MELZI D’ERIL, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 73 (2009)

MELZI D’ERIL, Francesco

Carlo Capra

– Nacque a Milano il 6 marzo 1753 da Gaspare Melzi e dalla gentildonna spagnola Maria Teresa d’Heryl che gli trasmise, oltre al secondo cognome, il titolo di grande di Spagna.

La famiglia paterna aveva lasciato larga traccia di sé nella storia cittadina a partire dall’epoca ducale, tra l’altro occupando quasi ininterrottamente, dal 1535 in poi, un seggio nel Consiglio dei sessanta decurioni. La linea dei Melzi conti e feudatari di Magenta, cui apparteneva, non era ricca (nel 1723 figurava al 38° posto per il possesso fondiario tra le sessanta casate rappresentate in Consiglio); e il suo patrimonio era stato ulteriormente dissestato dalla condanna all’esilio e alla confisca dei beni inflitta al nonno del M., Francesco Saverio, per aver preso le parti degli Spagnoli nel corso della guerra di successione austriaca. Rimasto vedovo, Francesco Saverio si fece prete, ma continuò ad amministrare dispoticamente le entrate familiari, lasciando solo un meschino assegnamento annuo al primogenito Gaspare; dal matrimonio di questo nacquero due maschi e sette femmine, delle quali cinque si sposarono, depauperando il bilancio familiare con le loro pur ristrette doti. Nel 1769 Gaspare, che si era ridotto a vivere con le figlie a Magenta per penuria di mezzi, si recò a Vienna per implorare un intervento della sovrana, «mancando a lui e alla sua famiglia la necessaria sussistenza sì per difetto di un più proporzionato e sufficiente assegno di alimenti per parte del suo padre conte don Francesco Melzi, che per essere egli tuttora privo dell’amministrazione anche de’ proprj suoi beni, a motivo del concorso de’ creditori» (dispaccio di Maria Teresa, 19 ott. 1769, in Arch. di Stato di Milano, Dispacci reali, 242).

Poco sappiamo degli studi del M.: risulta comunque infondata la notizia, trasmessa ai successivi biografi da C.A. Vianello, circa una laurea in giurisprudenza conseguita all’Università di Pavia nel 1775. Una «Nota dei convittori che hanno dimorato nel Collegio de’ Nobili in Milano nell’anno scolastico 1774» (Ibid., Studi, parte antica, 53, f. 2) testimonia la sua presenza, insieme con il fratello minore Luigi, nel collegio dei nobili di Brera, retto dai gesuiti, fino a tutto il 1774 (quindi dopo la soppressione della Compagnia).

È perciò assai probabile che il M. percorresse l’intero curriculum previsto per gli alunni del collegio, dalle classi inferiori di grammatica e d’umanità a quelle superiori di logica, filosofia e metafisica, per una durata complessiva di dieci-dodici anni. A Brera era attivo, come organizzatore dell’osservatorio astronomico, il grande scienziato dalmata R. Boscovich, con il quale il M. sembra essere rimasto in rapporto anche in seguito, e l’insegnamento di matematica era affidato (dal 1767) a un suo allievo di idee assai avanzate, il francese J.-J. Rossignol, del quale il M. si rammentò negli anni napoleonici, come dimostrano due sue lettere del 1805 e del 1807 a Luigi Bossi.

I lunghi anni trascorsi nelle scuole gesuitiche fruttarono dunque al M. non soltanto una solida preparazione umanistica, ma anche un notevole bagaglio di conoscenze scientifiche e contribuirono a rafforzare in lui una visione del mondo in senso lato illuministica e una naturale tendenza alla riflessione e all’osservazione spregiudicata della realtà.

La morte del nonno e del padre, rispettivamente nel 1776 e nel 1777 (la madre era scomparsa già nel 1768), lasciò il M. finalmente padrone del suo destino, anche se l’eredità rimase a lungo indivisa tra lo zio Giacomo e i due nipoti (lo stesso M. e il fratello Luigi); nel 1781 le entrate complessive ammontavano a circa 35.000 lire (Arch. di Stato di Milano, Senato Fedecommessi, 436). Nel dicembre 1776, dopo la rinuncia di Gaspare, il M. era stato nominato membro del Consiglio dei sessanta decurioni, e lo stesso mese aveva ottenuto la chiave di ciambellano. Nonostante gli auspici favorevoli, non cercò cariche nell’amministrazione pubblica, probabilmente anche a causa di una menomazione fisica (una malattia all’apparato urinario, forse di origine luetica) che lo costrinse a sottoporsi nel 1782 a una dolorosa operazione, ripetuta un decennio più tardi. Per queste stesse ragioni, oltre che per motivi di carattere, le sue frequentazioni sociali furono limitate a pochi circoli scelti, primo fra tutti quello di casa Litta, una delle famiglie più ricche e influenti di Milano. Il M. fu attratto soprattutto dalla bella e colta Paola Litta, l’«inclita Nice» di G. Parini, andata sposa nel 1769 a G. Castiglioni Stampa. In sua compagnia è tradizione che egli visitasse l’Italia intorno al 1780, anche se nulla di certo si conosce in proposito. Sulla serie dei viaggi compiuti dal M. in questi anni regna una certa confusione tra i biografi. Di certo trascorse a Napoli quasi tutto il 1783, come dimostrano due lettere, una del 27 maggio a P. Verri, l’altra ad Antonio Greppi del 21 ottobre, scritte dalla città partenopea (Ibid., Dono Greppi, 322).

Circa due anni durò il periplo della penisola iberica intrapreso dal M. nel novembre 1784, che da Genova, Nizza e Marsiglia lo condusse a Barcellona, Saragozza (dove dimorò presso la sorella maggiore Paola, moglie di un nobile aragonese e madre di G. Palafox, futuro eroe della resistenza contro Napoleone Bonaparte), Madrid, Valenza e infine Cadice, dove si fermò più di un mese, tra giugno e luglio del 1786, ospite di Paolo Greppi, che rimase fino alla morte il suo più fedele e intimo amico.

Su questo viaggio il M. ha lasciato un minuzioso diario e due quaderni di appunti di grande formato. Il viaggio doveva proseguire per Lisbona e poi Parigi, ma su questo prolungamento non si hanno notizie. È forse all’inverno 1786-87 (o forse al successivo) che si riferisce un’interessante testimonianza del pittore G. Bossi sul M.: «passò un intiero inverno con Alfieri a Parigi. […] Alfieri era impetuoso, iracondo, ardente, ma tenero. Melzi ed egli prendevano una loggia da soli per sentire le tragedie francesi. Alfieri studiava il suo mestiere. Melzi studiava Alfieri amando di vedere l’effetto che in tal uomo producevano quelle rappresentazioni» (cfr. Memorie inedite di Giuseppe Bossi, in Arch. storico lombardo, V [1878], pp. 281 s.).

Se in Francia lo colpirono, oltre alla raffinatezza della vita sociale, l’atmosfera elettrica e il ribollire di speranze e di progetti proprio di quello scorcio dell’Ancien Régime, l’Inghilterra, dove il M. si trattenne per gran parte del 1787, gli apparve come un modello ideale in campo economico ma anche in politica e nel complesso dei rapporti sociali. Soggiornò a Londra, ma viaggiò a lungo nell’Inghilterra settentrionale e in Scozia, si fermò a Oxford a esaminare il funzionamento dell’Università, si interessò alle arti (con una serie di osservazioni sui pittori più importanti), ai progressi dell’agricoltura, agli arsenali, alle fabbriche, e naturalmente alle istituzioni politiche.

Le considerazioni più profonde al riguardo si trovano non nei diari di viaggio, ma in un quaderno intitolato Pensieri diversi, pubblicato da Del Bianco nel 1999. Basterà citarne il passo sull’industria inglese che «cammina libera e sola, e perché libera conosce bene il suo cammino, e così bene che se ne apparta impunemente quando cerca nuovi paesi e nuove conquiste» (I «Pensieri diversi», p. 336), o quello sulla costituzione inglese lodata «perché ella è la sola forse delle moderne che abbia saputo conservare in gran parte la civile libertà base e principio d’ogni gran cosa umana» (ibid., p. 338).

Il ritorno del M. a Milano dovette avvenire alla fine del regno di Giuseppe II, allorché i Lombardi e in particolare i Milanesi davano crescenti segni di malcontento e di esasperazione di fronte alle incalzanti riforme dell’«imperatore filosofo»: anche di questo aspetto sembra di poter cogliere un’eco nei Pensieri diversi. «Ogni secolo ha la sua passione dominante, quella delle riforme contrassegna il 18°. L’orgoglio fa qualificare le riforme come progressi, ma in fatti purtroppo non sono che innovazioni; e la massa immensa de’ semi-filosofi, de’ semi-politici, de’ semi-dotti s’abitua facilmente a prendere “mutare” per “migliorare”. La natura ha affidato al tempo le sue rivoluzioni, lente, tacite, insensibili ma irresistibili; le passioni invece invadono il dominio del tempo, e lacerano violentemente la tela, ch’egli discioglieva in silenzio» (ibid., p. 344).

Il M. era in ogni caso presente alla seduta del Consiglio generale di Milano del 25 maggio 1790, in cui si elessero i due decurioni milanesi che dovevano far parte della deputazione sociale voluta dal nuovo imperatore Leopoldo II d’Asburgo. Il M. e Pietro Verri (che aveva sposato in seconde nozze sua sorella Vincenza) posero anzi, senza successo, la propria candidatura. Tale votazione segnò comunque l’inizio di un loro impegno più diretto negli affari civici, specie dopo il dispaccio del 20 genn. 1791 che concedeva nuovi poteri ai Consigli decurionali. Ciò rendeva tanto più anacronistica la prassi vigente, che proibiva la discussione orale delle mozioni presentate da un corpo ristretto composto dal vicario di provvisione e dai tre conservatori degli Ordini (eletti a vita), lasciando al Consiglio la sola facoltà di approvare o di respingere a palle segrete. Nel 1792 il M. e Verri si associarono in una battaglia per cambiare questo stato di cose, presentando per iscritto i loro rilievi il 18 maggio.

La consulta del M. muoveva dall’esaltazione del «progresso della ragione, progresso lento, ma certo», per richiamare i colleghi al carattere rappresentativo del Consiglio dei sessanta decurioni e quindi alla loro comune responsabilità di fronte al pubblico; e abilmente faceva l’esempio dei convocati posti in essere dalla riforma censuaria, dove «duecento rozzi villani raccolti godono placidamente del naturale diritto di parlare per intendersi», diritto negato invece a «sessanta nobili educati a rappresentare e reggere il pubblico interesse» (Vianello, 1940, pp. 452-458).

Nonostante la tattica dilatoria adottata dalla dirigenza conservatrice, la questione della libertà di parola venne finalmente posta ai voti l’11 genn. 1793 e i riformisti ebbero la maggioranza con 25 suffragi contro 21. Considerato ormai il leader naturale del partito dei novatori in seno al Consiglio, il M. risultò il primo fra gli eletti nella votazione per il rinnovo dei conservatori degli Ordini (ora con mandato triennale).

Nonostante il prestigio conquistato e l’amicizia e la stima che gli professava il plenipotenziario J.J. von Wilczeck, il M. non fu preso in considerazione fino al 1796 per alcuna carica statale.

A Leopoldo II, che nel 1791 visitò la Lombardia portando «in portafoglio una lista di persone che gli erano state suggerite per essere consultate ed eventualmente occupate», in cui era compreso il M., fu detto che egli «era uomo scontroso e dallo spirito di fronda e non atto per esser consultato e impiegato» (cit. in Cuccia, p. 140). L’arciduca governatore Ferdinando III di Asburgo Lorena lo considerava fautore delle idee francesi e in una lettera all’imperatore Francesco II del 18 marzo 1793 lo definì «le petit Mirabeau», tanto più pericoloso «puisqu’il a le talent pour pousser ses projects» (ibid.).

Senza dubbio questa situazione contribuì ad aggravare l’ipocondria legata al cattivo stato di salute oltre che al carattere ombroso e orgoglioso del M.; sul suo stato d’animo influivano certo negativamente le notizie che giungevano dalla Francia di una progressiva radicalizzazione del moto rivoluzionario. Alla visione aristocratico-liberale del M. rimasero sempre estranei quegli accenti quasi democratici, quelle espressioni di simpatia per la rivolta degli oppressi che ricorrono invece sotto la penna di Verri.

Come l’amico P. Greppi, egli poneva al centro della costituzione verso cui tendere la difesa del diritto di proprietà, da lui definito «inerente alla natura umana, anteriore alla società, inalienabile dall’individuo, inviolabile dal corpo sociale» (cit. in Vianello, 1942, p. 431), come era da lui condannato nei termini più violenti ogni disegno di redistribuzione delle ricchezze. Con Greppi e con il suo grande amico F. Manfredini, il più ascoltato consigliere del granduca di Toscana Ferdinando III, il M. condivideva d’altra parte l’ostilità contro la politica bellicosa dell’Inghilterra e dell’Austria, soprattutto dopo la caduta di M. Robespierre e lo spostamento del governo francese su posizioni più moderate. A questo gruppo (cui si può accostare anche il rappresentante spagnolo a Roma, N. de Azara) la pace a ogni costo appariva il solo mezzo per stornare le più funeste conseguenze della rivoluzione e per rendere possibile un graduale e lento sviluppo delle istituzioni in senso liberale. In questi convincimenti il M. venne confermato da un viaggio in Toscana, dal febbraio 1795 in pace con la Francia, compiuto nell’estate di quell’anno per prendere i bagni e per provvedere alla collocazione di un figlio segreto dell’amico Greppi.

Sulle reazioni e sugli stati d’animo del M. nei giorni cruciali dell’invasione francese siamo ben informati grazie, tra l’altro, a un diario che egli tenne per gran parte del mese di maggio 1796, pubblicato nel 1998 da Del Bianco. Fu sua la proposta, approvata dal Consiglio generale il 2 maggio, di organizzare su basi volontarie la milizia civica per mantenere l’ordine pubblico nel difficile periodo di transizione che si profilava, e la leadership da lui conquistata in seno al Consiglio fu confermata dall’elezione a rappresentante del Consiglio stesso nella delegazione inviata il 10 maggio al comandante delle truppe francesi. L’incontro con il vittorioso Napoleone Bonaparte avvenne l’11 maggio a Lodi.

Il generale si mostrò ben informato della situazione milanese e promise ai delegati l’appoggio della Francia se si fossero mostrati degni della libertà. Il M., che parlava a nome di tutti, tenne dal canto suo a sottolineare che le conquiste principali dell’89, l’uguaglianza dei diritti e l’abolizione dei privilegi, erano già realizzate nel Milanese, che quindi non aveva bisogno di una rivoluzione: «In Lombardia, generale, la distinzione delle classi è di nome solamente: la legge, il giudice, le tasse sono uguali per tutti. Feudalità, privilegi lucrosi non esistono. […] I titoli e le denominazioni non tengono già a noi, ma all’antico Governo; gli abbiamo per nulli ma siano salve le proprietà» (Un diario privato, pp. 319 s.).

L’attento studio che i due uomini fecero l’uno dell’altro in quell’occasione gettò le basi di una reciproca stima e di un’amicizia destinata a durare. Per il momento l’animo del M. era combattuto tra la solidarietà con i colleghi decurioni e le prospettive di un’evoluzione in senso costituzionale, tra la fedeltà alla sua immagine di uomo tutto d’un pezzo e l’aspirazione a giocare un ruolo di primo piano in un quadro politico che andava profondamente rinnovato.

Gli avvenimenti si sarebbero presto incaricati di gettare molta acqua sulle speranze iniziali in un cambiamento pacifico e indolore. Sin dai primi giorni dell’occupazione i patrioti, o giacobini, incoraggiati sottomano dalle autorità francesi, presero ad attaccare gli aristocratici e i ricchi e a predicare un’uguaglianza non solo formale. Il conclamato rispetto della proprietà apparve ben presto una specie di beffa di fronte alla gragnola di imposte straordinarie, di requisizioni e di vere e proprie estorsioni che si abbatté sui Milanesi.

A questa congiuntura, e in particolare alla contribuzione militare di 20 milioni di franchi decretata da Bonaparte il 19 maggio, deve essere riferito un breve scritto del M., le Riflessioni sui mezzi che ha la Lombardia nel momento presente per servire di norma nel calcolo da farsi sia per mantenere le armate francesi, sia per fornire una contribuzione. Tutta la ricchezza del paese stava nell’agricoltura, e la liquidità esistente era già stata assorbita dal governo austriaco. La speranza era riposta nel nuovo raccolto, ma bisognava garantire la libertà dei traffici e l’ordine pubblico, reprimere «i fanatici propagandisti», soprattutto concedere tempo: «La Francia garantisca con solennità il buon ordine, le leggi e la proprietà: si obblighi nel caso eventuale a non permettere che la Lombardia passi sotto nuovo dominio, che sotto un regime moderato dalle leggi di una costituzione fondata sulla proprietà» (Vianello, 1942, p. 440).

Intanto, però, erano piuttosto gli odiati giacobini a influenzare le decisioni degli occupanti. Il Consiglio decurionale venne sciolto il 21 maggio e sostituito da una Municipalità rivoluzionaria in cui fu compreso P. Verri, ma non il M., che fu invece con gli altri ex decurioni arrestato e deportato, in qualità di ostaggio, a Cuneo e poi a Nizza. Solo il 23 luglio il commissario francese C. Saliceti, su intercessione di P. Greppi, rilasciò il documento necessario alla liberazione del M., che poté così trasferirsi dapprima a Genova, poi in Toscana, dove giunse verso metà settembre. Qui ritrovò Azara e Manfredini, ai quali in novembre si aggiunse Greppi. I quattro amici, nucleo virtuale di un partito moderato favorevole alla pace e a una cauta evoluzione delle istituzioni in senso costituzionale, ripresero così a tessere le loro trame e a esercitare pressioni sui rappresentanti civili e militari della Francia.

Nella primavera del 1797 Bonaparte ritenne giunto il momento di porre fine al governo provvisorio della Lombardia e di dare vita a una Repubblica formalmente indipendente, ma di fatto sottoposta ai suoi voleri e contrassegnata da un ritorno in auge delle forze moderate. In questo quadro si inserisce l’invito da lui rivolto a Greppi e al M. il 6 maggio, dopo la firma dei preliminari di pace con l’Austria, affinché collaborassero all’organizzazione della nascente Repubblica Cisalpina. Il M. non se la sentì di negare il proprio contributo; a fine maggio era di nuovo a Milano, ottimamente accolto da Bonaparte e dalla moglie.

Su richiesta del primo, con ogni probabilità, egli stese nel mese di giugno un discorso sulla costituzione rivolto Al popolo cisalpino in cui, riferendosi alla carta francese dell’anno III, cominciava dal porre come criterio di giudizio non «la storia dei tempi andati», ma «l’intrinseca ragione delle cose». Un’altra premessa, che sviluppa l’argomentazione già presentata a Bonaparte un anno prima, era che in Lombardia il livellamento delle classi era già avvenuto e solo i titoli distinguevano i nobili dal popolo; di qui l’esortazione agli ex nobili a lasciar cadere ogni rimpianto per l’antico sistema, che non garantiva come il nuovo la proprietà «contro il facile abuso dell’arbitrario potere», e l’invito a seppellire sotto l’oblio le divisioni e le fazioni, a cedere «alla forza invincibile delle cose»: «La Rivoluzione è finita quando la carta è accettata» (Al popolo cisalpino, pp. 4, 7 s., 33).

Un altro cedimento del M. alle pressioni di Bonaparte fu la sua partecipazione al Comitato di finanza, uno dei quattro creati in attesa della nomina del Corpo legislativo. In privato, però, egli era assai mal disposto verso il nuovo ordine di cose.

Una lunga lettera-diario, da lui scritta a Greppi tra il 23 giugno e il 13 luglio 1797, spiega così l’apologia della costituzione cui si era prestato: «Convengo ch’io dissi più che non merita la nostra costituzione, per autorità superiore riformata in punti gravissimi a rovescio dei principii. Ma io ne era creato ruffiano, dovea dire che la ragazza è bella» (Vianello, 1942, pp. 243 s.); e dipingeva la situazione e i rapporti tra occupati e occupanti a colori assai foschi.

Nessuna meraviglia, dunque, che egli non intendesse accettare cariche di responsabilità: «Io fui cercato per Direttore, Ministro, ecc.; rifiutai sul titolo innegabile, irrecusabile della salute» (ibid., p. 244). Non volle entrare neanche nel Consiglio legislativo, cui Bonaparte lo nominò in novembre; ma non poté rifiutare un incarico straordinario affidatogli il 4 ott. 1797 dal Direttorio cisalpino: quello di trattare con R.-E. Haller, amministratore delle finanze dell’armata francese, una sistemazione di tutte le pendenze finanziarie tra la neonata Repubblica e la Francia. La relativa convenzione, firmata il 15 ottobre, riconosceva alla Cisalpina il pieno godimento dei suoi beni e dei suoi diritti, ma le addossava un pagamento una tantum di 3.600.000 franchi e il versamento mensile di un milione per il mantenimento dell’armata d’occupazione. Pur di lasciare Milano il M. accettò, poi, di rappresentare la Cisalpina nelle trattative che dovevano svolgersi a Rastadt con l’Austria e con l’Impero per risolvere le questioni lasciate aperte dal trattato di Campoformio. A Rastadt Bonaparte intendeva negoziare personalmente con il M. la stipula di un trattato d’alleanza tra la Francia e la Cisalpina; ma quando il M. vi giunse, a fine anno, Bonaparte era già ripartito per Parigi, dove furono di fatto trasferiti i negoziati tra Francia e Austria; di modo che il M., munito dal proprio governo di istruzioni del tutto irrealistiche, si trovò isolato e guardato con diffidenza e fastidio dalle altre delegazioni. In tali difficili circostanze egli diede prova di una consumata abilità diplomatica e seppe guadagnarsi la stima e l’ascolto del plenipotenziario austriaco J.L.J. von Cobenzl, al quale espose il suo grande progetto di un regno dell’Italia settentrionale equidistante tra Parigi e Vienna, la cui corona, con poteri circoscritti da un regime costituzionale, sarebbe dovuta andare a Ferdinando III di Toscana.

Il progetto, al quale il M. rimarrà sempre fedele, non aveva alcuna possibilità di realizzazione nel quadro politico di fine Settecento; ma era la prima volta che il problema dell’indipendenza italiana veniva posto sul tappeto in un consesso internazionale. Dopo mesi di inconcludenti trattative, il M. decise di dimettersi dall’incarico e di accogliere un invito rivoltogli il 2 giugno dal proprio governo di recarsi a Parigi per esporre al Direttorio, pur senza veste diplomatica ufficiale, la triste situazione della Cisalpina. Vista però l’inutilità dei suoi sforzi anche a causa del nuovo oscurarsi dell’orizzonte internazionale, si procurò un certificato medico che lo dichiarava bisognoso di cure, e ai primi di novembre partì da Parigi per rifugiarsi a Saragozza presso la sorella.

La permanenza in Spagna, interrotta solo dai soggiorni estivi a Barèges, sul versante francese dei Pirenei, si protrasse fino al marzo 1801. Il M. assistette dunque da spettatore lontano, ma tutt’altro che indifferente, ai grandi avvenimenti che scossero la Francia e l’Europa in quel passaggio di secolo. Il ritorno di Bonaparte dall’Egitto fu da lui salutato il 16 nov. 1799 con una lettera (una delle sue più belle) piena di sdegno e di amarezza per l’oppressione e il saccheggio sistematico che l’Italia aveva dovuto subire prima dai Francesi, ora dagli Austro-Russi. Non si illudeva più di vedere «l’époque encore éloignée où le bonheur de ma patrie naîtra spontanément comme fruit de son sol». Solo il genio e la mano potente di Bonaparte avrebbero potuto «mitiger le sort des peuples de l’Italie par des stipulations qui pourraient préparer leur bonheur futur, en améliorant leur sort présent» (Da Como, I, pp. 8-11).

Era quindi naturale che il M. accogliesse con cauto ottimismo la notizia del colpo di Stato del 18 brumaio: la «nuova rivoluzione» era ai suoi occhi giustificata dalla rovina che minacciava la Francia sotto il regime direttoriale. La grande vittoria di Marengo e la ricostituzione della Repubblica Cisalpina nel giugno 1800 non valsero tuttavia a ridargli fiducia: senza esitare rifiutò la nomina a membro della Commissione straordinaria di nove membri cui venne affidato il potere esecutivo, come nel novembre successivo quella a delegato cisalpino nelle trattative destinate a sfociare nella pace di Lunéville. «Tutto mi consiglia il partito del oscurità», si giustificava con F. Marescalchi il 17 luglio 1800, e, scrivendo il 7 agosto a Greppi (che aveva accettato la rappresentanza della Cisalpina a Parigi, ma morirà un mese dopo), respingeva con sdegno l’accusa di tenersi in disparte per secondi fini; deciso a non immischiarsi in un governo provvisorio, non escludeva per il futuro il proprio apporto a una sistemazione costituzionale.

Solo quando la situazione politica apparve stabilizzata dalla pace di Lunéville tra Austria e Francia (9 febbr. 1801), il M. cedette ai pressanti inviti del primo console e si recò a Parigi, dove già da tempo si trovava Marescalchi e dove in giugno arriveranno anche A. Aldini e G. Serbelloni, inviati straordinari del governo cisalpino. Subito egli assunse di fatto la leadership del gruppo. «Qui è Melzi. – scriveva Marescalchi ad Aldini il 17 aprile – Esso è il consultato, almeno sin ora; io zero come sempre» (ibid., p. 138).

I materiali pubblicati da Da Como mostrano che i delegati cisalpini non fecero nulla per contrastare la svolta autoritaria che Bonaparte e i suoi collaboratori intendevano imprimere alla vita politica della Repubblica Cisalpina. I limiti del liberalismo del M., in particolare, balzano evidenti già dalla sua risposta del 16 maggio 1801 a Ch.-M. de Talleyrand, che gli aveva chiesto un parere su due progetti di costituzione (elaborati uno dalla Consulta milanese, l’altro, di impianto federalista, da Talleyrand stesso) presentati al governo francese; ostile al federalismo, che riteneva inadatto a un paese già in preda alle fazioni e alle rivalità territoriali, il M. non era molto più tenero riguardo all’altro progetto: non solo giudicava ancora insufficiente il rafforzamento del potere esecutivo, ma si dichiarava contrario a ogni forma di elezione dal basso e scorgeva il solo modo per legare al sistema nobili e proprietari nel «rendre à la propriété tous ses droits, et toute son influence» (ibid., pp. 150-158).

Un terzo progetto di costituzione, elaborato dal consigliere di Stato P.-L. de Roederer, venne accettato dai quattro, ma con varie riserve relative soprattutto ai previsti tre Collegi elettorali dei possidenti, dei commercianti e dei dotti. Bonaparte non accolse alcuna delle loro richieste, limitandosi a portare il numero degli elettori possidenti da 200 a 300; gradì invece il suggerimento del M. di convocare in territorio francese un «jury» o commissione di rappresentanti cisalpini, accuratamente selezionati, per l’approvazione della nuova carta costituzionale e per le prime nomine, sottratte così alle pressioni del partito democratico; ma ne volle fare una grande assemblea rappresentativa di tutte le categorie (amministratori, magistrati, ecclesiastici, professori, militari, commercianti, notabili locali) in qualche modo legate o da associare allo Stato in formazione. Capovolgendo il nesso istituito nel triennio rivoluzionario, era lo Stato, quello Stato, a dover creare una nazione che si era scoperta inesistente, e non viceversa.

Ai Comizi di Lione, che si tennero nell’inverno 1801-02 con la partecipazione di 452 esponenti cisalpini, Bonaparte impose un testo che escludeva ogni forma di consultazione popolare e accentuava il carattere monocratico del governo. L’unica incertezza riguardava la nomina del presidente della Repubblica, che il primo console intendeva ricevere per acclamazione. Ma la delegazione ristretta incaricata dell’elezione si espresse con 25 voti su 30 per il M., il quale subito rifiutò; lo stesso fece Aldini, designato da una seconda votazione. Solo dopo una sfuriata di Bonaparte e l’opera di persuasione condotta da Talleyrand e dallo stesso M., si giunse il 24 gennaio al risultato voluto. Il 26, infine, venne letta e approvata la costituzione di quella che, con l’assenso di Bonaparte, venne intitolata ora Repubblica Italiana, e si procedette alle prime nomine, tra cui quella del M. a vicepresidente.

Da questo momento, per tre anni, il destino personale del M. si confonde con la storia di un grande Stato di quasi 4 milioni di abitanti. Furono imponenti i risultati raggiunti in così breve volgere di tempo, a cominciare dalla creazione di un forte esercito nazionale mediante la coscrizione obbligatoria, base indispensabile, secondo il M., per la futura indipendenza, e dal risanamento delle finanze, conseguito dal ministro G. Prina con il consolidamento del debito pubblico e la vendita dei residui beni nazionali. I rapporti tra Stato e Chiesa vennero regolati da un concordato simile a quello adottato in Francia (e contrastato dal M. che avrebbe voluto tornare al sistema giuseppino); fu riorganizzata e ammodernata l’istruzione media e superiore; il sistema giudiziario venne ristrutturato dalle fondamenta secondo criteri di uniformità e razionalità. In alcuni settori, come quello della codificazione del diritto, gli sforzi del M. e dei suoi collaboratori per una produzione autoctona dovranno lasciare il posto alla volontà di Napoleone di imporre anche in Italia i modelli francesi; e i difetti lamentati dal M. nel funzionamento della macchina governativa, quali lo scarso coordinamento tra i ministri e l’opposizione preconcetta del Corpo legislativo, trovarono anch’essi soluzione solo negli anni del Regno d’Italia. Ma non furono questi limiti nell’azione di governo (troppo sottolineati da Pingaud) a produrre nel M., fin dal primo anno, quella stanchezza, quella disillusione e quella volontà sempre più decisa di deporre il pesante fardello, che traspaiono dai suoi carteggi. Tra i fattori principali del suo scoraggiamento furono certo la continuata presenza sul suolo italico di una forte armata francese e il rifiuto di Napoleone di ridurne gli effettivi e il peso finanziario, soprattutto nel primo periodo in cui alla sua testa era l’ambizioso e intrigante Gioacchino Murat che, pur di mettere il M. in cattiva luce agli occhi del cognato, gli montò contro ad arte «l’affare Ceroni», il soldato poeta colpevole di avere pubblicato versi di chiara intonazione antifrancese e antinapoleonica. Altri motivi di afflizione erano la carenza negli Italiani di spirito pubblico, il persistere di sentimenti municipalistici, la mancanza di una coscienza nazionale. Il M. non cessava poi di preoccuparsi delle trame dei patrioti, discriminati negli impieghi e soggetti a una sorveglianza poliziesca: a questo si riferiscono le critiche rivoltegli da F. Coraccini (pseudonimo di G. Valeriani), da G. Compagnoni, P. Custodi, U. Foscolo, M. Gioia.

A Marescalchi, destinatario abituale dei suoi sfoghi, così scriveva il 17 giugno 1802: «Vedo che si potrà ottenere fino ad un certo segno di riorganizzare l’amministrazione se veniamo sollevati, ma non vedo ancor la via per cui si possa dare quella piega al morale del paese che giovi a metterne in gioco le molle grandi dello spirito d’indipendenza, della disposizione ai sagrificj che questo domanda, di quel sentimento elevato e fiero che fa essere i popoli potenti» (Carteggi Melzi, I, p. 431).

La consapevolezza della difficoltà di adattarsi alla parte che doveva recitare, non disgiunta da un altissimo senso di sé, era poi esasperata dai problemi di salute, complicati da attacchi di gotta sempre più frequenti e dolorosi. Il M. rimase al suo posto solo per senso del dovere e perché così voleva Bonaparte. Ma non rinunciò ad accarezzare il vecchio progetto concepito a Rastadt, sfiorando come allora il tradimento con il rapporto confidenziale instaurato con un agente austriaco a Milano, il roveretano barone S. de Moll: a lui, e per suo tramite alla corte viennese, il M. ripeté che «per consolidare la pace occorre far risorgere in Italia una barriera forte tra l’Austria e la Francia», ingrandendo la Repubblica Italiana (con unione di Veneto, Parma e Piacenza, Liguria e parte del Piemonte) e mettendo «alla sua testa un principe di una gran casa regnante nella persona del Granduca [Ferdinando III di Toscana] garantito nella sua indipendenza da entrambe le potenze» (Pedrotti, 1937, pp. 31, 73).

L’occasione per realizzare almeno in parte questo programma e, al tempo stesso, per «sciogliersi da una così odiosa situazione», come il M. bramava, «con decoro e delicatezza», parve presentarsi nella primavera del 1804, quando l’elevazione di Napoleone a imperatore dei Francesi pose il problema di un superamento delle forme repubblicane anche in Italia. Al titolo di re d’Italia o di Lombardia, offerto al capo dello Stato da un decreto della Consulta provocato dal M. il 28 maggio, si univa la richiesta della separazione delle due corone dopo la morte di Napoleone, del mantenimento dell’indipendenza politica, della libertà civile, dell’eguaglianza dei diritti, e di una duplice garanzia della nuova forma di governo da parte della Francia e dell’Austria. Il progetto di costituzione elaborato su queste basi dalla Consulta venne spedito a Parigi il 25 giugno insieme con le dimissioni del M., che Napoleone respinse, senza apprezzare peraltro un progetto che limitava troppo i suoi poteri. Non meno lo irritò una lettera del M. che istituiva un paragone sfavorevole tra la situazione attuale e quella dei Lombardi sotto il governo austriaco, quando si pagava di meno. I rapporti tra i due si andavano irrimediabilmente deteriorando: quando alla fine dell’anno si recò a Parigi alla testa di una deputazione voluta dall’imperatore per concertare con lui i cambiamenti da apportare alla costituzione, il M. fu ancora accolto cordialmente, ma le sue idee trovarono scarso ascolto. Andò a vuoto anche un tentativo di offrire la corona del costituendo Regno d’Italia a Giuseppe Bonaparte. Napoleone aveva ormai deciso di farsi proclamare egli stesso re d’Italia, e di designare come viceré e successore il giovane figliastro Eugène de Beauharnais. Né si parlò più di una nuova costituzione: i mutamenti nelle strutture del Regno furono introdotti con una serie di decreti costituzionali a partire dal 19 marzo 1805.

Quando fece ritorno a Milano, in aprile, il M. era ormai politicamente emarginato. Nell’accettare le sue dimissioni dalla vicepresidenza della Repubblica, Napoleone gli conferì una carica di grande prestigio ma di scarsa sostanza, quella di gran cancelliere guardasigilli. Ma il M. non intendeva per ora collaborare al nuovo sistema che sentiva estraneo, tanto più dopo l’ascesa del suo nemico dichiarato, Aldini, a uomo di fiducia dell’imperatore come segretario di Stato a Parigi. Presenziò ai festeggiamenti per l’incoronazione di Napoleone a re d’Italia (26 maggio 1806), ma subito dopo lasciò Milano per Bellagio, senza neppure avvertirne il viceré Eugène. Alla fine dell’estate chiese poi il permesso di recarsi per un anno in Francia; trascorse l’inverno a Aix-en-Provence, poi proseguì per le località termali dei Pirenei che gli erano familiari. Rientrato a Milano nell’ottobre 1806, pose fine gradualmente all’atteggiamento di fronda assunto all’inizio e accettò di inserirsi più attivamente nella vita pubblica del Regno, stabilendo anche rapporti di cordialità e amicizia con Beauharnais. Nel corso di una nuova visita a Milano (novembre-dicembre 1807), Napoleone lo nominò duca di Lodi, con un ricco appannaggio di 200.000 lire annue, e presidente del Collegio dei possidenti. Il suo parere fu richiesto su tutte la candidature al Senato, il nuovo organo istituito con il sesto Statuto costituzionale (21 marzo 1808); e durante le assenze da Milano del viceré, impegnato con l’esercito italico nelle campagne del 1809 e del 1812, il M. assunse la presidenza del Consiglio dei ministri e funse di fatto da capo del governo, tenendo di tutto informati naturalmente Napoleone e Beauharnais: tra il maggio 1812 e il maggio 1813 i suoi rapporti all’imperatore assunsero un ritmo addirittura quotidiano.

La parte avuta dal M. nella caduta del Regno d’Italia è tuttora oggetto di dubbi e di controversie. Il 21 genn. 1814, quando Eugène ancora resisteva all’avanzata austriaca lungo la linea dell’Adige, di concerto con lui il M. rivolse un appello all’imperatore perché consentisse a una trattativa separata tra il Regno d’Italia e l’Austria; ma nessuna risposta giunse da Parigi. Dopo l’abdicazione di Napoleone, l’11 aprile il M. scrisse al viceré, allora a Mantova, per proporgli la convocazione straordinaria dei Collegi elettorali, al fine di ottenerne un pronunciamento favorevole all’indipendenza del paese sotto la sovranità di Beauharnais. A quanto si può congetturare, quest’ultimo suggerì invece al M. di convocare il Senato, ritenendolo forse più malleabile. Il Senato si riunì il giorno 17 in un clima di grande tensione e in mezzo a manifestazioni ostili promosse sia dagli austriacanti sia dai cosiddetti «italici puri», favorevoli all’indipendenza ma contrari alla candidatura di Beauharnais. Assente dalla seduta per un attacco di gotta, il M. vide la sua mozione scartata a favore di un’altra che si limitava a ringraziare il viceré per l’opera svolta e a decretare l’invio alle potenze alleate di una deputazione senatoria per chiedere l’indipendenza del Regno. Una nuova riunione del Senato, indetta per il 20 aprile, venne interrotta da una sommossa popolare che sfociò nel linciaggio del ministro delle Finanze G. Prina. La casa stessa del M. corse pericolo di essere saccheggiata. Informato dell’accaduto, Beauharnais comprese che la sua causa era perduta e decise di partire con la famiglia per la Baviera; di lì a pochi giorni il commissario A. Sommariva prendeva possesso di Milano a nome dell’imperatore d’Austria.

Sopravvissuto meno di due anni, trascorsi quasi interamente nella villa di Bellagio costruita tra il 1808 e il 1812, il M. morì nella sua residenza di Milano (attuale via Manin), il 16 genn. 1816.

Fonti e Bibl.: Sulle vicende dell’archivio del M., sequestrato dopo la sua morte dal governo austriaco e in parte spedito a Vienna, da dove tornò solo nel 1919, e sul diverso destino delle carte rimaste alla famiglia (tra le quali le corrispondenze di Napoleone e Marescalchi) si deve rinviare all’introduzione dell’inventario manoscritto dei due fondi Vice-presidenza Melzi e Archivio Melzi restituito dall’Austria presso l’Archivio di Stato di Milano e all’attenta ricostruzione di C. Zaghi nell’introduzione a I carteggi di F. Melzi d’Eril duca di Lodi, I-VII, Milano 1958-66, I, pp. 3-5. Cosa diversa dall’archivio privato Melzi ivi descritto, composto di 16 voluminosi faldoni (di proprietà della famiglia Gallarati Scotti, conservato non più a Bellagio, ma a Milano) è un altro insieme di carte, consistente essenzialmente di note e diari di viaggio, conservato in un’unica scatola di proprietà dell’avvocato Giancarlo Melzi D’Eril. Molto materiale relativo al M. e al suo governo come vicepresidente della Repubblica Italiana si trova sparso in vari fondi dell’Archivio di Stato di Milano: tra le diverse sezioni degli Atti di governo sono di particolare interesse i fondi Araldica, parte antica e parte moderna; Commercio, parte moderna; Culto, parte moderna; Giustizia civile, parte moderna; Giustizia punitiva, parte moderna; Potenze sovrane, post 1535; Spettacoli pubblici, parte moderna; Studi, parte antica; Uffici civici, parte antica; Uffici e tribunali regi, parte moderna e parte speciale. Del cosiddetto «Archivio Napoleonico» sono da consultare soprattutto l’Archivio Marescalchi e l’Archivio Testi, relativi il primo alla divisione del ministero degli Esteri residente a Parigi, il secondo alla divisione milanese dello stesso ministero; inoltre i fondi Consiglio legislativo e Segreteria di Stato presso l’imperatore, detto Archivio Aldini. Sempre nell’Archivio di Stato di Milano molte notizie sul M., la sua famiglia e le sue vicende patrimoniali si possono ricavare dai fondi: Autografi (cart. 223); Acquisti Riva Finolo; Dispacci reali; Famiglie (cart. 177); Senato, Fedecommessi (cartt. 435-436); nonché dagli archivi di alcuni notai, soprattutto Giambattista Riva: Notarile, Rubriche, 4135-4136; la corrispondenza del M. con Antonio Greppi e con il figlio di lui Paolo è pure Ibid., Dono Greppi, 322 (di grande interesse fino al 1801 sono le lettere di Paolo al padre conservate ibid., cartt. 382-390). Nell’Archivio storico civico di Milano contengono materiale utile i fondi Famiglie (pacco 984) e Dicasteri, dove della serie Verbali del Consiglio generale della città di Milano sono di particolare rilievo le cartt. 127, 128, 129, 132. Lettere e autografi del M. o materiali che lo riguardano sono sparsi in molti archivi e biblioteche italiani e stranieri, per la cui elencazione si rinvia a C. Zaghi, I carteggi…, cit., I, pp. 6-9. Non certo ultimo per interesse è il Fondo Pia e Carlo Zaghi presso la Biblioteca comunale di Argenta, dove in 49 cartelle si conservano moltissimi documenti relativi al M., in fotocopia o anche in originale, raccolti da Zaghi (catalogo dattiloscritto compilato nel 1994 da M.P. Torricelli). Tra le fonti a stampa e gli studi, tre grandi raccolte di documenti hanno al centro il M.: F. Melzi D’Eril, Memorie-documenti e lettere inedite di Napoleone I e Beauharnais, a cura di G. Melzi, I-II, Milano 1865 (compilazione disordinata ma ricchissima, sostanzialmente basata sulle carte familiari); I Comizi nazionali in Lione per la formazione della Repubblica Italiana, I-III (in 5 tomi), a cura di U. Da Como, Bologna 1934-40; I carteggi…, a cura di C. Zaghi, cit. (ai 7 voll. già citati sulla Repubblica Italiana si aggiungono un vol. sul Regno d’Italia [Milano 1965] e un vol. sul congresso di Rastadt [Milano 1966]). Altri scritti del M. hanno visto la luce in pubblicazioni di varia natura: a C.A. Vianello si deve in primo luogo la stampa della consulta del M. a favore della libertà di parola, in appendice al saggio La formazione degli spiriti politici in Lombardia attraverso l’evoluzione degli organi amministrativi, e l’esordio di F. M., in Atti e memorie del IV Congresso storico lombardo, Pavia…1939, Milano 1940, pp. 395-458, che, nonostante taluni errori, resta un contributo fondamentale alla conoscenza della giovinezza del M.; in secondo luogo la pubblicazione di due testi del 1795 e del 1796 in Economisti minori del Settecento lombardo, a cura di C.A. Vianello, Milano 1942, pp. 431-437 (Quesiti sull’indole della proprietà) e 430-440 (Riflessioni sui mezzi che ha la Lombardia…); e infine quella di un’importante lettera-diario del 1797, in Id., F. M. e la proclamazione della Repubblica Cisalpina, in Rivista storica italiana, LIX (1942), pp. 239-253. Ugualmente benemerita, in tempi più recenti, la pubblicazione da parte di N. Del Bianco di due testi fra i più suggestivi del M.: il diario del maggio 1796, in Un diario privato di F. M. (6-17 maggio 1796), in Nuova Antologia, luglio-settembre 1998, pp. 312-330, e I «Pensieri diversi» di F. M., ibid., aprile-giugno 1999, pp. 330-349. Non è stato invece ristampato, a nostra notizia, l’importante F. Melzi D’Eril, Al popolo cisalpino. Discorso sulla costituzione, Milano 1797. Di minore rilievo due lettere pubblicate nell’Archivio storico lombardo: A. Setti, Una lettera inedita di F. M. intorno ad un progetto per far denaro, IX (1882), 4, pp. 564-568, e Il terremoto calabro-siculo del 1783 ed una lettera inedita di F. M. a Pietro Verri, XLI (1914), pp. 836-840. Lettere a e del M. sono altresì pubblicate nelle corrispondenze di Giuseppe Bonaparte, Gioacchino Murat, E. de Beauharnais, Ch.-M. de Talleyrand, K.W.L. von Metternich, V. Monti, U. Foscolo, Germaine Necker (Mme. de Staël), F. Confalonieri e altri. Tra le testimonianze coeve si possono ricordare: Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, a cura di E. Greppi et al., I-XII, Milano 1910-42, ad indicem (si arresta al 1782); Ed. nazionale delle opere di Pietro Verri, VIII, Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, I-II (1792-1797), a cura di S. Rosini, Roma 2008, ad indicem. Inoltre: F. Coraccini, Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia durante il dominio francese…, Lugano 1823; G. Pecchio, Saggio storico sull’amministrazione finanziera dell’ex-Regno d’Italia dal 1802 al 1814, Londra 1830; M. Gioia, La scienza del povero diavolo, in Id., Opere minori, Lugano 1832-37, II, pp. 1-91; G. Compagnoni, Memorie autobiografiche, a cura di A. Ottolini, Milano 1927; G. Gambini, Memorie inedite, a cura di T.R. Castiglione, Palermo 1973; L. Mantovani, Diario politico ecclesiastico, 1796-1824, a cura di P. Zanoli, I-VII, Roma 1983-94, ad indices. Tra le scritture apologetiche sicuramente ispirate dal M. si vedano: B. Benincasa, Saggio sulla genealogia, natura ed interessi politici e sociali della Repubblica Italiana, Milano 1803, e G. Gambini, Ragionamento sui destini della Repubblica Italiana, Milano 1803. Un’importanza eccezionale, per la conoscenza delle idee e dei proponimenti del M. negli anni della vicepresidenza, rivestono alfine i dispacci dell’agente austriaco S. de Moll al governo viennese, riprodotti o riassunti da P. Pedrotti: La prima Repubblica Italiana in un carteggio diplomatico inedito (Corrispondenza ufficiale Cobenzl-Moll), Roma 1937 e Le vicende della prima Repubblica Italiana nei giudizi di un diplomatico austriaco, Modena 1953. Sulla famiglia del M. disponiamo delle schede di F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, I-IV, Milano 1875-85, II, tavv. V-XI, e di F. Arese, Le genealogie, in D. Zanetti - F. Arese, La demografia del patriziato milanese nei secc. XVII, XVIII, XIX, Pavia 1972, Appendice, pp. 128 ss. Sulla situazione patrimoniale, utili elementi si traggono da C. Besana, Il patrimonio fondiario delle famiglie decurionali nella Milano del primo Settecento, in Tra rendita e investimenti. Formazione e gestione dei grandi patrimoni in Italia in Età moderna e contemporanea. Atti del III Convegno nazionale, Torino…1996, Bari 1998, pp. 327-348, e da A. Cogné, Patriciat et propriétés urbaines à Milan (XVIIe-XVIIIe siècles), diss., Université Pierre Mendès-France de Grenoble, 2007. Biografie più o meno ampie, dopo la citata compilazione del pronipote Giovanni, sono quelle di due altri discendenti: G.P. Melzi D’Eril, Milano napoleonica. F. M., Milano 1991; F. Melzi D’Eril, F. M., milanese scomodo e grande uomo di Stato, visto da un lontano pronipote, Firenze 2000; su un più ampio spettro di fonti si basa N. Del Bianco, F. M.: la grande occasione perduta. Gli albori dell’indipendenza nell’Italia napoleonica, Milano 2002. La pubblicazione dei Carteggi del M. ha stimolato alcune riconsiderazioni del personaggio, tra cui: C. Capra, La carriera di un «uomo incomodo» (I carteggi Melzi d’Eril), in Nuova Rivista storica, LII (1968), pp. 147-168, e G. Bollati, Fare l’Italia senza gli Italiani. Il tentativo di F. M., in Id., L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino 1983, pp. 14-33. Sugli studi compiuti al collegio dei nobili di Brera interessanti notizie si ricavano in A. Bianchi, Scuola e lumi in Italia nell’età delle riforme (1750-1780). La modernizzazione dei piani degli studi nei collegi degli ordini religiosi, Brescia 1996, ad indicem. Sugli ultimi anni del governo austriaco e sui contrasti in seno al Consiglio decurionale milanese, oltre C.A. Vianello, La formazione degli spiriti politici, cit., si vedano: S. Cuccia, La Lombardia alla fine dell’Ancien Régime, Firenze 1971, ad ind., e C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002, ad indicem. Sul costituzionalismo moderato e sui primi mesi dell’occupazione francese: C. Capra, Costituzione e proprietà in Lombardia negli anni della Rivoluzione francese, in La Rivoluzione francese: la forza delle idee e la forza delle cose, a cura di H. Burstin, Milano 1990, pp. 219-235; L. Gagliardi, Milano in rivoluzione (1796-1799), Milano 2009. Sulla Repubblica Cisalpina e sul congresso di Rastadt sono fondamentali gli studi di C. Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino 1986 e Il Direttorio francese e la Repubblica Cisalpina, I-II, Roma 1992 (con ampia bibl.). Sul clima politico della seconda Cisalpina e sulla preparazione dei Comizi di Lione, oltre al Commento storico di Da Como (cfr. I Comizi nazionali, cit., II), sono utili alcuni dei saggi compresi in La formazione del primo Stato italiano e Milano capitale (1802-1814), a cura di A. Robbiati Bianchi, Milano 2006 (in particolare quelli di L. Mannori e di A. De Francesco, rispettivamente alle pp. 95-157 e 611-627). Riguardano invece la vicepresidenza del M., nello stesso volume, i contributi di G. Ancarani, (pp. 15-50), C. Capra (pp. 719-731), S. Levati (pp. 500-526) e F. Sofia (pp. 567-608). Sul M. e la costruzione dello Stato napoleonico si vedano, anche per le ricche bibliografie, A. Pingaud, Bonaparte président de la République Italienne, I-II, Paris 1914, e Les hommes d’État de la République italienne. Notices et documents biographiques, Paris 1914; M. Roberti, Milano capitale napoleonica. La formazione di uno Stato moderno, I-III, Milano 1946; I cannoni al Sempione. Milano e la Grande Nazione (1796-1814), Milano 1986; L’Italia nell’età napoleonica. Atti del LVIII Congresso di storia del Risorgimento italiano, Milano…1996, Roma 1997; A. Pillepich, Milan capitale napoléonienne, 1800-1814, prefazione di J. Tulard, Paris 2001; Napoleone e la Repubblica Italiana, a cura di C. Capra - F. Della Peruta - F. Mazzocca, Milano 2002. Su alcuni aspetti particolari si vedano ancora: L’affaire Ceroni. Ordine militare e cospirazione politica nella Milano di Bonaparte, a cura di S. Levati, Milano 2005; Istituzioni e cultura in età napoleonica. Atti del Convegno…2005, a cura di E. Brambilla - C. Capra - A. Scotti, Milano 2008; V. Sani, I Comizi di Lione e la nascita della Repubblica Italiana, in corso di stampa. Sulla caduta del Regno d’Italia e sul ruolo giocato in esso dal M., accanto alle testimonianze coeve – tra cui di particolare rilievo La rivoluzione di Milano dell’aprile 1814. Relazioni storiche di Leopoldo Armaroli e Carlo Verri, a cura di T. Casini, Roma 1897 – utili le ricostruzioni di L. Ceria, L’eccidio del Prina e gli ultimi giorni del Regno Italico (1814), Milano 1937, e di C. Zaghi, Il duca di Lodi e il crollo del Regno Italico, in Riv. storica italiana, LXXXII (1965), pp. 141-172.

C. Capra

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