenze, dove studiò con P. Villari, orientandosi verso la storia del Risorgimento.

Si trattava di una scelta insolita in un sistema universitario in cui alla storia contemporanea non veniva riconosciuto uno statuto "scientifico" ed è quindi significativo che la sua tesi di licenza (presentata, cioè, dopo i primi due anni di corso) su Nelson e Caracciolo e la Repubblica napoletana, venisse accolta, nel 1898, nelle gravi "Pubblicazioni" dell'Istituto.

Per la tesi di laurea (1899) iniziò gli studi sulla restaurazione austriaca a Milano, che dovevano poi confluire nel volume La restaurazione austriaca a Milano nel 1814, con appendice di documenti tratti dagli archivi di Vienna, Londra, Milano… (Bologna 1902). Dopo il diploma di perfezionamento in storia (1900), intraprese la carriera di insegnante di scuola media, prima a Firenze (1901-02), poi a Prato (1902-03), infine come titolare di storia insegnò per oltre vent'anni nel liceo Cavour di Torino (1904-26). Ottenne a Firenze la libera docenza in storia moderna il 14 luglio 1906 e poi, trasferitosi a Torino (31 marzo 1909), come libero docente iniziò l'insegnamento universitario.

Il L. fu, quindi, fin da subito un "risorgimentista" e appartenne a quella generazione di studiosi che, tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, cercò di dare una nuova base a quegli studi attraverso l'esame sistematico delle fonti archivistiche, non solo italiane, ma anche austriache, tedesche e inglesi (per un bilancio, cfr. la sua guida bibliografica Il Risorgimento, Roma 1926).

Il L. si ricollegò alla tendenza filologico-critica inaugurata da A. Luzio, cui dedicò "con devoto affetto" La politica estera di Carlo Alberto nei suoi primi anni di regno (Firenze 1928). Tuttavia ebbe anche una notevole vocazione per le trattazioni ampie di interi periodi storici, rivolte a un pubblico "colto": V. Fiorini - F. Lemmi, Storia d'Italia dal 1799 al 1814, Milano 1918 (del L., le pp. 289-1117); Storia contemporanea (1748-1918), ibid. 1925.

Importante per lui fu anche la lezione di A. Franchetti, autore di una pionieristica Storia d'Italia dal 1789 al 1799, di cui il L. curò una seconda edizione riveduta e ampliata (ibid. 1907).

Da Franchetti apprese l'importanza decisiva che la Rivoluzione francese aveva avuto nelle "origini del Risorgimento italiano": la diffusione delle idee rivoluzionarie in Italia, l'impatto dell'invasione napoleonica del 1796 (Diplomatici sardi del periodo della Rivoluzione (1789-1796), in Miscellanea di storia italiana, 1922); la creazione delle Repubbliche "giacobine", la reazione austro-russa del 1799 e il crollo della Repubblica napoletana (Nelson e Caracciolo e la Repubblica napoletana, Firenze 1898; Spigolature nelsoniane, Alessandria 1900; La polemica Mahan-Badham su Nelson a Napoli nel 1799, in Revue Napoléonienne, III (1903), pp. 430-449; Per la storia della deportazione nella Dalmazia e nell'Ungheria, in Arch. stor. italiano, s. 5, XL [1907], pp. 310-348), il definitivo affermarsi dell'egemonia napoleonica in Italia (Roma nell'Impero napoleonico, ibid., LXXIII [1915], pp. 119-142), la sua crisi (La Restaurazione in Italia nel 1814 nel diario del barone von Hügel (9 dic. 1813 - 25 maggio 1814), Roma-Milano 1910), l'azione politica di Gioacchino Murat e il fallimento del suo tentativo "unitario" (Gioacchino Murat e le aspirazioni unitarie nel 1815, in Arch. stor. per le provincie napoletane, XXIV [1901], pp. 169-222; La fine di Gioacchino Murat, in Arch. stor. italiano, XXXIII [1900], pp. 250-294) furono così, per lunghi anni, i nuclei tematici dei suoi lavori.

Come non pochi storici della sua generazione, il L. cercava di cogliere le "origini dell'Italia contemporanea" e li scorgeva nel trentennio 1789-1815 (Le origini del Risorgimento italiano 1789-1815, Milano 1906): più tardi allargò la sua visuale a tutta la seconda metà del Settecento, al periodo dei Lumi e delle riforme (Le origini del Risorgimento italiano (1748-1815), 2ª ed., ibid. 1924).

Tuttavia egli non era un filoilluminista o un "giacobino". Il Risorgimento italiano si inseriva - a suo modo di vedere - in un processo epocale, la "fine del Medio Evo" (oggi diremmo dell'ancien régime), che aveva visto l'introduzione del modello costituzionale-rappresentativo di origine anglofrancese nei principali paesi europei. Questa fase era stata aperta dalla politica dei principi illuminati e dalla Rivoluzione francese, che avevano esercitato un'influenza decisiva anche sul processo unitario italiano: con l'Unità infatti, erano state introdotte anche in Italia le istituzioni liberali, ma prive di una base effettiva nella società nazionale e, quindi, singolarmente deboli e fragili.

L'unico forte elemento di continuità era stato il Piemonte sabaudo, che già alla fine del Settecento, nella sua opposizione alla Rivoluzione francese e all'invasione napoleonica, aveva sviluppato un forte legame fra dinastia, aristocrazia e popolo.

L'interesse che sempre il L. nutrì per J. de Maistre è rivolto all'aristocratico savoiardo, fedele servitore del suo re e nemico dell'imperialismo rivoluzionario (G. De Maistre in Sardegna, in Fert, n.s., III [1931], pp. 240-268; G. De Maistre, in Rass. mensile municipale "Torino", febbraio 1935, pp. 1-11; G. De Maistre a Losanna, in Fert, n.s., VIII [1936], pp. 182-215; nonché, postumo, G. De Maistre, in Boll. storico-bibliografico subalpino, LXV [1967], pp. 9-46).

Nella visione del L. avanti il 1915 una concezione "sabaudistica" del processo unitario coesiste, quindi, con il pieno riconoscimento della centralità della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico nella storia italiana: nel manuale pubblicato nel marzo 1915 (Manuale di storia moderna, dalla pace di Aquisgrana ai giorni nostri, per le scuole superiori e per le persone colte, Città di Castello), non nasconde "qualche punta nazionalista" e soprattutto insiste sulla "nostra missione nel Mediterraneo e [sul] culto delle nostre tradizioni senza ombra di feticismo per il forestierume introdotto nelle nostre istituzioni politiche dalla rivoluzione francese" (il L. a P. Villari, 24 apr. 1913). Ben altra solidità e forza ha raggiunto la nazione tedesca, che ha costruito uno Stato possente, seguendo il suo genio nazionale e rifiutando modelli stranieri: il L. si mostra così (ancora nel 1915) un fervente germanofilo e triplicista.

Tale visione della storia recente corrispondeva alle posizioni politiche del L. nell'età giolittiana: un'informazione del prefetto di Torino del dicembre 1930 lo avrebbe definito "ascritto" al partito nazionalista fino al 1915 e, dopo di allora, lontano dalla politica.

Come insegnante, si iscrisse alla FNISM (Federazione nazionale insegnanti scuola media), ma ne uscì disgustato dopo il congresso di Roma del settembre 1904 (il L. a P. Villari, 5 ott. 1904). La guerra di Libia gli sembrò di "grande importanza per il nostro avvenire", in quanto aveva rivelato "una coscienza nazionale di cui tutti un po' dubitavamo" (a Villari, 27 dic. 1911). Nell'estate del 1914, fedele al suo triplicismo e alla sua ostilità verso l'"imperialismo" franco-inglese, avrebbe auspicato (come altri nazionalisti) l'ingresso in guerra a fianco degli alleati della Triplice. Dopo la dichiarazione di neutralità, non sostenne l'intervento con l'Intesa e si atteggiò a neutralista: fu in questi mesi che si consumò il suo rapporto col nazionalismo. Anche se per breve tempo indossò, a quarant'anni, il grigioverde come volontario, il L. non condivise mai il mito della Grande Guerra. Questa estraneità comportò una lontananza originaria dal movimento che della vittoria si considerava l'unico erede, il fascismo.

Nel dopoguerra si venne dedicando prevalentemente alla storia del Regno di Sardegna (Il processo del principe della Cisterna (1821), in La rivoluzione piemontese dell'anno 1821, I, Torino 1923, pp. 1-99; Intorno al gen. Ramorino, in Il Risorgimento italiano, XVI [1923], pp. 289-346) e della dinastia di Savoia, in particolare dei suoi re ottocenteschi: Carlo Felice, cui dedicò una monografia (Torino 1931), e soprattutto Carlo Alberto (Carlo Alberto e Francesco IV: lettere inedite, in Il Risorgimento italiano, XX [1927], pp. 305-373; La politica estera di Carlo Alberto nei suoi primi anni di Regno, cit.; Censura e giornali negli Stati sardi al tempo di Carlo Alberto, Torino 1943).

Il L. tuttavia non aderì all'indirizzo sabaudistico fortemente promosso dal quadrumviro C.M. De Vecchi e la sua varia produzione carloalbertina non mostrò gli spiccati intenti apologetici che allora contraddistinsero la storiografia su quel sovrano.

Nel 1926 venne bandito dall'Università di Milano quello che fu - a livello nazionale - il primo concorso per cattedre di storia del Risorgimento: il L. riuscì vincitore e fu chiamato nella facoltà di lettere di Torino (1° genn. 1927). Quando, dopo la morte di P. Egidi, l'insegnamento di storia moderna fu distinto da quello della storia medievale e si fuse con la storia del Risorgimento, il L. divenne titolare di questa cattedra (1930). Allorché esso venne nuovamente sdoppiato (1936), cedette a R. Quazza la storia del Risorgimento e rimase a storia moderna. Con G. Falco e F. Cognasso il L. subentrò allo scomparso Egidi anche nella direzione della Rivista storica italiana, fino al momento in cui questa fu lasciata nelle mani, politicamente più affidabili, del solo Cognasso (1931).

Il suo ingresso "ufficiale" in facoltà fu avvertito come una ventata d'aria nuova ed ebbe, anche politicamente, un significato di non totale ortodossia. Il L. non era fascista: iscritto precocemente all'Associazione professori universitari fascisti, aveva tardato a chiedere la tessera del partito e quando lo aveva fatto, al momento della riapertura delle iscrizioni nel 1932, si era visto respingere la domanda "per dubbia fede fascista". Nel 1931 aveva prestato il giuramento richiesto ai professori universitari, mettendo in chiaro che vi era costretto dalla propria situazione economica. Negli anni Trenta, la polizia più volte intercettò nella posta a lui diretta materiale di propaganda antifascista proveniente dalla Francia e dal Belgio, ma il prefetto di Torino si fece a più riprese garante della sua condotta politica. Tuttavia non mancarono, forse anche per proteggersi le spalle, momenti di ossequio (anche ostentato) al regime e ai suoi uomini (cfr. A. D'Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Torino 2000, p. 318; F. Lemmi, Lettere e diari d'Africa, Roma 1937; 2ª ed., ibid. 1938). Per tutti quegli anni intensissima fu la sua collaborazione con l'Enciclopedia Italiana, soprattutto con voci di storia risorgimentale (fra cui quella su Cavour) e di storia della Rivoluzione francese (da Robespierre a Vandea).

Dopo il 1935, il L., ormai accademicamente un "modernista", cominciò a inoltrarsi in un campo nuovo, che stava suscitando grande interesse in Italia (F. Ruffini, B. Croce, A. Casadei, F. Chabod, D. Cantimori): quello della storia religiosa del Cinquecento, della Riforma in Italia e degli eretici italiani esuli per l'Europa. Un primo frutto di queste ricerche è il volume antologico La Riforma in Italia e i riformatori italiani all'estero nel secolo XVI (Milano 1939), che meritò un giudizio positivo anche da parte di Cantimori (in Politica e storia contemporanea, a cura di L. Mangoni, Torino 1991, pp. 672 s.). Il manoscritto di un'opera ben più ponderosa fu distrutto durante un bombardamento aereo del 1943. Proprio per questi nuovi interessi, che sembra provenissero anche da un suo personale approfondimento della tematica religiosa, ebbe, nel 1944, nella facoltà torinese pure l'incarico di storia delle religioni. All'indomani della liberazione della città, anche in riconoscimento della sua condotta politica durante il regime, fu nominato commissario e poi eletto preside della facoltà di lettere (24 settembre - 18 dic. 1945) e vicerettore dell'Università.

Il L. morì a Torino il 24 sett. 1947.

Una parte cospicua della sua biblioteca (circa 900 volumi) fu lasciata alla Biblioteca civica di Massa (fondo Lemmi).

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Divisione polizia politica, Fascicoli personali, b. 715, Lemmi, Francesco; Pubblica Sicurezza, A1, 1938, b. 35; Bergamo, Biblioteca civica A. Mai, Carte A. Solerti, 2 lettere (1904); Pisa, Arch. stor. della Scuola normale superiore, Carte D. Cantimori, 6 lettere (1936-41); Carte P. Silva, 5 lettere (1926-39); Biblioteca apost. Vaticana, Carteggi P. Villari, 51 lettere (1898-1917); Roma, Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici, Carteggio G. Gentile, 44 lettere (1899-1940); Arch. stor. dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Carteggio redazionale, f. Francesco Lemmi, 41 lettere (1925-38); Fondo G. De Sanctis, f. Francesco Lemmi, 1 lettera (1915).

Necr.: R. Quazza, in Boll. storico-bibliografico subalpino, XLV (1947), pp. 113-119, con bibliografia essenziale; F. Bolgiani, in Nuova Riv. storica, XXXII (1948), pp. 161-164; W. Maturi, in Riv. stor. italiana, LX (1948), pp. 344-346. Cfr. anche M. Mila, La facoltà di lettere e filosofia torinese negli anni intorno al 1930, in In memoria di A. Rostagni. Atti del Convegno di studi,… 1971, Torino 1971, pp. 15-22; J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del fascismo 1922-1943, Firenze 1996, p. 318 n. (per la fama di antifascista); P. Rossi, Dal Quarantacinque al Sessantotto, in Storia della facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Torino, a cura di I. Lana, Torino 2000, pp. 167 s. (per la presidenza della facoltà nel 1945); M.L. Salvadori, La storia moderna, del Risorgimento e contemporanea, ibid., pp. 386 ss.; Enc. Italiana, App. I, sub voce.

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