ROSA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 88 (2017)

ROSA, Francesco

Michele Nicolaci

– Nacque a Roma il 25 novembre 1638, figlio di Giovanni e di Giovanna Romani (Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 355).

Le principali informazioni biografiche si ricavano dall’anonima Vita di Francesco Rosa, aggiunta alle Vite de’ pittori, scultori e architetti viventi di Lione Pascoli (Battisti, 1951, pp. 41 s.; Pascoli, 1736-1740, 1981), fonte che ha permesso di chiarire definitivamente gli equivoci relativi alla biografia e alla produzione artistica di Rosa dovuti alla sua sovrapposizione con l’omonimo pittore genovese (Genova, 1635-40 circa - Venezia, 1710) e con il napoletano Pacecco de Rosa (Napoli, 1607-1656).

Dalla Vita pascoliana si apprende come il giovane Francesco «sino all’età di dodici anni», quando rimase orfano di entrambi i genitori, frequentò il Collegio romano, dove conobbe Pier Filippo Bernini, figlio del celebre artista (p. 355; Pruner, 2015-2016, p. 27). Dopo una prima formazione con il non altrimenti noto «Placido Palermitano», Rosa entrò nella bottega di Giovanni Angelo Canini, attraverso il quale sviluppò il proprio interesse per la pittura classicista e si avvicinò alle tecniche incisorie (Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 355; per il ristretto corpus di incisioni rosiane: Bellini, 1987). A questi stessi anni risale la frequentazione dell’anziano Nicolas Poussin (Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 356), dal quale apprese a comporre erudite scene di soggetto storico-letterario.

L’esordio pubblico di Rosa a Roma avvenne tra il 1660 e il 1663 nella chiesa di S. Rocco a Ripetta (cappella di S. Antonio: Gloria del santo nella cupoletta, Virtù nei peducci e Scene della vita del santo nelle lunette; ibid.) e nella cappella di S. Apollonia in S. Agostino (allegorie della Verginità e del Martirio). Se negli affreschi il riferimento stilistico è ancora la pittura luminosa di Giovanni Lanfranco, nelle tele si distinguono già alcuni elementi tipici del pittore, quali la tavolozza bruna uniforme e le fisionomie languide, dai lineamenti semplificati.

«All’età di venticinque anni» il pittore sposò Ortensia Succi, figlia della sua balia, rinunciando a prendere in moglie «una nipote di Poussin» (ibid.), forse da identificare in Barbara Carabiti, figlia della cognata di lui (Bigucci, 2014, p. 618).

Alla metà degli anni Sessanta del Seicento la carriera di Rosa conobbe una svolta significativa grazie al sostegno di potenti mecenati gravitanti intorno al circuito di Fabio Chigi e di Cristina di Svezia, come i cardinali Luigi Alessandro Omodei e Camillo Massimo. Il primo coinvolse l’artista nella nuova decorazione degli ambienti della Casa S. Carlo e della chiesa dei Ss. Ambrogio e Carlo al Corso, dove Rosa eseguì tre pale: l’Apparizione della Vergine col Bambino a s. Enrico (coperta dalla Predica di s. Barnaba di Pier Francesco Mola), il Miracolo di s. Filippo Neri, tratto dalla tela di analogo soggetto di Guido Reni, e l’Apparizione di s. Benedetto a s. Enrico, ottenuta alla morte del maestro Canini (1666).

Quest’ultima è da annoverare tra le prove più convincenti dell’artista, in considerazione dell’equilibrata e monumentale composizione, ispirata dall’Anania che guarisce s. Paolo di Pietro da Cortona in S. Maria della Concezione, cui si aggiunge il convincente brano di paesaggio, frutto del contatto con Gaspard Dughet nell’entourage poussiniano.

Intorno al 1669 Rosa espose in S. Giovanni Decollato un quadro raffigurante Lo sbarco di Agrippina a Brindisi con le ceneri di Germanico tratto dagli Annali di Tacito, recentemente identificato nei depositi del Kunsthistorisches Museum di Vienna (Prohaska - Albl, 2011-2012, pp. 255-258; un’altra versione di minore qualità è pubblicata da Dobos, 2003, pp. 285 s.). Il successo dell’opera – scambiata al tempo per un originale di Poussin – è confermato dalla sua riproduzione a stampa da parte di Cesare Fantetti nel 1673 e dalla richiesta del cardinal Massimo a Rosa di un disegno, da identificare con un foglio recentemente passato sul mercato (Prohaska - Albl, 2011-2012, p. 257). Alla collezione di Massimo appartenne con ogni probabilità anche la tela con Venere offre le armi a Enea in collezione privata (Dobos, 2003, p. 289).

Allo stesso gruppo di opere di tema erudito e di gusto antichizzante è riferibile il perduto Alboino impone a Rosamunda di bere dal teschio paterno (ante 1670) dipinto per Sigismondo Chigi (Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 357), probabile precedente per l’incarico a Rosa del frontespizio de LAdalinda di Pietro Simone Agostini (1673), favola musicale messa in scena nel palazzo di famiglia all’Ariccia (Petrucci, 1999, pp. 180 s.).

Il successo pubblico nei primi anni Settanta del Seicento è confermato dall’ingresso dell’artista nel 1673 nell’Accademia di S. Luca (A. Pinna, in Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 363) e, l’anno successivo, nella Congregazione di S. Giuseppe di Terrasanta, presentato da Ludovico Gimignani (Tiberia, 2005, pp. 94, 355).

Per la cappella dei Virtuosi al Pantheon Rosa dipinse a olio su tela il Mosè (Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 358), prossimo nella concezione a quelle isolate figure di santi, eremiti e filosofi che avrebbero caratterizzato la produzione di quadri da stanza dei suoi ultimi anni.

Non mancarono in questi anni anche importanti delusioni per l’artista: nel 1673 dovette abbandonare i lavori per la decorazione a fresco della cupola di S. Maria in Montesanto per un diverbio intercorso con l’architetto Carlo Rainaldi (p. 357); inoltre, nessuna delle sei tele dipinte per la chiesa dei Ss. Vincenzo e Anastasio rimane oggi in situ (Guerrieri Borsoi, 2012, pp. 402 s.), e solo di recente sono state a lui riferite due opere raffiguranti l’Annunciazione e il Sogno di s. Giuseppe (già Christie’s, Londra, 2012), ipotizzandone una provenienza dalla chiesa presso fontana di Trevi (Petrucci, in c.d.s.).

La più importante commissione pubblica di Rosa fu la grande pala con il Miracolo di Nostra Signora di Monserrato per l’altar maggiore della chiesa spagnola di S. Maria in Monserrato (1674-75).

Trasferita nel XIX secolo insieme a parte degli arredi nella chiesa della Ss. Trinità di Genzano (Id., 1999), l’opera presenta un’iconografia dal denso significato politico e allegorico (Redin Michaus, 2001; Canalda i Llobet, 2015). Della tela si conoscono anche il bozzetto – o forse una memoria (Museo d’arte di Ravenna; Bigucci, 2014) – e una stampa celebrativa di Charles de la Haye, che reca una lunga dedica al cardinal Luis de Portocarrero, ambasciatore di Spagna a Roma dal 1678. Per il porporato Rosa eseguì una «quantità di quadri grandi con rappresentarvi le funtioni che fece in Roma nella sua imbasceria sì nel presentarsi al Papa, come altre cose espresse», oggi dispersi (Pascoli, 1736-1740, 1981, pp. 357 s.), da collocare entro il 1679, anno del rientro del cardinale in Spagna.

La Vita pascoliana cita anche una serie di vedute di Roma eseguite per Portocarrero, affidate da Rosa ai migliori specialisti del genere e dentro le quali egli avrebbe eseguito le «figurine». Gli enormi guadagni derivanti dalla breve ma intensa frequentazione del cardinale spagnolo, stimati in cinquemila scudi, furono per la maggior parte spesi dal pittore «nel giuoco della bassetta» (p. 359).

Figura non marginale nella promozione di Rosa negli anni Settanta e Ottanta fu poi «l’Imbasciatore di Portogallo» (p. 358), recentemente identificato in Luís de Sousa arcivescovo di Braga (e non nel cardinale francese César d’Estrées), giunto nella capitale pontificia già dal 1676, nel cui inventario (1697) figurano ben sette dipinti assegnati esplicitamente al pittore romano (Pruner, 2015-2016, pp. 93 s.).

Di grande impegno fu anche la Morte di s. Francesco Saverio dipinta per Lorenzo Onofrio Colonna tra il 1675 e il 1680 e oggi nella basilica di S. Barnaba a Marino (Waterhouse, 1976, pp. 111 s.).

Accanto alle commissioni dirette e alle opere chiesastiche Rosa si dedicò negli ultimi anni soprattutto a quadri da stanza da destinare al mercato, per tentare di ripagare gli ingenti debiti dovuti al gioco d’azzardo, che lo condussero a scontare una pena di venti mesi in carcere nel 1685-86 (Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 359; Bigucci, 2014, p. 619). In quest’ottica potrebbe spiegarsi il singolare avvicinamento ai modi stilistici e ai soggetti tipici di Salvator Rosa, le cui opere erano certo molto richieste sul mercato dopo la morte (1673), e che Francesco sembra aver dichiaratamente imitato in una serie di tele come il Belisario di collezione Pamphilj del 1681, non a caso scambiato a lungo per un originale del Rosa napoletano (Montalto Tentori, 1954). Proprio il dipinto oggi in Galleria Doria Pamphilj ha rappresentato il punto di riferimento fondamentale per la restituzione a Francesco Rosa di un gruppo di opere di analogo soggetto e composizione, non di rado assegnate a Salvatore, come il Bartimeo (o Belisario) del Bob Jones Museum di Greenville (South Carolina) o il Diogene getta la scodella di collezione privata (ibid.; Petrucci, c.d.s.).

Tra le rare commissioni pubbliche degli ultimi anni è documentata una perduta S. Maddalena penitente per la chiesa di S. Francesco a Siena, dipinta per il cavalier Dionisio Marescotti e ricordata dalle guide locali accanto ad altre opere provenienti da Roma (Pecci, 1784, p. 136). Da collocare negli anni Ottanta del secolo è anche l’Autoritratto conservato agli Uffizi, cui si associa l’unico altro ritratto finora noto, quello della figlia Marta, oggi presso l’Accademia di S. Luca (Petrucci, c.d.s.; perduti i «due ritratti su rame ovato» in S. Maria del Popolo; cfr. Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 360).

Molte sono le opere pubbliche perdute citate dalle fonti (pp. 355-378; Titi, 1674-1763, 1987, ad indicem), nonché i dipinti da cavalletto, per lo più soggetti eruditi o figure di santi, ricordati nei documenti o negli inventari dei secoli XVII e XVIII (Omodei, Colonna, Carpegna, Barberini, Naro, de Sousa; cfr. ora Pruner, 2015-2016).

Rosa morì a Roma il 26 novembre 1687, all’età di quarantanove anni, in seguito a una «febre maligna» (Pascoli, 1736-1740, 1981, p. 362; una messa in suo onore fu recitata alla Congregazione del Virtuosi al Pantheon: Noack, 1934).

Gli sopravvissero la moglie Ortensia e i tre figli, Marta, Sigismondo e Fabio. Di Sigismondo sono note pochissime opere (M.C. Cola, La committenza Ruspoli a Vignanello. Passeri, Cerruti, Rosa, Nicolosi ed altri al servizio del principe Francesco Maria nella chiesa Collegiata, in Bollettino d’arte, s. 6, XCIII (2008), pp. 154 s.), mentre di Fabio, computista del palazzo apostolico, amico di artisti e collezionista di livello, è nota la donazione di parte della sua ricca raccolta di quadri all’Accademia di S. Luca (cfr. Bigucci, 2014, pp. 620-623).

Fonti e Bibl.: F. Titi, Studio di pittura, scoltura et architettura nelle chiese di Roma... (1674-1763), a cura di B. Contardi - S. Romano, Firenze 1987, ad indicem; L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori et architetti viventi: dai manoscritti 1383 e 1743 della Biblioteca Comunale «Augusta» di Perugia (1736-1740), Treviso 1981, pp. 355-378 (commento di A. Pinna); G.A. Pecci, Ristretto delle cose più notabili della città di Siena a uso de’ forestieri, Siena  1784, p. 136.

F. Noack, R., F., in Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler, XXVIII, Leipzig 1934, p. 598; E. Battisti, Alcune “Vite” inedite di L. Pascoli, in Commentari, IV (1953), pp. 41 s.; L. Montalto Tentori, Il Belisario cieco dell’antica quadreria Pamphilj, in Rivista dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte, n.s., III (1954), pp. 228-241; E. Waterhouse, Roman Baroque Painting. A list of the principal painters and their works in and around Rome with an introductory essay, Oxford 1976, pp. 111 s.; P. Bellini, F. R., in The Illustrated Bartsch, XLVII, New York 1987, pp. 133-137; F. Petrucci, Contributi su F. R. (1638-1687) pittore “romano”, in Storia dell’Arte, 1999, n. 96, pp. 176-186; G. Redín Michaus, El cuadro del altar mayor de Santa Maria del Monserrat en Roma de F. R., in Boletin del Museo e Instituto Camón Aznar, 2001, n. 84, pp. 155-159; Z. Dobos, A lost painting found by F. R. Romano, in Acta historiae artium, 2003, n. 44, pp. 285-290; V. Tiberia, La Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta da Gregorio XV a Innocenzo XII, Galatina 2005, pp. 94, 355; F. Petrucci, Salvator Rosa per casa Chigi e nuovi contributi su F. R., in Salvator Rosa e il suo tempo. 1615-1673. Atti del convegno internazionale di studi... 2009, a cura di S. Ebert-Schifferer - H. Langdon - C. Volpi, Roma 2010, pp. 383-396; W. Prohaska - S. Albl, Gian Domenico Cerrini und F. R.: Zwei unbekannte römische Historien in der Gemäldegalerie des Kunsthistorischen Museums, in Jahrbuch des Kunsthistorischen Museums Wien, XIII-XIV (2011-2012), pp. 248-259; M.B. Guerrieri Borsoi, La decorazione pittorica della chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio tra tardo Seicento e primo Settecento, in Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, XII (2012), pp. 402-404; M. Bigucci, Il bozzetto di F. R. per l’altare maggiore di Santa Maria di Monserrato a Roma, in I rapporti tra Roma e Madrid nei secoli XVI e XVII: arte diplomazia e politica, a cura di A. Anselmi, Roma 2014, pp. 606-636; S. Canalda i Llobet, L’iconografia della Santa Immagine in Santa Maria in Monserrato a Roma. Un incontro tra l’identità catalana e castigliana tra il XVI e il XVII secolo, in Identità e rappresentazione. Le chiese nazionali a Roma, 1450-1650, a cura di A. Koller - S. Kubersky-Piredda, Roma 2015, pp. 65-92; C. Pruner, F. R. (1638-1687). Verso un catalogo ragionato, tesi di laurea, Sapienza Università di Roma, a.a. 2015-16; F. Petrucci, F. R. aspirante clone di Salvator Rosa. Due pale ritrovate e qualche novità, in La cultura delle arti, a cura di P. di Loreto, c.d.s.

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