FRANCESCO MARIA I Della Rovere, duca di Urbino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 50 (1998)

FRANCESCO MARIA I Della Rovere, duca di Urbino

Gino Benzoni

Figlio del prefetto di Roma Giovanni, duca di Sora e di Giovanna, figlia di Federico da Montefeltro duca di Urbino, nasce a Senigallia - di cui il padre, dal 1474, è signore - il 25 marzo 1490 e quivi trascorre l'infanzia divenendo, per la scomparsa, ancor piccoli, di due suoi fratelli, unico erede maschio. Morto, il 6 nov. 1501, il padre e reggendo Senigallia, assistita da Andrea Doria, uno dei tutori di F., la madre, il fanciullo passa alla corte urbinate presso lo zio materno il duca Guidubaldo che lo fa istruire da Ludovico Odasio, già suo maestro. Ingannevole tranello la nomina papale, del 24 apr. 1502, di F. a prefetto di Roma. Così Alessandro VI s'ingrazia Guidubaldo per renderlo meno vigile nei confronti degli appetiti del figlio Cesare Borgia, il quale, il 22 giugno, piomba proditoriamente su Urbino, mentre F., fuggito nottetempo il 21, riesce, collo zio, a scampare alla cattura. Una fuga affannata, coll'incubo di cadere in mano agli uomini del Borgia, sguinzagliati travestiti da pastori e camuffati da cacciatori, girovagante per viottoli poco praticati, per zone impervie al fine felicemente conclusa ché, affidato dallo zio a due fidi servitori, con questi F. raggiunge Valdibagno, di qui riparando a Savona presso lo zio paterno, il futuro Giulio II. Ma, con la morte d'Alessandro VI, l'elezione di Giulio II, lo sfascio del dominio del Borgia e il conseguente reinsediamento di Guidubaldo ad Urbino e della madre - anch'essa costretta alla fuga - a Senigallia, la situazione si capovolge a favore di Francesco Maria. Richiamato dalla Francia - dov'è, nel frattempo riparato, quivi stringendo amicizia con Gastone di Foix e riconfermato da Luigi XII nella dignità, già paterna, di duca di Sora - dal pontefice, questi punta anche su di lui per affermare ed estendere il ruolo della famiglia. Di qui l'impegno nuziale con Eleonora Gonzaga, primogenita del marchese di Mantova, e, soprattutto, l'adozione - celebrata solennemente il 18 sett. 1504 - da parte di Guidubaldo, notoriamente impotente e senza figli, che innalza F. al rango d'erede. Vigoroso innesco roverasco nello splendore della corte urbinate, il ragazzo ha di che sentirsi orgoglioso. E, quasi titolare dell'onore della famiglia, ritenendo disdicevole la relazione della sorella Maria, vedova di Venanzio da Varano, col veronese Giovanni Andrea Bravo, un favorito dello zio, spalleggiato da scherani uccide questo con le proprie mani; e viene pure assassinato un credenziere della sorella reo d'aver favorito gli incontri tra i due. Un "dispiacevol caso"; così, in una lettera del 12 nov. 1507 di B. Castiglione, il quale, successivamente, in una lettera del giorno 21, lo dà, comunque, per rientrato. "La novità… passata cum qualche disturbo" - evidentemente ha suscitato clamore; il comportamento di F. non dev'esser stato approvato dallo zio - è, ormai, un incidente superato. "Le cose sono acquetate" sicché "el signor prefetto" di Roma - questo il titolo di F. pel momento - "è qui", a Urbino, "senza altra memoria de fastidio alcuno". Vuol dire che si è deciso di soprassedere, di dimenticare e di far dimenticare. Il fatto che si stenda un velo di silenzio sull'assassinio dell'amante della sorella e del domestico, la stessa reticenza con cui Castiglione accenna all'episodio sono, quanto meno, indicativi di un certo qual imbarazzo. L'assassinio è stato organizzato a freddo, con un tranello. Più che detergere l'onore dei Della Rovere F. l'ha ulteriormente macchiato col delitto. Tant'è che la storiografia locale - con F. panegiristica - preferisce ignorarlo.

Intanto il duca, ammalatosi, nel gennaio del 1508 si trasferisce a Fossombrone nella speranza che il clima più mite gli giovi; qui muore, assistito anche da F., l'11 aprile. Solenni, il 2 maggio, le esequie a Urbino e concomitanti col subentro nel Ducato - ingrossato questo dall'incorporazione di Senigallia che F. arricchirà d'ulteriori fortificazioni e d'un grandioso acquedotto - di F., ribadito, a ogni buon conto, come successore nel testamento - cui si dà pubblica lettura - del 28 sett. 1507. Incontrata per la prima volta la sposa - risale ancora al 2 marzo 1505 il matrimonio per procura a Roma - a Mantova il 25 ag. 1508 e, differite le effettive nozze, il 29 settembre, a Bologna, riceve dal legato Francesco Alidosi il bastone di generale della Chiesa.

A capo di 8000 fanti e 1600 cavalli F., nell'aprile del 1509, partecipa all'offensiva antiveneziana dei collegati di Cambrai: a lui arresasi Civitella, anziché procedere all'espugnazione di Faenza - e ciò perché non adeguatamente sostenuto da Alidosi, col quale i rapporti sono subito pessimi - s'accontenta di quella di Governolo, passando poi all'assedio di Russi che cede dopo la disfatta veneziana d'Agnadello, del 14 maggio. Ma - ora che non c'è più da combattere, ora che c'è il recupero delle terre di Romagna e di Ravenna - si fa aspro e palese il contrasto tra F. e Alidosi: il primo s'oppone all'arresto del veneziano Gian Giacomo Caroldo e disapprova, al contrario del secondo, la smania di bottino delle truppe. Sciolto, comunque, l'esercito, F. torna ad Urbino, quivi raggiunto da Eleonora, il matrimonio colla quale viene consumato - giusta l'informazione subito trasmessa alla suocera Isabella d'Este - il 25 dicembre. Dopodiché, attorno al 7 genn. 1510, la coppia si porta a Roma dove il papa desidera che le nozze vengano solennemente riconfermate. Quindi, nell'agosto, F. riprende a combattere, come vuole Giulio II ora non più furente contro Venezia, ma contro la Francia e Alfonso d'Este. Agevole, per F., la conquista di Cento, la pieve Cotignola, Bagnacavallo e Lugo. Ma lo ferma presso Argenta l'allagamento delle acque del Po ad arte provocato. Connivenze interne gli permettono, in compenso, la conquista di Modena. Ma non può poi procedere con decisione all'assedio di Reggio pel parere contrario d'Alidosi e il riattestarsi del grosso delle truppe nei pressi di Ferrara. Posto quindi il campo a San Giovanni di Bologna, evitata la battaglia campale presso Modena, in questa F. si rinchiude, sinché, rafforzato l'esercito pontificio, l'offensiva riprende coll'espugnazione di Sassuolo e coll'assedio di Mirandola alfine costretta a cedere all'impetuoso attacco che vede in testa animosissimo lo stesso pontefice.

Segue, da parte di F., la pressione su Ferrara, ad alleggerire la quale i Francesi - che vanamente tentano di sloggiarlo - a loro volta minacciano Bologna. Sicché pure F. abbandona la sua ben munita posizione per attestarsi a Casalecchio. Esiziale, però, l'odio tra lui e Alidosi (questi non può certo dimenticare che F. il 7 ott. 1510 è giunto a farlo arrestare, peraltro senza esito) e tale da impedire - malgrado l'incalzare del pericolo - un minimo accordo operativo. Sicché - per la mancata saldatura tra i due che avrebbero, invece, dovuto sintonizzare le loro mosse, Alidosi difendendosi dentro e F. contrastando da fuori - Bologna, il 21 maggio 1511, apre le porte ai Francesi. Uno smacco intollerabile per l'iracondo pontefice. Quando a lui ringhiante si presenta avvilito il nipote, il 24, a Ravenna, gli s'avventa contro accusandolo d'inettitudine e codardia e cacciandolo in malo modo senza che possa pronunciare qualche parola di giustificazione. Uscito, dopo la tremenda strapazzata, dal palazzo, F. incontra Alidosi che, a sua volta, si sta recando dal papa incedendo a cavallo scortato da un centinaio d'armati. Questi guarda dall'alto, senza salutarlo, F., quasi a schernirlo. Il giovane, colto dall'ira, afferra lo stocco e fendendo la scorta sconcertata si precipita sul rivale immergendoglielo nelle viscere. E, mentre Alidosi cade privo di vita, F. scappa. Nessuno lo ferma. Così, fuggendo a rotta di collo, ripara ad Urbino, quivi attendendo trepidante provvedimenti al proprio riguardo. Citato a giudizio, si reca a Roma e quivi - decaduto da ogni titolo e dignità - viene relegato in una sorta di detenzione sin dorata, tanto è accompagnata da agi e conforti. Delegata la causa a quattro cardinali - e tra questi il futuro Leone X - il relativo processo, dibattuto il 14 luglio, si trasforma in un elenco d'accuse all'ucciso con relativa larga comprensione per l'uccisore. Evidentemente, nel frattempo, l'ira di Giulio II è sbollita, sicché si possono caricare sul morto le più varie imputazioni - intrighi, ruberie, torve ambizioni, tradimenti, frodi, empietà - riabilitando nel contempo F. con una sentenza di piena assoluzione approvata da tutto il Collegio cardinalizio il 5 dicembre. Sicché, reintegrato nella sua titolarità ducale, torna ad Urbino confortato anche dal dono pontificio di 12.000 scudi. E poiché nella guerra antifrancese il comando generale compete al viceré di Napoli Raimondo Cardona - ciò perché le milizie spagnole sono prevalenti - F. non partecipa, non volendo sottostare ai suoi ordini, direttamente, limitandosi a concorrere con contingenti affidati alla guida di Donnino della Genga suo suddito. Partecipa, invece, a capo di 400 uomini d'armi e di 800 fanti, alla fase del recupero pontificio successivo alla sconfitta subita a Ravenna il 6 apr. 1512. Ripresa la Romagna, è a F. che si sottomette spontaneamente Bologna; dopo di che passa all'occupazione di Parma e Piacenza senza procedere oltre, ché i Francesi, nell'impossibilità di mantenersi saldamente a Pavia, preferiscono lasciarla per rivalicare le Alpi.

Molti i crediti via via accumulati da F. nei confronti del, peraltro esausto, Tesoro pontificio. E, a risarcimento di quanto gli spetta, la bolla papale del 20 febbr. 1513 gli attribuisce la signoria di Pesaro riaggregata temporaneamente alla Chiesa in seguito all'estinzione del ramo degli Sforza di quella signoria. Un gesto di smaccato favoritismo da parte di Giulio II che muore il 21, il giorno dopo aver firmato la concessione. Un duro colpo per la sorte di F. la scomparsa del papa zio, ma non immediatamente, ché il nuovo papa, Leone X, per la cui elezione egli s'è adoperato, a tutta prima si mostra a lui favorevole: del 17 aprile il breve che lo conferma capitano generale della Chiesa; del 4 agosto quello di conferma dell'investitura del Ducato urbinate. Troppo violenta, però, nel nuovo papa - simile, d'altronde, per tal verso a Giulio II - la propensione a favorire la propria famiglia perché F. non debba temerla. Già l'affidamento, del 29 giugno 1515, del comando dell'esercito pontificio a Giuliano de' Medici, fratello di Leone X, è per lui - che in subordine dovrebbe accompagnarlo colle proprie truppe - preoccupante. Leale, ad ogni modo, con F. - che a suo tempo l'ha salvato dai sospetti di Giulio II - quello e al punto da volerlo personalmente incontrare, ai primi di luglio, proprio per tranquillizzarlo. Per parte sua - così Giuliano de' Medici - non si presterà a manovre contro di lui. Una iattura, allora, per F. che questi, una volta a Firenze, cada ammalato e muoia alla fine di febbraio del 1516, essendogli già subentrato nel comando generale dell'esercito pontificio il nipote Lorenzo (figlio di Piero, morto ancora nel 1503). Vittima designata F. - già dichiarato ribelle per il mancato apporto alla guerra antifrancese - laddove il papa, conclusa la pace con la Francia e con questa alleatosi, ha già fatto rientrare la sua cacciata negli accordi con Luigi XII, non a caso elusivo con F. quando questi si precipita a Milano a chiedere la sua protezione. E a legittimare lo scippo del Ducato urbinate - di cui sarà investito, con bolla del 1° sett. 1516, Lorenzo de' Medici, il nipote di Leone X - l'antecedente enfiarsi della montatura accusatoria (riesumato in questa sin l'assassinio d'Alidosi da parte del papa che, cardinale, di questo l'ha assolto) finalizzata al crescendo sanzionatorio: prima il monitorio, poi la condanna in contumacia e la scomunica, quindi l'interdetto dalla vita religiosa in tutto il territorio ducale. Isolato, senza appoggi F., privato anche, da parte del viceré di Napoli, del Ducato di Sora, s'appella al "buon testimonio" del giudizio divino di contro all'iniquità d'una "potenzia", quella pontificia, misconoscente "in terra" un'"innocenza" in ogni caso palese "in cielo".

Impensabile una resistenza di fronte al muoversi convergente del nemico che procede da Gradara con Lorenzo de' Medici, già prossimo a Casteldurante con Vitello Vitelli, già avanzante da Gubbio con Gian Paolo Baglioni, già inoltrantesi da Camerino con altri. A F. - che ha già provveduto a mettere in salvo la moglie col primogenito Guidubaldo - non resta, per non cadere nelle sue mani, che imbarcarsi a Pesaro. Costretto dal mare grosso a riparare a Primaro, in terra pontificia, di qui, travestito, raggiunge i suoi a Mantova. Ma, bersagliato com'è il suocero Francesco II Gonzaga da ingiunzioni a non accoglierlo, F. non può stare, come la moglie e il figlio, a corte. Deve nascondersi a Goito. Occorre attendere la convenzione romano-gonzaghesca del 10 ag. 1516 perché l'asilo - sottoposto a tutta una serie di restrizioni - sia formalizzato anche per lui.

Un leone in gabbia F. durante il soggiorno mantovano, che s'arrovella per risalire la china d'una disgrazia che pare definitiva. Da un lato punta a guadagnarsi simpatie a Roma all'interno d'un Collegio cardinalizio non unanime nell'approvare il suo arbitrario spodestamento. Dall'altro, aiutato dalla suocera Isabella d'Este che impegna, per soccorrerlo, i gioielli, mette assieme una sorta di corpo di spedizione fatto di volontari mantovani e di spagnoli e guasconi rimasti senza paga dopo l'accordo franco-ispano, del 16 agosto, di Noyon. E, non appena con questo privato esercito raccogliticcio si presenta, ecco che la popolazione, insofferente del governo dell'inviso usurpatore, è tutta dalla sua parte, ecco che nel territorio si scatena la guerriglia a suo favore, mentre l'intero presidio d'Urbino si dà alla fuga. Costretto, allora, Lorenzo de' Medici, il duca posticcio, a rinchiudersi a Pesaro, donde, però, F. non riesce a stanarlo. Ma, in compenso, penetra spavaldo in terra pontificia, si spinge, nelle sue incursioni, sino a Città di Castello, sino a Perugia; saccheggia Jesi, Fabriano, Montenero di Todi e, dietro pagamento, risparmia, invece, Ancona, Osimo, Recanati, San Severino, Montecchio. Per circa otto mesi, nel 1517, da solo, con mezzi scarsi e improvvisati, è in grado di dimostrare che l'usurpazione medicea non ha attecchito, può tenere in scacco un nemico più potente; e ciò non senza scorno del pontefice, non senza sua umiliazione. Un'incursione vincente quella di F., efficace sul piano della propaganda, atta, se non altro, ad attestare l'affezione delle popolazioni. Ma più che tanto non può protrarsi. I rispettivi re vietano agli spagnoli e ai guasconi di militare ulteriormente per lui. E sin disgregante sul suo irregolare contingente l'allettamento d'un inquadramento nell'esercito pontificio accompagnato dall'offerta di tre paghe anticipate. L'oro - mediceo (è su Firenze che grava il costo della guerra d'Urbino) più che papale - sta avendo la meglio sul ferro. Sicché F. preferisce addivenire ad un accordo con Leone X che contempli il suo dignitoso rientro a Mantova avvolto dal conseguito prestigio di abile condottiero e di prode - ha ben sfidato a singolar tenzone, nel marzo del 1517, Lorenzo Orsini (Renzo da Ceri), il comandante mediceo - e cavalleresco uomo d'armi.

Morto a Firenze, il 4 maggio 1519, Lorenzo de' Medici e integrato il Ducato urbinate con Pesaro e Senigallia (ma non la provincia di Montefeltro con la pieve di Sestino assegnate a Firenze a parziale risarcimento delle spese sostenute), F. a Mantova non ha margini di manovra dopo la sottoscrizione, dell'11 dic. 1520, dei capitoli della condotta del cognato Federico II Gonzaga, il nuovo marchese, esitante nella nomina, del 1° luglio 1521, a capitano generale della Chiesa.

Imbalsamato e sin paralizzato sinché a Mantova, preferisce spostarsi a Verona, sotto la Serenissima, per recuperare un minimo di libertà di movimento. Questa addirittura per lui si spalanca con la morte, sbloccante, di Leone X del 1° dic. 1521. Si reca a Ferrara, luogo di raduno per quanti smaniano di vendicarsi dei soprusi subiti dal papa defunto. Tra questi Malatesta e Orazio Baglioni, figli del Giampaolo fatto decapitare da Leone X, il loro cognato Camillo Orsini e Pirro Gonzaga. Tutti e quattro seguono F. che - a capo d'una compagnia d'uomini d'armi e di 1.500 fanti e disponendo pure di quattro pezzi d'artiglieria donatigli da Alfonso d'Este - non solo recupera in breve le proprie terre, ma facilita il reinsediamento a Camerino del nipote (è figlio d'una sua sorella) Sigismondo da Varano e il rientro a Perugia dei due Baglioni. E al reinsediamento di fatto del 1522 segue, da parte d'Adriano VI, l'investitura del 27 marzo 1523. S'aggiunge, il 7 settembre, da parte della Serenissima, la nomina a governatore generale delle proprie truppe. In tale veste partecipa all'offensiva antifrancese in Lombardia distinguendosi colla conquista di Gherlasco. Innalzato - a riconoscimento della sua valentìa - a capitano generale della Repubblica, dopo il costituirsi, del 22 maggio 1526, della Lega di Cognac, è contro gli Imperiali che deve combattere. Conquista Lodi e partecipa all'assedio - voluto questo da Francesco Guicciardini contro il suo parere - di Milano, guidando poi, fallito l'assalto del 7 settembre, il ripiegamento. E, al calare di 14.000 lanzichenecchi, F. - che dispone di 8.000 fanti e 600 uomini d'armi - schivando lo scontro frontale, ne ritarda l'avanzata con intermittenti operazioni di disturbo, in una delle quali resta mortalmente ferito, il 24 novembre, Giovanni de' Medici di cui F. è amicissimo. Manca, da parte dei collegati, un convinto tentativo per sbarrar loro il passo. Né la Serenissima - ove prevale la linea d'un cauto attendismo - incita in tal senso Francesco Maria. Sicché - avvistati, tallonati, punzecchiati, ma non arrestati da F. - i lanzi, varcato il Po, proseguono nella loro discesa. "Dove gli imperiali pranzano, essi", i collegati, "cenano", s'ironizza. E facilitati i primi dall'intervento - fuorviante rispetto al suo compito primo d'intercettare il procedere dei Cesarei - di F. a Firenze per bloccarvi un incipiente moto antimediceo. Se il "duca non era" - così Orazio Florido, un cortigiano, in una lettera alla moglie del 26 apr. 1527 - "el stato de Fiorenza se mutava". Fatto sta che, anziché far "l'alloggiamento a l'Ancisa", F., a controllo dell'"humor" della popolazione fiorentina che sembra proprio "non volere governo de Medici", sposta le sue truppe nei pressi di Firenze. Un diversivo - forse suggerito dal desiderio d'ingraziarsi Clemente VII che non gli ha ancora restituito San Leo e il Montefeltro - questo di F., che riporta sì l'ordine nella città in fermento, ma quasi dimentico dell'orda, strada facendo sempre più famelica, che sta per avventarsi distruttiva su Roma.

È il 6 maggio che inizia l'assalto a questa, di cui è sin ridicolo difensore quel Renzo da Ceri che s'è sottratto alla sfida a duello di Francesco Maria. Ed è soltanto ora che F. e gli altri generali sembrano percepire la gravità della situazione. Non arginata dal loro temporeggiamento la valanga è ormai prossima a piombare su di una Roma terrorizzata. Il 25 F. - s'affretta a scrivere a Venezia un suo agente lo stesso giorno - constatando, finalmente, "che senza combattere si venga ad ogni modo a perdere" e che l'esercito si sta assottigliando per l'emorragia delle diserzioni - i soldati, attratti dalla prospettiva del saccheggio, passano addirittura al nemico - propone "in consiglio la deliberation… d'avvicinarsi al nemico et con tutta forza combatterlo". Meglio confidare nella "fortuna con qualche speranza" d'aiuto divino "che perdersi al certo senza alcun danno del nemico". D'accordo con F. il conte Ugo Pepoli, il capitano Leonardo Romolo, il conte Filippino Doria, il provveditore generale Alvise Pisani e, naturalmente, Guicciardini da un pezzo fautore d'una linea più aggressiva. Donde la decisione combattiva di spostarsi l'indomani "all'alloggiamento di la Croce di Montemare", addentro nella Campagna romana. Ma raggelante, di lì a poco, la notizia dell'imminente arrivo in Italia di 10.000 svizzeri. Meglio, sostiene Guido Rangone, attendere i soccorsi, poiché, pel momento, è impossibile "aiutare ragionevolmente Nostro Signore". Un "parere" che, condiviso, disdice l'impegno all'attacco. Sicché si decide di ripiegare a Viterbo per attendervi "soccorso". Perplesso l'agente urbinate commenta: "non so mo' se Nostro Signore avrà tanto animo che voglia", a sua volta, "expectarlo". In effetti Clemente VII, rinserrato a Castel Sant'Angelo, s'arrende il 5 giugno e il sacco si scatena. Un disastro d'addebitare a Francesco Maria? Per Marcello Alberini è lui "la potissima cagione delli affanni nostri, poiché, per vendicarse contra la casa de' Medici, consacrò noi alli tormenti et l'onor suo al tempio dell'infamia". Di proposito insomma F. non avrebbe fatto alcunché. Volutamente non si sarebbe opposto. Un'ignavia la sua tacciabile di tradimento. E riconducibile questo al desiderio di vendicarsi così degli odiati Medici. E il tradimento vendicativo è adombrato anche nelle pagine di Guicciardini. Indicativo, però, che un'accusa del genere non trapeli in Francesco Vettori, pur parzialissimo dei Medici e pur esaltatore di Clemente VII: F. e il marchese di Saluzzo Michele Antonio - si limita questi a riassumere - "pensarono bene di andare a soccorrere, ma con tutti quelli ordini e comodità con le quali vanno e' soldati, quando vanno a soccorrere chi può aspettare". Imputabile, insomma, a F. (e, prima ancora, alla Serenissima) la sottovalutazione dell'urgenza del soccorso. E ciò perché troppo abituato a giocare d'astuzia, e ciò perché difettante d'immaginazione. Il che, volendo, vale pure per Clemente VII, anch'egli ignaro della portata della tempesta che si stava addensando sul suo capo. Esplosione di inaudita violenza il sacco - vissuto come trauma lacerante, come fine d'un'epoca - coglie di sorpresa e spiazza lo stesso Carlo V, di per sé intenzionato soltanto ad intimidire il pontefice. Impari, insomma, pure l'imperatore alla terrificante grandiosità d'un evento sfuggito alle sue capacità di controllo e, prima, nella fase d'incubazione, alle sue capacità di previsione. Autentica protagonista della tragedia una furia distruttiva di gran lunga eccedente le manovre e i calcoli che pur l'hanno occasionata. Ridimensionata, allora, la stessa statura di Clemente VII e di Carlo V; F. si rimpicciolisce a comparsa in una tragedia più grande di lui. Una commedia, allora, il precedente traccheggio; e in questa ha recitato la parte, involontariamente parodica, del Quinto Fabio Massimo in miniatura. Spropositata, dunque, la statura in negativo conferitagli dalle accuse, esplicite o larvate, di proditoria perfidia camuffata da inerte attendismo. È lo stesso Clemente VII ad assolverlo implicitamente, incaricandolo, con breve del 23 febbr. 1528, del recupero d'un castello tolto alla duchessa di Camerino Caterina Cibo, confermandogli, con apposita bolla, la restituzione del Montefeltro già operata da Firenze, conservandolo nel grado di prefetto di Roma. Ed invitato F. - che, nel frattempo, ha partecipato all'espugnazione di Pavia e che, dopo la pace di Barcellona, sta vegliando sui confini della Serenissima - con breve del 7 febbr. 1530 all'incoronazione imperiale a Bologna; e contemplata nei capitoli della pace generale quivi conclusa l'investitura del Ducato. E autorizzata - col breve papale del 26 genn. 1532 dispensante dalla parentela di quarto grado - Ippolita, figlia di F. e d'Eleonora Gonzaga, alle future nozze con Antonio d'Aragona, figlio del duca di Montalto Ferdinando. Ma al di là dell'ormai consolidato profilo ducale di F., suo connotato precipuo è l'essere - così Giovio - "capitano dell'esercito veneziano, secondo che richiedevano i tempi e i costumi di quella signoria". Finita, colla sconfitta d'Agnadello, la fase espansiva, questa non abbisogna più d'un Bartolomeo d'Aviano, ma "piuttosto" - così acutamente ancora Giovio - d'"un capitano eguale a Quinto Fabio che a M. Marcello". Per tal verso lo stesso tergiversare di F. nel 1526-27 si presta alla rivalutazione.

La sua strategia e la sua tattica, allora di per sé inadeguate, non sono state che espressione delle limitate possibilità della Repubblica ormai in fase d'autoconservazione e di ripiegamento difensivo. Calante il peso relativo della Serenissima epperò compensato da una "reputation" riaccreditante - contro al ridimensionamento insito nei rapporti di forza - Venezia quale sapienza di Stato, quale aurea mediocritas. La quale contempla la riorganizzazione difensiva del territorio affidata alla competenza di F. "Viva fiamma di Marte" questi, nella generica definizione di Guidiccione. Meno lusinghiero epperò anche meno vago l'accostamento al romano Cunctator. Professionista, comunque, dell'arte della guerra, propende ad un uso allargato dell'artiglieria, registra il ridursi del ruolo della cavalleria, privilegia la fanteria che vuole equipaggiata, disciplinata, ben schierata, sì da essere ora cuneo penetrante ora muraglia impenetrabile. A suo avviso dovrebbe essere altamente specializzata, capace oltre che di combattere d'adoperare la zappa e la pala, di farsi, così, anche corpo di guastatori. Non stratega dalle fulminee intuizioni F., ma, piuttosto, propenso a valutare la guerra come organizzazione, come ordine, come sistema riscontrabile nel marciare, nel campeggiare. E alla guerra c'è da pensare sempre. E il territorio va strutturato ai fini dell'autodifesa. Ed è un vero piano di ristrutturazione difensiva globale che F. propone alla Serenissima. Lo spazio va perimetrato, coordinato in un complesso di opere fortificatorie coerentemente collegate, attrezzato a mo' di macchina di difesa sempre attivabile nella logica distribuzione dei presidi, nel costante alimento del munizionamento. Sin riplasmato, nell'organico e articolato piano di difesa concepito da F., l'intero dominio della Serenissima. Ma questa - che si vale dell'assidua diligenza ispettiva esercitata da F. su mura, fortezze, guarnigioni, artiglierie della Terraferma - rilutta a seguirlo laddove suggerisce una trasformazione tanto radicale del territorio. Da Venezia - ora, in virtù della renovatio urbis grittiana, sfolgorante capitale illustrante con lo splendor civitatis l'intima perfezione costituzionale d'un buon governo che è più prudenza civile che marziale disciplinamento - si guarda alla Terraferma soprattutto come a sede di opere di pace. E, invece, F. la ridisegna con l'ottica del militare privilegiante l'eventualità della guerra, a questa subordinante tutte le altre attività. Non è solo per ragioni di costo che Palazzo ducale sin qui non lo asseconda. L'attuazione integrale d'un piano quale quello caldeggiato da F. avrebbe richiesto una tal determinazione nel comando del centro sulla periferia da non escludere il ricorso alla forza pur d'imporre il piano. Il quale - c'è da aggiungere - è d'un tal impegno e d'un tal respiro da conferire all'eventuale attuatore (e questi non può essere che F.) una statura anomala, un'autorità eccessiva. Forse anche considerazioni del genere spingono il governo veneto a lasciar, sostanzialmente, cadere la proposta di Francesco Maria. Troppo vincolante e irreversibile, ad ogni modo, la maglia dell'autotutela ch'egli vorrebbe far indossare alla Serenissima.

Quanto al Ducato urbinate, F. è da questo troppo assente fisicamente per un continuato impegno nel governo diretto. Grosso modo rispettoso degli statuti, moderato nella pressione tributaria, ricettivo nel prestar ascolto alle richieste delle Comunità, tra le poche leggi da lui promulgate si distingue l'editto del 9 ag. 1534 col quale vieta ai sudditi la milizia per altre bandiere. Da lui dettati gli ordinamenti militari, mentre, per le fortificazioni, per le quali s'avvale di Battista Commandino, il criterio adottato è quello del ripristino con ammodernamento di quelle fatte abbattere da Lorenzo de' Medici. Poco intendente di lettere, pago di farsi leggere qualche nota pagina di qualche celebre storia per commentarla con qualche improvvisata riflessione, con F. certo non prosegue il mecenatismo culturale montefeltresco. Né s'intende gran che d'arte, né, insieme, fa gran stima degli artisti, come s'evince dal suo contrasto con Michelangelo a proposito del sepolcro dello zio. E se si fa ritrarre da Tiziano, non è perché entusiasta del suo pennello, quanto per ragioni di prestigio, per poter anch'egli essere annoverato tra i grandi da quello dipinti. E la mobilitazione d'artisti per decorare la villa dell'Imperiale a Pesaro si deve non a F., ma a sua moglie. Rientrato, il 30 maggio 1533, nel possesso del Ducato di Sora, col matrimonio - imposto con la forza al figlio; innamorato di Clarice Orsini è con questa che voleva sposarsi; e poiché non smetteva di frequentarla F. così l'aveva minacciato: "farò contra di te… quello che uomo" non osa immaginare sia fattibile da un "padre" al "figliuolo" - celebrato segretamente (ad evitare l'ostilità della S. Sede) il 12 ott. 1534 di Guidubaldo e Giulia da Varano, F. s'illude che Guidubaldo possa - in attesa di succedergli - essere, intanto, duca di Camerino. Sicché in prospettiva - ma Paolo III provvederà a vanificarla - sarà il Ducato urbinate ad ingrossarsi. Reso omaggio a Napoli all'imperatore, di cui come duca di Sora è feudatario, F. si reca quindi in Dalmazia ad ispezionarvi e rafforzarvi l'apparato difensivo. Di qui traghettato a Pesaro, raggiunge quindi Venezia, che, aggredita collo sbarco a Cipro di Solimano a capo di 24.000 uomini, si collega col papa e Carlo V. E, in seguito al repentino abbandono dell'isola da parte del Turco, la lega, stipulata il 31 genn. 1537, diventa offensiva; F. - con pieno assenso dell'imperatore e del papa, dal quale ultimo, ad ogni buon conto, esige garanzia che non sarà molestato sinché impegnato contro la Mezzaluna - ne diventa generalissimo. Iniziano con gran fervore i preparativi per l'offensiva, che però, poi, proseguono a rilento. Pronta la flotta veneta; ma resta da attendere la comparsa di quella cesarea agli ordini d'Andrea Doria. Impaziente, comunque, F. d'affrontare il cimento. Purtroppo s'ammala; trasportato a Pesaro, vi muore il 20 ott. 1538. E corre voce sia stato avvelenato, e Luigi Gonzaga sarebbe il presunto avvelenatore.

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