Francesco Petrarca: Rime, Trionfi e Poesie Latine - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (2013)

Francesco Petrarca: Rime, Trionfi e Poesie Latine - Introduzione

Natalino Sapegno

I Rerum vulgarium fragmenta del Petrarca si presentano al lettore moderno con un duplice aspetto e consentono, per così dire, due modi di interpretazione. Per un verso infatti si posson ridurre a una raccolta di poesie, composte in un lungo periodo di tempo (all'incirca dal 1330 al 1365), ciascuna delle quali può esser considerata a sé, ha cioè una sua unità lirica o letteraria, è un organismo compiuto in se stesso. Per un altro verso, tutti questi testi convergono a comporre un libro; alle unità singole si sovrappone un'unità più vasta e complessa; i diversi momenti lirici si compongono in una serie organica, contribuiscono a definire un'immagine che prende forma soltanto da una lettura seguitata e integrale.

Questo doppio aspetto risponde in qualche modo alla genesi dell'opera, perché il proposito di una trascrizione e di una scelta, prima, di un ordinamento obbediente ad un criterio precostituito, poi, sorsero nella mente del poeta, come è naturale, soltanto quando già esisteva una ricca messe di testi nati giorno per giorno sulla trama delle occasioni e delle situazioni contingenti. E il proposito stesso di un ordinamento passò per varie successive fasi, che il filologo riesce parzialmente a identificare, prima di raggiungere, nell'autografo vaticano, la sua forma finale, se non propriamente definitiva (nell'animo almeno dello scrittore, fino all'ultimo perplesso ed incontentabile). D'altronde la duplicità accennata si ripercuote anche in seno a quell'ordine raggiunto e nel titolo stesso del libro; che è, o vuoi essere, appunto un libro, ma pur risulta di fragmenta, di «rime sparse»; ed è una storia, un'effigie ideale, che comporta persino un fine morale e didattico, ma nello stesso tempo è anche un diario, il riflesso vario accidentato interrotto di un'esperienza sentimentale che si svolge nel tempo e tende a sfuggire ad ogni pretesa di ordine e di architettura.

Sarebbe abbastanza facile, ma corrisponde solo in parte al vero, riconoscere in questa ambiguità della struttura la riproduzione di un contrasto, che esiste senza dubbio, fra la sopravvivenza di una mentalità medievale e scolastica, che impone all'arte una funzione educativa e la risolve, magari per vie tortuose e indirette, in allegoria, e l 'insorgere prepotente di un'ispirazione modernamente soggettiva e lirica, che obbedisce soltanto a un proposito di sfogo e di illuminazione della coscienza, entrambi immediati e assolutamente liberi.

Vero è però che, da un Iato, il lirismo stesso del Petrarca si compone fin da principio per molti riguardi in una tradizione di schemi già preesistente, la grande tradizione della lirica amorosa provenzale e italiana del XII e XIII secolo; dall'altro, l'intento unitario e architettonico del libro non rispecchia soltanto una concezione antiquata, ma un'esigenza attuale del poeta, la sua cosciente volontà di affermare, anche polemicamente, il nuovo ideale, la nuova visione della realtà, che egli incarna con sottile coerenza nella vita e negli scritti.

È questo l'ideale che oggi chiamiamo umanistico; il quale proprio in quegli anni, e per merito del Petrarca sopra ogni altro, nasceva e si affermava in Italia, parallelamente al dissolversi della civiltà comunale e in rapporto con le nuove condizioni di vita imposte dalla civiltà delle signorie. Ideale caratterizzato dal progressivo straniarsi del letterato, ormai ridotto ad un compito tutto burocratico ed ornamentale, dalle lotte e dai problemi pratici, politici morali e religiosi, che avevano così fortemente impegnato l'umanità la polemica e la poesia di Dante. Ideale in se stesso contraddittorio, in quanto comporta un reale impoverimento, una vera e propria mutilazione dell'esperienza umana e il crollo di un ordine intellettuale e morale e una profonda frattura tra le forme della vita associata e il mondo della cultura, che tende sempre più a rinchiudersi nella sua solitudine e a ritrovare in essa, e in essa soltanto, le superstiti ragioni del suo orgoglio e del suo prestigio, e pur non si rassegna a rinunciare a quella tradizionale funzione di guida e di ammaestramento, che le circostanze obiettive Io rendono ogni giorno più impotente ad assolvere in un senso pieno ed efficace.

Proprio qui deve riconoscersi, anzi, il significato storico dei Rerum vulgarium fragmenta: nella presenza di un proposito unitario continuamente contraddetto, ma non distrutto, dal contenuto reale dell'ispirazione; la quale è essenzialmente lirica, e cioè individuale e solitaria, e pur tende a proporsi come una norma di valore assoluto e riesce di fatto ad esser sentita come tale nel corso dei secoli, sia pure soltanto in una cerchia aristocratica di spiriti privilegiati. Sì che la contraddizione, che si avverte nell'assunto del canzoniere petrarchesco, è in sostanza il riflesso della contraddizione più profonda insita in quell'ideale umanistico, di cui essa è la prima, e poeticamente più intensa, espressione.

Il canzoniere del Petrarca è, nella sua sostanza materiale, una storia d'amore, la storia di una passione costante e non mai domata, dinanzi alla quale non pur gli altri affetti minori, ma le idealità stesse più nobili e alte retrocedono, diventando secondarie e marginali. Passione umana e terrena, desiderio che investe tutta l'anima, e la carne, tanto più profondo e imperioso quanto meno è esaudito e soddisfatto, vivente ancora quando già, per la dipartita di Laura, ogni speranza è morta. Questo amore (come appare dalle confessioni minori del poeta, e specialmente da alcune pagine del Secretum) ha in sé qualcosa di oscuro e di morboso, nella sua natura stessa di desiderio perennemente inappagato, nella sua durata oltre la morte della donna, nella sua qualità di affetto unico e tirannico. Talora pare che il poeta si rassegni nella consuetudine del desiderio e del sogno, talora invece la passione insorge più prepotente e Io fa cercare la realtà della donna, e lamentarsi e implorare pietà e rimpiangere gli anni che fuggono senza consolazione e senza speranza; talora anche, stanco di tanto aspettare e desiderare invano, il poeta invoca d'esser liberato dal suo travaglio, ma poi vi ricade e ritorna alle inutili ansie, ai morbidi vagheggiamenti dell'immaginazione, alle preghiere, al pianto. Morta Laura, egli trasferisce il suo amore nel cielo dove ella è salita, e la rievoca nei sogni, donna ancora bellissima, anzi più mite con lui e quasi materna, più sollecita delle sue pene, meglio disposta a consolarle; ovvero, rivolgendosi a considerare la dura realtà della morte, vede il mondo fatto squallido e vuoto, prato senza fiori, anello senza gemma, e piange inconsolabile la perduta speranza della sua beatitudine. Ma intorno al nucleo costituito da questa storia d'amore si raccoglie, a guardar bene, una assai più vasta e ricca materia sentimentale; e cioè tutte le perplessità e le oscillazioni dell'animo petrarchesco, le sue preoccupazioni etiche e religiose, le sue angosce, un fervore di passioni varie ancor più vagheggiate e contemplate che vissute. Non Laura, sì il poeta stesso campeggia nel quadro come protagonista; non le vicende esteriori dell'amore, sì le ripercussioni di quelle nella vita intima del Petrarca costituiscono la materia affettiva del canto. E la storia stessa angosciosa e mutevole di quell'amore si trasforma in un simbolo dell'infermità del poeta, perché in essa si riassume il gioco vario e intricato delle passioni in contrasto con l'esigenza viva sempre e mai soddisfatta di un superiore equilibrio.

Il mondo della poesia, che in Dante s'era miracolosamente allargato ad esplorare e assimilare tutte le forme della vita e del pensiero, qui è tornato a rinchiudersi nell'ambito di un'esperienza tutta individuale e interiore. Il che porta naturalmente il poeta a riallacciarsi ai modi della letteratura predantesca, al tipo di una lirica essenzialmente riflessa e materiata di schemi e di classificazioni psicologiche, quale si era venuto elaborando nel corso dei secoli XII e XIII nell'ambito della tradizione cortese; per cui l'aretino ci appare, a tratti, come l'ultimo erede della corrente poetica nata in Provenza e proseguita dai rimatori italiani fino allo stil novo. In realtà, anche la storia della sua formazione letteraria è assai più complessa e restia ad ogni definizione troppo precisa. In alcuni testi, dei più antichi giunti fino a noi, è evidente il suo debito alla scuola stilnovista, soprattutto nel momento in cui quella poetica, con Cino da Pistoia, tendeva a perdere il suo rigore e a perseguire una rappresentazione più diretta e più sciolta, ma anche più povera ed empirica, della realtà sentimentale. Ovvio, del resto, il legame, ma scarsissimi i richiami precisi, a tutta la tradizione lirica siciliana e toscana. Più frequenti, ma quasi sempre esterni, gli influssi dei provenzali, ammirati soprattutto dove la loro arte si fa più aristocratica e chiusa. Arnaldo Daniello, e più ancora Dante, quello delle rime «pietrose», presiedono all'esperienza delle sestine. D'altra parte già in alcuni componimenti di datazione più remota è evidente il proposito di configurare la storia d'amore in un modulo ovidiano (Laura, il lauro, Dafne); proposito che in seguito si rifrange nella ricreazione di una serie di situazioni amorose tipiche ed esplicitamente letterarie, per cui molta parte del canzoniere si adegua fino ad un certo punto all'immagine di un'ars amandi, a un'antologia di «luoghi comuni». Per tutte le rime poi corre fitta la trama dei riferimenti ai testi dei classici, dei padri della Chiesa, della Bibbia; a poco a poco tutta la cultura, e l'eloquenza, dello scrittore vi confluisce, quella stessa che, più scoperta e a volte ostentata, s'affolla nei trattati latini e nelle epistole. Il lettore esperto dei testi minori del Petrarca è condotto spesso, sullo spunto di una frase o di una parola delle rime, a inseguire le vicende di un'immagine, di una sentenza, di un vocabolo in una fitta rete di rapporti ora evidentissimi ora mascherati e sfuggenti, che per mille strade e sentieri lo riconducono infine a qualche pagina o periodo lungamente idoleggiato e caricato a poco a poco di valori simbolici ed epigrafici: Virgilio e Cicerone, Agostino, i Salmi e i Vangeli, talora anche qualcuno dei grandi repertori dottrinali della tarda latinità o del medioevo. Il Foscolo, in quei suoi saggi che restano tra le cose più alte e profonde scritte sulla poesia delle Rime, aveva già intravisto con esattezza la linea di questo processo, anche se tendeva a fissarla in una serie di momenti successivi (dalle fonti alla prima elaborazione letteraria nelle opere minori latine, fino alla trasfigurazione poetica nel canzoniere), additata con la rigidità di uno schema quasi cronologico, che non corrisponde allo svolgimento reale assai più intricato e perplesso, e piuttosto circolare che lineare, del travaglio concettuale ed artistico in cui s'illuminano i momenti più intensi di questa invenzione lirica.

Sta di fatto che al centro dell'ispirazione poetica del Petrarca si trova la scoperta appunto della liricità, intesa in un senso ben altrimenti profondo ed impegnativo che non fosse nei trovatori provenzali e nei rimatori siciliani e toscani. Nessun riferimento letterario è capace di esaurire veramente l'importanza di una tale scoperta. L'attenzione ai fatti della vita interiore è in lui, potenzialmente, di troppo più forte, diretta e cordiale che non sia in quegli incerti e pur rigidi modelli, più varia, più libera, più fertile e più coraggiosa. Egli rompe ad uno ad uno tutti gli schemi di una psicologia convenzionale; dissolve il fragile equilibrio di una poetica rigidamente stilizzata; rifiuta il presupposto intellettualistico di un'ideale corte di fedeli d'amore, estremo riflesso del mondo feudale, nel cui ambito s'era elaborata, in Provenza, e poi in Sicilia, la forma prima di quell'esperienza di letteratura lirica. In lui l'uomo, la sua passione esclusiva, la sua pena sono presenti con un'aderenza ben altrimenti appassionata, tormentosa, dolente. Eppure anche in lui la scoperta di una realtà psicologica così intensa e segreta si accompagna di una residua timidezza, e quasi si direbbe di un senso di vergogna; dall'affermazione di un'esperienza così prepotentemente soggettiva è del tutto assente il cinico orgoglio dei moderni; la confessione, pur insistente ed estesa e approfondita fino allo spasimo, vien fuori tutta chiusa ancora e corazzata, avvolta in un velo di classica dignità. Proprio dove tocca i punti più amari, le piaghe più dolorose della sua vita, il Petrarca ha bisogno più che mai del sostegno di una tradizione, di una conferma se non altro libresca, che valga ad esaltare la sua sofferenza e a conferirle una funzione simbolica, che trasformi il suo caso personale in una norma, dandogli l'apparenza di una dottrina. Di qui l'illusione tenace, ma sempre vana, di poter alfine evadere dalla sua solitudine e raggiungere una concezione unitaria e comprensiva di tutta la realtà; di qui soprattutto l'esigenza insopprimibile di una trama letteraria, di un diaframma culturale, attraverso il quale soltanto l'esperienza umana può riconoscersi e trasfigurarsi in poesia.

La lirica del canzoniere presuppone idealmente tutto il lavorìo di riflessione e di meditazione, l'esame di coscienza, starei per dire (ma un esame di coscienza, per quanto minuto e tortuoso, sempre tradotto in forme letterarie decorose e sapienti), che costituisce per molta parte la materia delle opere latine minori; in particolare presuppone l'atteggiamento analitico, acerbo e implacabile, del Secretum; muove anzi da quell'atteggiamento stesso ed è tutta piena ancora dell'eco di quelle dispute e disquisizioni. La confessione del Petrarca non è mai l'immediata espressione di un sentimento, bensì il risultato di una lunga meditazione dell'animo su se stesso, di una riflessione che non è originariamente poetica, bensì quasi scientifica, in quanto tende a scolorire gli affetti e le vicende, a spogliarli delle loro risonanze più strettamente individuali, per ritenere solo ciò che in essi sembra essere di universalmente valido e perenne. Non già che, alla radice della poesia petrarchesca, sia una commozione tenue e pacata, scevra di ogni drammaticità; tuttavia quel che vi ha di torbido e di incomposto nel segreto dell'animo del poeta rimane lontano dai versi, già dominato, «rintuzzato», come diceva il De Sanctis, trascritto in uno schema che ha parvenza di mera arte e letteratura, e invece risponde a una profonda esigenza dello spirito. Questo spiega perché ai lettori antichi, che vi scorgevano quasi soltanto l'arte, il Petrarca potesse apparire come un modello di rielaborazione linguistica e letteraria delle esperienze dell'animo; e come poi ai romantici egli sembrasse freddo e artificioso, e persino al De Sanctis «piuttosto artista che poeta». Vero è invece che in pochi poeti di tutte le letterature è dato ritrovare versi che, come quelli del Petrarca, serbino in sé tanta e così profonda risonanza umana, ma remota sempre, quasi sussurrata in un vocabolo breve, che la suggerisce al tempo stesso che ne attenua il palpito nel suo classico nitore. Tutta la lirica del Petrarca è un sommesso colloquio del poeta con la propria anima; una voluttà di perdersi in quel dolce errore, di smarrirsi per quei sinuosi meandri e labirinti della vita spirituale, di conoscere sempre più a fondo quell'oscura e ribelle realtà psicologica, che la volontà dell'uomo non era in grado di dominare e indirizzare, ma l'intelletto poteva accogliere in sé e la poesia rischiarare e disacerbare in una delicata musica di parole. Materia umana e commoventissima, ma pur sempre frenata e ragionata, ricomposta in un classico equilibrio di concetti e di forme, per cui l'angoscia si traduce, come notava ancora il De Sanctis, in una «malinconia piena di grazia», la disperazione si attenua nello sfogo e si risolve in un'elegia tenera e calda, le lacrime s'effondono in canto. Nessuna lirica del canzoniere, neanche quelle nelle quali trema una commozione più fervida e dolente, né quelle dove il tono è più alto e sconsolato, lascia nell'animo del lettore un'impressione di dolore violento e di disperazione, sì piuttosto un sapore di saggezza malinconica e lontana (e non importa che si tratti di una saggezza tutt'affatto illusoria). lnvero il travaglio angoscioso, di cui molte poesie suggeriscono e fanno sentire la segreta presenza, è, nel tempo stesso che cantato, posseduto da una ferma e sottile intelligenza; sì che nessun fremito, nessuna dissonanza, nessuna irruzione insomma improvvisa del sentimento venga ad incrinare l'uguale melodia del canto.

In questa dialettica di sentimento e di intelligenza, di poesia e di letteratura, si muove tutto il mondo poetico, monotono in apparenza, eppure intimamente complesso, del Petrarca; e attraverso questa dialettica esso esprime la nuova sensibilità umanistica, con la coscienza angosciosa della sua solitudine e del suo squilibrio morale e con il suo superstite orgoglio culturale e intellettuale. Da una fonte medesima scaturiscono, nel nostro, come del resto già in tutta la tradizione lirica predantesca, il senso eletto della forma, che è virtù profonda del poeta intento a dominare la sua materia e a lavorarla in preziosi monili, e il gusto di una squisitezza troppo spesso lambiccata, che è virtuosismo d'artefice più atto a meravigliare che a commuovere. E perché virtuosismo e virtù vera nascono da una stessa esigenza, così occorre andar cauti nel distinguere, sia tra questo e quel componimento delle Rime, sia nell'interno di un singolo componimento. Può accadere altrimenti di prender per freddezza e artificio quella che è invece arte difficile e dotta, ma arte vera e sostanziata di umanità. Del resto l'operazione, che s'impone al critico, e ad ogni lettore delle Rime, è un'altra, assai più ardua e meno schematica; e consiste piuttosto nel riconoscere ad ogni istante i palpiti e i movimenti di una psicologia reale attraverso i procedimenti di un linguaggio stilizzato; sentire questa realtà umana sempre presente, anche se in varia misura, pur nell'assoluta impossibilità di una risoluzione schiettamente realistica: il che poi significa intendere, storicamente, la schietta poesia delle Rime, al di là di ogni compiacenza rettorica e grammaticale, come pure di ogni anacronistico disdegno romantico, e al tempo stesso i limiti insormontabili di quella poesia. Dei quali limiti costituiscono una riprova decisiva i Trionfi; dove il proposito di una costruzione già intenzionalmente più rigorosa e chiusa, mentre mette maggiormente in rilievo l'incapacità organica dello scrittore ad attingere una visione unitaria del reale, lascia più libero il campo all'invadenza degli elementi intellettualistici e delle ambizioni letterarie. Senza dubbio anche i Trionfi, sotto la superficiale scorza allegorica, svolgono, nelle parti migliori, una materia di riflessioni e di meditazioni non dissimili da quelle di cui s'intessono le più alte e solenni fra le Rime. Non mai forse anzi il dolore e il languore del poeta s'è concentrato in forme gnomiche di così distaccata e splendida eloquenza, come in talune pagine, o meglio in talune frasi, di questo poema della sua vecchiaia. Neppure manca, nel secondo capitolo del Trionfo della Morte, una di quelle fantasie evocative, fiorite in un clima di sogno, che sono del Petrarca più famoso, se non proprio del più grande. Vi è dunque nei Trionfi una sostanza di umanità che non si può disconoscere e un innegabile impulso poetico. Ma la bellezza è dei frammenti, talora dei versi singoli, non dell'insieme, che nell'architettura negli schemi nelle allegorie serba l'impronta di un proposito tutto letterario e cerebrale. Su una materia viva di sentimenti è venuta a sovrapporsi oltre tutto un'intenzione artistica: quella di restituire dignità classica alla forma del poema medievale; donde l'impressione di una sorta di gara che lo scrittore faticosamente e segretamente persegue con i più vari modelli, dal Roman de la Rose alla Commedia, all'Amorosa visione, nello sforzo di innalzarli a un tipo di perfezione classicistica, inutilmente vagheggiato nelle nobili, ma stanche, figurazioni dei miti e fin nel linguaggio spesso latineggiante assai più che non sia nelle Rime.

Le opere latine del Petrarca (delle quali qui si porgono ampi saggi, e opportunamente scelti e illustrati, per quanto si riferisce a quelle di intento più strettamente artistico e fantastico, essendo raccolti in altro volume, insieme con le notizie biografiche dello scrittore, gli epistolari e i trattati morali e storici) debbono essere in un certo senso considerate, indipendentemente dai dati cronologici, come l'antecedente ideale delle Rime: la prima e provvisoria forma assunta dalle confessioni del poeta, nel suo sforzo assiduo e instancabile di assurgere dal piano della biografia a quello della poesia per il tramite della letteratura. In ciascuna di queste opere è notevole da un lato la ricchezza e la vivacità degli elementi soggettivi e lirici, che si insinuano attraverso gli ostentati propositi epici allegorici storici filosofici; dall'altro l'aspirazione letteraria verso forme decorose e solenni improntate ai grandi modelli classici. Ogni scritto del Petrarca è, come s'è visto, una confessione, che tende a incanalarsi in schemi universali e oggettivi e in forme consacrate dalla tradizione artistica. Nei momenti più alti, cioè nelle rime in volgare, la confessione si trasfigura in canto, ed è poesia; negli scritti minori si adorna di grazie, e talora di squisitezze, letterarie, con intonazione che varia per altro di libro in libro, anzi di pagina in pagina, dall'ampollosità rettorica alla raffinata eleganza, alla decorosa eloquenza, all'arguzia epigrammatica, alla sentenziosa gravità. Si capisce che il carattere essenzialmente letterario, e non poetico, di queste opere minori permette allo studioso di assumerle come documenti dell'indole e della mente dello scrittore, testimonianza ricca e preziosa delle idee, dei gusti, degli umori di lui, e persino, a volte, fonte informativa sulle quotidiane vicende della sua esistenza. Di qui l'interesse vivo che i documenti di questa esercitazione letteraria serbano ancora per il lettore delle Rime; e qui anche la causa della suggestione carezzevole e blanda, come di poesia abbozzata incompiuta e frammentaria, che deriva a noi da taluna almeno di queste pagine latine.

Per il contenuto e fin per la struttura esterna, le più vicine all'esperienza delle rime sono le Epistole metrice: in un certo senso, insieme con i versi e i carmi latini estravaganti, i testi petrarcheschi più legati allo spunto immediato delle occasioni e dell'ispirazione giornaliera. Il proposito di riunirle in «corpus» fu ben presto abbandonato; e infatti lo «sparsum carmen» è rimasto, assai più delle «rime sparse», un organismo appena abbozzato ed informe. Le situazioni psicologiche sono, nei momenti migliori, le medesime che il lettore ritrova nel canzoniere (sebbene con minor rigore di scelta e più larga indulgenza ai motivi secondari e marginali); ma ad uno stadio assai più basso s'arresta quasi dovunque il processo di innalzamento di quelle situazioni su un piano, non si dice poetico, sì anche soltanto letterario. L'espressione resta quasi sempre sommaria, con una sorta di abbandono effusivo che non riesce a fissarsi in una norma di stile; e il linguaggio stesso, ricalcato non di rado ingenuamente sui modelli classici, ha qualcosa di approssimativo e d'incondito, di torpido e di ozioso; donde la difficoltà per il traduttore italiano (ed è una difficoltà che si ripresenta, in maggiore o minor misura, per tutti questi testi latini) di risolverne caso per caso le innumerevoli incertezze ed ambiguità lessicali e sintattiche.

Ad ogni modo la lettura delle Metrice è importante per la ricostruzione del mondo sentimentale del Petrarca maggiore; così come, per illuminare un particolare aspetto di quel mondo, e cioè l'aggrovigliata esperienza religiosa del poeta, è importante la lettura dei Psalmi penitentiales. E come quella ci fornisce lo schema delle sue accorte e segrete derivazioni dai classici; così questa ci riporta l'eco delle sue lunghe ed intense ore di meditazione dei testi biblici e patristici.

Sono ancora i momenti lirici, vale a dire i precedenti cronologici o ideali della poesia del canzoniere, quelli che più vivamente ci interessano anche nell'Africa e nelle egloghe. L'Africa è un'ulteriore riprova dell'incapacità costruttiva del Petrarca, della vanità delle sue ambizioni epiche, come di ogni altra forma di poesia che presumesse di trascendere i limiti di una condizione soggettiva, e per questo rispetto si colloca accanto ai Trionfi; ma pur serba, come quelli, un interesse frammentario ed episodico (e anche qui più letterario che poetico) in tutti i momenti in cui s'avverte, con un impegno più diretto, la presenza dell'animo del poeta, non della sua cultura soltanto, ma di tutta la sua inquietudine di uomo. Del resto, anche nelle pagine più famose, come il lamento di Magone, all'intensità degli affetti corrisponde solo in parte la forma adattata dall'esterno, astratta e magniloquente.

Forse proprio il Bucolicum Carmen, nel suo assunto scopertamente letterario, è, fra i testi qui parzialmente riprodotti, quello che attesta un'elaborazione più attenta e compiuta e raggiunge una maggiore chiarezza stilistica e un più sicuro assetto formale. È anche il più povero di sostanza lirica, e quello che ad un lettore moderno deve suonar più arcaico e lontano; eppure non può essere in nessun caso trascurato da chi intende addentrarsi nello studio della genesi complessa della poesia petrarchesca e ripercorrere tutte le vie, talora assai intricate e contorte, per cui le varie e fuggevoli situazioni di una minuta vicenda biografica e gli alterni moti di tristezza e di esaltazione, di pentimento e di speranza, riuscivano faticosamente a fissarsi in miti e favole, fino ad assurgere al valore di duraturi simboli poetici.

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