MORLACCHI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MORLACCHI, Francesco

Biancamaria Brumana

MORLACCHI, Francesco (Giuseppe, Baldassarre). – Nacque a Perugia il 14 giugno 1784 da Alessandro (1760-1818) e da Virginia Terenzi (1766-1834).

La presenza della famiglia, di origini dalmate, è attestata a Perugia dal Cinquecento. Il padre, iscritto alla corporazione dei funari e bastari, divenne in seguito scrivano del conte Baglioni. Era anche suonatore di violino nella cattedrale di S. Lorenzo e nei teatri della città.

La formazione musicale di Morlacchi iniziò con il padre e proseguì col prozio materno, don Giovanni Mazzetti, organista della cattedrale, e col napoletano Luigi Caruso, maestro di cappella del duomo dal 1788 nonché direttore della pubblica scuola di musica da lui stesso fondata. A questo periodo risalgono le prime composizioni: una Via crucis su testo italiano di Francesco Maria Sartorelli per la chiesa di S. Angelo (1802; [207; il numero d’opera tra parentesi quadre indica la numerazione del Catalogo di Brumana - Ciliberti - Guidobaldi, 1987]), la cantata Gli angeli al divino sepolcro eseguita all’Accademia di belle lettere (1803 [152]) e 12 Sonatine per pianoforte o cembalo (1803 [216-227]). Tra il 1803 e il 1804 si recò a Loreto per studiare con Nicola Zingarelli ma, insoddisfatto dell’insegnamento, nello stesso 1804 passò a Bologna alla scuola di Stanislao Mattei; il 16 luglio 1805 fu aggregato alla locale Accademia filarmonica. Tra il 1805 e il 1806 compose musica sacra liturgica (il Quoniam per due bassi e banda [106] e il Tantum ergo per tenore, fagotto e corno obbligati e orchestra destinato alla chiesa della SS. Trinità di Bologna [203]); cantate (In lode della musica per soprano, coro e orchestra [48]; In lode di Napoleone per voce e orchestra eseguita nell’accademia bolognese dei Concordi [A 11]; per le nozze di Isotta Hercolani e Raniero Simonetti per voce e orchestra [A 23]; Cantata del conte Ugolino per soprano e quartetto d’archi tratta dal canto XXXIII dell’Inferno di Dante [78]); e musica strumentale (Sonate per organo dedicate al conte Prospero Ranuzzi [A 41], ritrovate ed edite da Wijnand van de Pol, 2007). Nel 1806 Morlacchi curò anche l’allestimento di alcuni spettacoli operistici per i quali adattò e scrisse vari brani, come la cavatina di Lauretta Deh non temer, ben mio reperita nella Biblioteca Comunale di Città di Castello [A 2].

Nel 1805 sposò Anna Fabrizi di Perugia (?- 1855), dalla quale ebbe nel 1809 il figlio Pietro Maria, morto nel 1828. La moglie lo seguì nei suoi spostamenti a Bologna e, nel 1810, a Dresda, ma nel 1816 fece ritorno a Perugia. Morlacchi d’altro lato strinse un nuovo legame con Augusta Bauer, dalla quale ebbe probabilmente i quattro figli ricordati nel testamento, Emilia, Alessandro, Teodoro e Fanny.

Nel settembre del 1807 vinse il posto di maestro di cappella a Urbino, ma non prese servizio perché nel frattempo aveva intrapreso la carriera di operista. Debuttò in teatro nel 1807 con Il poeta disperato, farsa in un atto data alla Pergola di Firenze nel Carnevale, e con Il ritratto, dramma giocoso in due atti allestito al teatro Filarmonico di Verona nell’estate. Ma fu l’opera semiseria Corradino, rappresentata al teatro Imperiale di Parma nel Carnevale del 1808, a segnare l’inizio di una brillante carriera che gli fruttò commissioni dai teatri di Roma e Milano. A Roma, nella stagione di primavera del 1809, compose il dramma giocoso La principessa per ripiego e la farsa Il Simoncino per il teatro Valle; e nel Carnevale 1810 il dramma serio Le Danaidi per il teatro Argentina. Il successo riportato da quest’ultima opera, il cui soggetto era tratto dall’Ipermestra del Metastasio, trovò eco in un’ampia recensione sull’autorevole periodico lipsiense Allgemeine musikalische Zeitung: In seguito a questa lusinghiera presentazione al pubblico tedesco, nel settembre dello stesso anno Morlacchi fu nominato maestro di cappella dell’Opera italiana a Dresda, dapprima come assistente di Joseph Schuster e dal 1811 come titolare a vita.

Nell’articolo l’anonimo estensore lodava il talento operistico di Morlacchi, in grado di scrivere opere sia serie sia buffe, e metteva in rilievo la bellezza delle melodie, espressive e piacevoli come si addice a un compositore italiano, oltre che la vivacità e varietà dell’armonia. A Milano, nel 1809, Morlacchi aveva scritto per il teatro alla Scala il melodramma buffo Le avventure di una giornata e la cantata Saffo in Leucade [51] per il contralto Maria Marcolini, che ne fece un pezzo favorito, riproponendola l’anno dopo nei teatri di Lucca, degli Accademici Floridi di Livorno e del Corso di Bologna, nel 1812 al Nuovo di Padova, nel 1817 al Valle di Roma. La cantante, acclamata interprete rossiniana, era imparentata col conte Camillo Marcolini, ministro alla corte di Sassonia: il che favorì l’attribuzione a Morlacchi del prestigioso incarico a Dresda.

Dopo la nomina a Dresda, Morlacchi rallentò di molto la produzione operistica: alle dieci opere composte tra il Carnevale del 1807 e quello del 1810 fanno riscontro solo altre quindici (due delle quali incomplete) scritte in seguito. Gli obblighi di maestro di cappella comprendevano infatti l’approntamento di molta musica sacra (liturgica e paraliturgica) e cantate d’occasione destinate ad accompagnare il cerimoniale di corte.

Morlacchi a Dresda rappresenta uno degli ultimi esempi di musicista italiano assunto nei ruoli di una corte straniera. La sua condizione fu tuttavia assai diversa da quella di altri compositori del pieno Settecento che, attivi in varie corti europee, dalla Russia alla Germania alla Francia, esportavano letteralmente i modi del melodramma italiano. Morlacchi arrivò a Dresda quando il processo di formazione della Deutsche Oper si stava consolidando, e per questo i primi anni di attività nella capitale sassone richiesero al musicista un notevole impegno per soddisfare i contrastanti desideri della corte da un lato e del pubblico cittadino dall’altro. I giudizi spesso duri che la Allgemeine musikalische Zeitung dava sul Kapellmeister italiano erano determinati da un motivo culturale di fondo: indirettamente, attraverso Morlacchi, si volevano colpire i gusti ancien régime del re e di quel settore della corte che osteggiava le novità introdotte dal romanticismo, ivi compresa l’opera tedesca. Dal 1817 al 1826 il direttore del teatro d’opera tedesco di Dresda fu Carl Maria von Weber, col quale Morlacchi ebbe rapporti talvolta conflittuali.

Nella prima opera scritta per Dresda, il Raoul di Créquy del 1811, Morlacchi profuse tutte le energie nell’intento di adeguarsi al gusto del luogo. Discostandosi dalle consuetudini italiane, abolì i recitativi secchi e introdusse, secondo lo stile di Mayr, danze e cori in un insieme drammaturgicamente unitario e coerente. Le turbinose scene di tempesta, l’impiego della banda turca sul palco e l’uso in orchestra di martelli e picconi, quasi un’anticipazione wagneriana per rendere l’immagine dei minatori che faticano nelle viscere della terra, trasportano l’opera in un clima volutamente romantico, anche se la presenza di alcuni elementi comici risulta retrospettiva. Le opere rappresentate a Dresda negli anni successivi – La capricciosa pentita (1816), Il barbiere di Siviglia (1816) e La semplicetta di Pirna (1817) – tornano a uno stile comico d’impronta settecentesca. Il barbiere di Siviglia, andato in scena il 27 aprile 1816, fu scritto su commissione del sovrano, rispecchiando i gusti decisamente conservatori della corte: sicché, mentre a Roma nel febbraio 1816 Rossini dava il suo Barbiere musicando il soggetto di Beaumarchais nella versione assai disinvolta e progressiva di Cesare Sterbini, a Dresda Morlacchi si dovette cimentare sul vecchio testo posto in musica da Paisiello nel 1782.

Accanto a una sinfonia ricca di spunti stilistici degni di un giovane Beethoven o di un giovane Mendelssohn, figurano passi assai prossimi al modello del musicista tarantino, come i recitativi ripresi quasi letteralmente dal suo Barbiere oppure l’articolazione strutturale e tonale di alcuni numeri chiusi. Rosina con l’ampia aria patetica che conclude l’atto II («Giusto ciel che conoscete») si allontana dalle caratteristiche solari delle intraprendenti e vivaci fanciulle dell’opera comica del Settecento per acquistare sfumature drammatiche e malinconiche presaghe delle eroine donizettiane.

Nei teatri italiani Morlacchi fece rappresentare le opere di maggiore impegno: Boadicea al S. Carlo di Napoli (1818), Gianni di Parigi e Donna Aurora alla Scala di Milano (1818 e 1821), Tebaldo e Isolina, Ilda d’Avenel e I Saraceni in Sicilia alla Fenice di Venezia (1822, 1824, 1828), il Colombo nella stagione inaugurale del Carlo Felice di Genova (1828). L’opera che riscosse il successo più duraturo, e l’unica della quale sia stato dato alle stampe lo spartito completo, fu Tebaldo e Isolina.

Il pubblico apprezzò il libretto di Gaetano Rossi (da lungo tempo librettista della Fenice), ma ancor più apprezzò la musica di Morlacchi e l’interpretazione magistrale che ne diedero i cantanti, in particolare il tenore Gaetano Crivelli e il soprano Giovanni Battista Velluti (nel ruolo di Tebaldo), che fece furore nell’aria dell’atto II «Caro suono lusinghier». Dopo le entusiastiche accoglienze della prima, l’opera fu rappresentata, grazie anche a Velluti che ne fece un cavallo di battaglia, in circa 40 città in Italia e all’estero nel giro di dieci anni.

Nel 1823 Morlacchi scrisse ancora per Dresda La gioventù di Enrico V, che si colloca nel periodo più felice della sua seconda e più meditata stagione operistica. Composta dopo i successi del Tebaldo e Isolina e prima d’intraprendere la seconda fatica veneziana dell’Ilda d’Avenel, La gioventù di Enrico V costituisce una specie di diversivo comico tra le due ponderose opere serie. Proprio per questo la scrittura scorre facile e veloce. Mentre per i teatri italiani il compositore profondeva le proprie energie nel tentativo, peraltro inane, di dar vita a un nuovo tipo di opera seria, per il teatro di Dresda scriveva nugae comiche in apparenza improntate al vecchio stile di scuola napoletana, come desideravano i suoi committenti. L’ultima opera, l’incompleta Francesca da Rimini, testimonia il suo interesse per un tema tipicamente romantico di derivazione dantesca, ma al tempo stesso l’impossibilità di condurre a termine il progetto. Il dilemma al quale dovette far fronte l’ultimo rappresentante dei maestri di cappella italiani attivi all’estero fu sostanzialmente quello di scegliere tra lo stile della vecchia scuola napoletana e il nuovo linguaggio romantico: tentò bensì di coniugare i due orientamenti, ma il risultato fu spesso incoerente o poco definito.

Il librettista col quale Morlacchi collaborò più assiduamente fu Felice Romani, i cui testi, classici nella forma e romantici nel contenuto, ben si adattavano al clima culturale del primo Ottocento. Di Romani sono i libretti di Gianni di Parigi e Donna Aurora, I Saraceni in Sicilia e Colombo, nonché l’incompiuta Francesca da Rimini. Il Gianni di Parigi, scritto per Morlacchi e successivamente musicato da altri compositori tra i quali Donizetti nel 1831, attinge a fonti letterarie francesi (la comédie-ballet di Voltaire e Jean-Philippe Rameau La princesse de Navarre del 1745 e l’opéra-comique di Claude Godard d’Aucourt de Saint-Just e François-Adrien Boieldieu Jean de Paris del 1812), riaffermando quella preminenza culturale del teatro d’oltralpe che dall’epoca dei Lumi aveva determinato nel mondo dell’opera italiana un notevole arricchimento di soggetti drammatici. Per Morlacchi furono creati anche i testi delle opere successive, a eccezione della Francesca da Rimini (contava già otto trattazioni musicali quando Morlacchi ci mise mano, e altre tre ne vennero realizzate in seguito). Il poeta e il musicista, che vennero ritratti insieme in una stampa coeva, lavoravano, come di consueto, a stretto contatto in prossimità degli allestimenti teatrali. Il Colombo rappresentò il risultato più significativo della loro collaborazione. L’amicizia proseguì negli anni successivi, se a Dresda Morlacchi scrisse, su testo di Romani, quattro romanze nel 1834 (La rosa appassita [58] in tre versioni, L’incontro in viaggio [74], La solitudine [83], La rimembranza [84]) e una nel 1838 (All’amante lontano [66]), che gli è anche dedicata.

A parte il giovanile Gli angeli al divino sepolcro (definito nelle fonti anche cantata o inno), gli oratorii di Morlacchi – La Passione di Gesù Cristo del 1812 [107], Isacco figura del Redentore del 1817 [108] e La morte di Abele del 1821 [109] – furono composti per Dresda. I testi sono tutti di Metastasio, secondo le intenzioni dei committenti. Il musicista tuttavia cercò di ovviare al gusto attardato di questi drammi sacri (scritti rispettivamente 82, 77 e 85 anni prima) attuando alcune modifiche che, senza travisare l’originale, piegavano lo stile metastasiano in direzione di un linguaggio melodrammatico tendenzialmente romantico. In particolare tentò di alleviare la monotona alternanza di arie e recitativi tagliando intere sezioni e arricchendo le rimanenti con duetti, quartetti e pezzi concertati ottenuti con minimi ritocchi testuali. L’orchestrazione è particolarmente ricca, i recitativi sono tutti accompagnati. A partire dall’IsaccoMorlacchi introdusse la cosiddetta «declamazione ritmica» (lodata da Weber in un articolo della Abendzeitung del 20 marzo 1817) con la quale il musicista perugino si adeguava ai gusti del pubblico tedesco stabilendo uno stretto legame tra testo e musica con continue variazioni agogiche e dinamiche. Per quanto riguarda La Passione e l’Isacco i contemporanei ebbero a lamentare uno stile troppo teatrale, reminiscenze troppo evidenti di altri autori, superflue lungaggini e continue modulazioni a tonalità lontane. Unanime invece fu il consenso per La morte di Abele. Anche la musica sacra su testo latino fu scritta essenzialmente a e per Dresda. Tale corpus, molto ampio e ancora poco studiato, comprende 10 Messe [92-101], due Messe da Requiem, una a quattro voci a cappella del 1818 per la morte di suo padre Alessandro [102] e una per soli, coro e orchestra del 1827 per i funerali di Federico Augusto I [103], e circa altri 90 brani. Si trattò perlopiù di composizioni concepite per le occasioni della vita di corte, celebrate vuoi nel contesto sacro della chiesa vuoi in quello profano dei palazzi.

Per il ritorno del sovrano in seguito al congresso di Vienna sono la Messa III del 1814 [94] e il Cantate Domino del 1815 [126]. Per il giubileo del sovrano nel 1818 è la Messa V [96] con l’offertorio Domine in virtute tua [142] e i tre brani eseguiti nella chiesa della Neustadt il 23 settembre: inno (Adite sancta limina [110]), Carmen saeculare (Alme sol [115]) ed epodo (Laudate Dominum [161]). Per le nozze di Federico Augusto II con Carolina d’Asburgo nel 1819 il Sit nomen Domini [199-200], per il principe Antonio una Alma redemptoris del 1813 [111], mentre per la principessa Marianna di Sassonia delle Litanie lauretane [145, 146], una Salve regina [189] e un Sub tuum presidium [201] nel 1811. La musica sacra di Morlacchi, pur risentendo del suo magistero operistico, mostra la ricerca di uno stile propriamente sacro attraverso un ampio ricorso alle tecniche contrappuntistiche e ai tempi lenti.

Su tutto l’arco della sua vita di compositore Morlacchi coltivò il genere della cantata, tanto da poter rispondere in tempi brevissimi alle richieste dei committenti, come nel caso della cantata per il compleanno dello zar composta in due soli giorni [44]. Gli organici sono molto vari, anche a seconda delle occasioni, e vanno dalle imponenti composizioni per soli (o solo), coro e orchestra, alle raffinate e inconsuete sonorità cameristiche di voci e strumenti (come la cantata per l’onomastico della regina di Spagna per tre voci, violino, arpa e pianoforte [43], o la cantata sull’Ugolino di Dante nella versione per soprano e quartetto d’archi [78]), alla purezza delle voci a cappella, all’intimo e riservato colloquio di pagine per voce e pianoforte, come nelle cantate per Teresa e Josepha Lopuska del 1813 e del 1815 [59, 71].

A parte la giovanile Cantata in lode della Musica [48] priva di dedica, destinatari degli omaggi musicali sono i protettori del musicista, nobili bolognesi o Maria Marcolini fino al 1810 e dopo il trasferimento a Dresda i membri della corte e i personaggi del loro entourage. Le occasioni sono quelle tipiche della vita di corte: il compleanno del re (la cantataNuma Pompilio del 18 novembre 1810, appena il compositore era giunto a Dresda [75]), il compleanno della regina nel 1816, 1817, 1818, 1820 [34, 42, 73, 45], nozze principesche (di Federico Augusto con Carolina d’Asburgo nel 1819 [33], di Giovanni Nepomuceno con Amalia Augusta di Baviera nel 1822 [70], di Massimiliano di Sassonia con Luigia di Lucca nel 1828 [54]; Giovanni Nepomuceno, che avrebbe regnato dal 1854, è anche il dedicatario della drammatica cantata dell’Ugolino dantesco nella versione per baritono e pianoforte del 1832 [37]). Numerose le cantate legate a Napoleone, il cui nome ricorre più volte nelle opere di Morlacchi, vuoi come eroe vuoi come tiranno, a seconda del momento storico e del contesto politico. Nel maggio 1805, in occasione dell’incoronazione a re d’Italia, Morlacchi compose a Bologna due cantate: Che più si tarda per voce e orchestra [A 11] e Quando fia ch’ai nostri giorni per voce (Pallade), coro e orchestra [A 19], promossa dall’accademia musicale dei Concordi su testo di Odoardo Zurla. Le celebrazioni napoleoniche proseguirono a Dresda. Nel maggio 1811 scrisse la cantata Anche sì frettoloso per soli, coro e orchestra [32] destinata a solennizzare la nascita del re di Roma; nel 1812 (quando Napoleone ricevette nella capitale sassone l’omaggio dei regnanti d’Europa prima d’intraprendere la campagna di Russia) la cantata Quella che qui si aggira per soprano, coro e orchestra [79] eseguita il 1° aprile, la cantata No, non menton gli dei per soli, coro e orchestra [69], data a teatro il 12 maggio alla presenza dell’imperatore e della consorte Maria Luisa, e il pezzo sacro Domine salvum fac imperatorem nostrum Napoleonem per quattro voci e orchestra [144] del 22 maggio. Mutata la situazione politica, costretti i regnanti ad abbandonare Dresda in balia dell’occupazione russa, Morlacchi dovette scrivere in sole 48 ore la ricordata cantata per festeggiare il genetliaco dello zar Alessandro (Della felice Neva per soprano, coro e orchestra [44]), eseguita in costume nel teatro di Dresda il 24 dicembre 1813; al ritorno del sovrano compose la cantata Fortuna che giri per tenore, coro e orchestra [56], eseguita il 17 aprile 1814: vi si inneggia alla conquista di Parigi da parte delle truppe della sesta coalizione dopo il tramonto dell’astro napoleonico. Da Napoleone, noto amante della musica italiana – da Dresda aveva portato con sé a Parigi Ferdinando Paer nominandolo suo maestro di cappella –, Morlacchi ricevette in dono un prezioso anello di brillanti (il valore fu stimato in 200 luigi) citato nel testamento del musicista.

Le circa 40 liriche da camera per canto e pianoforte (romanze, canzoni, canzonette, anacreontiche, arie e ariette) costituiscono un aspetto minore nella produzione di Morlacchi, che le considerava «inezie»: e però testimoniano la varietà degli interessi stilistici del loro autore. Il tema ricorrente è quello dell’amore, còlto di preferenza in sfumature malinconiche e nostalgiche di derivazione arcadica e neoclassica, come rivela peraltro già la scelta dei versi.

Alcuni componimenti entrano nel vivo dei sentimenti romantici, come l’anacreontica Odi d’un uom che muore [72] riconducibile al gusto ossianico dell’orrido, di derivazione inglese. Altri, invece, si avvicinano con tono scanzonato e satirico a un gusto socievole di estrazione più modesta e popolare, come la Canzone alla spagnola [62] che inizia con le parole «In amor ci vuol fortuna». Altri ancora si collocano in una linea di sperimentazione, come Venite a intender [89] su testo di Dante, nel quale Morlacchi abbandona la liricità tipica del genere per proporre una drammaticità evocativa di un Medioevo immaginario. Fra i dedicatari ricorre il nome di Caroline Willmann, famosa soprano leggero che Weber scritturò a Dresda dal 1820 al 1822. Per lei Morlacchi scrisse L’addio [27], Ch’io mai vi posso lasciare [41], Ho sparso tante lacrime [60], il ricordato Odi d’un uom che muore [72] e il lamento Udite, selve [87] su testo del Poliziano. A Clara Wieck è destinata la romanza Il desiderio [26] datata 1° agosto 1838, che inizia col verso metastasiano «Accanto all’idol mio». Clara si era esibita per la prima volta a Dresda in concerti privati nel 1830, accompagnata dal padre, e a Dresda era tornata nel 1836, sempre col padre che desiderava allontanarla da Robert Schumann (col quale, invece, proprio in quell’occasione ebbe un incontro segreto); ma la lirica di Morlacchi è legata a un ulteriore soggiorno di Clara nella capitale sassone e allude all’osteggiato rapporto tra i due giovani.

Particolarmente intensa e significativa fu anche l’attività di Morlacchi direttore d’orchestra in ambito sia operistico sia sinfonico-corale (quest’ultima soprattutto dopo la chiusura definitiva del teatro d’opera italiano nel 1832). Nel 1826 diede vita a un’istituzione caritatevole destinata a costituire una cassa per le pensioni alle vedove dei musicisti della cappella. I finanziamenti derivavano dagli incassi di un concerto della Domenica delle Palme, che Morlacchi diresse per molti anni proponendo imponenti opere sacre realizzate con organici di dimensioni berlioziane: tra queste Die Schöpfung di Haydn, il Messiah e Jephta di Händel, il Christus am Oelberge di Beethoven, il Requiem di Mozart e, nel 1833, la Matthäus-Passion di Bach (fu tra le prime riprese dopo quella storica di Mendelssohn a Berlino nel 1829).

Morlacchi fu membro di varie accademie: Belle lettere ed arti di Perugia (1° agosto 1802), Filarmonica di Bologna (16 luglio 1805), Filarmonica Augusta di Perugia (25 aprile 1809), Belle arti di Firenze (21 giugno 1816), Unione filarmonica di Bergamo (15 marzo 1824), Belle arti di Perugia (27 luglio 1834), Filarmonica dei Perseveranti di San Sepolcro (7 aprile 1835), infine la più ambita e prestigiosa, l’Accademia di S. Cecilia di Roma (su proposta di Gaspare Spontini, 15 gennaio 1839). Al ricordo di questa aggregazione potrebbe essere collegato il communio Diffusa est gratia per quattro voci, organo obbligato e orchestra [135] composto a Dresda per il giorno di santa Cecilia del 1840.

Durante il soggiorno a Dresda Morlacchi fruì di numerose licenze per dedicarsi alla composizione e all’allestimento delle sue opere in Italia. Per Boadicea e Gianni di Parigi, andati in scena nel 1818 (rispettivamente il 13 gennaio a Napoli e il 29 maggio alla Scala di Milano), fu assente da Dresda per circa 9 mesi, da dopo il 17 settembre 1817 al 25 giugno 1818. Altri viaggi in Italia sono documentati nel 1816 (il 4 settembre era a Roma, dove offrì al Pontefice una copia dell’oratorio La Passione e ricevette la nomina a cavaliere dello Speron d’oro e il titolo di conte Palatino Lateranense), nel 1824 (a Milano nel marzo-aprile, a Recoaro in agosto), nel 1825 (a Venezia in marzo), nel 1834 (a Perugia in luglio, a settembre a Verona e a Roma, donde partì alla volta di Napoli per salutare il vecchio maestro Zingarelli), nel 1839 (a Napoli in agosto).

L’ultimo viaggio verso l’Italia lo intraprese nell’ottobre 1841: era già gravemente ammalato e avrebbe desiderato rivedere la moglie a Perugia, ma si spense a Innsbruck nell’albergo della Goldene Sonne il 28 ottobre, assistito da uno dei figli della Bauer, che lo accompagnava.

Il 14 gennaio 1842, nella cattedrale di Perugia, furono celebrate delle esequie solenni con l’esecuzione della Messa da Requiem scritta per i funerali di Federico Augusto di Sassonia e con un discorso di Antonio Mezzanotte, l’amico perugino al quale il compositore aveva lasciato in eredità tutte le sue musiche. Nel 1874 gli venne intestato il teatro più grande della città, inaugurato nel 1781 e fino allora denominato teatro del Verzaro. Nel 1951 le spoglie vennero traslate da Innsbruck alla cattedrale di Perugia.

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