PETRARCA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PETRARCA, Francesco

Francisco Rico
Luca Marcozzi

PETRARCA, Francesco. – Di nessun altro uomo vissuto nella sua epoca o nelle precedenti abbiamo simile mole di notizie, e per lo più da sue testimonianze, spesso divergenti e sempre rielaborate per costruire un’autobiografia ideale: anche se non sono inattendibili, lasciano però margini d’incertezza. Dubbia è persino la data di nascita di Petrarca, tradizionalmente fissata nella notte tra il 19 e il 20 luglio 1304 (Seniles, VIII 1: 20 luglio 1366), ad Arezzo, in una casa nella via o borgo dell’Orto; figlio del notaio Petracco (Pietro Petraccolo) di Parenzo e di Eletta (o Laeta) Canigiani (o Carigiani). Se al patronimico si ispirò poi la scelta del cognome latineggiante, fino alla maturità Petrarca venne chiamato Franciscus de Pentraco (così Boccaccio), o Francisco Petrapchi (o Petraccho, o Petrachus o Petracchus) de Florentia; nelle petizioni si firmò Franciscus Petracchus nel 1348, Petracca nel 1350, Petraccus nel 1351 e, solo nel 1355, Petrarcus.

Petracco proveniva da una famiglia del Valdarno (anche suo padre Parenzo era stato notaio, mentre il nonno Garzo non sembra coincidere con l’autore di alcuni testi compresi nel Laudario cortonese) e fu cancelliere alle riforme del Comune di Firenze, notaio della Signoria, sodale nella parte bianca dei Guelfi di Dante e con lui bandito nel 1302 (in gennaio l’Alighieri, il 20 ottobre Petracco). Divenuto portavoce della fazione sbandita, prese forse parte alla battaglia della Lastra (20 luglio 1304), in seguito alla quale i Bianchi furono dispersi. La data della battaglia corrisponde a quella che Petrarca dichiarò per la propria nascita: avvenuta «in esilio» (Familiares, I 1, 22-24; e Posteritati). Tramite il cardinale Niccolò da Prato, Petracco si recò dapprima a Pisa e poi ad Avignone, tradizionale punto di confluenza del fuoriuscitismo guelfo, dove, legatosi alla compagnia mercantile dei Frescobaldi, vergò atti fin dal 1310. Benché assolto nel febbraio 1309, non rientrò a Firenze e fu escluso (assieme a Dante) dalla provvigione di Baldo d’Aguglione che nel 1311 riabilitò i condannati degli anni precedenti. Tra il 1311 e il 1312 portò con sé in Provenza la moglie e i figli, Francesco e il più giovane Gherardo (nato nel 1307 circa): il viaggio per mare ebbe forse una lunga sosta a Genova dove, a fine 1311, probabilmente avvenne l’incontro con Dante (narrato in Familiares, XXI 15).

La famiglia si stabilì non lontano da Avignone, a Carpentras; Francesco e Gherardo furono avviati agli studi sotto la guida di un altro esule guelfo, Convenevole da Prato (n. 1270 ca.; ricordato con affetto in Seniles, XVI 1).

Nel rievocare il suo cursus studiorum, Petrarca affermò di aver letto «paene ab infantia» Cicerone e i classici latini, prima di intraprendere gli studi giuridici: che provasse repulsione per l’attività paterna consegue dunque dalla costruzione agiografica di sé come personaggio, compiuta verso gli anni Cinquanta, poiché Petracco non era ostile all’educazione letteraria del figlio e acquistò per lui vari manoscritti, tra cui il celebre Virgilio oggi nella Biblioteca Ambrosiana; Petrarca dichiarò inoltre di aver letto da giovane Cicerone «patris hortatu» (ibid.). Incerta è la cronologia degli studi, fornita da Petrarca stesso in Familiares, XX 4: intrapresi a dodici anni (autunno 1316: Seniles, X 1), li perseguì per «sette anni interi», tra Montpellier e Bologna (nel 1326 era ancora a Bologna). A Montpellier fu assieme a Guido Sette, di famiglia originaria della Lunigiana, suo coetaneo e amico d’infanzia a Carpentras, poi arcidiacono e infine vescovo di Genova dal 1358 al 1367.

Nel 1318 o 1319 perse la madre, che aveva trentotto anni: quanti sono gli esametri del Breve pangeyricum defuncte matri (Epystole, I 7), la sua prima opera nota. Nell’autunno 1320 si recò a studiare a Bologna, seguito da un maestro privato, assieme al fratello Gherardo, allora tredicenne, e a Guido Sette. Quando nella primavera del 1321 studenti e docenti diedero vita a una rivolta e, riunitisi a Imola, vi risiedettero per oltre un anno, Francesco e Gherardo – inizialmente tra questi – tornarono ad Avignone, dopo un viaggio che toccò Rimini e Venezia. Nell’ottobre 1322 fece rientro a Bologna, dove restò ancora tre anni e più. La lasciò, per sempre, nell’aprile 1326 per la morte del padre, che lo costrinse a fronteggiare un difficile periodo economico: fu spogliato anche dei libri, in parte recuperati più tardi.

Negli anni trascorsi a Bologna (centro propulsivo della poesia volgare che si diffondeva a partire dalle recenti esperienze toscane e culla del classicismo) ebbe anche la possibilità di affinare la propria educazione letteraria (in una postilla al Frontino Vaticano latino 2193, risalente al 1342-45, si descrisse come «ibi [a Bologna] tunc puero in literarum studiis agente»). Non fu però refrattario ai codici: furono suoi maestri Giovanni d’Andrea, Pietro de’ Cerniti e Iacopo di Belviso, che tra i suoi allievi aveva il nobile romano Niccolò Capocci, futuro cardinale, nonché Agapito e Giacomo Colonna. Il poco che si conosce degli anni tra il 1326 e il 1330, trascorsi ad Avignone, lo si deve a una lettera al fratello Gherardo (Familiares, X 3).

Fu in questa lettera che Petrarca deprecò i propri vaneggiamenti giovanili e la dissoluta vita mondana. Risale a quest’epoca un’opera, poi perduta o distrutta dallo stesso poeta, della quale sopravvive una sola citazione (II 7): la Philologia Philostrati, commedia di probabile ispirazione terenziana, forse dedicata a fra Giovanni Colonna.

Venerdì 6 aprile 1327 (data simbolica nella quale sono collocati alcuni eventi biografici determinanti), Petrarca situò un avvenimento sulla cui realtà è lecito nutrire dubbi, ma che finì per assumere una capitale importanza nelle varie rappresentazioni fornite: l’incontro nella chiesa di Santa Chiara in Avignone con una donna chiamata Laura, o Lauretta, per la quale sono state tentate diverse identificazioni. Pochissimi sono gli elementi di cui disponiamo per appurare che cosa si nasconda dietro al mito di Laura, ma si può sospettare che l’amata con questo nome o senhal fonda sia figure diverse di una stessa donna sia figure di donne diverse, oltre che diverse raffigurazioni della laurea poetica. In ogni caso, Laura, assieme all’io lirico del poeta, è la protagonista dei Rerum vulgarium fragmenta.

La raccolta, composta di 366 componimenti poetici volgari, dal Cinquecento in poi divenne nota anche con il titolo di Rime o Canzoniere. Il primo nucleo risale al 1336-38, quando Petrarca ricopiò un primo gruppo di sonetti e un frammento di canzone. Nel 1342 queste poesie furono parzialmente organizzate in una trascrizione ordinata, ma solo dopo la morte dell’amata, nel 1348, Petrarca concepì l’idea di un canzoniere-romanzo, la cui lunga elaborazione, testimoniata da diversi stati intermedi, lo tenne occupato fino al giorno estremo: l’ultima redazione è trasmessa dal manoscritto Vat. lat. 3195, in parte autografo.

In questo periodo, spinto dalla necessità, Petrarca dovette assumere lo stato clericale. Non ci sono prove che abbia preso gli ordini, anche minori, ma fu sempre senza cura d’anime. Gli anni avignonesi furono dedicati alla vocazione umanistica e filologica, nella feconda fucina letteraria della curia papale: tra il 1326 e il 1329 poté restaurare il testo degli Ab urbe condita di Livio, riunendo le tre prime deche che circolavano separatamente e risanando le parti mutile. In questi anni, conobbe ad Avignone alcuni celebri eruditi: Pierre Bersuire, Riccardo di Bury e il frate agostiniano Dionigi da Borgo Sansepolcro. La rinuncia al notariato comportò la necessità di porsi al servizio dei Colonna: i primi della serie di patroni con cui cercò di realizzare un difficile equilibrio tra il rapporto di dipendenza e i margini di libertà personale. Più tardi (Seniles, XVI 1) Petrarca datò l’inizio della propria amicizia con Giacomo Colonna (nato nel 1301), ai propri 21 anni, quindi al 1325 inoltrato, a Bologna. Il servizio effettivo e stipendiato iniziò solo dal 1330, quando divenne «cappellanus continuus commensalis» del cardinal Giovanni, fratello di Giacomo. Il rapporto con i rampolli del patriarca Stefano Colonna proseguì anche dopo la morte di Giacomo (1341), fino alla morte del cardinale Giovanni, nel 1348.

Nel marzo 1330, Giacomo Colonna reclutò Petrarca per la sua corte vescovile di Lombez, in Guascogna: ne avrebbero fatto parte il cantore fiammingo Ludovico Santo di Beringen e l’uomo d’armi romano Lello di Pietro Stefano dei Tosetti, che Petrarca battezzò in seguito, rispettivamente, Socrate e Lelio. A questo soggiorno seguì, su incarico dei suoi nuovi patroni, un lungo viaggio, iniziato nella primavera del 1333, per sbrigare affari di curia, ma che diede nuova spinta al suo impegno come restauratore di testi classici. Il viaggio toccò varie città dell’Europa settentrionale: Parigi, Gand, Liegi (ove scoprì e copiò la Pro Archia di Cicerone), Aquisgrana, Colonia, le Ardenne, Lione. In agosto rientrò ad Avignone: qui restò negli anni successivi come cappellano del cardinale Giovanni Colonna (Giacomo aveva intanto abbandonato Lombez ed era stato inviato a Roma).

Il 10 gennaio 1335 ricevette da Benedetto XII un canonicato «sub exspectatione praebendarum» nella diocesi di Lombez. Con il nuovo papa si chiudeva un periodo di frizioni tra il collegio dei cardinali e il suo predecessore, Giovanni XXII, fautore della creazione di uno Stato guelfo in Italia settentrionale: Petrarca aveva manifestato il suo supporto alla lega di città italiane guidata dai Visconti, che osteggiava la campagna affidata dal papa al cardinale Bertrando del Poggetto.

Intanto metteva a fuoco un elemento centrale della sua visione politica, cui rimase fedele per tutta la vita: il ritorno della sede pontificia a Roma. Per questa causa indirizzò a Benedetto XII due lunghe epistole in versi, la I 2 (1335) e la I 5 (1336), mentre il suo sostegno alla crociata che si preparava nel 1333 (che poi non ebbe luogo) è documentato da due canzoni nei Rerum vulgarium fragmenta (27 e 28).

Malgrado la sua avversione per la Curia di Avignone (l’«avara Babilonia»), Petrarca riuscì a intraprendere un’intensa carriera diplomatica. Assieme al giurista veronese Guglielmo da Pastrengo difese di fronte al collegio cardinalizio Azzo da Correggio e Mastino della Scala nella causa intentatagli dai Rossi, che erano stati cacciati da Parma con confisca dei beni, quando i due se ne erano insignoriti nel maggio 1336 (Familiares, IX 5). Nel frattempo aveva raggiunto Roma (nel gennaio o febbraio 1337), accolto da fra Giovanni Colonna al termine di un avventuroso viaggio, e dove nella sua prima lettera (II 14, 15 marzo), contemplando dal Campidoglio le rovine dell’Urbe, manifestò la meraviglia per la loro grandezza e maestosità, dando forma a quella riscoperta dell’antichità classica e al rimpianto per la sua decadenza che divennero i cardini etici, estetici e politici dell’Umanesimo.

Fatto ritorno in Provenza, si trasferì a Valchiusa (oggi Fontaine-de-Vaucluse), dove aveva preso casa.

Si trattava di un borgo montano nel territorio de L’Isle-sur-la-Sorgue, nel luogo in cui il Sorga, affluente di sinistra del Rodano, nasce impetuoso, che descrisse come un porto di quiete, un Elicona in cui richiamare dall’esilio le Muse in una «solitudo iocundissima», dove poteva modellare la propria vacatio dal mondo sull’otium degli antichi, con in più alcuni tratti ascetici. Qui si dedicò allo studio e alle opere poetiche ed erudite che aveva già iniziato a comporre: l’Africa (iniziata nel 1338, poema epico in esametri latini che canta le glorie di Scipione l’Africano e le grandezze di Roma), il De viris illustribus (iniziata verso il 1338 o 1339 con la biografia di Scipione l’Africano, cui si aggiunsero nel corso degli anni quelle di altri personaggi illustri), oltre che alcune Epystole.

La vita solitaria fu interrotta dagli impegni che il servizio presso i Colonna continuava a richiedere e dalle pratiche diplomatiche o legali ad Avignone (impegni su cui comunque tace). Frattanto, dopo che da una donna rimasta sconosciuta gli era nato un figlio, chiamato Giovanni come il suo protettore, Petrarca consolidò l’amicizia con Dionigi da Borgo Sansepolcro, che di lì a poco si sarebbe insediato presso la corte angioina, legandosi inoltre a Philippe de Cabassoles, vescovo della diocesi di Cavaillon, che comprendeva Valchiusa.

Avendo costruito anche con il volontario isolamento di Valchiusa la propria figura di letterato alieno dal mondo, cultore di un’operosa dedizione allo studio e alla poesia, poteva aspirare, anche se la sua produzione non era ancora cospicua né diffusa, a ottenere un riconoscimento per la propria attività, che ne avrebbe legittimato il ruolo presso i suoi protettori presenti e futuri: l’incoronazione poetica, una cerimonia ripresa dall’antichità, con la quale già Albertino Mussato era stato onorato come storiografo e poeta, nel 1315 a Padova (ma per Petrarca il suo luogo poteva essere solo Roma, in Campidoglio).

Vagheggiata sin dagli anni Trenta, l’idea giunse a compimento solo nel 1341. Non è facile però ricostruire il reale svolgimento dei fatti, dato che le fonti sono quasi esclusivamente lettere dell’autore (il IV libro delle Familiares), rimaneggiate nel corso degli anni. All’incoronazione è poi legata la celebre lettera a Dionigi da Borgo Sansepolcro (scritta verso il 1352-53) che narra l’ascesa al Mont Ventoux, compiuta assieme al fratello Gherardo, che sarebbe avvenuta nel 1336 (IV 10), ma che venne strumentalmente idealizzata in senso etico per mettere la successiva laurea all’ombra di una conversione o di una meditazione ispirata al pensiero di s. Agostino. Sulla base dei contraddittori racconti di Petrarca si dovrebbe dedurre che nello stesso giorno (il 1° settembre 1340) questi avesse ricevuto l’invito a cingere la corona sia dal Senato di Roma sia da Parigi e avesse chiesto consiglio al cardinal Colonna (IV 4), decidendo di scegliere Roma (IV 5, 6), per ricevere la laurea «sulle ceneri degli alti poeti che ivi dimorano».

Il 15 febbraio 1341 Petrarca mosse da Avignone, via Marsiglia, per arrivare a Roma e poi a Napoli, accompagnato da Azzo da Correggio, il quale nell’occasione intendeva legarsi al partito angioino e ottenerne il permesso di strappare Parma a Mastino della Scala. Fu proprio grazie ad Azzo che il poeta poté ottenere l’incontro con Roberto d’Angiò, assicurandosi una sanzione illustre che lo mettesse al riparo dalle critiche. Al termine di tre giorni di esame il re gli concesse la prerogativa di essere incoronato e incaricò quindi Giovanni Barrili, uno dei letterati che illustravano la sua corte, di celebrare la solennità in Roma. La cerimonia ebbe luogo ai primi di aprile nel Palazzo senatorio sul Campidoglio ma, anche in questo caso, le fonti appaiono contraddittorie.

L’8 e il 13 aprile sono le date fornite da Petrarca (IV 6, 8), e la più probabile sembra essere la seconda; tuttavia Boccaccio situa l’evento il 17 e il documento ufficiale, il Privilegium laureationis, almeno in parte redatto dallo stesso Petrarca, reca la data del 9. In assenza di Barrili (vittima di un agguato di briganti, non riuscì a giungere in tempo), la cerimonia fu officiata dal senatore Orso dell’Anguillara. Dopo che il poeta ebbe pronunciato un discorso dedicato alla verità della poesia e alle virtù dell’alloro (la Collatio laureationis), il senatore lesse il Privilegium, che conferiva al beneficiario il titolo di maestro e la facoltà di insegnare, oltre a renderlo cittadino romano. Stefano Colonna, patriarca dei protettori di Petrarca, pronunciò un pubblico elogio del laureato; la corona fu infine deposta sull’altare della basilica di San Pietro.

Dopo la cerimonia, Petrarca partì con Azzo da Correggio, di lì a poco cantandone la presa di Parma (22 maggio 1341) e ottenendo da Giovanni Colonna il consenso a restare presso i Correggio fino all’inverno successivo. La libertà goduta in questo breve interludio, nel quale aveva rimesso mano all’Africa, al De viris e alle poesie volgari, deve aver fatto nascere in lui l’idea di lasciare la Provenza, rafforzata dalla morte di Giacomo Colonna (avvenuta nel settembre 1341; la notizia lo raggiunse a Parma). Tra febbraio e marzo 1342 tornò in Provenza, dove la Curia era in subbuglio per le gravi condizioni di Benedetto XII, che morì il 25 aprile.

Petrarca ne criticò in toni aspri la figura in una lettera: è la prima di una raccolta elaborata tra il 1351 e il 1353 e tra il 1359 e il 1361, che andò sotto il titolo di Sine nomine (‘senza destinatario’ o ‘senza titolo’) per denunciare i costumi curiali, con motivazioni religiose non aliene dalla spiritualità francescana e per ragioni politiche (il collegio cardinalizio era composto quasi interamente da francesi ostili a un ritorno del Papato a Roma).

Il 22 maggio 1342, subito dopo la sua elezione, il nuovo papa, Clemente VI, beneficiò Petrarca di un canonicato nella cattedrale di Pisa, con relative prebende; di un altro ricco priorato pisano, quello di San Nicola di Migliarino del quale fu nominato beneficiario il 6 ottobre 1342, non riuscì mai a entrare in possesso; gli fu anche assegnato il rettorato della pievania di Sant’Angelo in Castiglione Aretino. Per seguire queste pratiche Petrarca dovette passare molto tempo ad Avignone, inadatta all’esercizio della poesia (in Epystole, II 3, rimprovera per questo il cardinale Colonna). Solo in estate poté tornare all’attività poetica: il 21 agosto 1342 iniziò la trascrizione di una silloge delle sue rime volgari.

Nell’inverno di quell’anno, in coincidenza con l’arrivo ad Avignone di una delegazione di senatori romani guidata da Stefano Colonna il giovane, Petrarca indirizzò al papa un’epistola metrica per farsene portavoce: con l’invito a riportare la sede papale a Roma e a celebrare un giubileo nel 1350 (II 5); nel gennaio 1343 il papa promulgò la bolla d’indizione del giubileo e di riduzione a mezzo secolo dell’intervallo tra gli anni santi. Un’altra ambasceria era giunta da Roma al papa: un governo di popolo instaurato dopo la partenza dei senatori per la Provenza l’aveva affidata a un notaio di basso lignaggio, figlio di un taverniere e di una lavandaia, un certo Cola di Rienzo. Avrebbe dovuto conferire al papa la dignità senatoriale e chiedergli di indire il giubileo, ma colse l’occasione per accusare i nobili romani di essere i responsabili della devastazione della città e del contado. Clemente VI non riconobbe però legittimità al governo che Cola rappresentava.

In quello stesso periodo Petrarca volle compiere i primi tentativi per imparare il greco tramite il monaco basiliano Barlaam, conosciuto ad Avignone. Nella primavera del 1343 il fratello Gherardo, che già dal 1339 aveva intrapreso il noviziato, scelse la via del silenzio nella Certosa di Montrieux (un altro figlio di Petracco, Giovanni, minore dei due, fu anch’egli monaco, ma olivetano; morì nel 1384). Dall’abate de Sade, ma senza nessuna prova, è tradizionalmente situata a quest’altezza la nascita di un’altra figlia, Francesca.

Nell’estate Petrarca intraprese i Rerum memorandarum libri, una raccolta di aneddoti di varia estensione volti a illustrare le virtù, ma dovette interrompere subito il lavoro per recarsi in missione a Napoli, confidando di trovarvi un luogo sereno e adatto agli studi. Svanite tali speranze, Petrarca si rivolse nuovamente a Parma, dove tornò a fine 1343.

Anche qui la situazione stava mutando: alla morte di Simone da Correggio, nel 1344, gli altri tre fratelli (Azzo, Guido e Giovanni) e Cagnolo, figlio di Simone, ebbero divergenze tali da trasformarsi in un’aspra contesa che coinvolse le signorie del Nord per il possesso della città e che sarebbe durata fino al settembre 1346, quando Obizzo d’Este cedette Parma, acquistata dai Correggio, a Luchino Visconti. Prima che ciò accadesse, in questo nuovo soggiorno (nel quale volle con sé il figlio) Petrarca riprese l’Africa e i Rerum memorandarum libri (di lì a poco per sempre interrotti).

Fra i suoi desideri c’era senz’altro quello di volersi fermare in Italia più a lungo: a un amico ‘transalpino’ scrisse risoluto (Epystole, III 27, 28: probabilmente ritoccate in seguito) di aver scelto una vita indipendente, cui potessero fornire sostegno i benefici ecclesiastici e la liberalità dei patroni, e che si sarebbe dovuta svolgere in Italia. Ma quando, nel dicembre 1344, Guido Correggio cinse d’assedio Parma, Petrarca decise di lasciare la città, fuggendo nottetempo (23 febbraio 1345) per riparare a Verona, dove giunse ai primi di marzo, accolto dagli amici Guglielmo da Pastrengo e Rinaldo Cavalchini. Vi sarebbe rimasto solo pochi mesi, ma la breve sosta fu fecondissima, poiché nella Biblioteca Capitolare ritrovò le epistole Ad Atticum di Cicerone, che copiò avidamente.

Alla fine dell’anno si decise a tornare in Provenza, lasciando a Verona il figlio Giovanni, affidato a Cavalchini, e una situazione turbolenta in Italia, sia nel Nord infiammato dai conflitti, sia a Napoli dove si temeva un’invasione da parte di Luigi I d’Ungheria, sia a Roma, dove Cola preparava la sua rivoluzione.

Petrarca chiese e ottenne il posto vacante di canonico e arcidiacono della Cattedrale di Parma; il 29 ottobre 1346 gli fu concesso il canonicato con la prebenda di Coloreto, mentre per l’arcidiaconato dovette aspettare due anni (lo ottenne in seguito a un’altra supplica, inoltrata il 23 agosto 1348). Nel frattempo, rifiutò (o dichiarò di farlo) l’elevazione all’episcopato e la carica di segretario apostolico (che in seguito gli venne ripetutamente offerta). Prima di lasciarla di nuovo (nel novembre 1347), passò due anni molto fruttuosi a Valchiusa.

Oltre a varie Epystole e alle ecloghe iniziali del Bucolicum carmen, compose le prime opere di carattere ascetico-morale: De vita solitaria, elogio di un’esistenza dedicata all’otium letterario modellato su grandi esempi antichi (avviata nel 1346 e rapidamente compiuta nelle sue linee essenziali, fu conclusa solo nel 1366, con una giunta nel 1371); De otio religioso, apologia della vita contemplativa e dell’ascesi. Di incerta datazione (ma comunque successivi al 1347) sono i sette Psalmi penitentiales.

Nel 1347 intraprese la composizione dell’opera più significativa della sua esperienza intellettuale, cui affidò la creazione di un suo nuovo ritratto, modellato sulle Confessioni di Agostino: il Secretum meum. Nei suoi tre libri l’opera, che in teoria non era destinata alla circolazione, inscena il dialogo tra Franciscus e Augustinus, al cospetto della Verità. Fu rielaborata nel 1349 e integralmente riscritta, acquisendo la forma attuale, tra l’inverno 1352 e l’inizio della primavera 1353. Nel 1358 Petrarca vi appose le postille marginali che ne segnano le date di composizione e rifacimento (e fece forse qualche minima correzione).

I due anni passati ad Avignone sono aperti da un’ambasceria a papa Clemente svolta per conto di mandatari a noi ignoti (Seniles, VII 1), che testimonia la dignità raggiunta da Petrarca in Curia, anche in modo autonomo dai Colonna. Il distacco da loro era ormai prossimo: nel 1347 (primavera o estate) presentò una petizione al papa che sembrava provare la volontà di costruirsi un percorso autonomo. Il definitivo affrancamento si compì a ridosso della morte del cardinale Colonna, avvenuta il 3 luglio 1348. L’ecloga Divortium registra la separazione: apparentemente anteriore a questa data, ma non molto lontana da essa, è l’ottava del Bucolicum carmen, che racchiude dodici componimenti pastorali in esametri da leggersi nelle chiavi che Petrarca fornisce di volta in volta in alcune lettere, e composti per lo più a Valchiusa in quel biennio (gli ultimi quattro in Italia dopo la peste del 1348); rielaborati e trascritti nel 1357, furono rivisti nel 1359, nel 1361 e intorno al 1365.

Alla separazione dai Colonna contribuì non poco il sostegno offerto da Petrarca a Cola di Rienzo: nel decennio che ne vide l’ascesa e il tragico declino, fu inizialmente dalla parte del tribuno condividendone il desiderio di riportare Roma al centro della scena politica europea e di instaurare in città un nuovo ordine.

L’impresa di Cola, che aveva come suo primo obiettivo la distruzione del potere delle grandi famiglie baronali, fu salutata da Petrarca con una entusiastica lettera (Disperse 8 = Varie 48: giugno 1347), in cui lo paragona ai due Bruti che eliminarono la tirannide, incensandolo come restauratore della libertà dell’Urbe. In una seconda lettera, anch’essa esclusa dalle raccolte epistolari (Disperse 9 = Varie 38, luglio 1347), Petrarca informò Cola dei sospetti che si nutrivano su di lui in Curia e gli offrì il suo sostegno (Cola risponderà il 28 luglio, ringraziandolo e invitandolo a Roma). Nell’estate del 1347 compose un’ecloga, Pietas pastoralis, che inviò al tribuno con la sua chiave interpretativa (Disperse 11 = Varie 42), nella quale di nuovo lo lodava per la sua lotta contro i baroni, e gli scrisse altre quattro entusiastiche lettere.

Se con il sostegno a Cola aveva fatto terra bruciata tra sé e i Colonna, la lettera con cui Petrarca prese le distanze dal tribuno (sempre che essa non sia postuma e inserita ex evento nelle Familiari al fine di mitigare un troppo incauto entusiasmo) potrebbe apparire come un tentativo di riaccreditarsi presso i suoi patroni, in vista dell’inevitabile sconfitta del tribuno. Ma la morte del patriarca Stefano il Vecchio (nel 1348 o 1349) e del cardinale Giovanni, consentirono a Petrarca di perseguire il divortium senza doversi più guardare indietro («oculos in terga reflectens», Bucolicum carmen, VIII) e di puntare ancora una volta all’Italia. In questa ecloga il personaggio di Gillias è Azzo da Correggio: Petrarca lo raggiunse a Verona, in una ambasceria presso Mastino della Scala per conto di Clemente VI. Partito da Avignone il 25 novembre, dopo essere transitato per Genova, fu verosimilmente a Parma (anche per prendere possesso del suo canonicato e perorare la concessione dell’arcidiaconato: Epystole, II 18), prima di raggiungere Verona.

Il 25 gennaio 1348 tornò a Parma recando con sé il figlio Giovanni; fu poi di nuovo a Verona in aprile e ancora a Parma alla fine di aprile o agli inizi di maggio.

Dal settembre 1346, quando era stata venduta a Luchino Visconti, Parma era retta dal podestà Paganino da Besozzo, che lo mise in contatto diretto con il signore di Milano; Petrarca gli rese omaggio con una lettera (Familiares, VII 15: 13 marzo, probabilmente 1348), corredata di due componimenti apologetici (Epystole, III 6, II 11). Luchino morì però nel gennaio 1349 lasciando Petrarca alla ricerca di un nuovo patrono: è lui stesso a dare notizia (Familiares, VII 10) di avere ricevuto nello stesso giorno (24 marzo 1348) tre lettere di corrispondenti fiorentini (Giovanni dell’Incisa, Zanobi da Strada e Bruno Casini), che lo rimproveravano di non essere passato da Firenze sulla via di Parma e Verona. Nella risposta, data a Verona ai primi d’aprile, Petrarca non tacque la delusione per aver ricevuto un iniquo trattamento da quella che considerava la propria patria e che invece in alcun modo lo onorava. In una lettera all’Anchiseo di quest’anno (ibid.) si affacciò poi la terribile novità destinata a tracciare un solco profondo anche nella vita del poeta: la peste, che lo avrebbe lasciato «solo e infelice», vittima di «perdite irreparabili» (I 1).

Mentre l’epidemia infuriava, Petrarca si trovava a Parma. Le poesie volgari e le lettere latine di questo periodo registrano la strage: la morte del giovane poeta Franceschino degli Albizzi (aprile 1348, ibid., VII 12), di Sennuccio del Bene, del cardinal Colonna (3 luglio; una lunga consolatoria fu mandata al patriarca Stefano, VIII 1) e di Laura, la donna di cui aveva cantato la bellezza e la cui data di morte (6 aprile 1348) è ricordata in una nota obituaria sul Virgilio Ambrosiano (registra di avere avuto la notizia a Parma il 19 maggio, ma la nota è certamente posteriore). In seguito, ricordò sul recto del foglio di guardia dello stesso codice anche Paganino (23 maggio 1349), con la prima di una serie di note simili lì apposte fino al 1372. Oltre ai molti amici, morì in quell’anno anche l’arcidiacono della cattedrale di Parma, Dino da Urbino, così che Petrarca poté chiedere di prenderne il posto (con pingue beneficio): successione che Clemente VI concesse il 23 agosto 1348.

Intanto un nuovo protettore si affiancava agli altri: Giacomo II da Carrara, signore di Padova, che a inizio 1349 gli fece ottenere un ulteriore e ricco canonicato da 200 ducati d’oro l’anno e una casa nei pressi della cattedrale. Petrarca ne prese possesso il 18 aprile 1349, con una cerimonia officiata dal vescovo della città Ildebrandino Conti, e in tale occasione lasciò Parma per un paio di mesi (marzo e aprile) per visitare Padova, Verona, Treviso e Venezia. Ormai la decisione di stabilirsi in Italia era presa, restava solo da decidere dove. Nel settembre 1349, dopo aver visitato Carpi e Ferrara, tornò a Padova, e fra Padova e Parma passò l’anno seguente, lavorando tra l’altro al commento allegorico all’ecloga I (Familiares, X 4, incunabolo delle umanistiche difese della poesia).

Le raccolte epistolari e poetiche furono il maggiore impegno di questi anni trascorsi tra Parma e Padova, riordinando una ingente mole di materiali pregressi, per costruire un ritratto autorevole di sé. Il 13 gennaio 1350, da Padova, Petrarca firmò la prima delle Familiares a Ludovico di Beringen, in cui annunciava le tre grandi collezioni di lettere in prosa e versi latini e di versi volgari. Allo stesso periodo risalgono la prefazione delle Epystole e il sonetto proemiale dei Rerum vulgarium fragmenta. La raccolta delle Familiares, avviata nel 1345 (con gli Epystolarum ad diversos), crebbe in varie fasi tra il 1351 e il 1353, per giungere tra il 1359 e il 1363-64 all’attuale consistenza. L’intero primo libro, diverse lettere del secondo e dei seguenti non sono che missive fittizie, invenzioni d’autore composte tra il 1350 e il 1351 e indirizzate a interlocutori altrettanto fittizi o ad amici già morti, allo scopo di prolungare l’epistolario all’indietro nel tempo, fino alla sua prima gioventù.

Il 1350 trascorse tra Parma, Mantova, Verona e Padova. Forse nel corso di un soggiorno mantovano, a luglio, Petrarca iniziò a redigere la lettera proemiale delle Epystole indirizzata a Barbato da Sulmona, che non fu compiuta prima di molti anni: avrebbe accompagnato le 66 epistole in esametri, scritte per la maggior parte tra il 1331 e il 1351 (ma con testi precedenti e successivi), e suddivise in tre libri.

Durante l’estate rispose a un ammiratore fiorentino, Giovanni Boccaccio, che gli chiedeva copia delle sue opere (cfr. Epystole, III 17, nonché Familiares, XI 2 che l’accompagnava); di lì a qualche mese lo avrebbe incontrato a Firenze, sulla via di Roma, dove si recò all’inizio di ottobre per il Giubileo. Per accoglierlo si riunirono alcuni ammiratori (Boccaccio, Zanobi da Strada, Francesco Nelli, destinato a diventare un suo prolifico corrispondente, e Lapo di Castiglionchio), che poi tentarono di aprirgli la via del ritorno a Firenze.

Sull’ultimo suo soggiorno nell’Urbe Petrarca disse poco al punto che dobbiamo intendere che tacque di proposito, perché la vicenda coinvolse aspetti particolarmente intimi e segnò una svolta nella sua parabola spirituale. Quel poco, dunque, è molto indicativo: a Roma non percorse la città «poetica curiositate», ma visitò i «templa Dei devotione catholica», provvedendo alla cura dell’anima senza perdere il tempo in conversazioni letterarie, dando inizio alla rinuncia ai piaceri della carne: ‘post iubileum’ (Seniles, VIII 1).

Sulla via del ritorno fece sosta ad Arezzo per visitare la propria casa natale, e di nuovo a Firenze, dove trattò la possibilità che gli venissero restituiti i beni a suo tempo confiscati al padre.

Rientrò a Parma solo a fine anno; alla vigilia di Natale fu raggiunto dalla notizia della morte di Giacomo II da Carrara, assassinato una settimana prima. Gli successe subito il figlio Francesco, che del poeta sarebbe divenuto l’ultimo protettore. A fine gennaio 1351 si recò a Padova, dove risiedette fino all’inizio di maggio.

Di qui, il 24 febbraio, inviò una lunga lettera a Carlo IV di Boemia, prossimo imperatore, esortandolo a scendere in Italia per restaurare la potestà imperiale (Familiares, X 1). Poco tempo dopo scrisse al doge Andrea Dandolo per invitarlo a desistere dai preparativi di guerra contro Genova ed esortarlo alla pace; lettere che segnano un punto di svolta nella visione politica di Petrarca che, non più vincolato alla politica colonnese o filoangioina, si muove già, pur ancora lontano da Milano, nell’orbita dei Visconti.

A Padova, verso la fine di marzo, era giunto Boccaccio, latore di un’offerta dal Comune di Firenze: una cattedra all’Università da poco istituita e la restituzione dei beni paterni. Boccaccio si trattenne una settimana, forse fino al 6 aprile, data della missiva di Petrarca ai reggitori di Firenze (Familiares, XI 5), formalmente piena di gratitudine, ma priva di una vera risposta (affidata forse a voce al messo).

In quel periodo Petrarca ricevette da due cardinali, probabilmente Elie de Talleyrand e Gui de Boulogne, la richiesta da parte del papa di recarsi urgentemente ad Avignone, cui ottemperò senza indugio (partì il 3 maggio 1351, ma sostò un mese a Verona, poi a Parma; giunse a Valchiusa il 27 giugno). In quel viaggio aveva portato con sé il figlio Giovanni, forse per cercare per lui un impiego in Avignone: segno che il ritorno in Provenza non doveva essere temporaneo. La situazione in Italia, infatti, era nuovamente instabile: la morte di Giacomo II da Carrara e l’ostilità del vescovo Ugolino de’ Rossi rendevano Padova e Parma sedi non propizie a una stabile residenza, e l’offerta di Firenze non offriva prospettive certe. Annunziando a Boccaccio la propria partenza per la Provenza, Petrarca gli comunicava che vi sarebbe restato solo un paio di mesi; ma nell’estate, da Valchiusa, scrisse a Luca Cristiani che sarebbe rimasto almeno due anni. Solo in autunno si trasferì ad Avignone, per scoprire (almeno secondo quanto affermato in Familiares, XIII 5) che gli si offriva la segreteria apostolica, già a suo tempo rifiutata, e un vescovado, mentre egli nutriva forse l’ambizione a un cardinalato (alcuni testi parrebbero adombrarla: Sine nomine, 8, Familiares, XI 6, XIV 4, XX 14; soprattutto Varie, 15).

Da Avignone Petrarca poteva osservare i rivolgimenti e gli scontri italiani, prendendo talvolta posizione su di essi: sia per la situazione del governo di Roma (Sine nomine, 30), sia per il Regno di Napoli, che era retto, di fatto, dal siniscalco Niccolò Acciaiuoli, cui Petrarca indirizzò il primo dei propri specula principum, l’epistola Iantandem (Familiares, XII 2), alla quale nelle Familiari volle poi dare il titolo di Institutio regia: un trattato sull’arte di governo e sull’educazione dei principi, rivolta in particolare al futuro re Luigi d’Ungheria, testo capitale delle ambizioni politiche dell’Umanesimo, che fu largamente diffuso in tradizione estravagante ed ebbe un commento di Barbato da Sulmona. Aggiunse poi una nuova hortatoria a Carlo IV (Familiares, XII 1), scritta da Avignone a inizio 1352, destinata a ogni buon conto a non sortire l’effetto sperato, cioè la discesa di Carlo in Italia. Mentre si rivolgeva a papi, imperatori e duchi (un’altra lettera a Dandolo, 26 febbraio 1352), era tuttavia alle prese con più ordinarie occupazioni, come trovare un canonicato per il figlio Giovanni (gli fu concesso nel marzo 1352 a Verona; nelle Familiares, XIII 2, 3, in cui lo raccomanda a Cavalchini e a Guglielmo da Pastrengo, ne fornisce un ritratto non indulgente).

L’antico disprezzo per Avignone si acuì, fornendo l’occasione per alcune delle lettere poi raccolte nel Sine nomine, e la maturazione del fervore polemico delle sue invettive, occasionate dall’invito a diffidare dei medici che Petrarca rivolse a Clemente VI malato (Familiares, V 19: 12 marzo 1352). Alla piccata risposta di un medico, rimasto ignoto (XV 6) Petrarca replicò con una prima Invectiva (marzo 1352), alla quale il medico contrappose, a inizio 1353, un opusculum che provocò le ulteriori tre Invective contra medicum.

Dai primi di aprile alla fine di settembre Petrarca risiedette in Valchiusa, intento alla corrispondenza e alla revisione di alcune opere. In una lettera a Lelio (Familiares, XV 9, 14 aprile 1352), dichiarò di eleggere come sua dimora ideale l’Italia, comunicando di aver ricevuto offerte da Luigi di Taranto e dal re di Francia per risiedere a Napoli o Parigi, ma di averle rifiutate per perseguire il sogno di Roma, il cui fascino continuava a manifestarsi in lui a dispetto delle condizioni reali dell’Urbe.

Dopo due anni di prigionia a Praga, Cola di Rienzo era stato tradotto da Carlo IV ad Avignone, dove, giunto in ceppi ai primi d’agosto, chiese di incontrare il suo antico sostenitore (XIII 6). Petrarca prese le distanze e negò a Cola, ormai caduto in disgrazia e su cui pendeva il rischio di una condanna capitale, l’estrema difesa, non riconoscendogli la qualità di poeta che, per rispetto al ruolo delle lettere, avrebbe potuto evitargli la condanna o farla commutare. Va anche detto che, nell’occasione, scrisse una lettera al Popolo romano (non pubblicata e inclusa nel Sine nomine) per invitarlo a reclamare la libertà di Cola.

Tornò ad Avignone alla fine di settembre 1352, convocato dal cardinale Gui de Boulogne che voleva conferirgli un beneficio, ma ne attese invano l’arrivo prima di rientrare a Valchiusa l’8 novembre. Ormai ambiva a ritagliarsi un pubblico ruolo di suasor pacis presso i più potenti sovrani dell’epoca (così nella lettera del 1° novembre al doge di Genova, per esortare il consiglio cittadino alla pace con Venezia: Familiares, XIV 5) ed era deciso al trasferimento in Italia. S’incamminò il 16 novembre, ma interruppe il viaggio a Cavaillon, per poi rinunciare (XV 2), a causa del maltempo e della presenza di bande armate. Non si può tuttavia escludere che il ritorno fosse rimandato per le notizie che giungevano da Avignone sulla salute di Clemente VI, che morì il 6 dicembre, quando Petrarca si trovava ancora in Provenza. Il successore, Innocenzo VI, eletto il 18 dicembre, aveva in passato accusato Petrarca di magia (IX 5, XIII 6; Seniles, I 4) e la diffidenza era reciproca (Sine nomine, 13); non poteva dunque attendersi molto dal nuovo corso curiale, anche se i cardinali Elie de Talleyrand e Gui de Boulogne continuavano a confermargli la loro protezione: a loro, il 4 dicembre, chiese una nuova breve licenza per recarsi a Valchiusa, dove era improvvisamente morto il suo fattore Raymond Monet (Familiares, XVI 1), che venne però prolungata fino al 26 aprile 1353. Tornato in Curia rifiutò l’invito di Talleyrand a rendere omaggio al papa (secondo quanto narrato in Seniles, I 4) e, preso congedo dai due cardinali e dai suoi amici, Guido Sette e Socrate, affidata ai figli di Monet la casa di Valchiusa, ai primi di maggio tornò definitivamente in Italia, per la via del Monginevro (Epystole, III 24).

Sulle possibili mete gravavano varie incertezze: a Padova la morte di Ildebrandino Conti (2 novembre 1352); a Parma la contesa con il vescovo; a Firenze la mancata definizione di una solida offerta o forse anche la revoca della pattuita restituzione dei beni. Scelse così di stabilirsi a Milano, allora retta dall’arcivescovo Giovanni Visconti e dai suoi nipoti Matteo, Galeazzo e Bernabò, i quali proprio in quei mesi avevano trovato un accordo con Innocenzo VI e con Firenze. Sulle ragioni di tale scelta sono state avanzate diverse ipotesi, ma è certo che sorprese gli amici fiorentini, generando qualche imbarazzo nello stesso Petrarca (Varie, 7). In una lettera allegorica (18 luglio 1353) Boccaccio lo rimproverò di aver stretto amicizia con Egone, nome sotto cui si cela il tiranno milanese che in precedenza egli stesso aveva paragonato a Polifemo. Boccaccio fa anche cenno alla circostanza che il Comune, dopo avergli restituito i beni paterni, glieli aveva ritolti per una sua leggerezza, probabilmente di carattere legale: di qui l’indignazione di Petrarca e la decisione di rivolgersi al Ticino, dal momento che s’erano intorbidate le acque del Sorga, del Parma e del Brenta (l’Arno non è nemmeno contemplato tra i possibili approdi).

Agli amici fiorentini offrì poi diverse giustificazioni. In due Familiares a Nelli datate alla fine di agosto 1353 (XVI 11, 12) motivò la sua scelta con le rassicurazioni fattegli da Giovanni Visconti sulla sua indipendenza, ma il suo ruolo fu rivolto proprio all’attività diplomatica e di fattivo sostegno del suo potere. Nell’estate del 1355 Petrarca dovette difendersi anche dalle accuse (note solo perché egli stesso le riporta) del cardinale e protonotario apostolico Jean de Caraman, il quale gli rimproverava di essersi posto al servizio di sanguinari tiranni. La sua difesa costituì poi l’Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis, apologia delle proprie scelte non meno che dei suoi nuovi patroni, nonché difesa del valore etico delle humanae litterae e del privilegio che offrono a salvaguardia di ogni compromissione con il potere, poiché il possesso dell’eloquenza è garanzia di libertà.

Tra i quaranta e i cinquant’anni (ovvero tra i soggiorni in Provenza del 1345-47 e del 1351-53) molte cose erano accadute: la morte di Laura e di tanti amici nella peste del 1348, la rivolta di Cola di Rienzo, l’allontanamento dalla Curia, la decisione di sistemarsi in Italia. Tutti questi traumi personali e politici portarono Petrarca a riflettere su se stesso e sulla sua opera: per questo, e per il recupero di convinzioni e sentimenti che la sua stretta adesione al classicismo avevano reso marginali nella produzione precedente, lasciò da parte i frutti più esclusivi della sua attività per produrne di nuovi.

Il Privilegium dell’incoronazione lo dichiarava «magnum poetam et historicum»; ora reclamava per sé il titolo di «philosophus», di chi persegue la riflessione interiore («reflectendum ad se animum», De vita solitaria) e, migliorando se stesso, migliora gli altri («bonum facere auditorem ac lectorem», De ignorantia). Da questo impegno nacquero gli epistolari, il Secretum, gli opuscoli polemici, il gigantesco vademecum del De remediis utriusque fortune. Opere per destinatari concreti e per situazioni specifiche, anche di attualità, nelle quali Petrarca illumina ciascun tema con letture classiche, per mostrarle attuali e sempre utili, capaci di tradursi «in actum», di applicarsi «ad vitam» (De remediis).

È questo philosophus il Petrarca della maturità, quello che giunse a Milano nella primavera del 1353 e vi trascorse quasi otto anni, i più fecondi della sua carriera. Per i primi sei abitò in una casa accanto alla basilica di S. Ambrogio, allora al limite estremo della città; mentre nel 1359 si trasferì vicino al monastero benedettino di S. Simpliciano.

Il suo ruolo nel seguito dell’arcivescovo Giovanni fu, da subito, carico di incombenze diplomatiche e politiche che ebbero un carattere di continuità tale da non poter essere considerati occasionali interludi nell’attività di studio. Poche settimane dopo il suo arrivo partecipò alle cerimonie che vedevano coinvolti i signori di Milano, dall’accoglienza al cardinal Albornoz, legato pontificio (14 settembre 1353), alla stesura del discorso ufficiale che celebrava la devoluzione della signoria di Genova ai Visconti (Familiares, XVII 4). Scelto come padrino del figlio di Bernabò, Marco, nato nel novembre 1353, Petrarca lo accompagnò al fonte battesimale donandogli una coppa d’oro e l’Epystola III 25, in cui al neonato elencava i futuri domini e prospettava alla dinastia un futuro radioso.

Nell’autunno 1353 fu nominato oratore ufficiale di un’ambasceria inviata dai Visconti a Venezia con il proposito di intraprendere trattative di pace. Di fronte al doge, quell’Andrea Dandolo al quale aveva inviato due anni prima una suasoria, pronunciò un’orazione in cui esortava le parti a una composizione del conflitto per reciproca convenienza. Il risultato non dovette essere quello sperato, dal momento che alla fine di aprile iniziarono le ostilità. Petrarca scrisse dunque di nuovo al doge (Familiares, XVIII 16, 28 maggio 1354) invitandolo a non servirsi più di truppe mercenarie. Si giunse a una tregua, in conseguenza della morte del doge e dell’arcivescovo Giovanni, avvenute a breve distanza l’una dall’altra, tra settembre e ottobre 1354 (per la seconda morte Petrarca pronunciò una commossa orazione il 7 ottobre), che posero entrambi gli Stati alle prese con una difficile successione. Nel frattempo Carlo IV valicò le Alpi (autunno 1354) per poter essere incoronato a Roma nell’aprile successivo; Petrarca gli si rivolse con una entusiastica lettera (Familiares, XIX 1) e lo incontrò a Mantova il 15 dicembre (XIX 3), grazie alla mediazione del diplomatico visconteo Sagremor de Pommiers (XXI 7). Il 4 gennaio 1355 l’imperatore entrò a Milano per essere incoronato re d’Italia, prima di volgere verso Roma. Una volta incoronato, riprese però rapidamente la via del ritorno, invano inseguito dagli strali di Petrarca che gli rimproverava di ricordarsi dell’Italia solo se poteva lucrare qualche sterile titolo a prezzo di pochi rischi (XIX 12).

Nel frattempo aveva accolto a Milano il figlio in fuga da Verona a causa di una sedizione, ricevette da Valchiusa gli ultimi libri che vi erano rimasti e scambiò con Lelio un canonicato; rifiutò le sollecitazioni di Philippe de Cabassoles per un suo ritorno in Provenza (Varie, 64) e cominciò a corrispondere con nuovi amici veneziani (Benintendi de’ Ravagnani e Neri Morando); scrisse anche ai vecchi amici fiorentini (Boccaccio, Nelli), al fratello Gherardo e al priore generale dei certosini, Jean Birel. Nella lettera inviata a quest’ultimo (Seniles, XVI 8) vi è la prima notizia dei due libri del De remediis utriusque fortune, composti di 122 e 131 brevi dialoghi pedagogico-morali.

Nell’autunno 1354 era stato raggiunto dalla notizia della morte di Cola di Rienzo, avvenuta l’8 ottobre, che registrò nel De remediis (I 89) tracciando un bilancio definitivo dell’esperienza del tribuno: il suo progetto era basato più sul coraggio che sulla costanza; aveva osato sollevarsi in tempi non propizi e provato la mutevolezza della fortuna; tacque comunque sul proprio apporto alla causa di Cola, ma non sulle terribili circostanze della sua morte.

A fine settembre 1355 la morte di uno dei tre eredi di Giovanni Visconti associati alla signoria di Milano, Matteo, minò la solidità del loro potere. A inizio 1356, minacciati da più parti, i due fratelli superstiti, Galeazzo e Bernabò, si rivolsero a Carlo IV, inviando Petrarca come ambasciatore. Partito verso il 20 maggio, si recò dapprima a Basilea, dove attese vanamente per un mese di incontrare l’imperatore in transito, poi a Praga, dove giunse a fine luglio. I risultati diplomatici della missione non furono memorabili e la situazione dei Visconti non divenne più stabile. In compenso, i risvolti personali furono ottimi: Petrarca fu nominato conte palatino e a corte, oltre a rinnovare l’amicizia con Giovanni di Neumarkt, conosciuto a Mantova nel dicembre 1354 e futuro dedicatario del Bucolicum carmen, strinse nuovi legami che costituirono le fondamenta della diffusione europea dell’Umanesimo. Fu questo il punto più alto della fama di Petrarca e del suo successo in vita, ottenuto come diplomatico e oratore politico, oltre che come poeta.

Fece ritorno a Milano agli inizi di settembre e a quest’epoca risalgono le prime tracce di un’opera in volgare che lo avrebbe tenuto impegnato fino agli ultimi giorni, i Triumphi.

Si tratta di un poema didascalico-allegorico in terzine diviso in sei parti di diversa estensione le cui uniche date sicure (si ricavano dal Vaticano latino 3196) sono il 12 settembre 1356, che costituisce per molti l’inizio dell’opera, e il 12 febbraio 1374 (data del Triumphus Eternitatis), che ne segnò la conclusione.

Nell’autunno 1356 i Visconti furono citati in giudizio dal vicario imperiale e costretti a difendersi con una lettera assai dura, redatta dallo stesso Petrarca (Varie, 59: 9 ottobre 1356). Nell’estate 1358 vennero a patti con il marchese del Monferrato e poterono recuperare Novara; a Petrarca fu chiesto di scrivere l’orazione per l’ingresso trionfale di Galeazzo in città, avvenuto il 18 giugno.

A Milano e nelle vicine Garegnano e Pagazzano, in una certosa e presso un castello dei Visconti, Petrarca passò alcune estati operose in cui rivide, accrebbe e completò diverse opere, in particolare il De remediis. Nel 1357 si separò dal figlio Giovanni, che tornò ad Avignone in seguito a non precisati dissapori (Familiarers, XXII 7: 1359); tre anni dopo sarebbe tornato a Milano.

Nel marzo 1358, declinando l’invito di Giovanni Mandelli, già podestà di Bergamo, a compiere con lui un pellegrinaggio in Terrasanta, scrisse una guida di viaggio, in parte (da Genova a Napoli) frutto della propria esperienza, in parte (Grecia, Asia minore, Egitto) di carattere letterario, nota con il titolo di Itinerarium syriacum. Nell’inverno prese un breve congedo da Milano trascorrendolo tra Venezia e Padova. Qui conobbe il monaco calabrese Leonzio Pilato, conoscitore del greco, che avrebbe tradotto Omero per lui, mentre Boccaccio gli rese visita a Milano nel marzo 1359 cercando, invano, di persuaderlo al culto dantesco. Frutto del diniego di Petrarca è la lettera (Familiares, XXI 15) in cui ricorda di aver incontrato, fanciullo, l’Alighieri, amico e compagno d’esilio del padre, ma di questo meno avveduto o, forse, più coraggioso.

Nel dicembre 1360 fu inviato a rendere omaggio al re di Francia Giovanni il Buono e a salutarne il ritorno a Parigi dopo una lunga prigionia in Inghilterra (alla composizione del riscatto avevano contribuito i Visconti). Il 13 gennaio 1361 pronunciò al cospetto del re un’orazione che aveva come tema la fortuna. Tornato a Milano, il 21 marzo fornì a Carlo IV, che l’aveva richiesto, un parere sull’autenticità di due antichi privilegi sui quali il duca Rodolfo poggiava le sue rivendicazioni di autonomia per l’Austria, che ritenne falsi grossolani per ragioni linguistiche e storiche. Con questa lettera (Seniles, XVI 5) Petrarca fondò l’esegesi delle fonti fornendo un ulteriore solido contributo all’edificazione del suo lascito maggiore, la filologia umanistica. Lo stesso giorno scrisse un’altra lettera all’imperatore, rimproverandolo per non essere sceso a pacificare l’Italia e per la sua soggezione al papa; e un’altra ancora a Giovanni di Neumarkt. Sono le ultime a recare come luogo Milano: Petrarca si vide costretto ad abbandonare di lì a pochi giorni la città per una nuova pestilenza. Si trasferì nella casa canonicale di Padova appena in tempo per scampare al destino toccato al figlio Giovanni, morto tra il 9 e il 10 luglio, a ventiquattro anni. A questa morte seguirono, in rapida successione, quelle degli amici: Socrate (1361), Azzo da Correggio (1362), Philippe de Vitry, Zanobi da Strada, Nelli, Lelio (1363), Barbato (1363 o 1364).

L’abbandono di Milano coincise con la chiusura del progetto delle Familiares, che non accompagnarono oltre l’esistenza del poeta. La lettera di congedo all’amico Socrate (XXIV 13) è del giugno 1361 (anche se le Familiari contengono ancora epistole datate fino al 1365 e 1366). Il registro della sua vita fu affidato, di qui in avanti, alla nuova raccolta dei Rerum senilium libri, dedicata a Francesco Nelli, al quale indirizzò nel 1361 da Padova la lettera proemiale. Munite di una lettera di chiusura datata a un mese o poco più prima della morte, le Senili concludono l’autobiografia dell’autore come esemplare cammino di salvezza, dalle passioni giovanili alla serenità della vecchiaia.

Nel 1362, dopo un breve ritorno a Milano in gennaio, Petrarca abbandonò Padova – preda a sua volta della peste – e si stabilì a Venezia. A tale fiorente e solida repubblica, non priva di una esercitata cancelleria e di una diplomazia ben formata e condotta, certo non poteva offrire né il prestigio della propria presenza, né le proprie arti oratorie. Ciò di cui disponeva erano i libri accumulati nel corso degli anni: e questi propose al Senato in cambio di una casa (se non di un vitalizio). Gli accordi presi con l’amico Benintendi Ravagnani, allora cancelliere, prevedevano (Varie, 43) che, donata alla chiesa di S. Marco, la biblioteca avrebbe costituito il primo nucleo di un’istituzione pubblica. Il 4 settembre 1362 il Senato accolse la proposta offrendo in cambio palazzo Molin (sulla odierna riva degli Schiavoni), che fino al 1368 divenne la residenza prediletta di Petrarca (anche se continuò a recarsi spesso a Milano e Pavia). La donazione, tuttavia, non andò a buon fine.

A Venezia fu raggiunto dalla notizia della morte di Innocenzo VI (12 settembre 1362); al soglio salì Guillaume de Grimoard, che prese il nome di Urbano V; per i suoi trascorsi, l’ostilità agli ambienti curiali e l’amore per le lettere e le arti, il nuovo papa suscitò molte speranze, compresa quella di Petrarca, che gli si sarebbe rivolto direttamente richiamandolo all’opportunità di riportare la sede papale in riva al Tevere. La stima era ricambiata e il papa chiamò subito Petrarca ad Avignone promettendo alcuni benefici e, forse, ancora una volta, la carica di segretario apostolico. Tuttavia Petrarca preferì restare a Venezia, da dove compianse la morte di Azzo da Correggio (Varie, 4, 16, 19), scrisse in difesa della propria poesia la lunga e importante Senile II 1 a Boccaccio (che gli fece visita nel 1363), incitò di nuovo Carlo IV a scendere in Italia (Familiares, XXIII 15); si occupò di raccomandare amici e conoscenti.

Durante il periodo trascorso a Venezia, interrotto da brevi viaggi a Pavia nel 1363 e a Bologna e nel Casentino nel 1364, non rinunciò al suo ruolo di estensore di hortatorie per i potenti e nell’autunno 1364 inviò l’ultima vana sollecitazione all’imperatore affinché scendesse in Italia (XXIII 21), seguita a poca distanza da una lettera a Urbano V (Seniles, VII 1: 29 giugno 1366), contenente l’invito a riportare la sede pontificia a Roma. Fu questo, probabilmente, il più grande successo politico e diplomatico di Petrarca, dal momento che il papa tornò effettivamente a Roma, anche se in via temporanea, l’anno seguente, alla fine di aprile.

Nella seconda metà del 1365 risiedette a Pavia, ma all’inizio del 1366 fece ritorno a Venezia dove fu raggiunto dalla figlia Francesca maritata nel 1361 al milanese Francescuolo da Brossano. Nella primavera del 1367, da Padova tornò nuovamente a Pavia, risalendo il Po e il Ticino, e dove intraprese, secondo quanto narra al dedicatario Donato Albanzani (Seniles, XIII 5), la composizione della sua più importante opera filosofica, il De sui ipsius et multorum ignorantia.

Compiuta nei primi mesi del 1368, rivista e pubblicata a gennaio 1371, in essa risponde a quattro giovani che lo frequentavano a Venezia e che lo avevano accusato di ignoranza dopo aver pubblicamente mostrato alta considerazione di lui. A costoro, rappresentanti di un aristotelismo accademico che poneva l’accento sulle scienze naturali contro la letteratura e la filosofia morale, Petrarca rimproverò la cieca sottomissione all’autorità di Aristotele e l’orientamento culturale ispirato a un vano tecnicismo privo di contenuti umani. In una prosa vigorosa ed efficace, Petrarca raggiunse, con il De ignorantia, la migliore definizione programmatica del suo Umanesimo.

A Pavia trascorse l’intera estate e l’autunno del 1367, fino alla metà di novembre (vi sarebbe tornato ancora nelle due estati successive). Di lì poté avere notizie del contrastato ritorno di Urbano V in Italia (giugno 1367) e a Roma (16 ottobre). Al fine di congratularsi con il papa e invitarlo a resistere alle pressioni del re di Francia, Petrarca gli indirizzò una nuova lettera (Seniles, IX 1: scritta da Venezia tra il 1367 e il 1368), della quale si conserva l’autografo e che consiste in un’appassionata difesa dell’Italia, in replica a un’orazione pronunciata su mandato del re di Francia Carlo V dal canonista Ansel Choquart alla presenza del pontefice poco prima della sua partenza da Avignone. Tra le altre lettere scritte al ritorno a Venezia spicca la Senile X 2, all’amico di una vita Guido Sette, ch’è una sorta di autobiografia.

Nella primavera del 1368 si trasferì a Padova, dove Francesco da Carrara gli aveva fatto dono di un terreno sui Colli Euganei. Qui sorse la casa di Arquà, nella quale concepì le ultime opere, tra le quali lo speculum principis (Seniles, XIV 1), destinata a condizionare, con la sua vasta fortuna, il pensiero politico dell’Umanesimo. D’altra parte, Carrara necessitava della sua opera diplomatica, soprattutto in vista della sua partecipazione alla lega antiviscontea, che comportò il sostegno di Carlo IV e una sua ulteriore discesa in Italia. Insieme con il vescovo di Padova Pietro Pileo, Petrarca accompagnò Francesco da Carrara al cospetto dell’imperatore, a Udine, nella tarda primavera del 1368. Subito dopo fu convocato da Galeazzo Visconti a Pavia (Seniles, XI 2) dove, con il beneplacito dell’imperatore, prese parte alle trattative che portarono a un accordo di pace. Tornato a Padova il 20 luglio, vi rimase per un anno, passando l’estate successiva a Pavia, come era solito fare dal 1363.

Questi ultimi operosi anni padovani furono caratterizzati dalla ripresa del De viris illustribus per il programma iconografico che avrebbe dovuto illustrare la reggia dei Carrara e da una serie di malanni fisici che gli resero impossibile completare un viaggio a Roma cui lo richiamavano amici e corrispondenti: Coluccio Salutati, Philippe de Cabassoles, e lo stesso Urbano V, e che pure volle intraprendere nella primavera del 1370 (Seniles, XI 16).

Il 4 aprile di quell’anno, forse proprio in vista del viaggio, fece testamento, dando vita a un ulteriore autoritratto e nominando erede universale ed esecutore testamentario suo genero Francescuolo da Brossano (e in sua vece Lombardo della Seta). Tra i vari lasciti appare considerevole quello a Boccaccio: cinquanta fiorini d’oro destinati all’acquisto di un abito invernale che potesse permettergli di coprirsi così da poter dedicare allo studio le ore notturne. La biblioteca era destinata, come pattuito, alla città di Venezia.

Di seguito, partì per Roma, ma dovette fermarsi a Ferrara colpito da sincope. Di qui fece immediato rientro a Padova, dove era già l’8 maggio (Seniles, XI 17). Frattanto, il 17 aprile 1370, il papa aveva abbandonato Roma e, subito dopo l’estate passata in Tuscia, sarebbe rientrato, il 27 settembre 1370, in Avignone; Petrarca non fece in tempo a concludere una nuova lettera, in cui lo esortava a perseverare nell’intento (Varie, 3).

Fatto ritorno ad Arquà, nella primavera 1372 vi riunì la famiglia, ma nel novembre tutti dovettero trasferirsi a Padova, a causa della guerra tra Padova e Venezia, che li minacciava da vicino (Varie, 9; Seniles, XIII 17, 18). Il 2 ottobre 1372 svolse l’ultima missione diplomatica per conto di Francesco da Carrara prendendo la parola nell’umiliante cerimonia in cui Francesco Novello, figlio del signore di Padova, fu costretto a riconoscere davanti al Senato e al doge di Venezia che la responsabilità della guerra delle frontiere ricadeva interamente su di loro, e ad accollarsene le ingenti indennità. Nicoletto d’Alessio, che assistette (da parte carrarese) alla cerimonia, descrisse il poeta come stanco, provato, autore di un discorso tenuto con voce incerta.

La guerra preoccupava comunque il nuovo papa (Gregorio XI, dal 5 gennaio 1371) che inviò un suo messo, Uguccione da Thiene, per osservare la vicenda.

Petrarca lo ricevette a inizio 1373, e Uguccione gli mostrò un’opera scritta nel 1370 dal monaco e teologo francese Jean de Hesdin in risposta alla sua lettera inviata a Urbano V (Seniles, IX 1), in cui le affermazioni in favore dell’Italia risultavano ribaltate. Petrarca rispose rapidamente, senza mai nominare l’avversario, con l’Invectiva contra eum qui maledixit Italie datata 1° marzo 1373 e dedicata allo stesso Uguccione, ribadendo la superiorità dell’Italia, diretta erede della grandezza di Roma, rispetto alla Francia, sua barbara provincia.

Tra gli ultimi lavori degni di nota, oltre alla sistemazione delle liriche volgari di cui reca traccia il manoscritto Vat. lat. 3195, e agli ultimi capitoli dei Triumphi, si annoverano la Senile XVII 3, a Boccaccio, che contiene la riscrittura latina dell’ultima novella del Decameron, intitolata De insigni obedientia et fide uxoria e destinata a una circolazione e una fortuna senza pari nei secoli successivi, una lettera a Luigi Marsili, un giovane agostiniano fiorentino, in difesa dell’Umanesimo e contro lo scientismo averroista e accademico (Seniles, XV 6); nonché la già ricordata Senile XIV 1 a Francesco da Carrara (28 novembre 1373).

Tornato insieme con la figlia ad Arquà tra il febbraio e l’aprile del 1373, Petrarca vi morì nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, alla vigilia del suo settantesimo compleanno (tuttavia nelle fonti la data varia tra il 18 e il 23).

La tradizione secondo cui fu trovato morto con il capo appoggiato su un libro si divulgò a partire da una lettera di Giovanni Manzini della Motta (1° luglio 1388) e ha forse un fondo di verità: già nel 1380, trascrivendo e completando il Compendium del De viris, Lombardo della Seta scriveva che Petrarca spirò proprio mentre lavorava a quell’opera. Il primo a divulgare la notizia della morte fu Giovanni Dondi, che forse lo assisté nel trapasso. La funzione funebre ebbe luogo il 24 luglio, ad Arquà. Il monaco agostiniano Bonaventura Badoer, alla presenza di Francesco da Carrara, tenne l’orazione. Le spoglie furono ospitate dalla chiesa parrocchiale di Arquà fino al 1380, per poi essere traslate in un’arca visibile ancor oggi (restaurata nel 1843) con un epitaffio attribuito con fondati argomenti allo stesso Petrarca.

La biblioteca fu dispersa in varie sezioni. I nuclei principali sono conservati presso la Biblioteca apostolica Vaticana (derivante dall’eredità familiare, alcuni lacerti della quale furono recuperati nel Cinquecento da Pietro Bembo e venduti dal figlio Torquato a Fulvio Orsini), la Bibliothèque nationale di Parigi (ove giunse la parte rimasta ai Visconti dopo la conquista francese del ducato di Milano), la British Library di Londra (ove pervenne, nel Settecento, acquistato dal conte di Harley, un piccolo gruppo di codici petrarcheschi transitati nel convento dei gesuiti di Agen, in Francia). Altri manoscritti della mirabile biblioteca di Petrarca adornano plutei di tutto il mondo, da Firenze a Troyes, da New York a Berlino. La loro diffusione, e quella ancor più capillare delle sue opere, testimoniano la solidità del suo progetto culturale e la forza propulsiva dell’Umanesimo, cui Petrarca diede vita.

Opere. La prima edizione delle opere complete è quella per le cure di Johannes Basilius Herold, pubblicata da Henrichus Petri (Opera quae exstant omnia, Basilea 1554, rist. anast. Ridgewood 1965), che fa seguito a una solida fortuna nell’epoca degli incunaboli e nella prima metà del Cinquecento. Da oltre un secolo è in attesa di completamento l’Edizione nazionale, inaugurata con l’Africa (Firenze 1926, per cura di N. Festa presso Sansoni), proseguita negli anni Quaranta e ripresa presso l’editore Le lettere di Firenze dal 2005. Per le opere non ancora incluse nell’edizione si può far ricorso alla collezione di Opere latine, a cura di A. Bufano, I-II, Torino 1975, e alla serie pubblicata dalle Belles Lettres di Parigi, o a quella dell’editore Millon di Grenoble.

Fonti e Bibl.: Documenti fondamentali sulla vita di Petrarca sono le biografie antiche, già individuate da F. Tomassini in Petrarcha redivivus, Padova 1635 (rist. anast. Pistoia 2004) e raccolte da F. Solerti, Le vite di Dante, del P. e del Boccaccio scritte fino al secolo decimosettimo, Milano 1904 (comprende tra le altre le vite di Giovanni Villani, Sicco Polentone, D. Bandini, Pier Paolo Vergerio il vecchio e Boccaccio), cui si aggiunge la pionieristica documentazione storica presente in Jacques-Francois-Paul-Alphonse de Sade, Mémoires pour la vie de François Pétrarque, Amsterdam 1767.

Numerose le raccolte di fonti curate da studiosi della scuola storica, non solo italiani, che si concentrano prevalentemente attorno alla ricorrenza centenaria del 1904; i risultati di queste ricerche sono stati messi a frutto da A. Foresti, Aneddoti della vita di F. P., Brescia 1928 (nuova ed. Padova 1977), e in scavi successivi. Utili dal punto di vista documentario sono gli studi di G. Billanovich, Lo scrittoio del P., Roma 1947; indispensabili quelli di E.H. Wilkins, Studies on the life and works of Petrarch, Cambridge (Mass.) 1955, alla base della successiva biografia (Life of Petrarch, Chicago 1961; trad. it. Vita del P. e La formazione del Canzoniere, Milano 1990). Con questo importante volume (e con gli altri fondamentali studi di Wilkins: The making of the Canzoniere and other petrarchan studies, Rome 1951; The prose letters of Petrarch: a manual, New York 1951; Studies in the life and works of Petrarch, Cambridge (Mass.) 1955; Petrarch’s eight years in Milan, Cambridge (Mass.) 1958; Petrarch’s later years, Cambridge (Mass.) 1959; Petrarch’s correspondence, Padova 1960) si sono misurate le successive biografie. Posteriormente al 1904 si vedano almeno: A. Della Torre, Rassegna delle pubblicazioni petrarchesche uscite nel sesto centenario della nascita del P. (1904), in Archivio storico italiano, s. 5, XXXV (1905), pp. 103-189; E. Carrara, Il sesto centenario petrarchesco; pubblicazioni dell’anno 1904, in Giornale storico della letteratura italiana, XLVII (1906), pp. 88-130; B. Basile, In margine a un centenario. Rassegna petrarchesca, in Lettere italiane, XXVII (1975), pp. 309-342; P. Pieretti, Bibliografia petrarchesca, 1964-1973, in Studi petrarcheschi, IX (1978), pp. 203-246; J. Fucilla, Oltre un cinquantennio di studi sul P. (1916-1973), Padova 1982; G. Crevatin, Rassegna petrarchesca 1970-72, in Quaderni petrarcheschi, I (1983), pp. 203-269; Id., Rassegna petrarchesca (1975-1984), ibid., XXXVII (1985), pp. 230-253; F. Finotti, Rassegna petrarchesca (1985-1990), ibid., XLIII (1991), pp. 412-455; S. Chessa, Repertorio bibliografico ragionato su F. P. (2001-2006), in Moderna, VII (2005), 3, pp. 211-346; L. Marcozzi, Bibliografia petrarchesca 1989-2003, Firenze 2005; Id., Bibliografia ragionata degli studi petrarcheschi recenti (2004-2006), in Bollettino di italianistica, III (2006), 2, pp. 95-140.

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